Repubblica 3.11.10
Bersani: paese nel caos, i finiani si sveglino
di Givanna Casadio
"Il Cavaliere come Sansone". Vendola: pensa se tuo figlio fosse gay
Martedì Maroni dovrebbe rispondere alla Camera su Ruby. Cesa: siamo al delirio, il presidente del Consiglio si dimetta
ROMA - Bersani ha sentito più volte Fini nei giorni scorsi. Gli ha detto quello che ieri - nella conferenza stampa convocata dopo le uscite di Berlusconi sui gay, le donne e Ruby - rilancia: «Il premier come Sansone vuole abbattere tutto con tutti i Filistei. Porta il paese nel caos sotto il profilo politico, morale, economico e sociale. Nasce nel discredito della politica e intende morire nel discredito della politica». Il "mayday" del segretario del Pd davanti al paese che affonda, è un´ultima chiamata per Fli, il movimento di Fini: «Si sveglino, vedo tatticismi, cabotaggio, aspettano domenica per la riunione di Fli, ma così non si può andare avanti». Però l´appello è anche alla Lega e agli ex forzisti che hanno senso di responsabilità per il bene del paese. Non è più questione di «settimane o mesi ma di giorni, di ore; chi ha voglia di fare qualcosa, questo è il tempo».
È circostanziato l´atto d´accusa di Bersani. Parla, il leader Pd, della cultura machista del premier che vede «la donna come un dopolavoro del maschio e gli omosessuali che devono essere disprezzati. Con i minorenni poi si può ragionare così: li salvo dalla polizia per salvare me stesso e dopo li metto sulla strada». E sul Rubygate, il capogruppo Dario Franceschini ha chiesto formalmente che il ministro Maroni venga in Parlamento. Ci sarà, forse martedì. I Democratici al Senato presentano un´interrogazione perché Frattini riferisca sui rapporti con Mubarak dopo la bugia di Berlusconi. La via d´uscita è una governo di transizione per la legge elettorale e altre, poche priorità. Esempio? Fisco e occupazione dei giovani. Senza in alcun modo tirare Napolitano per la giacca e però senza permettere al centrodestra di parlare di golpe: «Non pensiamo a tradimenti e a ribaltoni; il colpo di Stato lo ha fatto il centrodestra tradendo il paese e portandolo nella palude». Comunque è "no" a un governo a guida leghista: «Il Pd non fa da salmeria e da stampella per un governo di centrodestra». E Rosy Bindi: «Berlusconi ha compiuto un abuso di potere mascherato da atto di carità».
Palude e «triste avanspettacolo». Lo dice Nichi Vendola, il leader di Sel, che si sente colpito anche come gay. «Caro Berlusconi - si rivolge al premier in un videomessaggio su suo sito - le tue battute feriscono tutti, sono una minuscola enciclopedia di imbecillità. Se un tuo figlio, un tuo amico, un tuo ministro fosse gay pensa a quanta gratuita sofferenza gli staresti infliggendo». È un triste spettacolo: «Esca con decoro, si dimetta, il tempo delle barzellette è scaduto». Affondo di Di Pietro e pure dell´Udc: «Siamo al delirio, Berlusconi si dimetta», afferma Cesa. Pannella su Fini: «È solo sceso nella mischia, non salito a una politica forte».
l’Unità 3.11.10
Iran, paura per Sakineh «Tutto deciso, giustiziata oggi»
di Rachele Gonnelli
Mercoledì è giorno di forca nel carcere di Tabriz, in Iran. Ed è forte l’allarme per Sakineh, la donna che si trova lì reclusa in attesa di essere giustiziata. L’Europa chiede a Teheran di fermare il boia, commutando la pena.
La corda potrebbe essere appesa oggi per Sakineh Ashtiani. Le voci che in modo tortuoso attraverso le organizzazioni dei fuoriusciti iraniani in Italia, Francia e Germania vengono dal carcere di Tabriz, dove la donna è reclusa, parlano di una sua possibile esecuzione nelle prossime ore. Presto, troppo presto, per attivare tutti i canali della grande mobilitazione che nel luglio scorso aveva consentito che almeno si aprisse un fascicolo per il riesame del suo caso e poi a fine agosto all’annuncio della fine della barbara pratica della lapidazione delle adultere in Iran. Non è bastato a salvarla. Sakineh, inizialmente condannata alla lapidazione per adulterio, ora rischia di essere impiccata per complicità nell’omicidio del marito.
