venerdì 15 ottobre 2010

il Fatto 15.10.10
Università in ginocchio per i tagli. Proteste in tutta Italia
Tremonti: “Fondi a fine anno”. Ma non dice quanti
di Caterina Perniconi


“Berlusconi, se hai i capelli è solo grazie alla ricerca”. Provano a scherzarci sopra con uno striscione irriverente gli studenti e i ricercatori scesi in piazza Montecitorio per protestare contro la riforma del ministro Mariastella Gelmini. Ma non hanno molta voglia di ridere: “Questi tagli distruggono l’Università pubblica e la legge la renderà sempre più privata” spiegano i manifestanti, che nonostante lo slittamento del ddl, che non verrà discusso prima della sessione di bilancio della Camera, continuano la loro lotta contro il provve-
dimento. Ieri, mentre il governo varava la manovra Finanziaria, studenti e ricercatori hanno sfilato fianco a fianco in molte città e occupato la sede della Conferenza dei rettori a Roma. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, in conferenza stampa non ha fatto assolutamente nessuna cifra. Ha promesso di “mettere più soldi possibile” per la riforma dell’Università, ma ciò avverrà “a fine anno”. Il che significa che gli anni accademici dovrebbero partire senza sapere su quanti soldi potranno contare gli atenei.
Dimenticati i precari
A QUESTE condizioni i ricercatori non ci stanno e continuano lo “sciopero” della didattica, che poi un vero sciopero non è, trattandosi solo del rispetto delle loro formule contrattuali. I precari, completamente dimenticati dal governo, accettano con difficoltà la
protesta di una fascia docente già assunta che chiede diritti, maforsequestotipodicontestazione sarà il primo che dimostrerà realmente cosa sta succedendo nelle Università. Perché l’offerta formativa sarà ridotta, e senza soldi non si potranno rimettere insieme i pezzi.
Dopo i presidi del Politecnico di Torino anche la preside di Scienze Matematiche dell’Università di Milano, Paola Campadelli, è stata costretta ad avvertire gli studenti e le famiglie dei disagi che la riforma in itinere e i tagli previsti dal governo porteranno alla riforma: “L’Università si trova in grave disagio – spiega la preside – a causa delle recenti manovre finanziarie (giugno 2008 e giugno 2010) e dei problemi che il disegno di legge di riforma dell’Università, in discussione in questi giorni alla Camera, potrebbe provocare se non opportunamente finanziato ed emendato”. Nella lettera viene spiegato che lamediadispesaperognistudente è molto inferiore rispetto alla media europea (8.500 euro contro 13.000), si fa riferimento al taglio del 18% del fondo di finanziamento ordinario e a quello per i progetti d’interesse nazionale.
“Il ministro Gelmini ritiri la sua polpetta avvelenata e ridia futuro al Paese” ha dichiarato il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro. “I ministri Gelmini e Tremonti – ha denunciato Di Pietro – hanno tolto 8 miliardi di euro alla scuola pubblica, 1,2 miliardi all’università e hanno mandato 140 mila insegnanti per strada. Altro che riforma, queste scelte nascondono soltanto un disegno ben preciso: far trionfare l’ignoranza, cancellare la meritocrazia agevolando così solo gli istituti privati”. Mentre per il leader della Lega umberto Bossi, il
problema non esiste: “I soldi si troveranno, ci penserà Tremonti”.
Manifestazioni da nord a sud
EPPURE nella “padana” Milano le proteste continuano, eccome. Ieri i ricercatori hanno fatto lezione in piazza e hanno sfilato in corteo insieme agli studenti. A Torino il Politecnico è occupato. A Trieste sono state fermate tutte le attività per mezz’ora, dalle 11.30 alle 12.00 . A Firenze lezioni “aperte” all’ospedale Carreggi. A tenerle i docenti della facoltà di medicina. In segno di protesta è stato esposto uno striscione con la scritta “il ddl Gelmini e la Finanziaria uccidono l’università. Non lasciamola morire!”. Mentre nel corso di una manifestazione i ricercatori dell’Università di Bari hanno bruciato i loro curricula in piazza. “Si tratta di un atto simbolico importante – hanno spiegato – perchè i curricula sono il nostro bene più prezioso, che rischia di essere negato, mortificato, ignorato nel nuovo modello di Università voluto dal governo dato che il provvedimento governativo non fa altro che aumentare il precariato nelle università pubbliche”.

l’Unità 15.10.10
Epifani: va fermata l’offensiva
contro i diritti dei lavoratori
Il segretario Cgil: la situazione di molte persone è drammatica e il governo è allo sbando Maroni faccia quel che gli compete per mantenere la sicurezza, ma perché parla ora?
di Oreste Pivetta


