lunedì 15 novembre 2010

«il centrosinistra dovrà fare ora i conti con una affluenza ai seggi inferiore ai numeri annunciati, e sperati, fino a sabato... Quasi uno scontro per procura fra Bersani e Vendola, che infatti si sono spesi anima e corpo nel sostengo ai rispettivi candidati»
Repubblica 15.11.10
La nuova speranza della sinistra
di Curzio Maltese


Le decine di migliaia di votanti che hanno sfidato una giornata d´inferno per scegliere lo sfidante di Letizia Moratti, sono una delle poche buone notizie della vita pubblica in questi mesi. E questo anche se erano di meno rispetto alle primarie precedenti. Sono una buona notizia perché segnalano che la politica non è soltanto trame di palazzo, guerre televisive, macchine del fango e altre porcherie, ma soprattutto libertà e partecipazione, come cantava un grande milanese onorario, Giorgio Gaber. Ma poi perché la partita milanese, da qui alle comunali, è destinata a riscrivere i destini nazionali.
Come sempre, viene da dire. Tanto per cominciare, le primarie milanesi sono la prova generale delle primarie nazionali del centrosinistra. Quasi uno scontro per procura fra Bersani e Vendola, che infatti si sono spesi anima e corpo nel sostengo ai rispettivi candidati, Stefano Boeri e Giuliano Pisapia. Vendola è addirittura piombato a Milano alla vigilia del voto per il comizio finale di Pisapia, con mossa tanto teatrale quanto efficace. In una battaglia all´ultimo voto, ha vinto Pisapia.
Ma il Pd non dovrebbe pentirsi di queste primarie, semmai riflettere. A Milano, come in Puglia e a Firenze, le candidature del Pd pagano l´ambiguità delle scelte o delle non scelte, la distanza crescente dei gruppi dirigenti dagli umori dell´elettorato. A parte queste diatribe interne al centrosinistra, le primarie di ieri hanno avuto un sicuro effetto positivo: la prova di vitalità della sinistra milanese che deve uscire dall´angolo e risorgere.
La sinistra si era ritirata da Milano, ovvero dalla trincea più moderna del Paese, negli anni Ottanta, ed è stato un modo rapido per uscire dalla storia italiana. Queste primarie, belle, nervose e vivaci, con candidati di qualità presi dal mondo delle professioni, l´avvocato Giuliano Pisapia, l´architetto Stefano Boeri, il costituzionalista Valerio Onida e il fisico Michele Sacerdoti, hanno restituito al centrosinistra milanese dignità, smalto e appeal persi nel tempo e fra mille errori.
Il candidato espresso dal voto di oggi potrebbe avere per la prima volta da molto tempo una possibilità concreta di battere la destra. Lo testimoniano anche il nervosismo del sindaco Moratti, le divisioni interne fra Lega e Pdl, la tentazione del terzo polo di candidare l´ex sindaco Albertini. Da feudo del centrodestra, Milano può così tornare ad essere un laboratorio centrale della vita politica italiana. Un laboratorio che potrebbe decretare fra quattro mesi la fine del berlusconismo, così come ne aveva salutato la nascita. Attraverso il libero voto e non per un´alchimia di palazzo. Da oggi si torna a Milano per capire dove andrà il Paese, com´è stato in tutte le svolte decisive della storia repubblicana, dalla Liberazione al primo centrosinistra, da Tangentopoli all´invasione leghista e alla nascita della seconda repubblica. Era questa la speranza di una Milano democratica che per tanti anni ha assistito allo scempio di cattive amministrazioni populiste e reazionarie senza perdere mai la voglia di combattere. Era la speranza di gente come Riccardo Sarfatti, la personalità che forse si è più spesa per arrivare alle primarie milanesi ed è morto due mesi fa in un incidente stradale, senza poter vedere il risultato dei propri sforzi. Un grande milanese, Sarfatti, una bella persona.

Repubblica 15.11.10
Il Pd apre all´alleanza fino a Fli stop da Di Pietro e Vendola
Letta: punto fermo se si va alle urne. I veltroniani frenano
Franceschini: "Oggi accadono cose che sembravano impensabili solo qualche mese fa"


