l’Unità 24.9.10
Pd, via libera a Bersani Veltroni si astiene
Il segretario ribadisce le critiche ma apre ai 76. Si smorzano i toni dello scontro
Il Direttivo Pd dà via libera al leader che critica il documento dei 76: «Un errore, ha creato sgomento»
Bersani: la bussola c’è
Con Veltroni 31 astenuti
A larghissima maggioranza il direttivo Pd dà via libera a Besani che commenta: «Evidentemente la bussola c’è». Veltroni apprezza i toni usati del segretario. Tra i 32 astenuti anche i componenti dell’area Marino.
di Simone Collini
«Evidentemente, la bussola c’è». È un Bersani particolarmente soddisfatto quello che emerge dalla nuvola di Toscano e da sette ore filate di discussione. La tanto attesa Direzione del Pd si apre col segretario che ribadisce le critiche al documento veltronian-fioroniano firmato da 76 parlamentari (ieri si è aggiunta la pugliese Cinzia Capano) e si chiude con un voto sulla sua relazione che incassa solo sì (compreso quello della “firmataria” Franca Biondelli) e 32 astensioni (compresi 17 voti appartenenti all’area Marino).
Alla votazione segue sotto traccia uno strascico di polemiche, con i veltroniani e gli ex-ppi che contestano alla presidente Bindi di non aver contato né i votanti né i sì, cosa che avrebbe fatto apparire percentualmente più estesa la pattuglia “movimentista”, visto che non tutti i 201 membri della Direzione erano presenti al momento del voto. Ma nessuno ha voglia di rivivere giornate come quelle passate: non ce l’ha Bersani, per il quale ora il Pd deve andare sui giornali per
le proposte per affrontare i problemi del paese: «C’è gente che non mangia, non parliamogli delle nostre inquietudini»; e non ce l’ha Veltroni, che non vuole passare né per lo sfidante di Bersani («Pier Luigi è il mio segretario») né per quello che può innescare processi di divisione: «Ci sono le condizioni perché da questa discussione il Pd esca più unito e più forte». Lo scontro viene dunque evitato, con l’esito della Direzione che appare chiaro non appena, subito dopo la relazione d’apertura di Bersani, i veltroniani commentano positivamente l’intervento del segretario per i «toni» utilizzati.
BERSANI RIBADISCE LE CRITICHE
In realtà Bersani apre i lavori ribadendo tutte le critiche al documento dei 76, che giudica «un errore». «Io valuto l’effetto oggettivo: un atto avvenuto a organismi convocati (il coordinamento, la direzione, l’assemblea) che ha provocato sbandamento e in alcune aree sgomento tra i nostri sostenitori. È stato veicolato come l’immagine di un partito senza rotta, in perenne congresso, che discute di temi incomprensibili ai cittadini». Bersani dice che la «linea» è quella espressa alla chiusura
della Festa di Torino («non ho nulla di sostanziale da correggere»), che ben venga la discussione ma «niente gioco dell’oca, non possiamo ricominciare sempre dall’inizio», che «si devono archiviare le chiacchiere politiciste per parlare del nostro progetto per l’Italia». Poi il segretario dice anche «alleanze sì, ma non a tutti i costi» e ammette che il partito ha delle difficoltà («non trasmettiamo un’idea di rinnovamento, bisogna che riflettiamo con più generosità come gruppo dirigente»). Tanto basta, oltre ai toni effettivamente pacati da buon emiliano, per far vedere a Veltroni nell’intervento del leader Pd ombre ma anche luci.
I SASSOLINI DI VELTRONI
«Abbiamo colto positivamente nella relazione di Bersani gli elementi che accolgono problemi e ansie nostre dice Veltroni lavoreremo perché tutti insieme dobbiamo fare un Pd più forte». Ma insieme ai toni unitari, arriva anche qualche sassolino tolto dalla scarpa. Veltroni ricorda la dalemiana Red quando lui era segretario («114 parlamentari fondarono un’associazione con tanto di tessere») e lancia una frecciata allo stesso leader Pd: «Quando nel pieno della campagna elettorale in Sardegna Bersani si candidò per le primarie non ci rimasi bene ma non obbiettai. Egli sostenne che voleva solo discutere e non litigare. Ecco, uso le sue parole: stiamo solo discutendo». Poi arriva il voto, e viene sancita la tregua.
l’Unità 24.9.10
La nuova minoranza è nata: parte la corsa per assumere la guida degli ex Ppi
Con l’astensione i veltroniani si sono formalmente differenziati dall’Area democratica guidata da Franceschini. L’ex segretario chiede a Bersani una gestione collegiale e a Veltroni di far prevalere l’interesse generale.
di S. C.
Dopo la riunione della Direzione nel Pd c’è una nuova minoranza e una guerra aperta per assumere la guida della componente ex-ppi. Sarà solo il tempo a dire se le due cose faranno traballare la tregua siglata ieri. «Noi in Direzione non abbiamo mai votato, si potrebbe fare così anche oggi ma comunque...». Walter Veltroni non nasconde che avrebbe preferito evitare la conta. Ma in Area democratica più d’uno è convinto che la ritrosia dell’ex segretario sia più che altro simulata. E il sospetto viene confermato quando Giorgio Tonini, della prima cerchia veltroniana, fa sapere mentre ci si avvia verso la chiusura dei lavori: «Bersani ha impostato il dibattito in modo costruttivo ma è utile che la minoranza faccia fino in fondo il suo dovere perché serve una discussione vera e non compromessi verbali dentro il gruppo dirigente. L’astensione è un segnale di distinzione che però prende atto delle aperture». Insomma nessun “no” che sancirebbe una rottura poi difficile da gestire, ma anche il sì alla relazione di Bersani espresso da Dario Franceschini viene giudicato dai veltroniani dannoso. «Dobbiamo mantenere l’inquietudine aperta perché troppe volte ci sia-
mo messi il cuore in pace tra di noi però poi l’unanimismo non è compreso dagli elettori». L’obiettivo critico è proprio il capogruppo alla Camera del Pd, che alla Direzione interviene per chiedere al segretario una «gestione collegiale» e ai firmatari del documento di «far prevalere l’interesse generale alla convenienza e al calcolo». La crisi economica, sociale e democratica del paese, dice Franceschini, «impone scelte di emergenza»: «Non rinuncio alle idee che rappresento ma metto a disposizione di tutto il partito il milione di voti raccolto alle primarie sulla mia candidatura».
Un discorso che non convince Veltroni, Fioroni e gli altri firmatari del documento. Che puntano ora, dopo che il voto di ieri ha certificato la nascita di una componente diversa dalla vecchia Area democratica, a giocare il ruolo della minoranza che si contrappone a Bersani. Una minoranza in cui non vuol confluire l’area Marino: «Nessuno è autorizzato a pensare che la nostra astensione possa sommarsi o fondersi con posizioni e voti espressi da altri», dice Michele Meta. E una minoranza in cui intende giocare un ruolo di primo piano Fioroni, ponendosi come la nuova guida della componente ex-ppi: «Non faremo la fine degli armeni. E da questo partito non me ne vado, neanche se mi cacciate». Franco Marini lo ascolta e poi un po’ lo prende in giro: «Da responsabile welfare, dovrebbe dedicare più tempo alle iniziative sulla scuola e meno alle cene, lì si chiacchiera molto ma non si fanno proposte».
Corriere della Sera 24.9.10
L’obiettivo della nuova maggioranza: fare fuori i due eterni rivali
di Maria Teresa Meli
Gli uomini del segretario: Pier Luigi non ha bisogno di D’Alema
ROMA — Apparentemente è un pari e patta. Ed effettivamente tra un Bersani che non voleva la conta e un Veltroni che non agognava lo scontro, la partita si chiude senza né un vincitore né un vinto.
