venerdì 22 ottobre 2010

il Fatto 22.10.10
Ma quanti sono i preti pedofili? In un mese 103 denunce in Belgio
E in Francia 51 ecclesiastici sono sotto processo
I nuovi casi si aggiungono alle quasi cinquecento vittime di abusi, 13 delle quali si sono suicidate
di Giampiero Gramaglia


Non basta uno spot contro la pedofilia, anche se collocato sulla piazza del Duomo di Milano, proprio davanti alla Cattedrale, per “esorcizzare” il demone delle violenze sui minori che s’è annidato in seno alla Chiesa cattolica. L’inaugurazione dello spot, voluto da un’associazione che tutela i diritti dei bambini, coincide con l’emergere di notizie inquietanti in Francia e in Belgio, due Paesi le cui autorità ecclesiastiche hanno scelto, dopo momenti d’esitazione la via della trasparenza.
E, fuori dalla Chiesa, pure le cronache italiane non risparmiano orrori sui minori: cinque indagati in varie città – l’inchiesta parte da Catania – una madre sotto processo ad Ascoli Piceno per avere tollerato violenze sulle tre figliolette.
IN FRANCIA , paese dove gli scandali sono stati relativamente modesti, se confrontati con quelli negli Stati Uniti, in Irlanda, nel Belgio stesso, la Conferenza episcopale rivela che nove preti sono attualmente in carcere per pedofilia, che 51 sono sotto processo e che 45 hanno già scontato la loro pena: 105 casi, su una popolazione di sacerdoti che, nel 2008 sfiorava i 20 mila (19.640 per la precisione). I vescovi francesi non forniscono dettagli sulla durata delle pene che i preti hanno scontato o stanno scontando. In Belgio, s’è appreso che la procura federale ha ricevuto solo nell’ultimo mese 103 nuove denunce di vittime di abusi sessuali da parte di preti pedofili: vanno ad aggiungersi alle quasi cinquecento denunce (in 13 casi, le vittime si sono suicidate) raccolte dalla commissione d’inchiesta indipendente voluta dalla stessa Chiesa e poi chiusa dopo il sequestro dei dossier da parte della procura. I casi ora dichiarati risalgono, spesso, a molti anni or sono – solo la metà dei “colpevoli” individuati sono ancora vivi – ma solo ora le vittime trovano la volontà di rivelarli, mosse dalla ricerca di giustizia, ma anche dal desiderio di essere riconosciu-
te come tali e di avere quindi diritto a risarcimenti. E dire che, questa settimana, la Chiesa belga aveva definitivamente accantonato l’idea d’istituire una nuova commissione d’inchiesta e aveva pure rinunciato al progetto di creare un centro per l’assistenza alle vittime dei preti pedofili, sostenendo che un’iniziativa del genere spetta alle autorità civili. A riferire sul lavoro della procura è stata la portavoce Lieve Pellens, comparsa davanti alla commissione giustizia della Camera. La maggioranza delle persone che hanno ora scelto di ricorrere alla magistratura sono uomini (76%): il più giovane ha 23 anni, il più anziano 82, l'età media è di 49. Quasi la metà hanno raccontato di avere subito violenze frequentando la Chiesa, oltre un quarto in scuole di preti.

l’Unità 22.10.10
La storia c’insegna come possiamo salvare l’Italia
Per una patria diversa Lo storico ci invita a guardare ai problemi di oggi e al ruolo del nostro paese nel mondo moderno non solo attraverso i nostri occhi ma anche con quelli degli uomini e delle donne che lo hanno fatto
di Paul Ginsborg