ROMA - Potrebbero ritrovarsi alleati Bersani e Fini. Se Berlusconi forza verso una «deriva antidemocratica», come sta facendo in queste ore infischiandosene delle prerogative di Napolitano, e dietro l´angolo ci fossero le urne - invece del "governo di transizione" invocato dalle opposizioni - ebbene, il segretario del Pd pensa a «un´alleanza per la democrazia», da Vendola e Di Pietro fino alla destra di Fini. Idea bocciata subito da Di Pietro; gelo dei Modem, la minoranza democratica di Veltroni, Fioroni e Gentiloni. Né ci sta Vendola.
«Con il Pd alleato con Udc e Fini non si esce dalla crisi - è l´altolà di Di Pietro - I centristi e "Futuro e libertà" sono complici di chi sta uccidendo l´Italia». E per il leader di Idv bisogna semplicemente tornare a votare. Ma il vice segretario democratico Enrico Letta rilancia l´appello alla «parte buona del Pdl». È sicuro, Letta, che una volta sfiduciato Berlusconi, si farà «un governo e sarà politico, non tecnico. E le mosse al limite del golpismo di Berlusconi obbligheranno secondo e terzo polo, rinforzato da altre fughe da destra, a convergere in Parlamento». Un passo alla volta, insomma. «Comunque - aggiunge - l´asse con il terzo polo è un punto fermo». Più esplicito Dario Franceschini, il capogruppo del Pd: «Impensabile un´alleanza con Fini? Anche le cose che stanno accadendo oggi sembravano impensabili solo qualche mese fa. La priorità è chiudere a ogni costo con Berlusconi. Siamo a una emergenza democratica. Ci ritroveremmo su basi comuni, come la difesa della legalità, il senso dello Stato, il ritorno alle regole. Alla fine di questo percorso, si torna a una normale alternanza tra centrosinistra e centrodestra». Anche per Franceschini il governo di transizione «nascerà», però se si fosse costretti a votare con questa legge elettorale, allora si va alleati in una «coalizione di emergenza». Ovviamente con Fini. Anche Massimo D´Alema aveva parlato di una legislatura costituente.
Secco invece il commento di Beppe Fioroni, uno dei leader della minoranza: «Improponibile pensare a legami che arrivino fino a gruppi comuni in un nuovo Parlamento con Vendola e Di Pietro. Bene invece allearci con Casini e Rutelli. Fini ha detto "mai con il Pd". Fermiamoci a questo. Quando cambierà idea, vedremo». Anche il veltroniano Giorgio Tonini è per la massima cautela: «Rendiamoci conto dove ci siamo cacciati. La vocazione maggioritaria del Pd di Veltroni significava un partito che costruiva uno schieramento attorno a sé. Ora potremmo trovarci o ad andare dietro a Vendola e Di Pietro oppure con Casini e Fini e non saremmo noi a guidare la coalizione. Raccogliamo quello che non abbiamo seminato. Sarà il 2011 un anno di grande difficoltà per l´Italia, in cui l´Europa chiede il pieno rientro del debito. È più che necessario un governo di transizione. Ma se si andasse alle urne, personalmente non ho una preclusione assoluta verso Fini perché saremmo davanti a un passaggio drammatico». Arturo Parisi, strenuo difensore del bipolarismo, è scettico sul collante del terzo polo. «Ma il Pd avvii subito un confronto trasparente».
(g.c.)

Repubblica 15.11.10
"Accordo in nome della Costituzione i democratici capiranno"
Se si va a votare con questa legge elettorale, non possiamo fare l´errore del 1994: andare alle urne con tre poli
di Giovanna Casadio


ROMA - «Gli elettori democratici capirebbero. Un´alleanza con Fini e Casini sarebbe in nome della Costituzione per battere la degenerazione politica a cui ci ha condotti Berlusconi». Rosy Bindi, la presidente del Pd, è una "pasionaria". Non è facile per lei prevedere - se si dovesse andare alle urne - un´alleanza elettorale con Gianfranco Fini, leader di una destra che ha le sue radici nel Msi di Almirante.
Cosa succede ora, onorevole Bindi?
«È indiscutibile che ci sia una crisi conclamata. Siamo a una sorta di morte assistita del governo: si approva la legge di stabilità e, quindi, se ne decreta la fine».
Non state vendendo la pelle dell´orso prima di averlo ucciso? Il premier è sicuro della fiducia al Senato.
«Berlusconi può anche avere ripreso la compravendita dei parlamentari e continuare a fare comizi. Ma una volta dato il via libera alle legge di bilancio, cadrà. Alla Camera non ha la fiducia. Penso che non bisogna sottovalutare la reazione che lui ha annunciato. Anche Prodi avrebbe potuto chiedere il voto solo per il Senato, dove era stato sfiduciato. Quando c´è un sistema di bicameralismo perfetto, però, la fiducia è necessaria in tutte e due le Camere, per chi conosce l´abc della Costituzione. E questo la dice lunga sul fatto che Berlusconi ha veleno anche nella coda. Su tutto ciò tra l´altro decide il presidente della Repubblica. Il Cavaliere ha un comportamento profondamente anticostituzionale. Calpesta i principi fondamentali della nostra vita democratica».
Se le vostre aspettative di un governo di transizione, di "ripartenza", restano lettera morta, vi alleereste con Fini?
«Faremo di tutto per rendere possibile un governo di solidarietà nazionale, così come ci opporremo a un tentativo di rincollare la maggioranza, magari con la stampella dell´Udc. Ma se Berlusconi ci porta a votare con questa legge elettorale, minacciando la Costituzione, non possiamo fare l´errore del 1994. Già allora proposi al mio partito, che era il Ppi, e al Pds di non andare separati alle elezioni e infatti vinse Berlusconi. Dovremmo allearci perciò con Fini e Casini, che tentano di costituire il terzo polo, nel nome della Costituzione e della democrazia. Non solo in funzione antiberlusconiana, ma per salvare la democrazia parlamentare. Certo va verificata la possibilità di condividere alcune scelte economiche e sociali, da assumere subito dopo il voto. La crisi internazionale non aspetta la politica italiana».
Non teme che i vostri elettori non digeriscano una scelta così?
«Sono scelte difficile da spiegare. Sappiamo anche che gli elettorati non sempre si sommano. In questo momento tuttavia si stanno confondendo: poiché Fini è ritenuto essenziale per la spallata a Berlusconi, nei sondaggi il leader di Fli sta raccogliendo consensi anche nel centrosinistra. Ritengo però che gli elettori capiranno, se l´alleanza sarà del tutto transitoria, e nel nome della Costituzione».
Di Pietro non ci sta e anche il Pd è diviso.
«Se la prendano loro la responsabilità, in una situazione di emergenza democratica, di consegnare il paese al caos».
Non c´è più differenza tra sinistra e destra?
«Sì che c´è. Comincia a profilarsi una sana differenza, dentro una condivisione di alcuni principi fondamentali come il rispetto delle regole costituzionali, la legalità, il no al conflitto d´interessi».