Il presidente dell’associazione di iraniani residenti in Italia Karmi Davood ieri ha dato l’allarme: «Ci sono informazioni fondate che provengono da Tabriz di una accelerazione dell’esecuzione». Le stesse informazioni, non si sa se dalla stessa fonte, sono ribalzate anche dalla Francia, attraverso il sito La Règle du Jeu che fa capo al filosofo Bernard-Henri Lèvy attivista dei diritti umani e molto impegnato nella campagna per la liberazione di Sakineh. Chi ha le prove dell’imminente esecuzione della condanna a morte della donna è Mina Ahadi, portavoce del Comitato contro la Lapidazione con sede in Germania che ha seguito da vicino la vicenda dell’arresto del figlio della donna, Sajjad Ghaderzadeh, insieme al suo avvocato e a due reporte tedeschi che li stavano intervistando. Si tratta di una lettera inviata dall’Alta corte di giustizia di Teheran che darebbe il via libera ai carcerieri della prigione di Tabriz. Mina Ahadi è convinta che queste siano «ore cruciali» per il suo caso. Anche il rilascio del figlio Sajjad e del suo avvocato Houtan Kian sarebbe stato sospeso finchè la donna non sarà giustiziata.
LA CONFESSIONE ESTORTA
Il figlio 22enne di Sakineh si nè battuto come un leone per l’innocenza della madre, parlando con tutti i media occidentali disposti a starlo a sentire. Da quando è in arresto, lo scorso 10 ottobre, si teme sia stato torturato. Ieri sul giornale Raja News, vicino ai Guardiani della Rivoluzione, è apparsa la trascrizione di una confessione di Sajjad nella quale il ragazzo addossa ogni colpa al suo avvocato «interessato solo a ottenere l’asilo all’estero», «in contatto con Mina A., comunista antitedesca, e del suo Comitato gestito da circoli controrivoluzionari di rifugiati». Lui e la sorella sarebbero stati strumentalizzati da Kian come dal legale precedente della madre, Mohammad Mostafavi, ora in Norvegia dove ha seguito il destino di esilio dell’altra portabandiera dei diritti umani in Iran, la Premio Nobel Shrin Ebadi, attaccata anch’essa nell’articolo del giornale governativo.
Mercoledì è giorno di forca a Tabriz. E tutti questi indizi hanno finito per mettere in allarme anche Roma e Bruxelles, anche se a Frattini non risulta niente. Il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, si è detta «molto preoccupata» ed è tornata a chiedere «all'Iran di fermare l'esecuzione e di commutare la condanna». Una impiccagione non è più «accettabile» di una esecuzione per lapidazione, ha rimarcato, dando seguito alle molte pressioni per un suo immediato intervento per fermare il boia. Anche la diplomazia Usa è in campo. A Parigi, Bruxelles e Roma nella notte sono state riaccese centinaia di candele per Sakineh. Una veglia che si spera non preluda a cose peggiori.
Corriere della Sera 3.11.10
Lo sdegno di Roxana Saberi «E’ una decisione orribile»
di Viviana Mazza
«Come spesso accade nel sistema giudiziario iraniano, penso che il caso di Sakineh Ashtiani non sia stato né trasparente né equo». Roxana Saberi commentava così ieri sera la notizia, non ancora confermata da Teheran, che Sakineh Ashtiani avrebbe potuto essere impiccata oggi. Sono passati 18 mesi dal rilascio di Saberi da Evin, il carcere di Teheran dove vengono spesso rinchiusi i detenuti politici, e il suo libro «Prigioniera in Iran» è uscito da poco in Italia, edito da Newton Compton. E’ un diario dei 100 giorni di reclusione a Evin della giornalista americana accusata di spionaggio, ed è una riflessione sulla verità, dice al Corriere.
«Ashtiani — ricorda Roxana Saberi — era stata condannata alla lapidazione, ma poi le autorità iraniane hanno annunciato che la sua sentenza era stata sospesa, dopo che governi, associazioni dei diritti umani e personaggi influenti di tutto il mondo hanno definito questa condanna "barbara" e "brutale", come sicuramente è. Se le ultime notizie sono vere, ora sarà impiccata: una decisione orribile e biasimevole. Nessuna delle due sentenze, di impiccagione o di lapidazione, è accettabile. Oltretutto, sia l’avvocato che il figlio di Ashiani, che hanno lanciato una campagna per il suo rilascio, sono in prigione».