Nel gennaio 2009 sono diventato cittadino italiano. Faccio parte di un flusso costante di stranieri, circa 40.000, che ogni anno assumono la cittadinanza italiana. Non basta per fare dell’Italia un paese multiculturale, ma certo è un inizio. Alla cerimonia di conferimento della cittadinanza l’allora presidente del Consiglio comunale fiorentino,
Eros Cruccolini, mi invitò a leggere ad alta voce due articoli della Costituzione e mi consegnò una bandiera italiana, la bandiera arcobaleno della pace e una copia della Costituzione italiana.
I miei amici in gran parte rimasero stupiti all’annuncio della mia naturalizzazione. «Ma chi te lo ha fatto fare, mi dicevano, e proprio ora, poi». Uno o due si affrettarono a sincerarsi che avessi avuto il buon senso di mantenere anche la cittadinanza britannica. Il commento più caustico è stato: «Beh Paul, almeno potrai dire assieme a tutti noi altri: «Mi vergogno di essere italiano»».
Mentirei se dicessi che queste reazioni mi hanno sorpreso. Vivo in Italia da quasi diciotto anni ormai, e da quaranta circa ne studio la storia, abbastanza per saper cogliere lo stato d’animo della sua gente. Ma la coralità dei commenti provenienti da persone spesso socialmente impegnate senza dubbio mi ha fatto riflettere. In quale altro paese al mondo i cittadini reagirebbero con altrettanto spregio di sé? Certo non i greci o i francesi, né gli americani o i britannici. Quali consuetudini culturali profondamente radicate stanno alla base di questa reazione? Carlo Cattaneo, con la sua tipica lucidità e sottigliezza, propose una risposta a questo interrogativo scrivendo, nel 1839, di «quel vizio tutto italiano di dir male del suo paese quasi per una escandescenza di amor patrio». Ma è difficile accettare che sia il troppo amore per la patria il motivo della reazione all’unisono dei miei amici. A me pare piuttosto di leggervi una gran tristezza sulla condizione attuale del paese, accompagnata da una profonda rassegnazione. (...)
Complessivamente, (in Italia) esiste oggi un senso di insoddisfazione profondo quanto quello di duecento anni fa e forse più insidioso, poiché apparentemente induce passività più che protesta.
Partiamo dalle famiglie. (...) La vita famigliare contemporanea equivale a una vera e propria educazione a diventare «liberi cittadini», per dirla con Foscolo? Non credo. Sotto un certo profilo oggi i membri delle famiglie sono più liberi e godono di maggiori diritti rispetto al passato di fare scelte riguardanti la propria vita, di viaggiare, di votare alle elezioni. Soto un profilo diverso sono intrappolati dai modelli di consumo e di egoismo imperanti che rischiano di essere più perniciosi di quelli del primo Ottocento. Le famiglie italiane hanno molte virtù la vicinanza emotiva, le forti solidarietà tra generazioni, la capacità profondamente radicata di godersi la vita -, tutte caratteristiche che chi viene dal Nord individualista e più freddo invidia. Ma hanno poche virtù civiche e il modello su cui oggi si basa la vita famigliare, quello del mercato globale, non contribuisce a rendere le famiglie italiane più consapevoli delle loro responsabilità complessive.
In tutto questo i meccanismi di trasmissione della cultura moderna hanno un ruolo cruciale. (...) La televisione, come è noto, è lo strumento culturale predominante in circa l’80 per cento delle case italiane. Non è un mezzo, bensì un soggetto, il più potente protagonista culturale della scena contemporanea. La televisione non è un male assoluto, come tentò di teorizzare Karl Popper negli ultimi anni della sua vita. Nella storia italiana essa ha avuto un ruolo essenziale nella diffusione di un’unica lingua nazionale e un senso di comunità nazionale. Ma quando il controllo della televisione è concentrato in pochissime mani e nel caso italiano quasi esclusivamente in due sole mani ben curate, allora è uno strumento profondamente insidioso. Scodella un pasto infinito di soap opera, calcio, varietà e reality show inesorabilmente condito da quantità industriali di spot pubblicitari, tutti orientati a rafforzare il modello «lavora e spendi» della vita quotidiana nel capitalismo consumista. La televisione nella sua forma attuale ci seduce e anestetizza tutti. (...)
IDEE PER CAMBIARE
Non c’è soluzione semplice a questo problema. Una volta ripudiata la violenza, che alternativa resta? Per rispondere a questo interrogativo devo ricorrere ad altre virtù sociali, benché esiterei a classificarle come deboli o forti. Una è la costanza la capacità di non abbandonare una lotta che ha tempi lunghi. L’altra è la creatività, così che nonostante la limitatezza della gamma di azioni possibili, la loro forma possa essere reinventata continuamente.
Aggiungerei anche l’idea delle «riforme mobili», in sostituzione delle barricate mobili usate dai milanesi nelle strade della loro città contro le truppe del maresciallo Radetzky. Non si tratterebbe di «riforme» come quelle di cui oggi si sente parlare la riforma pensionistica (ossia i tagli alle pensioni), la riforma dell’equilibrio dei poteri (ossia distruggerlo), la riforma della Costituzione (no comment). Sarebbero invece riforme che coinvolgono i cittadini stessi in una dinamica di decision making che parte dal basso verso l’alto, come Cattaneo ha sempre auspicato. Idealmente, le «riforme mobili» sono quelle che, strada facendo, portano la gente a interessarsi alla politica, ad autorganizzarsi, a prendere parte continuativa nel processo riformatore. In questo schema gli individui non sono solo i destinatari passivi delle politiche che discendono dall’alto, ma diventano rapidamente cittadini attivi, critici e dissenzienti. Un’idea simile porterebbe al capovolgimento della politica come la conosciamo ora, perché imporrerebbe ai politici di diffondere il potere, invece di concentrarlo. Il concetto delle «riforme mobili» può essere applicato a molte sfere diverse all’ambiente con la raccolta differenziata, il risparmio energetico e altre misure che partono dalle famiglie stesse, alle politiche partecipative con la creazione di veri forum dei cittadini (non quelli fasulli della «consultazione»). In questa dinamica, assimilabile forse a una palla di neve che, in movimento, guadagna sempre più volume, il fine non giustifica i mezzi. Piuttosto i mezzi diventano essi stessi parte del fine.    © Einaudi

il Fatto 22.10.10
Cultura fuori dalla cultura
Non solo libri: la “società intellettuale” deve riconquistare rilevanza. Oggi più che mai può farlo uscendo da confini letterari e misurandosi con i temi politici e sociali del Paese
di Evelina Santangelo