Corriere della Sera 15.11.10
Da Milano «schiaffo» al Pd A sorpresa Pisapia batte Boeri
di Elisabetta Soglio


MILANO — È un terremoto e la Puglia, al confronto, è nulla. Alle primarie del centrosinistra l’avvocato Giuliano Pisapia batte l’architetto Stefano Boeri, dandogli 5 punti di distacco, e sbaraglia il Pd che lo ha sostenuto a tutti i livelli. Forte del suo impegno civico e della sua passione, Pisapia ha rovesciato i pronostici: «È la vittoria della democrazia delle primarie», ha commentato a caldo ieri sera. Poi, le lacrime e il ringraziamento ai suoi competitor (oltre a Boeri, primo a chiamare per congratularsi, il professor Valerio Onida e l’ambientalista Michele Sacerdoti) «con i quali c’è stato un leale confronto e con cui insieme dobbiamo battere la Moratti», e ai partiti che lo hanno sostenuto (Sel e Federazione della Sinistra), ma anche «al Pd che continua a essere la componente principale di un centrosinistra rigenerato, in grado di sconfiggere il centrodestra».
Giuliano Pisapia era stato il primo a scendere in campo per le primarie. «Bisogna spenders i per cercare di rendere i l mondo migliore e farlo in tutti i modi in cui si può», aveva scritto sul suo sito poche ore prima del voto. Un messaggio raccolto soprattutto ascoltando Francesco, il figlio della compagna Cinzia e i sette nipoti: la squadra di ragazzi tra i 12 e i 30 anni che più di tutto e di tutti è stata decisiva sulla scelta finale.
In fondo, Pisapia aveva già sperimentato la fatica e il sacrificio che spesso ti chiede la politica: eletto deputato indipendente per Prc nel ’96, il penalista ha presieduto la commissione Giustizia ed è stato rieletto nel 2001. Poteva bastare. Invece no: e così in giugno, mentre già impazzava il toto-candidati, l’avvocato per bene, con i modi gentili, ha rotto gli indugi: «Ci sono». Lo ha fatto per amore della città, spinto da tanti milanesi «stanchi di vedere Milano andare a pezzi». Una corsa continua, che lo ha sfinito anche fisicamente, ma che ha coinvolto sempre più persone.
Partito svantaggiato rispetto a Boeri, Pisapia ha capito che poteva farcela quando ha cominciato a raccogliere messaggi di incoraggiamento di persone che da tempo avevano smesso di votare e che invece hanno accarezzato il sogno di sconfiggere il centrodestra nella terra di Berlusconi e Bossi. Poi c’è stata la sera magica, quella del 6 novembre, quando Nichi Vendola (che ieri notte ha commentato dagli Stati Uniti: «Una lezione di buona politica in un Paese sgomento») è arrivato a Milano a dichiarare stima, affetto e sostegno a Pisapia. Una sera magica, appunto, con migliaia di persone uscite dalla routine del sabato amici-cena-cinema per assieparsi al Teatro dal Verme, dentro tutto pieno all’inverosimile e fuori altre migliaia di uomini e donne, giovani e di mezza età in piedi a condividere e ribadire la voglia di cambiamento.
«Per me la politica è soprattutto servizio», ha ripetuto fino alla fine facendo tesoro degli insegnamenti della madre Margherita, cattolica e attenta ai più deboli, e del padre Giandomenico, avvocato e sostenitore del tema dei diritti. Per questo ha voluto tenere lontane le polemiche e bassi i toni, anche quando le primarie hanno avuto momenti di asprezza e tensione, anche quando alcuni dei suoi collaboratori avrebbero voluto contestare duramente l’invasione di campo del Pd, che ha mobilitato tutti, dal segretario nazionale Pierluigi Bersani alla maggioranza degli eletti nelle istituzioni, per garantire sostegno a Boeri.
Pisapia, che ha precisato di essere «uomo di sinistra ma non comunista», potrebbe però faticare a raccogliere consensi moderati. Per questo, l’esito delle primarie apre le porte alla possibilità di una candidatura di centro. E il nome gettonato è sempre quello: Gabriele Albertini, che da oggi riprende incontri tra Milano e Roma.