Domani la grande manifestazione di Roma e ieri sera il ministro Maroni va in scena a Porta a Porta, con Bruno Vespa, per annunciare «elevato rischio» e possibilità di «infiltrazione di gruppi violenti». Guglielmo Epifani, che chiuderà la giornata romana, commenta: «Strano che il ministro esprima le sue preoccupazioni in televisione e solo dopo con il sindacato. Non capisco le sue dichiarazioni all’ultimo momento, se sia un modo per scaricare responsabilità o altro. Gli chiedo solo di lavorare al massimo, per quanto gli compete, per prevenire incidenti e garantire l’ordine pubblico». Comunque, chiediamo a Guglielmo Epifani, come vi sentite? Sotto osservazione?
«Diciamo intanto che la manifestazione è una manifestazione sindacale e che sindacale resta, pur sapendo della forte presenza di movimenti. Ho già detto: se succedesse qualcosa sarebbe una giornata persa per far valere le nostre ragioni. Il nostro impegno, perché violenze non ci siano sarà assoluto, perché sappiamo bene che esistono limiti invalicabili: non si scagliano candelotti, non si invadono le sedi degli altri. Non si può essere ‘non violenti’ e poi giustificare certi atti, che rappresentano l’opposto del confronto che noi ricerchiamo sempre. Non esistono due verità. Di verità ce n’è una sola: la nostra dice che è inaccettabile la violenza». Veniamo ai contenuti. Su che cosa punterà nel suo discorso, che sarà probabilmente il suo ultimo da segretario della Cgil?
«Al cuore del discorso deve stare ancora la denuncia della grave crisi che stiamo attraversando e dell’uso che se ne sta facendo per colpire i diritti dei lavoratori, deve stare la denuncia dell’assenza di una politica che dia risposte alle necessità di tante persone, in condizioni drammaticamente pesanti. Basterebbe rileggere i dati della cassa integrazione, della disoccupazione, i numeri del precariato, rileggere le storie di tante aziende a rischio chiusura, ascoltare le proteste di contadini come in Sardegna e di operai un po’ ovunque, riflettere sui rapporti della Caritas a proposito di povertà. Mentre il governo appare allo sbando, da un lato incapace di affrontare i nodi di una politica che aiuti le famiglie, che sostenga il lavoro, che dia stimolo agli investimenti, dall’altra dominato nelle sue strategie da due obiettivi: un ferocissimo controllo del bilancio pubblico e l’attacco sistematico ai diritti dei lavoratori. Di fronte a questa alternativa, mi pare che si sia rotto, in parte almeno, quel patto che l’impresa aveva stipulato con il governo. Si cominciano ad avvertire scricchiolii, che la Marcegaglia cerca con cautela di rappresentare e che sono in realtà ben più numerosi. Come se l’impresa avesse dapprima considerata giusta una linea di grande rigore, che la mettesse al riparo dalla tempesta finanziaria, contando poi su una ripresa più rapida e sostenuta. Invece cresciamo pochissimo e si avverte al tempo stesso la divaricazione tra la spinta alle attività produttive decisa negli altri paesi e il nulla o quasi proposto dal nostro governo».
La vicenda dell’università è emblematica di un governo diviso... «Siamo al paradosso perché il minimo del minimo che il governo aveva promesso per sistemare un po’ di ricercatori e garantire un filo di prospettiva viene bloccato dalla rigidità della manovra di Tremonti».
In compenso ci hanno regalato il federalismo... «Il federalismo è una impresa a grande rischio, perché con una politica così rigida di bilancio anche le risorse necessarie per un federalismo solidale non sembrano alla portata. Ne parlerò e parlerò naturalmente della vicenda dei precari, in particolare della pubblica amministrazione, dell’attacco al contratto nazionale, dell’attacco ai diritti dei lavoratori...».
Lei lascia, mentre appaiono assai difficili i rapporti tra la Cgil e la Cisl e tra la Cgil e la stessa Fiom.
«Con la Fiom non direi, perché per quanto riguarda il contratto nazionale la strada imboccata dalla Fiom sia giusta e che la scelta di Federmeccanica sia inaccettabile oltre che assai delicata. A proposito di Pomigliano, anch’io penso che non ci fossero le condizioni per firmare, ma non perché ci chiedessero di lavorare di più, ma perché pretendevano di mettere sotto controllo i comportamenti delle persone in un modo che va al di là di diritti indisponibili anche per il sindacato. Siamo convinti però che per superare questa situazione serva una proposta che ci consenta di rientrare nel gioco di una revisione della riforma contrattuale. Con una nostra proposta saremmo tutti più forti, sarebbe più forte la Fiom». Qualcuno accusa: protesta debole, serve lo sciopero generale.
«Ne abbiamo appena fatto uno. E poi ricordo la manifestazione della Cgil di novembre. C‘è un’altra necessità, quella di tenere unito il fronte rivendicativo. Dobbiamo tenere temi e obiettivi come il rinnovo della cassa integrazione, la crisi industriale, la condizione dei precari, la richiesta di politiche industriali, la questione del peso fiscale per i lavoratori indipendenti e per i pensionati, il rispetto dei diritti contrattuali, contro le deroghe e l’accordo di Pomigliano... Non siamo come nel 2001, quando l’attacco fu su un punto soltanto, sull’articolo 18. Siamo di fronte a una politica che rischia di far precipitare le condizioni dei lavoratori».
Rischiando di trovarvi senza interlocutori. «Siamo in una fase di assoluta incertezza nell’azione del governo... Ma non è che possiamo fermarci, perché comunque il governo procede: vedi il collegato sul lavoro con l’arbitrato che potrebbe diventare nella sostanza quasi obbligatorio».
Il suo personale bilancio?
«Sono diventato segretario in una fase di divisione, ho lavorato per ricomporre l’unità. Mi ritrovo a fare i conti con un’altra forte divisione. E questa è la cosa che più mi rammarica. Siamo di fronte a una profonda lacerazione sul ruolo del sindacato. Anche se esistono altri segnali: in fondo sono stati firmati unitariamente cinquanta contratti e si fanno ancora scioperi insieme. Certo che iniziative come di sabato scorso della Cisl non aiutano. Quando c’erano tutti i presupposti perché in piazza sul fisco si scendesse assieme».
Che cosa manca?
«Mancano momenti di confronto con i lavoratori. La paura di confrontarsi nei luoghi di lavoro fa male alla ripresa dell’unità».