“Come posso far sì che la mia attitudine critica, l’impegno civile, l’esperienza politica non sia una forma di intrattenimento, di mero consumo culturale, un passatempo come un altro?”. Così si interroga Christian Raimo sulla Domenica del Sole 24 Ore di qualche settimana fa, dando voce al disagio di quanti in Italia svolgono un lavoro intellettuale scontando la colpa singolare di appartenere a una generazione destinata a vivere la frustrazione della propria ininfluenza. La ragione di questo stato di cose, secondo Raimo: quel “deserto di cultura” in cui ormai si è tutti calati e che i giornali nella loro noncuranza contribuiscono ad alimentare. Un deserto che – come puntualizza Gianluigi Ricuperati – si nutre di quel genere di risentimento (riversato soprattutto nella blogosfera) legato al sospetto che nulla ormai in questo paese sia conseguito e conseguibile in base al merito.
ORA , al di là delle polemiche sull’“esistenza o meno” di un autore come Raimo che mi sembra avviliscano il dibattito (quasi chiunque in fin dei conti “esiste” per cerchie ristrette di estimatori), non c’è dubbio che, se c’è molto di vero in queste e altre considerazioni fatte da due autori che stimo, c’è anche a mio avviso una forma, diciamo, di autismo, una tendenza a orientare lo sguardo in modo selettivo, volgendolo a quegli ambiti in cui alcune intuizioni trovano conferme puntuali, esatte. Mentre sarebbe proprio il caso di dire con Giorgio Vasta (Repubblica, 19 ottobre) che bisognerebbe davvero “cambiare postura psicologica”, non solo però – aggiungerei – cercando di mettere da parte ogni alibi per emanciparsi e affrontare l’impresa di inventare un “codice culturale” non assunto di peso dai padri come un dato ereditario, ma provando anche a interrogarsi sul proprio ruolo e sulle responsabilità nuove poste, per esempio, dall’odierna frammentazione in cui finiscono per disperdersi ed essere sommerse le diverse voci che, nonostante tutto, oggi di fatto costellano il panorama culturale italiano. Ora, un bel po’ di tempo fa, il 13 febbraio, proprio sul Fatto Quotidiano pubblicavo un articolo, (“Lo scrittore solo”, un articolo forse troppo prematuro per i tempi, chissà) in cui, tra le altre cose, mi chiedevo che genere di responsabilità si dovessero assumere gli scrittori nell’odierno spaesamento e sradicamento e come si potesse spezzare la doppia solitudine in cui molti vivono, ora considerati senza discrimine alcuno come intrattenitori, o produttori qualsiasi di un qualsiasi bene di consumo, ora invece concepiti come simboli cui delegare ogni battaglia etica, politica, culturale (come nel caso di Saviano). In questa doppia solitudine coglievo il segno della irrilevanza sociale dello scrittore nella sua specificità come sintesi di intelligenza immaginazione e cultura “capace di generare visioni” o di “dar voce a ciò che è senza voce”, per dirla con Calvino. Concludevo poi quel pezzo con una considerazione che oggi mi sembra colga appunto i limiti e le potenzialità di questo dibattito.
QUEL CHE potrebbe fare la differenza tra “l’immobilismo” generazionale di cui parla Raimo e una “nuova postura psicologica”, come dice Vasta, è forse proprio una nuova postura spirituale, in cui assieme alla necessità di concepire e dar forma a visioni capaci di interrogare il proprio tempo si sentisse fortissimo il dovere di spezzare il proprio solipsismo più o meno egocentrico, collegandosi il più possibile in una sorta di discorso più vasto e intrecciato, “quel genere di discorsi a più voci – dicevo in quel pezzo – che danno rilevanza a una società letteraria, intellettuale e artistica”. Una “rilevanza” che va prima di tutto conquistata. E va conquistata anche con la capacità di inventarsi luoghi dove tessere trame, riannodare fili dispersi di intelligenze, immaginazioni, saperi. E va conquistata pure –oggi più che mai– con la capacità di innestare l’ordine dei discorsi specificatamente letterari o artistici in altri discorsi scientifici, politici, sociali, identitari, tutti quei discorsi di cui dovrebbe esser fatta la vita civile di un paese civile, in modo da ricostruirne l’ossatura spirituale. Se si volesse guardare con attenzione a quel che sta accadendo nella cultura chiamiamola così, “militante”, di questo paese, si scorgerebbe un filo rosso che forse sarebbe il caso di afferrare e seguire. Un filo rosso con cui da più parti si sta provando a riallacciare un dialogo possibile tra quanti sentono l’urgenza di rifondare in modo laico e problematico il ruolo dell’intellettuale in un tempo e in una circostanza, tra l’altro, in cui si è diffusa la convinzione che si possa fare a meno dell’intelligenza (umanistica e scientifica) o che si debba necessariamente farne a meno per mancanza endemica di intelligenze.
LO SI STA facendo in rivistecome Alfabeta 2, per esempio, nel cui secondo numero si ragiona e si dà forma (in una pluralità di punti di vista) a una terza via tra “informazione culturale” e “intervento politico”: la via cioè dell’“intervento culturale”, con l’intenzione dichiarata di “annodare fra loro fili discorsivi” perduti tra cultura e contesti (economico, sociale e politico). Lo si sta facendo in blog come Nazione Indiana dove si stanno raccogliendo gli esiti di un’ampia inchiesta sulla responsabilità d’autore che ha visto coinvolti, oltre allo stesso Christian Raimo, una trentina di poeti e scrittori di formazione, generazione ed estrazione diversissima (da Biagio Cepollaro a Marcello Fois, da Marco Giovenale a Laura Pugno a Ginevra Bompiani a Michela Murgia...). Lo si sta facendo travasando riflessioni o cercando di far riecheggiare discorsi tra blog e siti diversi (Vibrisse, Giap, Lipperatura, Carmilla, Il Primo Amore...) di quella Rete che sarà pure un “egodromo” ma offre anche, come dice Sergio Escobar, “stimoli formidabili e nuovi spazi per le idee”. Lo si sta facendo cercando di riallacciare dialoghi possibili tra autori e critici come Andrea Cortellessa o Domenico Scarpa... appartenenti più o meno alla medesima generazione di “spaesati”. Tutti tentativi (questi e altri) forse di costruire intanto una sorta di cittadella immateriale dove circolino idee capaci di misurarsi tra loro e con i vari contesti di cui è fatto lo spazio pubblico in un paese civile. Per questo forse non è propriamente un caso, ma l’ulteriore manifestazione di un processo piuttosto, quel che oggi sta succedendo anche sulle pagine della Domenica del Sole 24 Ore.
D’altro canto, ci sono processi che accadono insensibilmente, attraverso piccoli smottamenti privati o condivisi, affioramenti episodici, fino a quando non succede che tutto ciò si intrecci in un’esile trama. Ecco, forse siamo qui, a questa esile trama di “una piccola civiltà” possibile (che oggi, in un paese che ha perduto se stesso, non può essere solo e soltanto “letteraria”, vorrei dire a Christian Raimo). E sarebbe un peccato che se ne perdesse il filo.

Repubblica 22.10.10
Chi si ricorda l´indulto?
A chi serve il "carcere breve"?
In cella meno di 48 ore così i reati più piccoli fanno esplodere il carcere
Quattro detenuti su 10 non hanno precedenti penali
di Enrico Bellavia


Per quale "irragionevole ragione" la popolazione carceraria è così alta, appena quattro anni dopo l´indulto voluto da Mastella?
Mentre il governo si dedica al lodo Alfano e al "processo breve", a chi e a che cosa serve questo "carcere breve"?
Ma quanto costa questa macchina infernale? E quali sono i rimedi proposti dal governo per uscire dall´incubo della bolgia?

ROMA - A ognuno di noi sembra molto ma molto difficile, se ci si comporta più o meno bene, entrare in carcere, in questa Italia. Anzi sembra che nei duecento «istituti di pena» non ci entri nemmeno chi «se lo merita».
Ma non è così. Dall´Unità d´Italia a oggi, nei 170 anni di storia italiana, non si sono mai registrati così tanti detenuti nelle nostre carceri. L´ultimo conteggio ufficiale del Dap, il dipartimento dell´amministrazione penitenziaria, parla di 68.527 detenuti (ma sarebbero già 69.500), tra i quali 3mila donne. Di queste, sessantuno hanno i figli in cella. Rispetto ai 44.568 posti effettivamente disponibili, i detenuti sono circa 25mila in più.
Un terzo non è nato da noi: sono stranieri, con in testa marocchini e algerini, due terzi dei detenuti sono italiani. Da dove nascono le cifre del record? Per quale «irragionevole ragione» la popolazione carceraria è così alta, appena quattro anni dopo l´indulto voluto dall´allora ministro Clemente Mastella? E se i reati, come assicura il ministero degli Interni Roberto Maroni, sono «complessivamente in calo», com´è possibile un incremento così ansiogeno?
LE PORTE GIREVOLI
In televisione «passano» gli arresti dei latitanti, quest´ondata infinita di catture improvvise, che sommerge boss e gregari anzianotti, reduci dei vecchi eserciti mafiosi in rotta. Ma nelle celle vanno ben altri. Per esempio, ci va un calciatore, delle giovanili della Juventus. E perché? Nella Chivasso dell´ultimo ferragosto incrocia una pattuglia dei vigili e vola qualche parola di troppo. E anche se l´arresto per resistenza a pubblico ufficiale è facoltativo, D. B., classe 1988, finisce dentro. Due giorni alle Vallette, sulle brandine sovraffollate, per ricomparire in tribunale il 16 agosto. Con il suo taglio di capelli scolpito, il fisico perfetto e la maglietta alla moda spicca tra gli stranieri e i «borderline» delle direttissime: viene scarcerato, ma due giorni se li è fatti.
Cambiamo regione e professione: Felice e Salvatore sono due operai di Bagheria, hanno 28 anni, non hanno mai avuto un guaio con la giustizia, finché un giorno buttano in un cassonetto della segatura di legno. Lo avevano sempre fatto, alla fine del turno in falegnameria. Ma era appena cambiata la norma, rimasero tre giorni dentro. Qualche anno fa, e ancora ne ridono, entrò a San Vittore un diciottenne che non s´era fermato all´alt nella zona della stazione Centrale ed era scappato con lo skate-board. E a Reggio Emilia, solo quindici giorni fa, è stato messo in cella uno che aveva rubato una lattina di birra.
É il reato che manco si sa di commettere a rendere il carcere una bolgia. Sono soprattutto i «pesci piccoli» – questa è la gran verità, omessa nei discorsi ufficiali sulla sicurezza e la giustizia – che rendono le carceri simili a una tonnara nei giorni della mattanza. E chi si occupa di detenuti accusa del disastro soprattutto le «porte girevoli»: è stato ribattezzato in questo modo il vortice d´ingressi (che si potrebbero evitare) e di repentine uscite.
Come il calciatore, i falegnami e il ladro della lattina. I «nuovi rei», ossia le persone che entrano in carcere per la prima volta, sono 32mila. Uomini e donne, con famiglie, con affetti, che vengono presi, perquisiti, spogliati, che ricevono dalla polizia penitenziaria gli «effetti letterecci» per dormire sulle brande.
Vengono infilati in celle già affollatissime e ci restano, con le nuove, sconosciute e obbligatorie compagnie, non si sa quanto gradevoli, per quarantott´ore. E poi, ancora sporchi dell´inchiostro delle impronte digitali all´ufficio matricola, e con le stringhe da allacciare, ricevono tanti saluti: possono tornare a casa. In Lombardia, il provveditore regionale Luigi Pagano ha calcolato che, nelle due principali case circondariali, Milano e Brescia, la percentuale dei detenuti che «esce nel giro di una settimana varia dal cinquanta al sessanta per cento. A volte arriva uno alle 12 e alle 14 esce».
Mentre il nostro governo si dedica anima e corpo al cosiddetto lodo Alfano e al «processo breve», a chi e a che cosa serve questo «carcere breve»? Non c´è una risposta che sia una. Ma è stato calcolato che quattro persone comuni su dieci, la cui fedina penale era pulita, e che se la potevano cavare con una denuncia a piede libero, incontrano il sistema penale italiano: meglio, ci sbattono contro.
Una parte molto cospicua di questo «entra ed esci» riguarda quelli che vengono anche definiti «reati apparenti», e cioè reati in cui manca la vittima. È il reato principe degli immigrati clandestini, come Frank: era un habitué dei portici di Palermo, ha collezionato un arresto ogni due settimane per mesi («non ottemperava al decreto d´espulsione») fino a quando è riuscito a far perdere le proprie tracce.
Quello cui si sta assistendo – parlano i fatti – è un «repulisti» di poveracci, di stranieri e di tossici, messi nella «discarica» del carcere (sono tutte parole pronunciate nei convegni). Se questo può forse corrispondere a una precisa logica «d´ordine» (ordine almeno apparente, da immagine televisiva e non da strada), il problema non cambia. Il reato piccolo piccolo è in agguato per chiunque: Antonio è un odontotecnico, è stato accusato di un furto di corrente elettrica, si era dichiarato innocente, ma non ha avuto possibilità di difesa, giacché il tecnico dell´Enel aveva portato via il contatore. Quattro giorni di prigione e poi via di corsa a patteggiare, «pur di tornarmene fuori», dice.
Qual è la «colpa principale» per quasi la stragrande maggioranza dei detenuti italiani? Sono i «reati contro il patrimonio»: furti e borseggi. Poi c´è il piccolo spaccio. Molto impegnati nel «turn over» della giustizia sono i tossicomani, arrestati per possesso di droga sul cui uso, personale o per vendita, deve pronunziarsi il magistrato. Ben il 30 per cento dei detenuti è consumatore di droga (e molti sono affetti da epatite C) e dovreste stare in comunità (ma non c´è posto). Per omissione di soccorso, ingiuria e diffamazione finisce dentro il 15 per cento. In fondo alla classifica dei detenuti, ecco i responsabili di reati contro la pubblica amministrazione (3,4) e contro l´amministrazione della giustizia (2,9%).
LE MISURE DELLA TORTURA
E i «cattivi» veri? A conti fatti, solo tre detenuti su dieci – attenzione – si sono macchiati o sono sospettati di crimini violenti. Più paradossale il tema dei «mafiosi in galera»: intere fette di territorio sono in mano ai clan, ma in carcere non arrivano a seimila detenuti. E, tra questi, è il 10 per cento che sconta il famoso o famigerato 41 bis, ossia il carcere durissimo. Quanti? Presto detto: 267 camorristi, 210 esponenti di Cosa nostra, 114 affiliati alla ‘ndrangheta. Una goccia nel mare.
Vale la pena di ricordare che era il 2006 e con l´indulto avvenne «l´esodo dei 23mila». Ma adesso «tutte le Regioni italiane hanno abbondantemente superato la capienza regolamentare», come denuncia il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe. Al Nord non si sta meglio che al Sud. Il top? È in Emilia Romagna: capienza totale 2393, numero dei reclusi oltre 4.400. «In percentuale è il 198 per cento, un dato cronico e destinato a superare ogni limite in Italia», dice Franco Maisto, presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna. «Siamo in un frenetico e imperdonabile immobilismo, "si fa si fa", dicono, e non si fa mai niente in nessuna direzione. Né aumentano i posti letto, né esce la gente».
«Detenuto in attesa di giudizio» è il titolo di un vecchio film, con Alberto Sordi protagonista. Raccontava di un innocente che finiva in carcere. Negli anni dell´inchiesta milanese "Mani pulite", quando a entrare in cella erano politici, finanzieri, imprenditori, molti giuravano: «Mai più, bisogna cambiare le carceri». Comunque la si pensi sul «pugno duro», sul «giustizialismo» o sul «garantismo», il dato è angoscioso: il 43 per cento degli attuali detenuti è in attesa di giudizio.
Dietro le sbarre, dove qualche gangster resiste ancora, e non mancano i balordi, tra tossici e clandestini, gravitano oggi 30mila detenuti senza una condanna definitiva. E – attenzione – la metà di questi «non definitivi», e dunque almeno quindicimila, sarà – la stima è dell´associazione Ristretti Orizzonti – assolta. In Europa, siamo un caso unico.
È grazie a questo paranoico stato delle cose che in cento posti-branda sono ammassate – per statistica – 152 persone. Soltanto in Bulgaria il tasso di affollamento delle carceri è maggiore (155), mentre la media europea è di 107 detenuti ogni 100 posti. I letti a castello arrivano a tre, quattro piani, la testa di chi dorme è a 50 centimetri dal soffitto. Spesso lo spazio vitale del detenuto è molto al di sotto dello standard dei 3 metri quadrati che sono «la misura della tortura».
Il coefficiente, in molte carceri dell´Italia del G8, è del 2,66 periodico: un coefficiente accettabile solo tra innamorati. Caltagirone, in provincia di Catania, è al primo posto per l´indice di sovraffollamento: ospita 302 persone invece delle 75 previste. Lo segue un altro carcere siciliano, Mistretta (Messina), con l´indice al 175 per cento. E la Uil penitenziari fa notare anche il caso di Busto Arsizio (Varese), non enorme, ma con gli arresti dell´aeroporto internazionale della Malpensa, «è pieno come un uovo». Si sta un po´ più larghi a Poggioreale: il carcere di Napoli ha una capienza di 1.658 persone, è arrivato a 2.801, numero che lo rende in termini assoluti quello più popolato d´Europa. Sommando tutti i numeri dei detenuti europei, fa effetto scoprire che uno su quattro si trova in Italia.
L´EXPLOIT DEI COSTI
Ma quanto costa questa macchina infernale? E che rimedi propongono dal governo?
Ogni detenuto costa allo Stato come se alloggiasse in un hotel quattro stelle: 113,04 euro. È questa la cifra media che il Dipartimento dell´amministrazione penitenziaria, indica come costo giornaliero di un detenuto. In totale fanno 2,7 miliardi di euro. La cifra, non certo bassa, viene considerata ben al di sotto del necessario dagli operatori.
L´associazione Antigone, che oggi diffonderà un suo dossier sulle carceri, ha calcolato che se si arrivasse alla cifra dei 44 mila detenuti previsti nelle tabelle, si risparmierebbero 1,5 miliardi di euro. Non mancano neppure sprechi «classici»: come le nuove manette acquistate in confezione da cinque per le quali però, stando a un sindacato, ci sono solo due coppie di chiavi.
Gli agenti sono 39mila contro i 45 mila dell´organico. E seimila assenze pesano: nella sezione femminile del carcere pesarese Villa Fastiggi hanno dovuto lavorare anche agenti maschi, con sconcerto generale. Anche perché, nel gennaio scorso, il ministro Angiolino Alfano, in un incontro con i sindacati della polizia penitenziaria, aveva rassicurato tutti. Come? Annunciando diciotto nuove carceri, di cui dieci «flessibili». E garantendo – parole sue – le «tanto agognate 2mila unità».
Risultato reale? Zero. Ma questo di Silvio Berlusconi non era il «governo del fare»? Un altro anno galeotto sta finendo, e tra due mesi scade anche il decreto ministeriale che aveva nominato commissario straordinario Francesco Ionta.
I «Baschi azzurri» della polizia penitenziaria fanno le scorte. Ma – chiedono da qualche tempo – ha senso organizzare trasferte «di almeno tre uomini» non per i mafiosi, ma per chi sta per essere rilasciato? «Partiamo in tre con il cellulare – è il racconto concreto – per trasportare in un´altra regione qualcuno che va ai domiciliari, lo salutiamo e lo lasciamo libero anche... di evadere», protestano. È anche successo che, durante un trasferimento, il furgone cellulare si sia fermato: siccome si taglia su tutto, nel serbatoio non c´era più benzina.