Sono state proprio le storie di donne come Sakineh a portare Saberi a diventare un’attivista dei diritti umani, dopo il suo rilascio dalla prigione di Evin. Di lei scrissero l’anno scorso i giornali di tutto il mondo. L’ex Miss North Dakota con master in giornalismo e doppia cittadinanza, iraniana e americana, arriva nel 2003 a Teheran, affascinata dalla terra natia del padre, sposato con una patologa giapponese e residente negli Usa. Riceve l’accredito stampa, produce servizi per vari media, dalla radio pubblica Npr alla tv conservatrice Nel 2006 le negano un nuovo accredito, ma lei resta in Iran a fare interviste per un libro. Nel gennaio 2009 l’arrestano con l’accusa di spionaggio.
Dopo due giorni a Evin, Saberi ha confessato d’essere una spia. Altri ex detenuti hanno detto d’aver rilasciato false confessioni sotto tortura. Anche Sakineh ha confessato in tv. La sottoposero a pressioni psicologiche, che considera una forma di tortura. La avvertirono che potevano tenerla lì per vent’anni, che rischiava la forca se non «collaborava», minacciarono la sua famiglia e il suo fidanzato, il regista Bahman Ghobadi. E lei si convinse che le conveniva «confessare». Ma anziché liberarla, la sottoposero a nuovi interrogatori, costringendola ad accusare un amico innocente. In carcere invece conobbe altre donne che non s’erano piegate, rifiutando di confessarsi spie: come Silva Harotonian, che lavorava per un programma di scambio Iran-Usa per la salute di donne e bambini, come Mahvash Sabet e Fariba Kalamabadi di fede bahai. «Credevano in qualcosa al di là di se stesse: la fede, gli amici, l’ideologia». Provando vergogna per aver tradito i suoi princìpi, Roxana ritrattò la «confessione». E quando la condannarono a 8 anni per spionaggio, iniziò lo sciopero della fame mentre una campagna mondiale chiedeva il suo rilascio. Le diedero due anni con la condizionale, e la liberarono. La «chiave», dice, è stata la mobilitazione globale (anche se c’è anche chi ipotizza un accordo, visto che furono rilasciati due mesi dopo 5 iraniani presi in Iraq).
Roxana non è più fidanzata con Ghobadi, che dopo i suoi Gatti persiani, sta girando un film nel Kurdistan iracheno. E non fa più la reporter. «Da giornalista pensavo che il mio compito fosse di dare le notizie evitando di schierarmi. Ma dopo aver vissuto in prima persona le violazioni dei diritti umani in Iran, è difficile per me restare imparziale». Silva Harotonian è stata rilasciata dopo una campagna cui ha contribuito anche lei. Le due donne bahai che ha conosciuto sono ancora in carcere. Come lo è Sakineh. «Non posso restare in silenzio». Roxana l'attivista gira per le università parlando dei diritti umani. A volte porta al collo lo stesso velo turchese che nel giorno del rilascio le incorniciava il volto.
l’Unità 3.11.10
Dopo una marcia lunga cento anni la Cgil si tinge di rosa
Le donne sono il 50% degli iscritti, il 46% nei lavoratori attivi. Hanno circa la metà dei delegati nelle assemblee e nei comitati direttivi. Sono a capo di importanti strutture. E oggi, con l’elezione al vertice di Susanna Camusso, cade l’ultimo tabù
di Bruno Ugolini
Non è più il tempo di «Riso amaro», quando le mondine alla Silvana Mangano cantavano «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo». Non è nemmeno più il tempo di Giuseppe Di Vittorio, quando al teatro Apollo di Firenze (gennaio 1954) concludeva la prima «Conferenza nazionale della donna lavoratrice» prendendosela con quanti accusavano le donne di andare a lavorare solo per poter comprare «calze e rossetto». Esclamava il segretario della Cgil: «Noi vogliamo conquistare per tutte le donne del popolo anche le calze di seta!» Non è nemmeno il tempo in cui (sempre anni ‘50) un intellettuale d’avanguardia come Gianni Toti, direttore del «Lavoro», settimanale della Cgil, litigava con la redattrice Lietta Tornabuoni che detestava la tendenza a mettere «donnine» in copertina. Tutto è cambiato rispetto ad allora. Non c’è più la calata in massa delle mondine nelle risaie. Mentre le lavoratrici che producono proprio anche le calze, come le operaie dell’Omsa, si vedono portare via il lavoro ricollocato in Serbia. E si è allargata enormemente la platea delle donne lavoratrici. Una platea che ha combattuto strenuamente anche per avere una rappresentanza adeguata.