Corriere della Sera 15.10.10
L’imbarazzo del Pd anche con gli alleati per la manifestazione
di Maria Teresa Meli


ROMA — L'allarme lanciato dal ministro dell'Interno Roberto Maroni divide un Pd già diviso. Rafforza le perplessità — che in alcuni casi sono vere e proprie ostilità — nei confronti della manifestazione della Fiom, da una parte, mentre dall'altra suscita lo sdegno di quanti domani scenderanno in piazza. Pier Luigi Bersani, che non parteciperà al corteo, era stato già avvisato della possibilità di provocazioni ed eventuali infiltrazioni.
Ma se il segretario domani non ci sarà, al fianco dei metalmeccanici della Fiom sfilerà invece uno dei suoi pupilli, il responsabile economico del partito, Stefano Fassina, uno dei giovani su cui il leader punta molto. È stato proprio lui a tenere i rapporti con la Fiom in questi ultimi giorni e a rassicurare il sindacato, lasciando intendere che comunque il Pd non si defila.
Del resto, le divisioni dentro il Partito Democratico sono trasversali. Per un Fassina che partecipa convinto alla manifestazione, c'è un Enrico Letta che fa sapere che lui domani sarà in quel di Prato a un convegno della Confindustria. Divisioni anche tra i 75, la corrente di minoranza del partito. Per il veltroniano emergente Andrea Martella «il Pd farebbe bene a stare lontano dalle piazze». Martella è convinto che un partito riformista ha poco o nulla a che spartire con le battaglie della Fiom. Invece secondo il senatore Roberto Della Seta, della stessa componente, l'iniziativa della Fiom è sacrosanta: «È inaccettabile che la ripresa della nostra economia possa avvenire riducendo i diritti dei lavoratori».
Il partito di Bersani come tale non ha dato l'adesione ufficiale. Anche se in molti andranno. «Chi ci va, lo farà solo a titolo personale», spiega Sergio D'Antoni ex leader della Cisl, che aggiunge: «Se non siamo andati alla manifestazione di sabato scorso di Cisl e Uil, a maggior ragione non possiamo andare a quella della Fiom».
La linea è «né contro la manifestazione, né a favore». Ma non risolve i problemi del Pd. Tant'è vero che la tensione, dentro il partito, tra gli amici della Cisl e quelli della Cgil è ancora forte. E questa linea in realtà non risolve nemmeno i problemi che il partito ha con gli alleati del nuovo Ulivo che verrà. I Vendola, i Nencini, i Verdi, Di Pietro, saranno tutti in piazza, domani. E c'è da scommettere che saranno pronti a puntare il dito sul Pd che un po' manifesta e un po' no.
E ancora: molti centristi del partito sono in sofferenza. Marco Follini vede una deriva «che rischia di farci finire come i Progressisti del '94». Europa, il quotidiano dei «Democrats», avverte: «Il Pd eviti il collateralismo, sarebbe un colpo mortale». E auspica che, al contrario, il Pd abbia «una sua linea da contrapporre al conservatorismo sindacale».
Scatenatissimi gli ex ppi. Beppe Fioroni è contrario senza se e senza ma. Riferendosi agli assalti alla Cisl parla di «nuova strategia della tensione da non sottovalutare». A suo giudizio, se il Pd prendesse sotto gamba quanto sta avvenendo compirebbe «un grosso sbaglio», perché «non si possono mettere sullo stesso piano le vittime e i carnefici». Dove è chiaro chi per Fioroni, tra Cisl e Fiom, chi sia la vittima e chi il carnefice. Per il responsabile Welfare, che è uno dei leader dei 75, «non basta non andare al corteo come partito, bisogna prima di tutto condannare la violenza». E su questo punto, secondo Fioroni, il Pd non ha ancora fatto abbastanza: bisogna «compiere un altro passo», altrimenti il rischio è quello di comportarsi, «senza volerlo», da «fiancheggiatori».

l’Unità 15.10.10
Italia 2010. Il pensiero smarrito
L’analisi Le scienze sociali impantanate in questo nostro «tempo sospeso» tra l’autoreferenzialità, le identità in crisi e la sopraffazione del nuovo E per la politica la cultura appare sempre di più un ostacolo da abbattere...
di Stefano Rodotà