Corriere della sera 15.11.10
Torna l’effetto Vendola
Le difficoltà dell’area riformista
di Michele Salvati


Ora ci si attende che l'area politica entro la quale le primarie si sono svolte (senza quell’affluenza di votanti immaginata alla vigilia) lo sostenga non solo lealmente, ma con impegno. Così come l'area politica che fa riferimento al Partito Democratico Usa ha sostenuto Barack Obama dopo che si era divisa tra lui e Hillary Clinton nelle primarie presidenziali del 2008. Ma sono veramente confrontabili le primarie americane con quelle che si svolgono in Italia? In particolare con le primarie di coalizione, come questa di Milano o quella che ha portato al successo Nichi Vendola in occasione delle elezioni regionali in Puglia? E se confrontabili non sono, ha fatto bene il maggior partito del centro-sinistra a organizzare le primarie che ho menzionato (e altre simili) e ad appoggiare in maniera esplicita un candidato che poi è stato sconfitto?
Circa il primo interrogativo la risposta è ovviamente no, non sono confrontabili. Le primarie americane sono primarie di un singolo partito, in un contesto in cui i partiti sono due, e sono regolate dalle leggi dei singoli Stati della Federazione. I due partiti non sono poi paragonabili a quelli europei: non sono organizzati in modo permanente sul territorio mediante personale stabile, non hanno una struttura di associazione ed organi statutari sempre attivi (assemblee, comitati direttivi locali e centrali, e segretari, a livello territoriale e nazionale). E neppure hanno una linea politico-ideologica definita, come l'hanno invece i partiti europei. Sono istituzioni contendibili da parte della società civile e la loro linea politica - se più di "sinistra" o più di "destra", se più radicale o più moderata - è definita da chi vince le primarie. Insomma, in una primaria americana i partiti, in quanto contenitori vuoti, non "appoggiano", né possono appoggiare, un candidato, come in questo caso ha fatto il Pd per Boeri o Sinistra e Libertà per Pisapia: per ognuna delle due grandi aree politico-ideologiche in cui si divide la politica americana c'è un unico partito, le candidature emergono dalla società civile, le primarie le vince chi ha più soldi per una campagna efficace e/o indovina meglio gli umori dell' intera area, e chi le vince rappresenta poi il partito nella prova elettorale contro il partito avverso.
Ha fatto bene il Pd, come partito maggioritario dell'area di centrosinistra, a spendersi per primarie di coalizione e ad appoggiare un candidato? Il vantaggio delle primarie sulla tradizionale alternativa (negoziazione di vertice con le altre forze politiche e scelta di un candidato comune) è indubbio se i candidati sono espressione di una coalizione ampia, se tutti accettano il risultato e se il candidato vincente è vicino alla linea politica del partito: le primarie sono una procedura più democratica, più mobilitante e più efficace da un punto di vista mediatico. Comprensibilmente i partiti più piccoli, di solito, non le accettano: perché legarsi le mani in una gara nella quale prevarrà il candidato sostenuto da un partito che dispone di un maggior consenso elettorale e maggiori capacità organizzative? Un partito più piccolo, una corrente politica minoritaria, si impegneranno soltanto se intuiscono che il candidato da loro favorito, per i suoi caratteri personali, o per la debolezza dei candidati di diverso orientamento politico, o per la frammentazione delle candidature, ha serie possibilità di prevalere. Ed è questo che è avvenuto sia in Puglia, sia a Milano. In Puglia per la debolezza del candidato sul quale il Pd aveva puntato le sue carte e per il grande fascino di Nichi Vendola. A Milano per la frammentazione del campo riformistico, per la presenza di candidati realmente espressi dalla società civile, contro la tutela e la regia del Pd. Per restare a Milano, l'effetto finale è che l'area riformistica di questa città sarà rappresentata da un candidato cui sarà possibile rimproverare - ingiustamente oggi, ma efficacemente se si tiene conto della sua storia - di collocarsi su posizioni estreme. O almeno, questa è la convinzione che circola in ambienti pd.
Il Pd non ha fatto male a sostenere un candidato: questo è il ruolo che la Costituzione e la tradizione politica europea gli assegnano. Come in Puglia, così a Milano, non è però stato in grado di convincere l'area riformista, di cui è il principale esponente politico, delle ragioni che lo inducevano ad avversare la candidatura di Pisapia e a scoraggiare la frammentazione delle candidature. Ha manifestato incertezze e ritardi, insieme ad una evidente carenza di egemonia culturale, si sarebbe detto una volta. Insomma, ha subito una secca sconfitta politica.