Così ora in Cgil sulla sedia occupata da Di Vittorio va a sedersi proprio una donna, Susanna Camusso. Epilogo di una lunga marcia nel cuore di un’organizzazione che pure è considerata un tempio del conservatorismo.
Certo all’inizio, nei gruppi dirigenti del principale sindacato italiano, c’erano solo maschi. Dalla data di nascita (1906) sono trascorsi oltre 70 anni prima che una donna, Donatella Turtura, fosse chiamata da Luciamo Lama a far parte della segreteria confederale. Un salto di qualità che aveva però visto altre donne conquistare un primato nelle categorie. Così Teresa Noce segretaria dei tessili nel 1947. Un’industria prettamente femminile ma dove i primi segretari erano stati (1945) tre uomini. Altre donne importanti, sempre nei tessili, erano state Lina Fibbi e Nella Marcellino (chiamata poi a dirigere gli alimentaristi).
Oggi le donne in Cgil sono circa il 50% degli iscritti, il 46% nei lavoratori attivi. Hanno circa la metà dei delegati nelle assemblee e nei comitati direttivi. Sono alla guida di numerose Camere del lavoro e strutture regionali nonché di categorie e organismi nazionali (pensionati con Carla Cantone, funzione pubblica con Rossana Dettori, agroindustria con Stefania Crogi, lavoro atipico e precario con Filomena Trizio, l’Inca con Morena Piccinini). Dopo l’esperienza dei coordinamenti femminili (e prima delle commissioni femminili e dell’ufficio lavoratrici) sono state adottate le cosiddette quote. Prima nella funzione pubblica come ha ricordato Valeria Fedeli, poi nel 1986, sotto, l’egida del segretario generale Antonio Pizzinato, con il 20% dei posti assegnati in comitati direttivi e segreterie. Ed ecco il balzo nella segreteria confederale diretta da Bruno Trentin nel 1990 di tre esponenti del mondo femminile: Maria Chiara Bisogni, Anna Carli, Fiorella Farinelli. Con Sergio Cofferati il raddoppio con sei donne: Carla Cantone, Titti Di Salvo, Nicoletta Rocchi, Marigia Maulucci, Morena Piccinini, Paola Agnello. Ora, l’ascesa di Susanna Camusso. Siamo alla scalata finale.
E’ possibile ritrovare nel tempo l’impronta continua del movimento sindacale femminile e delle sue protagoniste. Alcune delle quali poco conosciute come Argentina Altobelli (tra i fondatori della Federazione nazionale dei lavoratori della terra), l’operaia Abele Bei (sindacato tabacchine), la maestra Clementina Galigaris, la sarta Rina Picolato.
Le donne c’erano «ma invisibili» ha scritto Maria Luisa Righi (un saggio nei volumi «Mondi femminili in cento anni di sindacato», Ediesse). L’opinione pubblica sentiva parlare o leggeva di «una massa indistinta di lavoratori, classe operaia, uniforme e asessuata». Solo attraverso le fotografie si vedranno «tante ragazze, le gonne corte e i capelli curati, sorridenti e festanti per le vittorie conseguite».
Generazioni e generazioni di lavoratrici e dirigenti promotrici di battaglie sindacali per il diritto al lavoro delle donne, per la tutela della maternità, per la tutela dell’infanzia, per la parità salariale tra donne e uomini a parità di mansione e di lavoro. Alcune le ho conosciute personalmente come la Donatella Turtura incontrata a Genova nel 1987 mentre affrontava senza tremori un’assemblea infuocata dei «camalli» di Paride Batini molto polemici con la Cgil. O Nella Marcellino che mi ha fatto leggere in anteprima un suo libro di memorie («Le tre vite di Nella», a cura di Maria Luisa Righi, edizioni Sipiel) dove racconta gli scioperi del ’43 e la conquista del diritto d’assemblea nelle fabbriche alimentari nel 1968. Un ruolo decisivo di queste donne anche per leggi come quella sul divorzio nel 1970, sulla tutela delle lavoratrici madri e per gli asili nido nel 1971, sulla riforma del diritto di famiglia nel 1975 e sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza nel 1978. I benedetti anni 70.