Da uno sguardo sulla situazione delle scienze sociali in Italia si ricava una sensazione diffusa di distanza e di autoreferenzialità. Distanza, o difficoltà di individuazione, per quel che riguarda il proprio oggetto una società fattasi sempre più instabile, liquida, del rischio, dell’incertezza, secondo le definizioni correnti. Autoreferenzialità, per la fatica di identificare modalità e fini che consentano loro di collocarsi in forme adeguate nell’epoca che viviamo. Sembra quasi di trovarsi in un tempo sospeso, nel quale ovviamente ricorre spesso il termine «crisi», il cui esito sembra ancora più cercato che intravisto. Lo stesso ruolo delle scienze sociali finisce così con l’apparire rimpicciolito, per la mancanza di tracce forti per quanto riguarda il metodo, per il rivelarsi di eccessi di dipendenza da fattori esterni che investono, insieme, il tipo di ricerche e lo status degli studiosi.
Al tempo stesso, però, si manifesta una non trascurabile capacità reattiva di fronte alle dinamiche più significative, si tratti della crisi finanziaria o del mutamento radicale indotto dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Considerando questo panorama, tuttavia, si ha piuttosto l’impressione di una agenda dettata dall’esterno, governata più dall’attualità che da un coerente progetto di analisi della società italiana. Ma il peso dell’attualità finisce col giocare un ruolo positivo, perché individua questioni ineludibili e che sollecitano l’attenzione di discipline diverse. Si delineano così anche campi di ricerca unificanti, che spingono ad un lavoro comune a diverse discipline, anzi sfidano le stesse partizioni disciplinari. Si tratta, ad esempio, di tutte le questioni volte a disegnare il perimetro stesso dell’azione individuale, a individuare il senso che assume il legame sociale, a cogliere le nuove antropologie. La persona e il corpo assumono rilevanza particolare, e da qui si sviluppa una riflessione che porta alla dimensione del soggetto e alle impervie questioni dell’identità, alla cui definizione contribuiscono antropologi e sociologi, psicologi e giuristi. Si giunge così, più che ad una generica interdisciplinarietà delle ricerche, ad una attenzione reciproca.
Le difficoltà si manifestano quando bisogna poi passare dalle molteplicità delle ricerche alla ricostruzione di contesti e categorie più generali. Trascinati recalcitranti in un’altra modernità, molti studiosi sembrano quasi sopraffatti dal nuovo e si fermano al racconto delle novità, senza indagarne il senso più profondo. Diminuiscono così l’elaborazione teorica, la capacità di connessione comparativa interculturale, la propensione alla generalizzazione.
Tutto questo incide sul ruolo sociale degli studiosi, sulla capacità di contribuire alla costruzione del discorso pubblico, sul rapporto con la politica. Quest’ultimo è fortemente segnato dal disinteresse sempre più marcato dei politici, che davvero sta incentivando una «cultura» tutta italiana, fatta di approssimazione mediatica e di avversione al sapere critico che, anzi, appare sempre più spesso come un ostacolo da abbattere, come l’ultima forma di controllo di cui una politica povera e prepotente vuole liberarsi.

l’Unità 15.10.10
Terapia di “soglia”. Tutti giù dal lettino
Nuovi “spazi” psicoanalitici crescono Per offrire a chi ne ha bisogno un orizzonte di speranza
di Marco Rossi-Doria


Oggi e domani si tiene a Roma un convegno dal significativo titolo Quando la psicanalisi scende dal lettino. Il tema è quello del superamento delle forme canoniche della psicoanalisi per dare luogo a una clinica, gratuita o a basso costo, per chi si trova intrappolato nelle molteplici forme dell’esclusione sociale. L’evento fa parte di un più largo e composito scenario di nuova attenzione alle sofferenze ma anche ai desideri delle persone escluse. Se, per esempio, si legge il rapporto della Caritas (http://www.caritasitaliana.it/home_page/pubblicazioni/00002032_In_caduta_libera. html), appena uscito, o quello della Commissione di indagine sull’esclusione sociale (http://www. commissionepoverta-cies.eu/Archivio/rapporto2009.pdf) è evidente l’attenzione per i molti nessi tra la situazione sociale del Paese e le specifiche fragilità e sofferenze individuali. Il rapporto della Commissione, per esempio, ricostruisce alcune ricorrenti traiettorie individuali di impoverimento e il come vengono intaccate le capacità dei singoli di resistere e provare ad uscire dalla loro situazione. Certo, le diverse condizioni di povertà che riguardano quasi un italiano su quattro sono descritte come il portato della lunga crisi in atto, del mancato sviluppo del Mezzogiorno, della disoccupazione di massa, dell’analfabetismo delle famiglie, della mancanza di welfare, del progressivo restringimento delle reti di solidarietà comunitaria tradizionali. Ma vengono, al contempo, messe in relazione con fattori legati alle biografie dei
singoli. Tanto che entrano nel dibattito pubblico sul macro-sistema della povertà oggetti che sono al confine con lo studio della psiche: la trasmissione intergenerazionale del senso di «impossibilità ad uscirne», le diverse forme della cronicizzazione della propria condizione, la nozione di «cumulo di eventi negativi», il peso delle situazioni traumatiche precoci, ecc.
Forse si sta incrinando, in modo promettente, il muro tra chi studia i fenomeni sociali e le politiche pubbliche e chi si occupa del come le persone possono ricostruire la possibilità di scegliere. È un fatto non nuovo in assoluto. Da anni gli operatori sociali quando incontrano la madre sola e senza lavoro o il giovane costretto al lavoro nero o il bimbo quasi abbandonato a se stesso o l’operaio cinquantenne della fabbrica dismessa che è pericolosamente depresso si battono sì per ottenere dispositivi di sostegno materiali, oggi messi a repentaglio da un vero e proprio attacco ai poveri; ma, al contempo, si attivano per dare risposte anche alle sofferenze psicologiche sempre più frequenti: difficoltà relazionali, ansia, angoscia, fobie, stati depressivi, disturbi del comportamento o psico-somatici, dipendenze.
Il favorire l’attivizzazione diretta delle persone nel contrastare la loro condizione di esclusione è da anni ritenuto fattore indispensabile nella lotta alle povertà. Amartya Sen ha mostrato come i sistemi di welfare, per produrre efficacia, necessitano di autentica negoziazione con i soggetti in termini di risposte ai loro problemi e alle loro aspirazioni. E, appunto, la «capacità di aspirare a» è una componente decisiva di ogni riscatto – secondo Arjun Appadurai.
D’altro canto, è in campo psicologico e psicoanalitico che spesso ci si misura con molte delle condizioni che consentono di rimuovere gli impedimenti alle aspirazioni di riscatto. Anche su questo terreno esistono da anni moltissime commistioni tra pensiero psicanalitico e pratiche sociali. E alcune esperienze d’avanguardia già degli anni ottanta, riprese qui e lì, proponevano un accessibile «spazio» di terapia psicoanalitica a chi non poteva permettersi una psicanalisi pur manifestandone il bisogno. Oggi questo tipo di proposte si stanno moltiplicando. Anche da parte delle società psicoanalitiche. E stanno aumentando i cantieri di terapia cosiddetta «di soglia» – come vengono definiti nel libro Quando la psicanalisi scende dal lettino. Che provano a fornire l’occasione di separare il malessere dalle sue manifestazioni più distruttive, di non accentuare solitudine e abbandono, di non cadere per forza nella rottura dei legami, ecc. E di rimettersi in contatto con le proprie parole e forze interne. Per iniziare a darsi, per come possibile, un orizzonte di speranza.