Ma seguendo il filo del dibattito in Direzione si capisce che qualche cadavere, politicamente parlando, cade sul campo. Meglio cominciare dall’inizio. I dalemiani tacciono. Parla solo Barbara Pollastrini per dire: «Io che ho fatto "Red" quando Walter era segretario, non posso prendermela adesso per quel documento che pure non mi piace». Parla Enrico Letta e c’è bisogno dei sottotitoli: non voglio D’Antoni responsabile degli Enti Locali come moneta di scambio per l’alleanza con Franceschini. Parla il suddetto, e senza nessun ausilio, si capisce che scarica diverse colpe su Rosy Bindi, rea di aver dichiarato al Corriere che è tutta colpa di Veltroni. Il quale Veltroni parla anche lui e non si capisce se voterà a favore, contro o se, piuttosto, si asterrà, come alla fine sarà.
Sul voto in questa Direzione ci si eserciterà tra amanti del genere: quel quarto di consensi dell’ex segretario è veramente un quarto, e, se, nel caso, che sarà di quel pacchetto di voti? Giù disquisizioni sull’esito della riunione e vivisezioni del Partito democratico. Poi ci sono i fatti. Primo, Fassino e Franceschini sono passati in maggioranza. L’ex segretario dei Ds con una certa discrezione. Il capogruppo dei deputati con maggior clamore e con il suo portavoce Piero Martino che dice: «Bersani ha fatto un discorso coraggioso, è stato bravissimo». Secondo, Veltroni e Fioroni hanno ottenuto meno di quel che si aspettavano ma hanno comunque segnato un argine. Terzo, la nuova maggioranza che esce dalla Direzione di ieri ha un obiettivo: fare fuori D’Alema e Veltroni, ossia superare la dialettica su cui è rimasto sempre appeso il centrosinistra. Sono i quarantenni che danno questa lettura. Stefano Di Traglia, portavoce del segretario: «Pier Luigi non ha bisogno di D’Alema per decidere quello che deve fare». Martino: «Che cosa conta quello che dicono i dalemiani?».
Ma siccome di sola politica non si vive, ecco che si arriva al «sodo». Ossia alle liste che, come confidava qualche giorno fa Andrea Orlando a qualche compagno di partito, si stanno già preparando perché non bisogna farsi trovare impreparati di fronte all’eventualità che si arrivi al voto anticipato a marzo del prossimo anno. Ed è su questa materia che il Pd si avviterà e si dividerà.
Le voci si rincorrono già per il Transatlantico. La minoranza ex ppi passata in maggioranza — Franceschini e Marini, per intendersi — non ha fatto un grande exploit e si è fatta sfilare da Beppe Fioroni un pacchetto di consensi e quadri dirigenti. E quindi difficilmente verrà premiata. Nelle liste che si stanno preparando traballano due fedelissimi di Franceschini, come Pina Picierno e Alberto Losacco, mentre resistono Martino e Antonello Giacomelli. A «casa Fassino» la situazione non è migliore: il passaggio in maggioranza non ha portato posti in più. In bilico Morri e Tempestini, due fedelissimi dell’ex segretario Ds, stabile Anna Serafini, incerti tutti gli altri. I veltroniani avranno i loro caduti, ma comunque la corrente li tutelerà, lo stesso dicasi per i sostenitori di Ignazio Marino, che, non a caso, dopo aver sposato la linea Bersani, ha fatto un passo indietro, non si sa mai. In difficoltà anche Rosy Bindi ed Enrico Letta. Si sono scagliati a testa bassa contro Veltroni, ma non gli hanno sfilato nemmeno un parlamentare, e con Fioroni dall’altra parte il loro peso di ex ppi cala vertiginosamente. La prima rischia di non poter più candidare Giovanni Bachelet, il secondo salverà Francesco Boccia, quanto agli altri chissà. Di tutto questo non si discute negli interventi in Direzione, ma nei corridoi di largo Nazareno non si parla d’altro.
Repubblica 24.9.10
La tela del segretario Cisl per dar vita al terzo polo. Marini: "I veri popolari restano qui"
L´ombra della scissione sui democratici Bonanni organizza l´uscita degli ex Ppi
di Goffredo De Marchis
Telefonate del sindacalista a sei senatori per "suggerire" di firmare con i 75
ROMA - Sembra una vendetta. È invece un´operazione politica partita sottotraccia ma dai contorni sempre più definiti. A Raffaele Bonanni tirarono un petardo sul palco della Festa democratica di Torino. Ragazzi dei centri sociali, non militanti del Pd. Adesso il segretario della Cisl potrebbe tirare un fumogeno sul corpo di un partito già piuttosto agitato.
Bonanni, raccontano, avrebbe telefonato personalmente a 6 senatori democratici di provenienza popolare per invitarli a firmare il documento dei 75 che ha scosso la segreteria Bersani. E non è la vocazione maggioritaria la spinta ideale del leader sindacale. Tantomeno un improvvisa cotta per Walter Veltroni. Spaccare il Pd facendo leva sul disagio dei moderati significa dare una mano alla nascita del terzo polo, dominato da Pier Ferdinando Casini. Il pacchetto di voti Cisl fa gola a molti. E paura a chi potrebbe perderlo. Una scissione corroborata da quel bacino elettorale sarebbe un problema gigantesco per Bersani, niente a che vedere con le fughe isolate degli ultimi tempi. Non è un mistero che Bonanni ha un alleato fedele nel Pd, Beppe Fioroni. Promotore del testo dei 75, cassaforte di buon numero di voti ex ppi e tra i dirigenti più a disagio nel soggetto creato tre anni fa. Fioroni lavora anche sul territorio per creare una rete legata agli ex popolari. E al mondo cislino.
Operazione che Franco Marini, ex segretario del sindacato "bianco" ha stoppato con forza alla riunione di mercoledì scorso. Alludendo alle voci sui movimento di Bonanni e Fioroni. «Non vi preoccupare - ha detto agli amici ex ppi - io continuo a parlare con la Cisl, ad avere rapporti con loro». Poi ha messo nella cassetto la bandiera scudocrociata dal Partito popolare. In modo che nessuno possa sbandierarla in un luogo diverso dal Partito democratico. «Qui finisce la storia del Ppi e degli ex ppi. Non esiste più un´area politica. Esiste solo l´associazione guidata da Castagnetti che si occupa di attività culturali».
Il senatore Lucio D´Ubaldo, vicino a Fioroni, parlando con il Foglio ha disegnato una strategia scissionista. «Siamo stanchi di sentirci ospiti nel Pd», ha detto. L´ex ministro dell´Istruzione comincia a muoversi per conto suo nella corrente dei 75 e domenica a Orvieto riunisce un gruppo di amministratori locali. Cioè, un bel pacchetto di voti. Dice pubblicamente che lui rimane nel partito: «So che qualcuno vorrebbe che me ne andassi. Ma i cattolici non mollano». Al di là delle vere intenzioni scissioniste, Bersani è sicuramente preoccupato dei movimenti dell´ala cattolica e democristiana. Oggi andrà al convegno dei cristiano sociali. Ma non basta. Ha dato l´avallo all´operazione della giunta Lombardo quater in Sicilia. Sapendo però che è stata una trovata tattica gestita tutta dall´area ex popolare, in cuila compenente ex diessina non ha toccato palla. Adesso il fronte dei lealisti è più compatto. A Marini e Castagnetti si sono aggiunti Dario Franceschini e tutti i moderati di Area democratica. Ma è l´intervento diretto di Bonanni, più che le mosse di Fioroni e dei suoi a preoccupare il Pd e i vecchi amici democristiani. Perché il terzo polo, l´area moderata oggi sono un avversario del Pd. E non si sa se e quando diventeranno degli alleati.
l’Unità 24.9.10
Italia, Francia, Svezia: allarme xenofobia
I Rom e il ritorno della bestia razzista
di Dijana Pavlovic
Un racconto popolare rom descrive come si sente il popolo che i nazisti volevano sterminare con gli ebrei e che tuttora viene discriminato e perseguitato: anche un “maiale” si può sentire superiore a un rom.