Repubblica 15.11.10
Il governo americano ha protetto per anni i vertici delle SS La verità in un documento del Dipartimento di giustizia
Così la Cia ha coperto i criminali nazisti
di Angelo Aquaro


Uno scienziato tedesco fu insignito dalla Nasa. In realtà aveva guidato la fabbrica di munizioni di Mittelwerk
Il ruolo di Otto Von Bolschwing, braccio destro di Adolf Eichmann nella caccia agli ebrei e sul libro paga dei Servizi

NEW YORK. Lo scalpo del dottor Mengele nel cassetto del Dipartimento di Giustizia sembra il particolare di un film di Tarantino: e invece è la prova di uno scandalo tenuto nascosto per anni. Il governo degli Stati Uniti ha taciuto la verità nella caccia ai nazisti. Non solo ha fatto niente o poco per assicurarsi la cattura dell´Angelo della Morte di Auschwitz. Addirittura ha coperto per decenni i criminali di Hitler offrendo sicuro riparo da questa parte dell´Atlantico. Di più. Tributando ad alcuni tutti gli onori del caso: come dimostra la vicenda di uno scienziato tedesco che contribuì alla conquista dello spazio e fu insignito dalla Nasa con la più alta delle sue onorificenze.
La storia segreta e parallela della vera caccia ai nazisti è stata scoperta e denunciata in un rapporto dello stesso Dipartimento di Giustizia che però è rimasto incompleto e - anche questo - nascosto per quattro anni. Il principale imputato è - per la verità senza grandi sorprese - la Cia. Da sempre si è parlato della connivenza del servizio segreto americano con i vecchi nazisti che in molti casi furono utilizzati durante la Guerra Fredda. Ma un conto è la ricostruzione romanzata di tanti gialli e film. Un altro mettere per iscritto «la collaborazione del governo con i persecutori» nazisti come fa il rapporto della commissione.
Il documento nasce da un´idea di Richard Clarke. L´avvocato del Dipartimento persuase nel 1999 l´allora ministro della giustizia di Bill Clinton, Janet Reno, a indagare sull´attività dell´Office of Special Investigations, che era stato creato vent´anni prima sotto la spinta di Simon Wiesenthal per dare la caccia ai nazisti. Ma l´avvocato è morto senza vedere realizzato il suo sogno di pubblicare le carte. Solo sotto la minaccia di una causa, intentata dai suoi amici, nel nome di quel Freedom of Information Act che prevede negli Usa la pubblicazione dei documenti segreti, il mega-rapporto è stato finalmente svelato. Barack Obama ha scelto di delegare al Dipartimento la divulgazione dei documenti dopo la promessa di trasparenza fatta in campagna elettorale. Soltanto il New York Times è riuscito però ad avere una copia completa del documento: senza gli omissis che coprivano comunque le informazioni più scandalose. E compromettenti: come la "prova" raccolta e tenuta nascosta dagli americani che davvero la Svizzera si era impossessata dell´oro sporco dei nazisti.
Gli investigatori dell´Office of Special Investigation, svela ora il documento, scoprirono anche che a tanti nazisti «era stato garantito l´ingresso» negli Stati Uniti. «L´America che orgogliosamente si dipingeva come un porto sicuro per i perseguitati divenne, in misura minore, anche un porto sicuro per i persecutori».
Un porto trafficatissimo. Tra i primi a imbarcarsi c´è quell´Arthur L. Rudolph che nella sua Germania aveva comandato la fabbrica di munizioni di Mittelwerk. Rudolph viene spedito nel 1945 negli Usa grazie all´Operazione Paperclip che recluta gli scienziati nazisti che sarebbero potuti essere utili all´America. Peccato che Rudolph non fosse un pesce piccolo come in un primo tempo avevano creduto gli yankee: i rapporti parlano di crudeltà nella gestione di quella fabbrica di munizioni che impiegava gli schiavi ebrei di Hitler. Un particolare che non impedì allo scienziato di sviluppare quel razzo Saturno V che divenne una delle armi della conquista spaziale: un traguardo per cui fu onorato dalla Nasa.
Ancora più imbarazzante il ruolo di Otto Von Bolschwing. Questo signore a libro paga della Cia era stato il braccio destro di Adolf Eichmann nella pianificazione della caccia agli ebrei. C´è un memo degli 007 che negli anni 70 lanciano l´allarme: che facciamo se salta fuori il suo passato? Il signorino muore nel 1981 quando, a 72 anni, gli americani stanno segretamente cercando di deportarlo.
Più avventurosa e angosciante la vera storia del dottor Josef Mengele. Per anni si è favoleggiato del suo ingresso negli Usa (ricordate "I ragazzi venuti dal Brasile"?) ma solo dopo un´analisi del suo Dna gli americani poterono accertare che era davvero morto nel 1979 in Sudamerica. Nel cassetto di un funzionario rimase nascosta una ciocca di capelli che doveva servire per accertare se fosse ancora vivo o morto. E pensare che Quentin Tarantino era stato accusato di aver esagerato immaginando nel suo "Inglourious Basterds" quei cacciatori di nazisti che raccoglievano i loro scalpi.