il Fatto 15.10.10
Giudici, l’antidoto ai veleni
di Gian Carlo Caselli


Di un libro come Giustizia la parola ai magistrati (curato da Livio Pepino ed edito da Laterza pagg. 225, euro 16) c’era proprio un gran bisogno per una boccata d’aria fresca contro i miasmi di certe strumentali polemiche. Viviamo infatti una stagione che vede ogni dibattito sui temi della giustizia fortemente condizionato dall’ossessione del premier di scrollarsi di dosso le inchieste e i processi che lo riguardano. Un’esclusiva del nostro paese, ignota a ogni altra democrazia. Com’è sconosciuto a qualunque cielo del mondo un premier che riesce a cancellare il signor Charles de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu (quello diventato famoso per la teorizzazione della necessaria divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario), avanzando la pretesa di sottoporre a una commissione parlamentare d’inchiesta i magistrati istituzionalmente titolari del potere-dovere di accusa, compresi ( se non soprattutto) quelli che tale potere hanno doverosamente esercitato
nei suoi confronti.
QUESTA SITUAZIONE
non rispettosa dell’ordine costituzionale e dell’equilibrio dei vari poteri è indubbiamente favorita dal fatto – rilevato da Pepino nell’introduzione del libro – che “si assiste a un crescente smarrimento di senso delle parole e a un uso marcatamente e impudicamente strumentale delle stesse”. Sicchè “la fonte del potere si sposta dalla conoscenza delle parole alla capacità di manipolarle e al possesso dei mezzi per diffonderle e amplificarle (rendendo vero, con l’ossessiva ripetizione, anche ciò che è macroscopicamente falso)”. Un fatto che è particolarmente evidente quando si tratta di le-
galità e di giustizia, per cui proprio la difficoltà della stagione politica richiede ai magistrati qui ed oggi – di intervenire, esercitando da un lato un diritto personalissimo incontestabile e nel contempo fornendo un contributo professionale utile alla chiarezza e alla realizzazione di una giustizia migliore (contributo, oltre che utile, per certi profili indispensabile, essendo il nostro un paese in cui tutti parlano di giustizia, ma spessissimo – anche in “alto loco” – con toni da bar dello sport).
Per tutti questi motivi, di un libro come La parola ai magistrati c’era proprio – ripeto – un gran bisogno. Ad esso hanno collaborato non solo giudici che con il curatore Livio Pepino hanno in comune l’esperienza di Magistratura democratica, ma anche altri magistrati, spesso assai diversi per idee, sensibilità e cultura. Lo evidenzia l’elenco degli autori, mentre i titoli degli argomenti trattati sono testimonianza di un impegno molto articolato ai cui risultati potrà attingere chiunque voglia discutere di giustizia senza abbeverarsi a luoghi comuni o frasi fatte che – se vanno bene per urlare in qualche comizio – fanno rischiare derive illiberali e disgreganti: perché se la giustizia viene pregiudizialmente e patologicamente sfiduciata anche da pulpiti istituzionali onnipresenti sui media (di solito senza adeguato contraddittorio), alla fine si incrina un elemento che in democrazia, lungi dall’esse-
re un “optional”, è strutturale. Compongono il libro Giustizia La parola ai magistrati i seguenti interventi: Difesa (Paolo Borgna); Errore (Giuseppe Santalucia); Garantismo (Raffaello Magi); Giudici (Matilde Brancaccio); Indipendenza (Rita Sanlorenzo); Giustizia e informazione (Giancarlo De Cataldo); Intercettazioni (Antonio Ingroia); Legittimazione e consenso (Pier Luigi Zanchetta); Libertà personale e custodia cautelare (Andrea Natale); Obbligatorietà dell’azione penale (Armando Spataro); Pena e carcere (Carlo Renoldi); Politicizzazione (Livio Pepino); Prescrizione (Margherita Cassano); Separazione delle carriere (Letizio Magliaro); Tempo (Luigi Marini); Uguaglianza (Carla Ponterio).
NEL COMPLESSO , un’analisi argomentata e approfondita, sempre agganciata a dirette esperienze di lavoro di notevole rilievo nei vari settori volta volta interessati, mai viziata da visioni corporative od “autoreferenziali”, capace anzi di guardare al proprio interno senza intenti meramente “difensivistici” ma razionalmente critici. Una base di conoscenza e riflessione davvero seria. In grado – si spera – di funzionare da antidoto contro le parole malate usate per denigrare i magistrati definendoli cancro da estirpare, disturbati mentali, antropologicamente diversi dal resto della razza umana... O contro le parole false, tipo persecuzione giudiziaria, uso distorto della giustizia per fini golpisti, partito dei giudici, giustizialismo... Parole false perché basate sul nulla (se mai divenisse operativa la minaccia di una commissione d’inchiesta, parlerebbero finalmente gli atti e i documenti contro le bufale propagandistiche), ma buone per frenare i magistrati che ricercano la verità con coraggio e determinazione (requisiti, un altro segno dei tempi, divenuti ormai indispensabili al pari dell’onestà e della preparazione): sia rendendo esilissima la linea di confine fra attacco e intimidazione; sia consolidando sempre più il “teorema” secondo cui giustizia giusta – quando si tratta di imputati che contano – è quella che assolve; mentre quella che osa indagare o addirittura (a volte capita) condannare è giustizia per definizione ingiusta, da bollare con campagne mediatiche feroci.

il Fatto 15.10.10
Karl Marx, un contemporaneo
Due pubblicazioni rivisitano il pensiero del filosofo tedesco Ma davvero
la struttura economica della società in cui viviamo è ancora quella da lui descritta?
di Vladimiro Giacché


Ironie della storia. Mentre in Germania viene festeggiato il 20° anniversario della fine della Germania Democratica Tedesca, si assiste ovunque a un grande risveglio di interesse nei confronti di quello che ne fu (inconsapevolmente) il filosofo ufficiale: Karl Marx. Soltanto in Italia da giugno ad oggi sono uscite due biografie: la traduzione del testo di Francis Wheen (Karl Marx. Una vita, Isbn edizioni, pp. 400) e il volume di Nicolao Merker Karl Marx. Vita e opere (Laterza, pp. 261). Se il primo testo è avvincente, il secondo riesce a fare il miracolo: ossia a darci una panoramica completa della vita di Marx e delle linee di fondo del suo pensiero. Merker inizia ricordando che “il pensiero di Marx sta nei suoi scritti”. Non si tratta di una banalità, ma di una doverosa cautela, visto l’uso a dir poco disinvolto che spesso si è fatto del pensiero di Marx. I testi di Marx vanno letti e collocati nel loro contesto storico. Ma non per farne altrettanti “classici” da tenere sullo scaffale, bensì per capire cosa ci possono dire sull’oggi.
QUESTO utilizzo è possibile in quanto la struttura economica della società in cui viviamo è ancora quella descritta da Marx. Anzi, per certi aspetti il mondo attuale è più vicino ai testi marxiani di quanto lo fosse la realtà dei suoi tempi: basti pensare alla “globalizzazione”, ossia alla creazione di un mercato mondiale. Merker nella sua ricostruzione del pensiero di Marx non ha timore di andare controcorrente. Come quando denuncia “l’infatuazione per i Grundrisse che alcuni decenni addietro regnò nella letteratura su Marx”, insistendo invece sulla centralità del Capitale (tanto del primo libro, pubblicato da Marx nel 1867, quanto dei manoscritti che dopo la sua morte Engels pubblicò come secondo e terzo libro del Capitale nel 1885 e nel 1894). E soprattutto quando afferma l’importanza della “teoria del valore e del plusvalore”, che a suo giudizio “spiega tanto la dinamica del particolare modo di produzione capitalistico quanto gli elementi generali di ogni sistema produttivo”. La forza-lavoro umana, osserva Merker, “fornisce sempre con il suo pluslavoro un valore economico maggiore di quanto essa costa”; è infatti l’unica merce che possiede la caratteristica di creare nuovo valore (cosa di cui non è capace neppure la macchina più sofisticata, che se non viene messa in opera dal lavoro umano non soltanto non crea nuovo valore, ma perde anche quello che possedeva).
LA PECULIARITÀ del sistema capitalistico consiste nel fatto che “i risultati del pluslavoro – cioè il plusprodotto e il corrispettivo plusvalore – non sono proprietà del soggetto che lavora. Questo carattere del capitalismo non viene modificato dal numero dei ‘colletti bianchi’ che sostituiscono le ‘tute blu’. Conserva il connotato che la proprietà e gestione dei mezzi di produzione non è proprietà e gestione sociale”. Proprio da questo Marx fa derivare le crisi: esse sono infatti – ci spiega Merker – “conseguenza dell’antitesi, nell’economia di mercato, tra la produzione moderna a carattere sociale e l’appropriazione privata del profitto”. In questo modo ci viene offerta una chiave di lettura anche della crisi odierna molto diversa da quelle correnti. “A un certo punto il mercato non assorbe più tutte le merci che vengono offerte. Mancano gli acquirenti perché il sistema è caduto in un circolo vizioso: non appena le merci invendute affollano i magazzini, il capitalista riduce la produzione chiudendo fabbriche e licenziando operai, sicché a causa del diminuito potere d’acquisto dei consumatori la montagna dei beni invenduti continua a crescere e la crisi si avvita su se stessa. Alla fine il sistema la risolve soltanto a costo di enormi distruzioni di mezzi di produzione e di prodotti. Fabbriche smantellate, lavoratori disoccupati, beni di consumo al macero e una crescente concentrazione di capitali perché i capitalisti deboli, rovinati, escono dal mercato: sono questi i fenomeni che accompagnano le crisi periodiche”. Le crisi sorgono insomma, come ci ricorda lo stesso Marx, perché nel sistema capitalistico “l’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma ...in base al profitto e al rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato”.
SECONDO questo punto di vista, a differenza di quanto ci è stato ripetuto in questi anni, le crisi non rappresentano un incidente di percorso o una sciagurata eccezione all’interno di un sistema che per sua natura sarebbe in equilibrio, ma sono necessarie per correggere – attraverso la distruzione di forze produttive su larga scala – i profondi squilibri che inevitabilmente caratterizzano l’“anarchia della produzione” capitalistica. Nelle ultime pagine del suo libro Merker si chiede quindi se quel “contrasto tra la produzione sociale-collettiva del plusvalore e l’utilizzazione privatistica di esso” sia ineliminabile nella società umana. E osserva che “quest’istanza teorico-pratica, certamente non scaduta, viene dal Marx del Capitale e attende risposte che funzionino nella prassi socio-politica”. La più grande sfida dei nostri tempi è precisamente questa.

Corriere della Sera 15.10.10
Murdoch-De Benedetti, prove di asse anti-Mediaset
Sky punta all’affitto delle frequenze di Espresso per sei canali sul digitale terrestre
di Federico De Rosa


Dopo l’accordo su Cielo, si rafforza l’intesa tra i due rivali del Cavaliere per lo sbarco in forze sulla nuova piattaforma

MILANO — Un primo accordo c’è già stato. Per portare Cielo, la tv in chiaro di Sky, sul digitale terrestre. I contenuti li ha messi Rupert Murdoch, le frequenze Carlo De Benedetti, firmando un’inedita alleanza che molti hanno letto come una mossa anti-Mediaset. Non tanto per il coinvolgimento dell’Ingegnere quanto per «l’invasione di campo» di Sky in un segmento del mercato televisivo in cui il Biscione sta puntando forte. I colloqui non si sarebbero però fermati lì e secondo diversi osservatori presto potrebbero portare a un nuovo accordo tra i due. Ben più ampio del primo.
Murdoch starebbe puntando a prendere in affitto le frequenze che il gruppo Espresso avrà a disposizione via via che le trasmissioni saranno convertite dall’analogico al digitale. Cinque o sei canali, che verrebbero creati attraverso la digitalizzazione delle frequenze attualmente utilizzate da De Benedetti per diffondere Deejay Tv in analogico. Si parla anche di cifre. Secondo alcune voci Murdoch avrebbe offerto 25 milioni di euro l’anno, con un’opzione per acquistare il multiplex una volta che cadranno i vincoli per Sky alla trasmissione in digitale della pay per view. Una fonte vicina al Gruppo Espresso conferma che «ci sono colloqui in corso, ma con tutti quelli che sono interessati ad andare sul digitale». Quindi non solo con Sky. Che da parte sua «smentisce accordi per l’acquisto di multiplex nel digitale terrestre».
Posizioni ufficiali, a cui fanno da contorno però molte voci che parlano di una possibile alleanza più stretta tra lo Squalo australiano e l’Ingegnere, in grado di creare non solo grandi suggestioni ma anche uno scenario inedito per il mercato televisivo. Rendendo più difficile la vita a Mediaset, che in attesa dell’assegnazione delle nuove frequenze sta accumulando terreno sulla nuova piattaforma. Sky al momento ha le mani legate: l’Antitrust le ha vietato di sbarcare nel digitale a pagamento prima del 2012. Ma affitta ndo un c a nal e dal g r uppo Espresso è riuscita ad aggirare l’ostacolo e ottenere il via libera per trasmettere Cielo, in chiaro però, ossia gratis. Ora gli uomini di Murdoch stanno parlando con Dalhia, la tv digitale della famiglia Wallemberg. Insomma il patron di NewsCorp ci crede. E in De Benedetti potrebbe aver trovato l’alleato perfetto per rispondere all’avanzata del Biscione, aspettando la gara per le nuove frequenze prevista per il 2011.
Le malelingue diranno che la comune antipatia per Silvio Berlusconi ha spianato la strada. Ma la verità è che a Murdoch più della politica interessa il business. Anche all’Ingegnere, ma nell’ordine inverso. E poiché per crescere nella nuova tv l’Espresso ha bisogno di investire i due potrebbero aver trovato un buon compromesso. Per mettere in difficoltà il nemico e tentare quello che nessuno è riuscito a fare sull’analogico, ossia il terzo polo.
I tempi di un possibile accordo tuttavia non sarebbero brevi. Intanto De Benedetti non ha ancora a disposizione l’intero multiplex da affittare a Sky. E’ vero che Rete A, controllata dall’Espresso, ne ha due, ma il primo è saturo e l’altro nascerà con lo switch-off che sarà completato entro il 2012. De Benedetti non è mai sembrato particolarmente interessato a fare concorrenza diretta ai broadcaster, ma a valorizzare le sue frequenze sì. E Murdoch potrebbe fare quegli investimenti necessari a migliorare la qualità di banda e ad ampliare la copertura. Soprattutto se l’intenzione, come dicono le voci, è quella di comprare le frequenze. Una possibilità che tuttavia De Benedetti al momento non avrebbe preso in considerazione. Dal gruppo che fa capo all’Ingegnere spiegano infatti che la via maestra è quella dell’affitto, ma che a un’offerta d’acquisto certo non direbbero di no senza averla esaminata. Se così fosse Murdoch e De Benedetti metterebbero solide basi per fare concorrenza a Mediaset, aggiungendo alle frequenze già a disposizione quelle nuove che potrebbero essere assegnate a Sky. La quale potrebbe così replicare, su scala ridotta, ma non di molto, il modello satellitare con bouquet tematici e canali specializzati. Che entrerebbero nelle case di tutti e non più solo in quelle dotate di parabola.