Una presenza determinante. Eppure oggi, come ha avuto modo di annotare proprio Susanna Camusso per molti il metro è ancora quello per cui una donna è brava «se ha le palle». Ovverosia se assomiglia al maschio. Speriamo che oggi non si aspettino solo uno sforzo mascolino, quanti guardano con malizie e sospetti alle scelte della nuova Cgil del dopo Epifani. Sarebbe auspicabile invece, una strategia all’altezza dei tempi, in un paese quasi allo sfascio, senza governo e senza politica, e quindi spesso addirittura senza interlocutori contro cui scioperare. Magari avendo sott’occhio un altro verso di quell’antica canzone delle mondine: «E la libertà non viene, perché non c’è l’unione».
l’Unità 3.11.10
L’«Opa» di destra su Pasolini
di Bruno Gravagnuolo
Adesso però questa «neo-destra» civile esagera. Deborda. E per eccesso di neofitismo rischia il dilettantismo e la pacchianeria. Prima ci annunciano mirabilie culturali con il loro «Manifesto d’Ottobre», denso di vaghezze e luoghi comuni. Poi invocano «il giornalismo di destra di una volta». Dimenticando che, ultimo Montanelli a parte, il giornalismo di destra da noi fu sempre codino e reazionario. Oggi infine sul Secolo si annettono Pasolini e ne fanno un profeta reazionario, nobile e di destra ( «sopra le parti», aggiungono). No, cari ragazzi finiani. Pasolini era senz’altro un populista, un (neorealista) romantico. E Asor Rosa, che pure oggi lo rivaluta, aveva ragione nel definirlo tale in Scrittori e Popolo. E però Pasolini si definiva marxista e di un marxismo complesso, intriso di linguistica, psicoanalisi, strutturalismo, volto al riscatto delle plebi, benché non volesse che le energie morali del popolo delle borgate e delle periferie andassero disperse. Travolte dal globalismo e dall’omologazione. E dal potere neutro di un sistema che usava la destra a scopo di, stragi, trame e oppressione. Per questo aveva la fissa di Cefis, burattinaio contornato tra l’altro di ufficiali golpisti di destra e di chierici alla Miglio, il leghista prussiano e seguace di Carl Schmitt adorato da Massimo Cacciari. Insomma Pasolini, già cacciato dal Pci, era sempre dei nostri e restò tale. Perciò salutava fino all’ultimo, sul nostro giornale e in lirica, le povere sezioni del Pci pavesate di bandiere rosse. Invitando a votare Pci. Certo. Che la destra vecchia e nuova lo riscopra, e faccia ammenda, ci rallegra. E si veda su tutto questo il libro Vallecchi in uscita: Una lunga incomprensione. Pasolini tra destra e sinistra, di Adalberto Baldoni e Gianni Borgna. Ma in conclusione è ridicolo il paragone parapolitico del Secolo con Ezra Pound. O con Mitshima. Fascista antisemita il primo, nazionalista imperiale il secondo. Sennò si finisce nella solita marmellata trasformista. Col trucchetto di «oltrepassare gli steccati». Molto caro pure a certe teste d’uovo «progressiste».
l’Unità 3.11.10
Vendola non è Invictus
di Bruno Magno
Che Nichi Vendola sia sulla cresta dell’onda è indubitabile. Come a volte succede ai “predicatori”. «Ha vinto le regionali in Puglia!», dicono, tacendo sul fatto che ha vinto solo perché la destra si è divisa in due liste. Questo “invictus” fu battuto (pur essendo fortemente sostenuto dai big) persino nel congresso del suo piccolo partito. Addirittura da tale Ferrero, che divenne segretario, e di cui si ricorda soprattutto per dire lo spessore politico una straordinaria iniziativa: la messa in vendita, con grande successo, del pane a euro 1.50 al chilo, per sconfiggere i panettieri affamatori del popolo.
Un “vincitore” di tal fatta non può che vincere le primarie, le elezioni politiche, il Gratta e vinci e il Giro d’Italia.