Corriere della sera 15.11.10
Quei nemici invisibili Che uccidono per niente
di Vittorino Andreoli


Siamo circondati da nemici e sono pronti a ucciderci, per un nonnulla, per una banalità. E appena si sente uno sparo o un urlo di dolore tutti scappano senza chiedersi se qualcuno abbia bisogno di aiuto perché sta morendo. La morte dell’altro non ci riguarda, e ammazzare non attira l’attenzione a meno che l’omicida non sia Michele Misseri o la figlia Sabrina personaggi di una «telenovela» che si guarda come spettacolo dal salotto.
È finita la voglia di comprensione e non si attiva più l’aiuto: i due grandi ingredienti di una moralità sociale, del mutuo soccorso e del rispetto dell’altro. La fine di due principi, capisaldi di una civiltà. E così ci troviamo dentro una guerra combattuta nelle città in cui si muore per aver preso sotto un cane che passeggiava e per aver toccato con la propria lo specchietto retrovisore di un’altra auto. Schegge di violenza che possono colpire chiunque, vittima così di un nessuno e della banalità. Una violenza pulsionale, come se l’uomo avesse perso i freni inibitori.
È in corso una metamorfosi antropologica e si profila un uomo pulsionale, istintivo e selvaggio, senza più il senso di colpa, senza il rimorso, senza sapere cosa sia la vita e la morte, senza etica se non la spinta al proprio profitto e alla difesa del proprio piccolo mondo fatti di stupidità, di oggetti e non di senso, di forza e non di valore umano e di amore. In questa degenerazione della specie, l’uomo funziona più o meno così: vorrebbe essere potente e avere successo, ma i livelli raggiunti, non importa quali, sono poco rispetto al desiderato e allora predominano le frustrazioni. La frustrazione è una sensazione di mal d’essere che si prova nel mondo, nella esistenza ordinaria: sul lavoro, quando c’è, e a casa. E la frustrazione è un debito di violenza. Si accumula e ad un certo momento si libera, diventa azione, nei confronti del minimo fastidio e della causa più insensata. Serve solo un oggetto su cui esprimersi: un figlio, o la moglie, un passante, chiunque permetta di compensare il senso di insoddisfazione e mostrarsi decisi, forti. E uccidere è un gesto titanico: solo agli dei si attribuiva il potere di vita e di morte. Adesso non serve essere dio, ma basta avere uno specchietto retrovisore ferito. E si tratta di persone che mutano repentinamente, come in una metamorfosi agita da un demone con una bacchetta del male. C’è in ciascuno di noi un serbatoio di frustrazione che può fare una strage e manca la percezione del male, poic hé è stato coperto di spettacolo. Il male come fascino, come avventura, come trasgressione i n una società in cui i ladri si chiamano furbi, le prostitute escort dove vince la raccomandazione e non il merito, dove la falsità è occasione non di riprovazione, ma di strategia esistenziale. Una società dove il denaro diventa la misura dell’uomo e del suo potere.
La psichiatria, che era la disciplina che si occupava di comportamenti sani e malati e che si proponeva di curare chi si comportava in maniera pericolosa, è confusa e non sa più delineare nulla poiché il tutto va legato alle circostanze e così l’uomo è anche buono oltre che cattivo e sano oltre che folle. Quel tale che ha sparato per lo specchietto fratturato (un danno di qualche decina di euro) è una guardia giurata, uno che «dona» la propria vita per la sicurezza. Del resto nelle processioni per i patroni delle città del Sud, il primo posto davanti al Santissimo a volte è occupato dai mafiosi. Forse nemmeno i santi e i beati sono più esempi di vita. Hanno alleanze pericolose.