Repubblica 22.10.10
Il triste rosario dei suicidi: 54 nel 2010 "Troppa gente, difficile controllare tutti"


MILANO - Mancano settanta giorni alla fine dell´anno e nelle carceri italiane ci sono stati 54 suicidi. Sono stati superati i bilanci del 2007 e del 2008. Proviamo a capire che cosa succede con Luigi Pagano, «capo» delle diciotto carceri lombarde: «Il problema è "non perdere di vista" quello che succede nonostante il sovraffollamento, e non è facile».
Qual è un´idea possibile?
«Niente di speciale, per carità, ma a determinare i suicidi ci sono due fenomeni. Uno è la scelta personale, e a volte non si può fare nulla. L´altro è sentirti sperduto, impaurito, un derelitto. È chiaro che se il numero degli ingressi è così alto come oggi, rischi di non riuscire a seguire tutti. Ma il personale è abituato a dire che ci troviamo in "un luogo di speranza" e a evitare il più possibile lo stress da primo ingresso».
La "speranza" è quella di uscire?
«Non solo. Anche speranza di capire qualche cosa. Ma si fa fatica, perché le risorse sono tarate per un certo numero di detenuti, noi siamo sotto organico, se entrano tanti detenuti di più, fatichi a controllare la situazione. Se prima percepivi i segnali, ora rischi di non percepirli».
San Vittore, milleseicento uomini, cento donne, quando dovrebbe averne novecento al massimo...
«Sì, ma tra entrate e uscite sa quanta gente passa in un anno da San Vittore? Abbiamo dodicimila movimenti, è chiaro che se uno ti vuole "fregare", ci può riuscire».
In tutta Italia ci sono oltre 260 gli operatori picchiati. Siamo tornati alla stagione delle carceri in fibrillazione?
«Nonostante tutto non mi sembra, la conflittualità c´è, ma è endemica. Il livello di animosità non è aumentato, almeno in Lombardia, anzi è inferiore rispetto a quello che potresti aspettarti. Su 9.300 detenuti in tutto, i suicidi sono stati tre. È dura, ma ancora ce la facciamo. Spero anch´io, non solo il detenuto».
(p.col.)

Repubblica 22.10.10
Visite fiscali chi è depresso può uscire


ROMA - È sufficiente fornire «un serio e fondato motivo che giustifichi l´allontanamento dal proprio domicilio» per il lavoratore in malattia perché affetto da sindrome depressiva ansiosa, che non si trova a casa al momento della visita fiscale. «La gravità» di questo «stato patologico», infatti, può giustificare l´assenza nelle ore di reperibilità e il datore non può usarla come scusa per licenziare. Lo ha stabilito la Cassazione, confermando il reintegro sul posto di lavoro, disposto dal Tribunale di Taranto, di una donna, afflitta da sindrome depressiva ansiosa, licenziata perché sorpresa fuori casa nella fascia oraria in cui avrebbe dovuto essere reperibile.

Repubblica 22.10.10
L´anticipazione/Un testo di Herta Müller in uscita per Sellerio

Istruzioni per gli uomini davanti a un regime
di Herta M
üller

Il premio Nobel e il comportamento di fronte a una dittatura: "Non è vero che non c´è nessuna differenza tra il venire a patti e il rifiutare le complicità"

Anticipiamo un brano dal libro del premio Nobel "In trappola", che esce oggi da Sellerio
on tutto quello che so del nazionalsocialismo, dello stalinismo, del socialismo post-stalinista, credo che gli esseri umani in tutte le dittature, per diverse che siano, si trovino di fronte essenzialmente alle stesse situazioni. Le elenco come ipotesi, sapendo che sono solo schizzi, che tra esse ci sono molte altre condizioni. E che nelle situazioni concrete le sfumature delle singole ipotesi si mescolano. Mi allontano con ciò dai testi letterari, cerco di trovare una sorta di visione d´insieme, per proiettare nell´Oggi i singoli Allora di questi testi. Poiché oggi molti di nuovo affermano, quando si parla della Ddr prima della caduta del muro, che non vi sarebbe nessuna differenza tra il venire a patti e il rifiutare.
1) Può essere:
Uno si mette a disposizione senza che glielo si chieda, volontariamente. Vuole una posizione e i privilegi connessi. A volte potrebbe essere solo un pezzo di pane più grosso. Tra i volontari non c´è in gioco nessuna paura ma solo il desiderio di riconoscimento e autorità. Il volontario vuole decidere degli altri, nonostante la sua mediocrità, di cui è consapevole ma che non ammetterà mai dinnanzi ad altri. (...)
Dirà poi che continua a credere nella giustizia delle sue azioni, che voleva il bene per tutti. E che questo era, di fatto, il bene, ma che non era stato capito ed era stato mal interpretato.
2) Può essere:
Uno si mette a disposizione perché glielo si chiede. Qui c´è già in gioco la paura e in testa un po´ di insicurezza, un po´ di coscienza sporca. E tuttavia lui si mette velocemente il cuore in pace, nota che ne valeva la pena. La coscienza sporca svanisce, perché la sua vita scorre senza intoppi e i giorni sono sicuri. La sua paura non scompare. Serve la trappola, diventa un colpevole pauroso. (...)
Dirà poi di aver sempre agito conformemente alle leggi in vigore. Che all´epoca era così e che col rifiuto non avrebbe potuto cambiare nulla. No – dirà – ciò non era bene, ma lui già allora non ci credeva e soffriva in silenzio. Ma in fin dei conti doveva guadagnarsi da vivere e bisognava dar da mangiare alla famiglia e inoltre – dirà – lui è cambiato. Avrà uno sguardo contrito e parlerà prudentemente piano, e tuttavia in ogni frase una parolina di allora lo tradirà. Non lo noterà.
3) Può essere:
Uno si metterebbe a disposizione ma non si chiede di lui. Non dichiara la sua appartenenza allo stato. Non ne sente nessuna. Ma, qualora lo si richiedesse, affermerebbe il contrario e si metterebbe subito a disposizione. Direbbe che si era già da tempo proposto di dichiarare la sua appartenenza. Che purtroppo non aveva potuto trovare la spinta per farlo. Che si rallegrava che finalmente si chiedesse di lui. Che aveva ora la possibilità di fare ciò che per lui era già da tempo un bisogno.
La partecipazione gli viene risparmiata. Sa che non si conta su di lui, che questo è un bene, ma è anche un rischio costante. È combattuto ogni giorno tra due opposte paure: la paura per l´oggi, la paura per il dopo. Oggi gli si potrebbe chiedere: Perché non ti sei messo a nostra disposizione? Dopo gli si potrebbe chiedere: Perché ti sei messo a loro disposizione? Vive timidamente. Non vuole necessariamente piacere allo stato, ma in nessun caso dispiacergli. Vive assente e muto. Diventa complice. (...) Il complice poi dirà, senza che sia stato interrogato, di aver sempre espresso il suo parere senza paura. E alla domanda sul perché non fosse perciò caduto in trappola, risponderà con un´alzata di spalle: Mah! Non era poi così grama all´epoca.
4) Può essere:
Uno non si mette a disposizione. Glielo si chiede e lui rifiuta. O non glielo si chiede più, è già troppo tardi per lo Stato. Poiché egli dice, senza che glielo si chieda e ben chiaro, quel che pensa. E se per caso tace, si sa che è ancora peggio. È uno che rifiuta e diventa nemico dello Stato. (...)
Se, dopo la caduta del regime, non è stato in qualche modo danneggiato, è morto. La morte avvenuta in prigione è stata registrata come arresto cardiaco. L´essere investiti da una macchina liquidato come incidente. L´uccisione per mezzo di defenestrazione, impiccagione, annegamento, inscenata dai colpevoli paurosi come suicidio. Gli amici lo sanno ma non sanno come provarlo, l´autopsia è stata negata. Se è stato solo danneggiato, dunque vive, ha morti nella sua piccola cerchia di amici. Ha anche fatto spesso esperienza di minacce di morte. E per il resto dei suoi giorni si chiederà perché la trappola sia scattata per gli altri e non per lui. Non può scorgere per quale ragione i colpevoli abbiano in certi casi solo preso in considerazione l´uccisione e per quale ragione invece l´abbiano in altri casi commessa. Dal momento che egli si nega al regime, si nega anche alla logica dei suoi apparati e non la capisce. (...)
Dei quattro tipi di persone abbozzati, ciascuno può essere uno scrittore. Ma solo l´ultimo tipo nominato non ha nessuna facilità a scrivere. Ciò che egli scrive deve percorrere ancora una volta quegli stessi gironi in cui è stato scaraventato l´essere-ancora-in-vita. Quel che poi sta su un foglio non è letteratura nel senso comune, ma il ricadere su di sé. È uno scrivere così angusto e senza via d´uscita come il pericolo stesso. Alla lettura la trappola scatta di nuovo. L´ammirazione di questi testi fa male. Alla lettura entra in gioco la paura. Paura retrospettiva per l´autore, ma anche paura per se stessi.
2009 © Herta Müller / Carl Hanser Verlag München 2010
© Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria

Repubblica 22.10.10
La filosofia è un personal trainer
Le idee di Peter Sloterdijk hanno conquistato Habermas e gli studiosi francesi
Ora esce in Italia uno dei suoi saggi più importanti. Per "allenarci" a un´altra vita
"Non si può sperare di cambiare il mondo ma solo di migliorare se stessi"
"Si deve ritrovare il senso della disciplina come pratica e come metodo"
di Marco Filoni


Quando Peter Sloterdijk scrive un libro, in Germania e in Francia, diventa un evento. Da noi non è ancora così noto. Eppure il filosofo di Karlsruhe, classe 1947, domina la scena tedesca come non succedeva da decenni. Già nel 1983, il suo esordio con la Critica della ragion cinica viene definito dal decano Jürgen Habermas come l´avvenimento più importante dopo il 1945. Perché mina i principi dell´Illuminismo e propone un maquillage del cinismo greco per uscire dallo stallo del moderno. Da quel momento diventa un riferimento: con le sue eccentriche, ma solidissime, ricerche colma il vuoto di tante asfittiche variazioni filosofiche. Affrontando, anche in modo provocatorio, la concretezza dei problemi attuali. Lo dimostra il suo ultimo libro, Devi cambiare la tua vita, in libreria per Raffaello Cortina. In Germania ha venduto 50.000 copie in soli due mesi. Un record per un libro di filosofia di quasi 600 pagine. Un libro nel quale, analizzando la condizione umana, Sloterdijk ci dice che siamo alla deriva. Ma possiamo salvarci con l´allenamento, praticare esercizi che ci migliorino. Dobbiamo cambiare vita.
Professore, cosa significa questo imperativo?
«È quello che io chiamo imperativo assoluto. Una sorta di provocazione insormontabile. Che si muove su una sconvolgente scoperta, fatta agli inizi delle così dette civiltà avanzate: l´uomo è un essere stratificato. Del resto l´idea è presente, ai giorni nostri, nell´opera di Freud. Quando descrive l´anima la raffigura come una regione su tre piani: nel solaio, al primo piano, abita il super-io; nel pianoterra c´è l´io; nello scantinato c´è l´es. Da questa stratificazione si sviluppa quella che chiamo tensione verticale».
Lei raffigura questa tensione come una scalata, un´ascensione verso il miglioramento di noi stessi. Ma quali sono i mezzi per compiere questa scalata?
«La vita dell´essere umano non è soltanto una vita omogenea, pacificata e felice. Sente una tensione verso l´alto, una competizione a essere migliore rispetto ai suoi simili e a sé stesso. Un´idea espressa nei sistemi di esercizio antichi. I primi a incarnare questo modello, nella tradizione occidentale, sono stati gli atleti. Ma poco a poco si è generalizzato, è diventato un´ambizione di vita che ha formato il nucleo della nostra concezione filosofica della paideia, l´educazione. La paideia classica dei greci è una sorta di democratizzazione delle pretese atletiche. Non a caso Platone ha forgiato il termine philo-sofia sul modello della parola più antica philo-timia, che designava la virtù degli atleti a lottare per l´amore della gloria».
È una tradizione riscontrabile solo nei greci?
«No, affatto. La storia continua con il cristianesimo. I primi monaci orientali si erano denominati atleti di Cristo. E vivevano nell´asketeria, cioè luogo di allenamento: questo il primo nome di quello che più tardi avremmo chiamato monastero. Perciò i primi cristiani si allenavano a imitare il Cristo, l´essere umano che ha raggiunto la cima dell´autoperfezione divenendo il figlio di Dio, sviluppando la facoltà di vincere la morte e realizzare così l´ascensione verso il cielo. In questo senso la verticalità è l´idea più radicale della nostra storia. Imitare il Cristo è partecipare a un gigantesco esercizio di antigravitazione umana. I primi cristiani erano tutti discepoli dell´arte dell´antigravitazione».
Eppure nelle sue pagine lei ipoteca la religione. Addirittura sembra voler spogliare la teologia del suo carattere divino.
«Il mio proposito è far cadere il concetto di religione. È una conseguenza che traggo dalla teoria generale dell´esercizio. È più giudizioso descriverla con una terminologia legata all´allenamento. Quindi propongo una naturalizzazione del concetto di religione per esprimere la sua verità in termini immunitari. La religione è il primo sistema immunitario dei gruppi umani, un sistema d´immaginazione che promette loro la salvezza. Ma la salvezza non è gratuita: è il risultato di un´attività permanente, uno sforzo di solidarizzazione collettiva che dovrà essere regolarmente ripetuto. Solo così gli uomini possono immunizzarsi contro la paura della morte e della dannazione eterna. E questa immunità è acquisita attraverso l´allenamento».
Il sottotitolo del suo libro è Sull´antropotecnica. Cos´è?
«La definisco come la somma degli esercizi e delle pratiche attraverso le quali gli esseri umani elaborano il loro potenziale. Allo stesso tempo è la somma delle tecniche che gli individui utilizzano per mettersi in forma. Quindi un ambito della conditio humana che bisogna finalmente integrare nell´antropologia generale».
E quali sono le conseguenze politiche?
«L´antropotecnica nasce nella sfera politica durante la rivoluzione russa. I rivoluzionari sono stati i primi a fare apertamente la propaganda del miglioramento dell´uomo. In origine il termine compare nell´enciclopedia sovietica del 1926. Nasce dall´ideologia di Trotsky, che voleva creare una nuova umanità con un livello medio più elevato. Ovvero un mondo di geni, in cui al confronto Goethe o Michelangelo apparissero addirittura mediocri. Si può dire che è la ricezione dell´idea nietzscheana del superuomo asservita all´ideologia rivoluzionaria. In rapporto a ciò, oggi l´ideologia cattolica predica la modestia: l´uomo è così com´è. Anzi, meglio che vi rimanga più a lungo possibile. È un atletismo piatto, uno sport di massa senza vere ambizioni. Si è perduta la grande tensione dell´età classica. La generazione contemporanea ha dimenticato il concetto di antigravitazione e di tensione verticale. E se vi è un elemento pedagogico nel mio libro, consiste nella volontà di ricordare questa dimensione».
Quindi il filosofo oggi è una specie di allenatore che deve contribuire a indicare gli esercizi per esser migliori. C´è una certa assonanza con l´idea di Alexandre Kojève, che diceva di non esser più interessato ai filosofi ma soltanto ai saggi…
«In un certo senso ha ragione. La filosofia in quanto tale ha già giocato la sua ultima carta. E non ci si può più attendere molto da lei. Ma bisogna dire che il saggio kojèviano è legato al compimento del sapere, alla chiusura del grande ciclo della riflessione umana. Dopo il desiderio, dopo la storia, dopo la lotta, il saggio partecipa al Sapere Assoluto o lo realizza lui stesso. Un´idea molto stimolante e seducente, ma riservata a chi oggi può permettersi di vivere di rendite, senza la costrizione del lavoro. Ma tutti noi che invece continuiamo a lavorare siamo fuori portata dalla tentazione kojèviana. Per noi la storia continua, il lavoro continua…».
Quindi oggi a che serve la filosofia?
«Ci sono due risposte contrastanti. Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, e negli anni che seguirono, la risposta era: la filosofia serve a interpretare e preparare il miglioramento del mondo. Così però la filosofia è una sorta di serva della sociologia, come nel Medioevo si diceva lo fosse della teologia. C´è poi una seconda risposta, accennata nel secolo scorso e che va ripresa: prima di migliorare il mondo esterno, l´individuo deve migliorare sé stesso».