l’Unità 15.10.10
L’università scende in piazza «Avete commissariato il sapere»
Domani con la Fiom. Gli studenti saranno con i metalmeccanici della Cgil a Roma
Da Roma a Bari, da Pavia a Firenze la protesta di studenti, ricercatori e dottorandi. Sott’attacco la coppia Gelmini e Tremonti. Pier Luigi Bersani: «La riforma dell’istruzione umilia gli atenei»


Di un contentino nel milleproroghe non si accontentano. Vogliono che il ministro dell’Istruzione, con tutto il governo, vada a casa, perché «questa riforma Gelminator non l’ha scritta da sola». Hanno facce giovani, magliette con su disegnati mattoni, caschi gialli da cantiere in testa, catene di carta stagnola al collo: simboli del muro dell’ignoranza da abbattere, dell’università-cantiere di sapere, dell’università distrutta dai tagli. Del ministro Tremonti non si fidano neppure quando dice, mentre anche Lega e pezzi del Pdl premono, che «per l’università ci sarà il massimo dei fondi possibili nel decreto di fine anno». Contestano il metodo: «non vogliamo gli avanzi, l’istruzione pubblica deve essere priorità». «Soldi all’università non alle bombe» è uno dei leit motiv di una lunga giornata di contestazione universitaria, con tanto di blocchi del traffico a Roma centro per un corteo non autorizzato e lanci d’uova contro la sede della conferenza dei rettori (Crui) da parte di un manipolo di collettivi. Ieri tremila studenti, ricercatori e dottorandi sono giunti da tutta Italia in piazza Montecitorio a Roma, aderendo al sit-in indetto da Udu e Flc Cgil a cui hanno partecipato anche i Giovani Democratici, per protestare contro la riforma dell’università e chiedere le dimissioni della Gelmini. Non fa niente se il ddl, che ieri doveva andare in Aula, arriverà solo dopo la Finanziaria: lo stop di Tremonti al ddl per assenza di copertura galvanizza la piazza: «È un chiaro segno dell’incapacità di questo governo», dicono gli universitari. «La Gelmini è commissariata da Tremonti, ora va aperto un confronto sui mali dell’università e un percorso fatto di assemblee per scrivere una riforma tutta diversa. Una riforma che prima di tutto tenga fuori i privati dall’università pubblica», dice Giorgio Paterna, coordinatore nazionale dell’Udu. È tra i primi ad arrivare in piazza insieme ai colleghi di Torino, «Sai che in Piemonte l’Edisu rischia di diventare un ente inutile tra un anno?». È l’ente regionale per il diritto allo studio del Piemonte, punta d’eccellenza nel settore, noto per erogare copertura totale delle tasse universitarie agli studenti con Isee fino a 18mila euro; inoltre finanzia case per studenti e mense universitarie che rischiano di chiudere per via di un taglio che riduce i fondi da 22 milioni a 7: la presidente si è già dimessa. Il Politecnico a Torino è occupato come Ingegneria a La Sapienza, la rabbia è tanta nelle facoltà scientifiche. E poi ci sono gli studenti di Pavia e Urbino «disposti a fare sacrifici, ma il governo deve garantire fondi a ciò che è importante sia pubblico: la sanità e l’istruzione»; ci sono i sardi arrivati in aereo e gli aspiranti architetti de La Sapienza, i più fantasiosi. Nel pomeriggio mettono all’asta una ricercatrice: si va a ribasso, dai 500 euro del bando iniziale viene aggiudicata per «un rimborso spese». Speranze nel futuro poche e non si può neppure andare all’estero: a Daniele tre università londinesi hanno bocciato la richiesta di master. La motivazione? La laurea triennale che avrà in mano non gli darà adeguati strumenti tecnici, non attesta la capacità di uso dei programmi di progettazione, a Londra è carta straccia.
A fine giornata si rilanciano assemblee in tutto il paese e i due cortei studenteschi di domani a Roma, dove i ragazzi saranno accanto agli operai della Fiom. Arriveranno da tutta Italia, si dice, e anche ieri la mobilitazione è stata nazionale. A Bari i ricercatori hanno bruciato in piazza i loro curriculum, a Pavia corteo per le vie del centro, a Firenze lezioni di medicina davanti all’ospedale Careggi, a Pisa occupato il Rettorato. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che ieri ha incontrato una delegazione di universitari e ricercatori, non ha dubbi: «La riforma degli atenei viene vissuta come fumo negli occhi dalle forze vive dell’università. Volerla approvare è fuori dal mondo». Poi rilancia la proposta affidata alle colonne del Corriere della Sera e propone al governo la vendita delle frequenze digitali libere per finanziare gli atenei.