Come dei maiali non si butta via nulla, così dei rom non ci si libera tanto meno quanto più si strilla contro di loro. Da questo punto di vista Milano è la capitale italiana della vigliaccheria e dell’ipocrisia. Nella primavera prossima si vota per le amministrative e tempestivamente si è riaperta la questione rom: il ministro leghista Maroni finanzia il piano rom di Milano (chiusura di 4 campi regolari con circa 1000 tra adulti e minori di nazionalità italiana, rumena, macedone e kossovara da sistemare), a luglio Regione, prefettura e assessore alle politiche sociali del Comune firmano un contratto con relativo finanziamento con le associazioni del terzo settore a luglio con l’assegnazione di 25 case Aler fuori quota. Ora facendo finta di cadere dal pero lega e pdl insorgono: non una casa ai rom, presidi per le strade, benzina sul disagio delle periferie e via così verso il voto di primavera.
Ma i “nostri” non sono soli. In Francia Sarkozy di fronte al declino della sua politica monarchica ha pensato bene di aprire la caccia al rom rumeno con un editto che utilizza la direttiva europea che garantisce la libertà di movimento sul territorio comunitario condizionandolo all’autosufficienza economica. Solo che questo editto è applicato esclusivamente alla comunità rom caratterizzandosi quindi come una vera e propria espulsione su base etnica e sollevando così le proteste del parlamento europeo e attirandosi persino la reprimenda degli Stati Uniti.
C’è in tutto questo un utilizzo dell’ondata xenofoba che percorre l’Europa, un’ondata che ha lambito persino la civilissima Svezia, patria della tolleranza e dell’accoglienza, che è molto pericoloso. Il calcolo elettorale di ̆recuperare voti coltivando il disagio, il sentimento xenofobo e la paura di fronte alla crisi economica e di valori di questa fase storica ha la gravissima conseguenza di legittimare le spinte razziste anziché contrastarle. Si pensa
che il gioco vale la candele di un pugno di voti che consenta di vincere e forse che una volta al potere queste spinte si possano tenere sotto controllo. Ma non è così: questo calcolo di breve respiro fa finta di non accorgersi del veleno che diffonde nelle coscienze e dimentica le tragiche esperienze del secolo scorso. La bestia razzista è più forte del padrone che crede di tenerla al guinzaglio.
l’Unità 24.9.10
Amato e la lezione sull’immigrazione «Italia democrazia a scartamento ridotto»
Il dottor Sottile ha parlato di immigrazione e di valore della personaa Piacenza la terza edizione del Festival di Diritto dedicato alle «disuguaglianze» e curato da Stefano Rodotà. Tre giorni per «dare voce a chi non ne ha».
di Federica Fantozzi
«L’irregolare, l’immigrato clandestino in Italia ha cessato di esistere. Non ha più diritti. Io non sono monsignor Marchetto, ma da laico chiedo: è o non è una persona?». A modo suo, sottile come è nei suoi modi codificati persino in un soprannome nella Prima Repubblica, Giuliano Amato non lesina durezze sulle pecche della nostra società così poco plurietnica e pluriculturale. Né su chi la governa: «Capita che un bambino studi qui dai 6 ai 18 anni, poi se non ha un lavoro viene espulso. Ma dovrebbe essere cittadino italiano a quel punto. È compatibile con la democrazia che chi governa non sia responsabile di chi ne subisce le decisioni? È ammissibile che i governanti non rispondano ai governati?». Questo, dice, è il problema che ci rende «una democrazia a scartamento ridotto». E che priva chi attraversa mezzo continente in cerca di futuro per sé e la propria famiglia dei più elementari diritti umani.
Con un monito sull’altro versante: «Con la diversità si può convivere se si pongono in essere politiche attive ad hoc, altrimenti prevale la diffidenza. Il volersi bene fine a se stesso è un'ideologia che non funziona». Ma «se la diversità consapevole si esprime con un velo, che riconosciamo alle nostre suore e alla Madonna, perché negarlo a chi viene da altre tradizioni?». Amato, ieri, ha inaugurato a Piacenza la terza edizione del Festival di Diritto dedicato alle «disuguaglianze» e curato da Stefano Rodotà. Tre giorni per «dare voce a chi non ne ha»: precari, migranti, donne e minori, vecchi e nuovi poveri, Paesi afflitti da un modello di sviluppo che li depreda e li inquina. Un viaggio politico, giuridico e filosofico attraverso le discriminazioni e le disparità di trattamento che tuttora si intersecano nelle pieghe delle moderne conquiste civili. E oggi, attesissimo, sarà Gianfranco Fini a indagare il compito delle istituzioni nei confronti dei "nuovi cittadini" di diverse etnie e religioni, e soprattutto nella codificazione dei loro diritti.
Impresa che, ad ascoltare l'ex ministro dell'Interno del centrosinistra, è solo agli inizi. Ed ha un importante contraltare nella coscienza di ciascuno: «Le disuguaglianze aumentano fuori perché crescono dentro di noi. Oggi eguaglianza significa non pari trattamento ma pari libertà partendo da situazione impari«. Ovvero, libertà di essere diversi. Ricordando come il primo emendamento della Costituzione Usa garantisce la libertà di religione e come le «drammatiche devianze« degli anni '20 e '30 («L'identificazione di diverse razze umane è la disuguaglianza più obbrobriosa. Chi l'ha pensata è all’inferno») abbiano prodotto la stagione delle dichiarazioni dei diritti umani. Con un importante salto di qualità: dai diritti dei cittadini si passa a quelli della persona. E dunque: «Abbiamo trionfato sul male? No, un dubbio che dilaga e ci avvelena la vita». Si chiede Amato: «A chi viene qui spetta tutto il nostro welfare? Se è qui da 5 anni e guadagna meno di me, italiano da 5 generazioni, mi passa davanti per l'alloggio popolare? Suo figlio entrerà all'asilo e il mio no? Devo consentire a un musulmano di erigere qui la sua moschea? Di segregare in casa sua moglie perché così dice il Corano? Di impedire ai figli di convertirsi al cristianesimo?». La risposta, secondo il relatore, è in una duplice bussola. Da un lato, la Costituzione e le leggi per cui ogni diversità è accettata e protetta purché non abbia come prezzo i diritti essenziali di altri. E dunque «chi viene da società più arretrate deve capire che da noi le donne hanno uguale peso e i figli diritto a scelte civili e morali». Dall’altro lato, la coscienza del singolo: «Pensiamo di costruire una società insieme o chiuderci in noi e ridurre il fenomeno dell’immigrazione finché si estinguerà da solo?».
l’Unità 24.9.10
Tiro con l’arco e tiro a volo entrano nelle classi «No alla scuola con l’elmetto»
Si chiama “Allenati alla vita” il corso, con tanto di gare pratiche tra pattuglie di studenti, valido come credito formativo scolastico, che ha ricevuto l’ok dei ministri La Russa e Gelmini. Contrari Pd, Radicali e Tavola della pace.
di Marzio Cencioni
Anche saper tirare con l’arco e con la pistola ad aria compressa vale come credito formativo scolastico. Lo prevede un Protocollo d’intesa siglato tra l’Ufficio scolastico per la Lombardia e il comando regionale dell’esercito, con il beneplacito dei ministri La Russa e Gelmini, e il «caso» è approdato in Parlamento.
A portare alla ribalta la singolare intesa è stato il settimanale cattolico Famiglia cristiana e le critiche non si sono fatte attendere. Già mercoledì le associazioni studentesche e il Pdci avevano stigmatizzato l’iniziativa, ieri la Tavola per la pace ha puntato l’indice e Pd e Radicali hanno presentato interrogazioni parlamentari.
Ma di cosa si tratta? Il progetto, denominato “Allenati alla vita” è un corso, con successiva gara pratica tra pattuglie di studenti, valido come credito formativo scolastico e con oneri di spesa sponsorizzati da enti pubblici e privati. Oltre alle lezioni teoriche, che possono essere inserite nell’attività scolastica di “Diritto e Costituzione”, il progetto sviluppa le attività di primo soccorso, arrampicata, tiro con arco e pistola ad aria compressa, nuoto e salvamento, orientiring e, infine, percorsi ginnico-militari. Queste attività è la convinzione dei promotori «permettono di avvicinare in modo innovativo e coinvolgente, il mondo della scuola alle Forze armate, alla Protezione civile, alla Croce rossa e ai gruppi volontari di soccorso». Non solo. Consentirebbero anche di contrastare il bullismo «grazie al lavoro di squadra che determina l’aumento dell’autostima individuale e il senso di appartenenza a un gruppo».
UNA VALANGA DI CRITICHE
Molti gli esponenti politici che hanno deciso di portare la questione in Aula. «Dopo aver svuotato le casse scolastiche, dopo aver fatto entrare i simboli di partito in una scuola dello Stato oggi, con la diffusione e la pratica della cultura militare e dell’utilizzo delle armi a scuola, credo spiega Francesca
Puglisi, responsabile scuola del Pd sia giunto il momento di dire: basta. Si sta drammaticamente realizzando ciò che Piero Calamandrei aveva prefigurato in un suo celeberrimo discorso: il ritorno di una dittatura nel nostro paese non avverrà con i carri armati per le strade ma distruggendo la scuola pubblica. Noi vogliamo che i nostri ragazzi apprendano a scuola la cultura della pace, l’unica che potrà garantire a tutti un futuro».
Dello stesso tenore il commento dei Radicali. «Una ne pensano e cento ne fanno al Ministero della difesa; ma mai la fanno da soli. Infatti, se per la “mini-naja” è stato coinvolto il ministro per la Gioventù, per la “scuola di guerra” afferma il senatore Marco Perduca il ministro La Russa ha coinvolto la collega Gelmini».
«Per ora si sa solo che gli studenti saranno organizzati in “pattuglie” come quelle che girano per le strade dell’Afghanistan. Verrà insegnato loro a mirare, sparare e tirare con l’arco. Non verrà chiesto di combattere i talebani ma solo di sbaragliare tutti gli avversari. Non sappiamo quale premio verrà riconosciuto ai vincitori. Si sa che vincitori e vinti riceveranno un bel Credito formativo scolastico. È questa la scuola che vogliamo per i nostri figli?» si chiede Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace.
Repubblica 24.9.10
E il fucile entrò a scuola lezioni di guerra agli studenti
di Francesco Merlo
Forse è arrivato il momento di ritirare a Ignazio La Russa quell´attestato di simpatia che gli conferì Fiorello trasformando in satira e ironia il fascista primordiale ossessionato dalla virilità, con il naso adunco e righignato, le nari larghe, la barbetta sotto il mento, le ciglia aspre come setole.
Gli occhi come due palle di fuoco e l´ormai famosa voce, che è - "digiamolo" - fascismo rasposo più che buonumore rauco. In combutta con Maria Stella Gelmini, La Russa ha introdotto la pratica delle armi nelle scuole superiori. È un corso di guapperia militaresca, valido come credito formativo, che hanno chiamato "Allenati alla vita" e dove l´insegnamento pratico delle tecniche di guerra, la divisone dei ragazzi in pattuglie, il caricamento dei fucili e le sedute nei poligoni di tiro stanno insieme ad altre discipline belle, giuste e già obbligatorie nelle scuole anglosassoni, come per esempio la sopravvivenza, il nuoto, il primo soccorso e le tecniche di salvataggio. È dunque evidente il tentativo di nascondere le ortiche in un mazzo di fiori, ma il risultato finale è quello, opposto, di nascondere i fiori ed esaltare le ortiche, vale a dire lo spirito guerriero come valore educativo.
È chiaro che nessun La Russa e nessuna Gelmini riusciranno a risvegliare negli italiani la retorica degli otto milioni di baionette ed è molto probabile che non è questo che i due ministri vogliono. Insomma non è il fascismo che li anima. È però una caricatura di "libro e moschetto" questa idea che la scuola debba insegnare a sparare ed è l´ennesima prova che troppo presto e con troppa benevolenza abbiamo liquidato Ignazio La Russa come pittoresco quando concesse le Frecce Tricolori al circo di Gheddafi, o quando si fece riprendere in tuta mimetica negli avamposti afgani, o ancora quando cercò di picchiare, con le sue manone ministeriali, un giornalista che "disturbava" la conferenza stampa di Berlusconi. O, andando a ritroso, quando fu sorpreso (e registrato) da un cronista del Tempo in un bar di Roma, mentre con Gasparri e Matteoli sfogava la sua arcaica e cameratesca virilità in un turpiloquio irripetibile, a conferma di un rapporto losco con il sesso, rude, crudo, diretto, strumentale e fascista. La verità è che del fascismo nostalgico La Russa conserva la vocazione per la pagliacciata delle parate, il salto dentro il cerchio di fuoco di Starace, e da ministro della Difesa scambia i militari con i militaristi, l´esercito moderno che sa fare la guerra perché vorrebbe abolirla con i Rambo e con la maschia gioventù della sua sottocultura, i cittadini guerrieri che sanno tutto di fucili, coltelli, polvere pirica, cartucce, tute mimetiche e stivaloni.
Nelle scuole tedesche e in quelle inglesi, a Chicago come a Parigi, a Stoccarda come a Londra e anche a Torino, per non parlare di certi istituti dei quartieri caldi delle città italiane del Sud, circolano troppe pistole e coltelli, e ci sono ragazzi che sparano con il fucile dal balcone di casa, altri ancora che massacrano i loro coetanei. Insomma sempre più si diffonde, anche in Italia, l´uso delle armi da gioco e da difesa, armi da caccia e armi contro l´insicurezza, armi di paura, armi per diventare eroi, armi per diventare delinquenti. Sembra dunque incredibile che la ministra Gelmini pensi davvero che imparare a sparare permetta «di avvicinare, in modo innovativo e coinvolgente, il mondo della scuola alla forze armate, alla protezione civile, alla Croce rossa e ai gruppi volontari del soccorso». È vero il contrario: per educare e per allenare alla vita, la scuola dovrebbe, fra la altre cose, smontare la cultura della armi e insegnare a vivere con compostezza, perché i fucili, le pistole e le pallottole prima o poi trovano un nemico da abbattere: «Se al primo atto il fucile è appeso al muro, al terzo sicuramente sparerà».