Corriere della Sera 15.11.10
«Un sindaco per Pompei Così salveremo quel tesoro»
di Andrea Carandini


Il presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali affronta il caso a «Florens 2010»
Una mappa casa per casa per monitorare il sito
Goethe Pompei attesta l’anelito culturale di tutto un popolo quale oggi neppure gli intellettuali più evoluti saprebbero comprendere
Chateaubriand Si imparerebbe meglio la storia della civiltà romana in poche gite a Pompei restaurata che con la lettura di tutte le opere antiche
Da pagina 1 In primo luogo a Pompei: la civiltà greca nulla ha di simile. Pompei fu scoperta nel 1748 e da allora i suoi scavi accompagnano la nostra vita, per cui alla storia antica della città — dal VI secolo a.C. fino al 79 d.C. — si aggiungono i 262 anni del nostro tempo. Finché fu protetta dai lapilli, Pompei era salva. Gli scavi l’hanno restituita crollata ma ricostruibile nei piani alti e ai piani terreni intatta. Quale messe per lo studio dei moeurs! Il disvelamento di questa antichità palpitante, diversa da quella sontuosa ma più rovinata di Roma, ha reso gli scavatori voraci, al punto da divorare con pala e piccone novantotto isolati. Divorare scavando presupporrebbe la digestione scientifica della materia ingurgitata, che purtroppo non è avvenuta, e poi naturalmente la tutela, anch’essa difettosa. Numerosi sono stati gli studi, che tuttavia non hanno rappresentato Pompei nel suo insieme.

Rimangono da scavare parti notevoli di alcune delle nove regioni in cui è stata suddivisa la città, che continuano per fortuna a covare la loro realtà incorrotta, ma grande parte di quanto è stato portato alla luce è rimasta senza tetto, per cui pioggia e sole consumano ogni giorno le rovine, come avviene a L’Aquila terremotata.
La responsabilità che ha l’Italia riguardo a Pompei è colossale, perché si tratta di una realtà unica, culturalmente necessaria per il globo: oggi sono soprattutto stranieri e asiatici a visitarla. Ma il Paese non è stato all’altezza e la città antica vive in una emergenza perpetua, che ha giustificato l’intervento di un Commissario. Va aggiunto che si tratta di uno dei casi più complessi di tutela e di gestione che si possa immaginare. È possibile voltar pagina?
Voltar pagina significa mettere al centro e risolvere in tempi brevi la questione conoscitiva. Senza conoscere Pompei, senza minuziosamente rilevarla anche negli elevati e scrutinarla scientificamente in maniera integrata e sistematica, ci si limiterà a imitare il passato. Solo un’analisi, casa per casa, può restituire il valore culturale di Pompei e dirci, al tempo stesso, quale muro è pericolante, quale affresco sta per cadere. Conoscendo questi dettagli e gerarchizzando gli interventi, è possibile varare finalmente una «manutenzione programmata», regione per regione, isolato per isolato, numero civico per numero civico, attuata da una squadra fissa da ultimo immaginata e da istituire: l’«Opera di Pompei»; e diventa anche possibile selezionare secondo ragione i restauri e le valorizzazioni da affrontare. Pompei non è solo degli studiosi, è dei visitatori! I dieci anni trascorsi, lavori del commissario compresi, servano per progettare cosa fare, fin da oggi, nei prossimi cinque-dieci anni. Poi sarà tardi.
Un «sistema informativo territoriale» è stato creato dalla Soprintendenza, ma è inadeguato nei rilievi, è rimasto inutilizzato e da alcuni anni non viene aggiornato. Tutte le conoscenze e ogni intervento devono essere memorizzati in questo cervello, che va dotato di personale e di mezzi adeguati — i soldi a Pompei non mancano —, cervello che va posto al centro della tutela, della gestione e del cuore dei funzionari, perché solo lì si custodisce l’interesse generale immateriale della città.
Pompei, oltre a tradursi lentamente in polvere e in alcuni punti a collassare, si trova in zona sismica: pochi anni prima dell’eruzione fu colpita gravemente da un terremoto e infine vi è stato quello del 1980. E se tornasse un cataclisma? Nelle condizioni attuali sarebbe la fine del sito, perché mancano gli studi e le documentazioni che potrebbero surrogare le perdite. La città infatti è in grande parte inedita, anche perché le pitture sono state studiate a parte, non come apparato decorativo fissato alle murature. Serve pertanto una campagna impegnativa, proceduralmente ordinata e sistematica di documentazione e di studio delle costruzioni, finanziata annualmente, onde ricavare, grazie ai rapporti stratigrafici tra le strutture, la storia di ciascun isolato, e rilevare perfettamente le unità costruttive, riattribuendo alle singole stanze gli oggetti mobili rinvenuti. Le parti conservate vanno riunite a quelle mentalmente da ricostruire, in una ricomposizione fra architetture, decorazioni e rinvenimenti. Bisognerebbe che dieci équipe nazionali e internazionali «digerissero» almeno dieci isolati l’anno. Avremmo allora una reduplicazione scientifica informatizzata che, comunicata puntualmente sul web, consentirebbe al mondo di entrare in tutte le case, le botteghe e gli edifici pubblici, come mai sarà possibile fare sul sito. Questa è anche la migliore assicurazione contro l’usura del tempo e il rischio sismico. Pompei sarebbe salva e per sempre, almeno dal punto di vista conoscitivo, narrativo e comunicativo. Ogni fondo dello stato destinato all’archeologia dell’area vesuviana deve essere speso per risolvere i suddetti problemi, non per ampliarli.
Si tratta anche di immaginare per Pompei forme organizzative adatte alle necessità dell’archeologia attuale e del nuovo pubblico, in cui gli archeologi collaborino con un manager cui va affidata la gestione: anche Pompei ha bisogno di un sindaco. Bisogna insomma fare squadra tra competenze diverse, al di sopra degli interessi corporativi, per il bene generale di questo dono del fato dovuto a una tragedia. La tutela deve restare nelle mani dei Soprintendenti.