Corriere della Sera 3.11.10
Il manifesto di Rousseau apprezzato da Kant «Mi insegnò il rispetto per le persone umili»
«Eliminate miseria e opulenza» È il nuovo «contratto»
di Giuseppe Galasso
Di quanti scrittori i giudizi che se ne danno sono quanto mai divergenti? Per Jean-Jacques Rousseau lo si può dire anche di più. Padre fondatore dell’idea moderna di democrazia per gli uni, progenitore prossimo dei molti totalitarismi del XX secolo per gli altri. Padre del giacobinismo robespierrista e del conseguente Terrore nella rivoluzione francese, oppure vero fondatore della democrazia borghese. Individualista libertario o, al contrario, moralista del conformismo sociale. Autentico illuminista o, invece, antilluminista e già tutto romantico. Genio teorico della pedagogia moderna, oppure iniziatore della dissoluzione dei fondamenti dell’azione educativa nel mondo di oggi.
Quel che non è dubbio è, però, il suo rilievo nella storia sia del pensiero e delle esperienze politiche, sia della filosofia. Basta, al riguardo, il debito dichiarato verso di lui da Immanuel Kant, a sua volta autentico iniziatore del pensiero contemporaneo. Era stato Rousseau a svegliarlo dal suo sonno metafisico in materia di morale, così come David Hume in materia di conoscenza. Ma per la morale la questione era in Kant molto più importante. Era, infatti, qui che egli doveva recuperare la dissoluzione di schemi e valori universali operata da lui con la sua «rivoluzione copernicana» in materia di conoscenza. Rousseau fondava la sua morale sul sentimento. Kant capì che non si trattava di sentimentalismo, ma del sentimento della dignità umana, per cui il senso morale è ciò che rende l’uomo appieno e degnamente uomo. «Io sono uno studioso — scrisse — e sento tutta la sete di conoscere che un uomo può sentire. Un tempo credevo che questo costituisse tutto il valore dell’umanità, e disprezzavo il popolo ignorante. A farmene ricredere è stato Rousseau. Quella illusione di superiorità si è dissolta. Ho capito che la scienza è inutile, se non vale a mettere in valore l’umanità».
Si è detto che Rousseau supera tutti gli altri filosofi francesi del suo tempo, ma ciò vale largamente anche oltre i confini francesi. Ricordare Rousseau solo come pedagogista o filosofo politico è, dunque, riduttivo. Certo, Il contratto sociale è al centro del suo pensiero, ma non è l’espressione esclusiva delle sue idee, che su religione, educazione, virtù, libertà, natura, uguaglianza e altro vanno seguite in tutti i suoi scritti di prima e di dopo e non fanno capo solo al Contratto.
Tra l’altro, come quasi mai si dice, Rousseau è, se non il primo, certo uno dei casi più rari di intera presenza di uno scrittore politico nella sua opera. Forse, è nei suoi scritti più personali (le Confessioni, uno dei grandi libri della tradizione autobiografica europea, e le bellissime Rêveries, o Rousseau giudice di Jean-Jacques) che, per alcuni, bisogna cercare la chiave anche del suo pensiero politico.
Difficile è pure dire quale opera di Rousseau abbia avuto maggiore influenza nel suo tempo e dopo, ma certo è al Contratto sociale che per questo bisogna soprattutto rifarsi. Nella Rivoluzione francese non bisognò aspettare l’ora di Maximilien Robespierre per una sua presenza ispiratrice. Già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 l’articolo 6 affermava che «la legge è l’espressione della volontà generale»; e la «volontà generale» è il maggiore pilastro teorico del Contratto sociale.
L’idea di un «contratto», storico o teorico, a base della società era radicata da tempo in Europa. Per Rousseau, l’uomo è felice e libero nello stato di natura, ma a un certo punto «tale stato di natura non può più sussistere e il genere umano perirebbe se non cambiasse le condizioni della sua esistenza». È il contratto a legare gli uomini riuniti in società fra loro e nei loro rapporti col governo. Esso non è stipulato tra gli individui che formano la società, e tanto meno fra costoro e un qualsiasi sovrano. Il contratto unisce tutti a tutti, ed è in ciò che consiste il vincolo sociale. «Ciascuno di noi — scrive Rousseau — mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale, e noi, in quanto corpo sociale, riceviamo in esso ogni membro come parte indivisibile del tutto. Ogni consociato si unisce a tutti e a nessuno in particolare. Non obbedisce così che a se stesso e resta libero come prima», e il governo non può avere interessi diversi da quelli del corpo sociale e dei suoi membri.