Perché non insegnare allora la speciale camminata del protettore di strada, l´uso della mezza parola e dei baffoni a cespuglio o magari la loro variante padana, vale a dire il dito medio di Bossi che è come il ciuffo manzoniano, quello dei bravi? Le armi a scuola sono roba da Antistato, da picciotti appunto. La Gelmini è la loro nuova eroina se non altro perché in questo modo dimostra ai picciotti che tutto è professionale e tutto si può insegnare, anche l´accattonaggio. Esistono già le scuole, non certo comunali né regionali, nelle quali si insegna a sparare e a maneggiare bastoni e coltelli, ma anche a fingersi storpi o ciechi per impietosire la gente. E come tutti capiscono, ci vuole professionalità e tecnica anche per rubare motorini.
Come dicevamo all´inizio, facendo la caricatura dell´uomo delle caverne, Fiorello offrì a La Russa un passaporto per la simpatia. Ed è probabile che davvero a La Russa riuscì di prendere le distanze da quel se stesso che Fiorello così bene strapazzava. Ma adesso che il potere ce lo ha restituito al naturale, il brutto anatroccolo è ridiventato brutto anatroccolo. Ha perso la dignità umoristica ed è ritornato ad incarnare lo stereotipo, ridicolo ma non più simpatico, del fascista violento fuori dal tempo e fuori dal mondo. E gli si affianca la Gelmini che con cinica crudezza e con indecenza getta nella scuola-spazzatura tutte le ossessioni dei ministri del governo Berlusconi: i tagli di Tremonti, i fannulloni di Brunetta, i razzismi della Lega, il rancore verso i sindacati e il sessantotto, e ora l´arditismo del ministro della Difesa. Come ultima scelleratezza la Gelmini "addottora" infatti le armi e i miti primordiali di La Russa: appalta la scuola al selvaggio di destra con il totem della virilità.
Repubblica 24.9.10
Corsi militari a scuola, bufera in Lombardia
Un progetto di addestramento voluto da La Russa e Gelmini. "No agli studenti con l´elmetto"
di Sandro De Riccardis
Partecipano ottocento ragazzi di 140 istituti. L´indignazione di Famiglia cristiana
MILANO - Pattuglie di studenti che come soldati imparano a tirare con l´arco, a mirare e sparare con pistole ad aria compressa, a sperimentare tecniche di primo soccorso e arrampicata, ma anche di "superamento ostacoli e sopravvivenza in ambienti ostili". Come in guerra.
Un «progetto di addestramento», si legge nella circolare che recepisce il protocollo "Allenati alla vita", siglato tra la direzione scolastica della Lombardia e il comando militare dell´Esercito, «supportato dalla sinergia» tra i ministri della Difesa Ignazio La Russa e dell´Istruzione Maria Stella Gelmini. Un corso che coinvolge tutte le province lombarde, 800 studenti, 140 istruttori appartenenti all´Unione nazionale ufficiali in congedo d´Italia, 27 docenti e 38 scuole superiori. E che scatena le polemiche di opposizione e pacifisti, e anche del settimanale Famiglia Cristiana che ne ha dato per prima notizia. «È una scelta che sa di antico, e sembra appartenere a un´altra epoca» accusa don Antonio Sciortino, direttore del periodico. La Tavola della Pace parla di «studenti con l´elmetto». «Organizzati in pattuglie come quelle che girano per le strade dell´Afghanistan – attacca Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace – Non gli verrà chiesto di combattere i talebani ma solo di sbaragliare tutti gli avversari. Non sappiamo quale premio verrà riconosciuto ai vincitori».
Per tutti gli adolescenti, il corso è valido come credito formativo, si avvale di militari in congedo anche di ritorno da missioni all´estero, ha lo scopo di "far rivivere ai giovani esperienze di sport e giochi di squadra, ma anche introdurre corsi specifici e prove tecnico pratiche per avvicinare la realtà scolastica alle Forze armate, ai corpi dello Stato e alla Protezione civile e a gruppi volontari di soccorso". Per gli ideatori il corso serva anche a contrastare il bullismo, "grazie al lavoro di squadra che determina l´aumento dell´autostima individuale e il senso di appartenenza a un gruppo". Duro il commento del Partito democratico che ricorda le parole di Piero Calamandrei. «Si sta drammaticamente realizzando ciò che aveva prefigurato in un suo celeberrimo discorso – ricorda Francesca Puglisi, responsabile Scuola del partito –, il lento ritorno di una dittatura nel nostro paese, non con i carri armati per le strade ma distruggendo la scuola pubblica. Noi vogliamo che i nostri ragazzi apprendano in classe la cultura della pace, l´unica che potrà garantire a tutti un futuro». Di «scuola di guerra» parla anche il radicale Marco Perduca. Intanto, con una mozione in Consiglio regionale della Lombardia, il consigliere di Sinistra ecologia libertà Chiara Cremonesi chiede il ritiro immediato del protocollo. «Un opuscolo che ci lascia davvero esterrefatti – dice Cremonesi – Dieci pagine in cui gli studenti vengono chiamati "cadetti" e le squadre "pattuglie". Si tagliano materie importanti e si colpisce la qualità dell´insegnamento, compromettendo il futuro di un´intera generazione di studenti. Ma li si addestra a sparare».
Repubblica 24.9.10
Così si uccide la scuola pubblica
di Chiara Saraceno
Le maestre sono costrette a barcamenarsi, rallentano per non lasciare indietro gli alunni che partono svantaggiati
Una prima elementare a tempo pieno di una città del Nord, in un quartiere popolare con una forte presenza di immigrati. Trenta bambini per lo più eccitati dall´essere entrati tra i "grandi", ad imparare le cose "dei grandi", dopo il lungo apprendistato della scuola dell´infanzia, ove hanno da tempo imparato diverse cose, che un tempo si imparavano solo alla scuola elementare: non solo ad utilizzare il disegno come forma di comunicazione, ma a scrivere il proprio nome, riconoscere i segni identificativi del proprio e altrui posto, muoversi negli spazi e utilizzarli appropriatamente. Una buona metà sa già leggere e scrivere, pur con diversi livelli di competenza. Altri, anche tra gli italiani, fanno invece fatica ad esprimersi. Tra i figli di immigrati, ci sono diversi livelli di competenza linguistica: qualcuno padroneggia l´italiano come i coetanei italiani, con cui spesso è stato alla scuola materna, altri sono appena arrivati e stanno incominciando a impararlo, insieme a tutte le altre novità che comporta l´essere stato trapiantato in un paese sconosciuto.
Di fronte a questi bambini così diversi, ma tutti con le loro attese, curiosità, disponibilità ad essere conquistati dal meraviglioso mondo dell´apprendimento e della conoscenza, una sola maestra. Dato che la compresenza è stata eliminata in nome di esigenze di bilancio, ma anche perché la ministra e i suoi consiglieri la considerano uno spreco inutile di personale a solo vantaggio dei sindacati, una sola maestra per volta deve tener vivo l´interesse di trenta bambini, attenta a non scoraggiare chi è più avanti e a non lasciare irrimediabilmente indietro chi fa più fatica.
E dato che la ministra pensa che il modo migliore di integrare i bambini di provenienza non italiana sia separarli, se invece questi si trovano in mezzo ai coetanei italiani, non è previsto nessun insegnante che li segua nell´apprendimento della lingua (una misura da tempo inventata in paesi con una storia migratoria più lunga). Certo, negli anni Cinquanta e Sessanta le classi elementari potevano arrivare fino a 40 allievi. Ma era anche il tempo in cui i bambini erano molti di più e in un contesto di risorse - insegnanti, edifici - scarse c´era una sorta di trade off tra l´intento di fare in modo che tutti andassero a scuola e l´attenzione per i diversi ritmi e capacità di ciascuno. I bambini arrivavano a scuola con attitudini e competenze certamente differenziate per classe sociale, ma in un mondo ancora limitato al perimetro della famiglia e della scuola. Non c´era la televisione, il computer, internet. La pubblicità non aveva ancora scoperto i bambini come consumatori. E l´autorità e la disciplina erano lo strumento principe per tenere in ordine la classe, senza troppe preoccupazioni per gli effetti delle disuguaglianze sociali. Infatti i bocciati (già in prima elementare) appartenevano tutti alle classi più svantaggiate.
Quel mondo non esiste più, e le maestre lo sanno bene. Sanno anche che proprio perché i bambini oggi sono esposti ad una varietà di stimoli ed esperienze cognitive ben prima di arrivare nella scuola elementare, hanno bisogno di un insegnamento più dinamico e che riconosca le loro competenze e quindi più attento al diverso ritmo e sviluppo di ciascuno. Tanto più che proprio questa maggiore ricchezza di stimoli rischia di allargare le disuguaglianze sociali: tra i bambini che per appartenenza familiare sono in grado di trarne tutti i benefici ed invece quelli che ne sono esclusi. Ma non si può fare con questi numeri.
Così le maestre si barcamenano, rallentano le fasi dell´apprendimento per non lasciare troppo indietro quelli che partono svantaggiati, senza tuttavia poterlo fare del tutto. Così che comunque qualcuno sarà lasciato ad arrancare mentre i più svegli, o i più avvantaggiati, si annoieranno e forse perderanno per la strada la fiducia che avevano riposto in questa avventura. Ed i genitori che possono permetterselo si chiederanno se non sia meglio iscrivere il figlio ad una scuola privata. È così che si uccide la scuola pubblica, ma soprattutto la curiosità, la voglia di apprendere di chi vi entra con fiducia e desiderio. Non è colpa né delle maestre (che anzi fanno del loro meglio), né degli immigrati, né tantomeno dei bambini e dei loro genitori, con le loro diversità e disuguaglianze. È colpa di una gestione politica della scuola miope e indifferente all´esperienza dei bambini.
l’Unità 24.9.10
Il presidente Usa all’assemblea: moratoria delle colonie, il nuovo Stato entro un anno
Gerusalemme nega il boicottaggio del discorso: assenti perché è la festa sacra del Sukkot
Obama spinge per la Palestina All’Onu vuote le sedie di Israele
Un discorso coraggioso. «La vera sicurezza dello Stato Ebraico richiede una Palestina indipendente». È il messaggio di Barack Obama all’Assemblea generale dell’Onu. Il giallo delle sedie vuote di Israele.
di Umberto De Giovannangeli
Barack Obama lancia dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite un messaggio politico. Che dà sostanza al «Nuovo Inizio» evocato dal presidente Usa nel suo discorso all’Università del Cairo. Obama rilancia. Se ci sarà un accordo di pace in Medio Oriente nei prossimi mesi, «quando torneremo qui l’anno prossimo potremmo avere un accordo che ci porterà uno nuovo membro delle Nazioni Unite: uno Stato indipendente di Palestina, che vive in pace con Israele», rimarca Obama prendendo la parola al Palazzo di Vetro in occasione della 65ma Assemblea Generale dell’Onu.
APPOGGIO ALL’ANP
«Non vi sbagliate: il coraggio di un uomo come il presidente (dell’Autorità Nazionale Palestinese) Abu Mazen, che difende il suo popolo di fronte al mondo, è decisamente più grande di coloro lanciano razzi contro donne e bambini innocenti», scandisce l’inquilino della Casa Bianca ribadendo il suo pieno appoggio alla leadership di Mahmud il moderato. «Ma pensate per un attimo all’alternativa – prosegue Obama nel suo ragionamento se non c’è un accordo, i palestinesi non conosceranno mai l’orgoglio e la dignità che conferisce uno Stato». Mentre «gli israeliani non conosceranno mai la certezza e il senso di sicurezza che può dare un vicino sovrano e stabile,che si è impegnato seriamente per una convivenza pacifica». La certezza di Obama è una sola: se il suo tentativo fallisce, bisognerà aspettare la prossima generazione per sperare di negoziare di nuovo. Per questo, il presidente americano si rivolge, in particolare, ai Paesi arabi perché facciano di più per sostenere concretamente una pace che finora hanno solo auspicato a parole. «In questa sala molti di voi si definiscono amici dei palestinesi afferma l’inquilino della Casa Bianca alle parole ora devono seguire i fatti».
Chi appoggia l’esistenza di una Palestina indipendente, «deve smettere di tentare di distruggere Israele». Secondo l’inquilino della Casa Bianca, «i tentativi di minacciare o uccidere israeliani non gioveranno in nulla al popolo palestinese, perché il massacro di israeliani innocenti non è resistenza, è ingiustizia». Obama afferma inoltre che «coloro che hanno sottoscritto l’Iniziativa di pace araba (presentata a Riad nel 2003, ndr) dovrebbero cogliere quest’opportunità di metterla in pratica, specificando e dimostrando nei fatti la normalizzazione che essa ha promesso a Israele». Inoltre, «coloro che prendono posizione per l’autogoverno palestinese dovrebbero sostenere i palestinesi con il loro appoggio politico e finanziario e, così facendo, aiutare i palestinesi a costruire le istituzioni del loro Stato». Obama chiede anche a Israele di estendere la moratoria della costruzione di insediamenti nei Territori occupati, incontrando subito il favore di Abu Mazen. Sulla questione Iran, Obama ha ribadito che «la porta resta aperta alla diplomazia se Teheran deciderà di varcare tale soglia»’. Ma il governo iraniano «deve dimostrare al mondo gli scopi pacifici del suo programma nucleare»’. Obama ha poi confermato che tutte le truppe Usa lasceranno l’Iraq entro l’anno prossimo mentre il ritiro dall’Afghanistan scatterà nel luglio 2011. La distruzione di Al Qaeda resta un’altra priorità del presidente Usa.
Ad ascoltare Obama, al Palazzo di Vetro, non c’è la delegazione d’Israele. Generalmente, anche in caso di boicottaggio, un funzionario di basso livello ascolta l’intervento in questione.
IL FALCO LIEBERMAN
A guidare la delegazione israeliana è il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, capofila dei falchi nel Governo dello Stato ebraico. Ma Israele nega qualsiasi boicottaggio del discorso del presidente Usa. Rispondendo ad una domanda, una portavoce della missione israeliana, Karean Perez, ha indicato: «No, non c’e’ stato nessun boicottaggio. Sukkot, iniziata ieri sera (mercoledì ndr) , è una festa sacra e oggi (ieri, ndr) non ci siamo. Domani (oggi) saremo presenti, e avevamo avvertito. All’Onu lo sanno». Il «giallo delle sedie vuote» cade nel giorno in cui della pubblicazione del rapporto della Commissione d’inchiesta del Consiglio dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, che ha indagato sull’arrembaggio alla nave turca «Mavi Marmara» che provocò la morte di nove persone. Secondo il rapporto, la Marina militare israeliana è responsabile di «gravi violazioni dei diritti umani» ed ha fatto ricorso a una «brutalità inaccettabile» durante il blitz del 31 maggio scorso contro la flottiglia di aiuti umanitari diretta alla Striscia di Gaza.
l’Unità 24.9.10
L’esecuzione fissata per le tre del mattino, ora italiana, in un carcere della Virginia
Otto anni fa fece assassinare il marito ed il figliastro. I periti: mentalmente disabile
Usa, Teresa Lewis nelle mani del boia Per Teheran è la Sakineh americana
Fissata per le tre di stamane, ora italiana, in Virginia, l’esecuzione di Teresa Lewis, che il presidente iraniano Ahmadinejad ha definito la Sakineh americana. La donna nel 2002 fece uccidere il marito ed il figliastro.
di Gabriel Bertinetto
Mentre si avvicinava inesorabilmente l’ora dell’esecuzione (le tre di stamattina in Italia) Teresa Lewis, rassegnata al suo destino, ha chiesto che le servissero per l’ultima volta i piatti preferiti: pollo fritto, piselli, torta di mele. Ed una lattina di «Dr Pepper», una bevanda gassata analcolica. Teresa Lewis, 41 anni, condannata a morte come mandante dell’omicidio del marito e del figliasto, si è congedata dal mondo vivendo le sue ultime ore come se fosse una giornata qualsiasi.
FEDE IN DIO
Dopo i due consecutivi no alla richiesta di grazia, pronunciati prima dal governatore della Virginia e poi dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, le chances di una sospensione della sentenza si erano ridotte praticamente a zero. Mercoledì nel carcere «Greensville» di Jarratt, in Virginia, è andato a trovarla il sacerdote che da tempo ne era diventato il confidente ed assistente spirituale. Padre Lynn Litchfield è stato anche uno dei più attivi promotori della campagna per salvare la vita alla donna, che ha ammesso le sue colpe ed è stata giudicata parzialmente incapace di intendere in varie perizie psichiche.
«Da quando mi hanno condannato alla pena capitale, non ho fatto altro che affidarmi a Gesù e lasciare che entrasse nel mio cuore, nella mia mente, nella mia anima», ha scritto Teresa qualche tempo fa. Ma la conversione religiosa ed il pentimento non hanno impressionato la figliastra Cathy Clifton, che in nome della stessa fede in Dio ne ha sempre invocato la morte: «La Bibbia dice che se hai peccato, se violi la legge, devi essere punito». E per Cathy il castigo, nel caso della matrigna, non poteva essere altro che l’uccisione. Cathy ha lasciato ieri la sua casa nel distretto di Pittsylvania per assistere di persona all’esecuzione insieme al marito, una cognata, e un’amica.
VENDETTA DI STATO
La Virginia è uno degli Stati americani in cui le pena capitale viene applicata più spesso, ma da un secolo nessuna donna saliva sul patibolo. Forse l’evento avrebbe avuto scarso rilievo mediatico, senza la clamorosa accusa di Mahmoud Ahmadinejad, capo di Stato iraniano: gli Stati Uniti ci attaccano per il verdetto di morte contro Sakineh Ashtiani, ma a casa loro fanno esattamente le stesse cose. Un’accusa falsa. Sono due vicende molto diverse. E radicalmente diverso è il contesto giuridico in Iran, dove le garanzie di un processo equo sono minime, rispetto agli
Usa, dove gli avvocati hanno potuto liberamente svolgere il loro lavoro in difesa della loro assistita. Ad accomunare la sorte di Teresa e Sakineh è solo la loro vulnerabilità rispetto ad un istituto barbaro, la vendetta di Stato. Ancora ieri l'ambasciatore dell'Unione Europea negli Stati Uniti ha scritto al governatore della Virginia Bob McDonnell: «La Ue considera l'esecuzione di persone con disordini mentali contraria ai minimi standard di diritti umani». Ma l’ora fissata per la somministrazione del veleno letale si avvicinava, senza che dalle autorità americane arrivasse alcun segno tale da sperare in una marcia indietro in extremis.
l’Unità 24.9.10
Dal 1976 negli Usa mandati a morte 1226 condannati
Dal 1976, anno in cui la Corte Suprema reintrodusse in America la pena capitale, sono state messe a morte negli Stati Uniti 1.226 persone: 1.215 uomini e 11 donne. Nessuna in Virginia. Teresa Lewis, la disabile mentale di 41 anni, è la prima donna ad essere messa a morte in Virginia nell'arco di quasi cento anni. Nello Stato l'ultima esecuzione di una donna avvenne nel 1912, quando venne eseguita la sentenza nei confronti di Virginia Christian, una ragazza di 17 anni uccisa sulla sedia elettrica. Sempre in Virginia, la prima esecuzione documentata risale invece al 1632 con l'impiccagione di Jane Champion. Da quel giorno sono state 123 le donne messe a morte. Ma dal 1976, anno della reintroduzione della pena di morte, negli Stati Uniti sono state in tutto 11.
Repubblica 24.9.10
Sconto Ici alla Chiesa, la Ue processa l´Italia
di Alberto D'Argenio
Esenzioni per due miliardi l´anno. Bruxelles accelera: "Sono aiuti di Stato"
Diciotto mesi di tempo per indagare, poi la Commissione darà il suo verdetto
Se l´Italia sarà condannata, dovrà chiedere il rimborso delle tasse non pagate
BRUXELLES - Le esenzioni fiscali concesse alla Chiesa costano allo Stato italiano un´indagine formale dell´Ue per aiuti di Stato incompatibili con le norme sulla concorrenza. Dopo quattro anni di scambi di informazioni, due archiviazioni e una serie di controricorsi, Bruxelles mette in moto «un´indagine approfondita» sui privilegi fiscali attribuiti agli enti ecclesiastici in settori in cui "l´azienda Chiesa" (conta circa 100 mila fabbricati) è leader nazionale: ospedali, scuole private, alberghi e altre strutture commerciali che godono di un´esenzione totale dal pagamento dell´Ici e del 50% da quello sull´Ires. Con un risparmio annuo che si avvicina ai due miliardi di euro e conseguenti vantaggi competitivi rispetto ai concorrenti laici.
La procedura per aiuti di Stato sarà aperta a metà ottobre dalla Commissione europea. La decisione è già stata scritta e al momento è soggetta alle ultime limature. Nell´introduzione del documento redatto dal commissario alla Concorrenza Joaquin Almunia si legge: «Alla luce delle informazioni a disposizione la Commissione non può escludere che le misure costituiscano un aiuto di Stato e decide quindi di indagare oltre». In poche parole, da scambi di informazioni informali il dossier diventa ufficiale e fa scattare quella procedura di 18 mesi al termine della quale la Ue dovrà emettere un verdetto.
La procedura contro lo Stato italiano si articolerà su tre fronti: sotto accusa verranno subito messi il mancato pagamento dell´Ici e l´articolo 149 (4 comma) del Testo unico delle imposte sui redditi che conferisce a vita la qualifica di enti non commerciali a quelli ecclesiastici (non svolgete un´attività di impresa a prescindere e quindi pagate meno tasse). Il terzo filone riguarda lo sconto del 50% dell´Ires concesso agli enti della Chiesa che operano nella sanità e nell´istruzione: prenderà la forma di una richiesta di informazioni approfondita essendo risalente agli anni ´50, prima della nascita della Cee.
L´esenzione totale dall´Ici è stata introdotta nel dicembre 2005, in campagna elettorale, dal governo Berlusconi e quindi rivista da quello Prodi (2006) che messo sotto pressione dalla Ue aveva ristretto i privilegi solo alle attività "non esclusivamente commerciali". Intervento aggirato da ospedali o scuole che al loro interno hanno una piccola cappella. Le norme erano state portate a Bruxelles da una denuncia promossa dal radicale Maurizio Turco e del fiscalista Carlo Pontesilli (segretario di anticlericale.net) assistiti dall´avvocato Alessandro Nucara. L´allora commissaria Neelie Kroes aveva però archiviato due volte il caso e a Bruxelles in molti raccontano le fortissime pressioni ricevute da entrambe le sponde del Tevere. Di fronte all´ennesima archiviazione i denuncianti si sono rivolti alla Corte di giustizia e i legali di Bruxelles hanno convinto Almunia ad aprire la scomoda procedura (andare contro il Vaticano e un Paese fondatore non è mai consigliato) per evitare una condanna per inazione da parte dei giudici del Lussemburgo.
Condanna difficile da scampare leggendo le "conclusioni preliminari" contenute nel documento dello stesso Almunia: l´esistenza dell´aiuto di Stato è resa chiara dal «minor gettito per l´erario» e la norma viola la concorrenza in quanto i beneficiari degli sconti Ici «sembrano» essere in concorrenza con altri operatori nel settore turistico-alberghiero e della sanità. Insomma, le condizioni dell´esistenza dell´aiuto e della sua incompatibilità con le norme Ue «sembrano essere soddisfatte». Analisi curiosamente opposta a quella contenuta nelle due precedenti archiviazioni (2008 e 2010) quando non c´erano timori di una sconfessione da parte della Corte. Con l´apertura dell´indagine formale le parti avranno un mese per presentare le proprie ragioni. Quindi entro 18 mesi Bruxelles dovrà decidere se assolvere o condannare l´Italia, con conseguente fine dei privilegi e inevitabile rimborso all´erario delle tasse non pagate dagli enti ecclesiastici.
il Fatto 24.9.10
Prima della Tv
Radiotre sessant’anni sull’onda
Cosa rappresentò l’investimento culturale del fondatore Mantelli? La possibilità di uno spazio libero per parlare di arte senza condizionamenti politici
di Nicola Lagioia
Se come vuole la leggenda Mike Buongiorno avrebbe insegnato la lingua nazionale a un popolo di semianalfabeti diviso tra mille dialetti, a chi, nel mondo dei media, venne affidato invece il compito di confortare l'alfabetizzatissima schiera di italiani – non così minoritaria come si crede – che sognava un paese capace di rinascere anche culturalmente? Il Terzo Programma (Radio Tre a partire dal 1976) nacque sessant'anni fa, il 1 ottobre del 1950, sotto la direzione di Alberto Mantelli. Si trattò di un evento rivoluzionario almeno sotto tre profili: 1) per la prima volta un canale tematico si proponeva come alternativa alla filosofia generalista che fino a quel momento aveva caratterizzato la radio (e che caratterizzerà in modo sempre più invasivo e insopportabile la televisione); 2) il tema scelto era la cultura; 3) questo nuovo canale radiofonico veniva diffuso grazie a una tecnologia quasi del tutto nuova per l'epoca: insieme al Terzo Programma, era praticamente nata l'fm.
La sera di quel primo ottobre 1950 fu dedicata al mito di Orfeo. Il palinsesto si apriva con una conversazione di Emilio Cecchi sulla natura del mito. A seguire, tre ascolti di grande valore storico e musicale: L'Orfeo di Claudio Monteverdi, Orfeo all'Inferno di Jacques Offenbach, e Orfeo di Igor Stravinskij. Nei giorni immediatamente successivi si continuerà a parlare di musica e ad ascoltarla, ci saranno approfondimenti letterari su Pirandello, Jean Cocteau, Victor Hugo, e ancora musica con Hector Berlioz e altre serate "a soggetto" (su Gide, su Schumann, sulla Vienna della Finis Austriae, sulla Parigi del 1830). Una rete tutta culturale dunque, di profilo decisamente alto, in sintonia con quello che più o meno negli stessi anni stava accadendo in paesi come la Francia o l'Inghilterra del Bbc Third Programme: era questa insomma la scommessa.
L'impatto del Terzo Programma sugli ascoltatori radiofonici ebbe esiti interessanti quanto imprevisti, e fu la cartina di tornasole di un'Italia ancora poco censita sotto questo profilo. Si scoprì l'esistenza di un pubblico affamato di cultura, che apprezzava ma non si accontentava, che ringraziava anche affettuosamente per l'esistenza di un canale radiofonico capace di rendere sempre più remota l'esigenza di una “gita a Chiasso” (l’antidoto mettere il naso fuori dai confini nazionali che provocatoriamente Arbasino consigliava per debellare il provincialismo culturale dell'Italia fascista e immediatamente post-fascista) ma che sapeva anche correggere, criticare, proporre... ascoltatori insomma che rilanciavano di continuo.
LA NASCITA della televisione, nel 1954, catalizzò ovviamente intorno a sé un pubblico in gran parte diverso da quello che seguiva il Terzo Programma, ma non si mise rispetto ad esso nella posizione di quasi insanabile contrapposizione che può esserci oggi – "quando sento parlare di cultura, metto la mano alla pistola", potrebbe dire con Goebbels l'attuale televisione generalista, e anche qualche nostro ministro. Se infatti da una parte la vecchia Rai parlava l'italiano di Mike Bongiorno (che era appunto un italiano televisivo, più povero e insipido di uno qualunque dei nostri dialetti, proprio mentre in radio a parlare di lingua e di dialetto in modo totalmente diverso venivano chiamati Bruno Migliorini e Giacomo Devoto) è pure vero che gli schermi televisivi dell'epoca non erano del tutto interdetti a gente come Eco, Calvino, Pasolini, Bene, Fo, e perché no Enzo Biagi. Così, a distanza di sessant'anni, la cosa più interessante da capire è probabilmente quale sia il ruolo di una radio culturale in un paese completamente mutato, stretto nella morsa di quella che in un recente saggio Massimo Panarari ha chiamato "l'egemonia sottoculturale". In un paese in cui la televisione è diventata inguardabile e la politica un degno specchio della televisione, a Radio Tre si continua invece a parlare di letteratura, di teatro, di scienza, di cinema, si mandano in diretta i concerti di musica classica, vengono interpellati ogni giorno scrittori, filosofi, registi, storici, musicisti... oppure si fa la radio fuori dalla radio (come lo speciale di quest'anno in diretta da Bologna nel trentennale della strage, o quello andato in onda dalla Casa della memoria e della storia di Roma, o la trasferta radiofonica dal festival teatrale di Santarcangelo). Si tratta dunque di un mondo fuori dal povero mondo italiano di questi anni? "Non un'isola felice, beata e separata", dice Marino Sinibaldi, direttore di Radio3 dall'agosto del 2009 nonché ideatore e conduttore per anni dell'ormai storica trasmissione Fahrenheit, "una penisola, semmai: ben attaccata alrestodelmondomaunpo'–o molto – diversa".
IN REALTÀ , con quasi tre milioni di ascoltatori al giorno e un incremento degli ascolti di oltre il venti punti secondo le ultime rilevazioni Audiradio, questa penisola nella penisola non è un rifugio per happy few e neanche un baluardo della resistenza culturale o semplicemente l'unica realtà mediatica sopravvissuta alla morte del servizio pubblico. Piuttosto, in questi anni Radio 3 è diventata uno dei più importanti luoghi di confronto per un'Italia parallela, viva e attiva, che frequenta le librerie, che continua ad andare a cinema e ai concerti, che si ritrova ai festival, che discute, si appassiona, prova a capire il proprio tempo, e cerca soprattutto di sintonizzarsi su un linguaggio molto diverso dal non-linguaggio di un mainstream sempre più autodistruttivo, nel tentativo di dimostrare e dimostrarsi infine che sì, un altro paese non è solo possibile, ma già esiste.