Corriere della Sera 22.10.10
Effetto Vendola. Bersani fa il Pd di lotta
di Maria Teresa Meli

qui

l’Unità 22.10.10
Sinistra e libertà da oggi si fa partito Ma a Vendola sta già stretto
Da oggi a domenica a Firenze il congresso fondativo di Sinistra e libertà. Vendola leader indiscusso, sfida aperta al Pd. «È un’operazione fallita», si legge nella mozione. 1500 delegati, tra gli ospiti Epifani e Landini.
di Andrea Carugati


A lungo atteso dai militanti, il partito di Sinistra e libertà nasce questo fine settimana a Firenze. Sembra passato un secolo dall’autunno scorso, quando il progetto sembrava naufragare, prima il divorzio dei Verdi di Bonelli, poi i socialisti di Nencini. E Mussi sconsolato che diceva: «È più facile dividere l’Australia che riunificare la Polinesia». E invece in quest’anno il ciclone Vendola ha cambiato tutto. La rielezione in Puglia, e poi la candidatura alle primarie, hanno fatto mutare direzione al vento. E ora i sondaggi premiano il nuovo partito che nascerà al Teatro Saschall di Firenze e che già prima delle ultime regionali ha messo «Vendola» nel simbolo: tra il 4 e il 7%, comunque in netta ascesa rispetto alle regionali di marzo, quando Sel ha avuto una media del 3%, nonostante il picco del 9% in Puglia. E un problema ancora irrisolto, il Nord, dove è rimasta poco sopra l’1%. 42mila gli iscritti, in gran parte in Puglia, Lazio e Campania.
Il cammino interno, tra vendoliani, ex Sinistra democratica, e i fuoriusciti dai Verdi e dal Pdci è stato tortuoso, gli equilibri difficili da trovare, tra complicate quote di vecchie identità da preservare e personalità riottose ad arrendersi all’idea del leader unico. Alla fine Vendola sembra aver messo tutti d’accordo. Ma, paradossalmente, proprio ora che il sogno del partito si realizza, Sel è meno decisiva nella strategia di «Nichi», che ha già le sua fabbriche attive in tutta Italia e, con le primarie, si candida a lanciare un’opa direttamente sugli elettori del Pd, come ha fatto per due volte nella sua Puglia. «Il nostro obiettivo non è il 5 o il6%, ma far spirare un vento di cambiamento, che metta in moto tutto il centrosinistra», ha spiegato Vendola.
DISCORSO DA CANDIDATO PREMIER
Vendola sarà eletto presidente di Sel (a scrutinio segreto, o forse per acclamazione) domenica pomeriggio dai 1500 delegati, dopo la sua relazione di chiusura. Oggi, aprendo i lavori, traccerà la sua idea di Sinistra «oltre il Novecento». «Non sarà un discorso rivolto al partito, ma da leader che si candida a guidare il Paese», spiegano i fedelissimi. «Sel sarà il germe per costruire una grande sinistra in Italia, non l’ennesimo partitino», spiega Franco Giordano. «La destra e il centro si stanno ristrutturando, così sarà anche a sinistra. Il Pd non ha risolto il problema, anzi è parte del problema».
Nella mozione congressuale (unica) il giudizio è ancora più netto: «Il Pd è una operazione fallita». Non proprio un benvenuto alla delegazione democratica che arriva a Firenze, guidata da Anna Finocchiaro. Ma il rapporto col Pd, certamente con gli ex Ds, non è in discussione. Alla proposta del leader Prc Ferrero, che chiede a Sel di abbandonare l’idea di un’alleanza con i democratici e costruire una Linke all’italiana, Giordano risponde secco: «Una proposta senza senso, noi vogliamo costruire l’alternativa a Berlusconi». Solo che vogliono costruirla da sinistra, a modo loro. La prima, che dà il titolo al congresso, è «Riaprire la partita». Tra gli ospiti Epifani e il leader Fiom Landini. Ci sarà anche Bertinotti, il “padre nobile”.

il Riformista 22.10.10
Il candidato Vendola si fa il suo partitino personale
di Ettore Colombo

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il Riformista 22.10.10
Tutti sicuri che solo N Panoramacel’ha con Nichi Vendola?
di Antonello Piroso

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