Corriere della Sera 15.11.10
Perché Palmiro Togliatti fu traduttore di Voltaire
risponde Sergio Romano


Il primo volume della serie «I classici del pensiero libero» — il Trattato sulla
tolleranza di Voltaire — è apparso con una sua prefazione. Posseggo una precedente edizione dell’opera, pubblicata da Editori Riuniti nel 1949 con la prefazione, nientemeno, di Palmiro Togliatti. Conosciamo l’abilità del «Migliore» nel vendere al suo ipnotizzato pubblico le verità apodittiche della «Via al socialismo». Credo tuttavia che meriti un commento la sua tesi secondo cui «tra il razionalismo illuministico e il marxismo la differenza è senza dubbio grande», essendo «la nostra dottrina del tutto nuova».
Gianni Celletti, Ravenna

Caro Celletti,
Togliatti non si limitò a scrivere una prefazione al Trattato. Ne fu anche il traduttore. Eravamo, come lei ricorda, nel 1949, vale a dire in una fase in cui gli scontri della guerra fredda erano particolarmente aspri. Il Pci era stato estromesso dal governo De Gasperi nel 1947. Un anno dopo, nel 1948, i comunisti si erano impadroniti del potere a Praga con un colpo di Stato. E nei mesi in cui Togliatti traduceva Voltaire, l’Italia firmava a Washington il Patto Atlantico. Ma non erano quelle le ragioni per cui il segretario del Pci decise di dedicarsi alla traduzione del più famoso libello politico di Voltaire. Nella sua prefazione spiegò ai lettori che il Trattato sulla
tolleranza era un lucido atto d’accusa contro il fanatismo religioso, l’arroganza della Chiesa, lo strapotere del clero. Può sembrare, continuava Togliatti, una battaglia del passato, ormai vinta. Ma è resa nuovamente attuale da «recenti episodi» e dal «risorgere di una baldanza clericale al servizio di una estrema resistenza e reazione capitalista». Devo aggiungere che Togliatti aveva una parte di ragione. La Chiesa non era al servizio del capitalismo, ma sembrava decisa a governare i costumi italiani con un pugno di ferro e a servirsi della Democrazia cristiana perché l’Italia assomigliasse alla Spagna di Franco e al Portogallo di Salazar più che ai Paesi del continente con cui avrebbe tentato di lì a poco la strada dell’integrazione europea.
Dopo avere difeso Voltaire e l’utilità del trattato nella situazione italiana di allora, Togliatti dovette tuttavia sfumare il suo pensiero. I philosophes francesi erano gli eredi del razionalismo europeo e avevano il grande merito di avere spinto più in là le frontiere della ragione. Erano quindi dei precursori a cui era giusto rendere omaggio. Ma «la nostra dottrina è del tutto nuova, perché trova nella realtà stessa e nel suo sviluppo la ragione e la molla del rinnovamento del mondo». Tra l’Illuminismo e il materialismo dialettico vi era quindi un salto di qualità, un cambiamento di passo. La «nuova storia», salutata da Goethe sul campo di battaglia di Valmy, non cominciava dalla presa della Bastiglia, ma dal grande manifesto che Marx e Engels avevano scritto nel 1848. L’esperienza razionalista restava tuttavia fondamentale. Chi la ignora, concludeva Togliatti, finisce «per mettere capo ancora una volta al passato o aprire la strada alla sua resurrezione». Scrivendo queste parole Togliatti non si rese conto che potevano essere utilizzate per l’Unione Sovietica. Nella sua prefazione vi è a questo proposito un passaggio in cui descrive il processo intentato contro Jean Calas (il protestante di Tolosa falsamente accusato di avere ucciso un figlio), «uno di quei processi che disonorano i giudici e la giustizia, e ancora oggi e troppo di frequente offendono gli animi onesti». Capì che queste parole si adattavano perfettamente ai grandi processi staliniani degli anni Trenta?