Quello della volontà generale, vero e solo possibile sovrano della comunità, è senza dubbio il concetto politico più originale, ma anche più complesso di Rousseau. Per lui la volontà generale non è una volontà particolare conforme a interessi particolari, ma non è neppure la volontà di una maggioranza, che sarebbe sempre una volontà parziale, e addirittura non è neppure la volontà di tutti, che è una mera sommatoria delle volontà individuali, e pur sempre rispondente, nella sua composizione, a interessi particolaristici. La volontà generale è di una qualità diversa, non è un fatto quantitativo, ha un carattere tutto morale e obbedisce solo all’interesse generale del corpo sociale, che essa, e solo essa, esprime.
A rigor di termini, in teoria, perfino la volontà di una sola persona potrebbe esserne interprete ed espressione. Tutto ciò renderebbe, però, difficile l’esercizio della sovranità da parte del corpo sociale nella sua interezza, e soprattutto renderebbe difficile riconoscere la volontà generale, che, infatti, è sempre stata l’idea di Rousseau più bersagliata, se non derisa, dai suoi critici. Egli aveva in realtà avvertito il problema e aveva suggerito il criterio della maggioranza come volontà dei molti quale mezzo empirico per riconoscere la volontà generale, purché tutti i cittadini avessero ed esercitassero il diritto di voto.
Un compromesso, dunque, che non impedì di obiettare a Rousseau che le sue teorie postulavano una democrazia diretta adatta solo a piccole realtà come la sua natìa Ginevra. Anche questo appare, però, lontano dal suo reale pensiero. La forma del governo si lega per lui alle situazioni locali, come ben si vede nei suoi scritti sulla Polonia e la Corsica. In effetti, è sempre da ricordare che la misteriosa «volontà generale» è definita da lui come espressione dell’interesse generale, distinta anche dalla volontà di tutti. Essa è la volontà sia di tutti che del corpo sociale nel suo insieme. Un concetto che, per noi, porta Rousseau, in modo paradossale, ma non illogico, dalle rive del collettivismo decisionale, o dell’eventuale e possibile unico interprete della volontà generale, alle rive del liberalismo degli interessi generali, che i grandi liberali hanno spesso riaffermato come misura del carattere liberale di un’azione politica e di governo.
Si tratta, quindi, di una democrazia estrema, ma praticabile, in cui il governo è un problema secondario, perché prioritarie sono la libertà e la sicurezza garantite dalla volontà generale, nonché la solidarietà del corpo sociale da perseguire con l’educazione, la religione, la pratica di un ideale di civismo e di patriottismo, di austerità e di virtù. Che tutto ciò abbia portato a interpretazioni collettivistiche o totalitarie del suo pensiero si può capire, ma Rousseau merita una ben maggiore fedeltà. Neppure sul piano sociale lo si deve fraintendere. «Volete rafforzare lo Stato? Fin dove è possibile avvicinate gli estremi, eliminate miseria e opulenza, condizioni ugualmente funeste per il bene comune»: è ancora Il contratto sociale, e, dopo tutto, è quel che liberalismo e democrazia fanno o dovrebbero fare anche oggi.
Corriere della Sera 1.11.10
E Alemanno rende omaggio a Pasolini
Il sindaco all’Idroscalo a 35 anni dalla morte del poeta
Una visita all’Idroscalo, dove fu ammazzato Pasolini. E poi, presso la sede del XIII municipio, l’inaugurazione di una mostra fotografica dedicata all’autore degli «Scritti corsari».
È quel che il sindaco Alemanno prevede stamane per commemorare il 35˚ anniversario della morte del poeta. Giorni fa, piuttosto a sorpresa, il primo cittadino aveva annunciato l’intenzione di voler realizzare proprio all’Idroscalo «un museo in ricordo di Pasolini: è giusto che Roma si riappropri della sua memoria». Il luogo è già stato individuato, sarà alla Torre di San Michele, attribuita aMichelangelo, proprio davanti alla stele deposta dallo scultore Mario Rosati sul luogo dell’omicidio. Due milioni di euro è il costo previsto per l’opera.
Assieme alla mostra, che terminerà a fine novembre, le biblioteche comunali di Ostia e Acilia organizzeranno dei «reading» delle opere di Pasolini che saranno lette anche nelle scuole.
Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fatale
Saggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis
Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.
Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?
Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.
Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?
La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.
Questo cosa cambia?
Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.
Chi ha interesse a rimuovere questo problema?
La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.
Perché parlarne proprio ora?
Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.
Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte