domenica 21 giugno 2009

l'Unità 21.6.09
L’ultimo parlamento italiano
Il governo dello spettacolo aveva già fatto la sua tournée a L’Aquila. I parlamentari di maggioranza sono declassati a loggione
di Furio Colombo


I giorni che stiamo vivendo dentro la sfortunata Repubblica Italiana, oscurata da quasi tutte le televisioni e disinformata da quasi tutti i giornali (anche se si intravedono le prime crepe nella diga che fino ad ora ha trattenuto e nascosto il liquame del regime) sono talmente vergognosi da renderci prigionieri di un dilemma: o parli solo del “casino Italia” come ha opportunamente intitolato Libero , o parli d’altro. Per esempio della folla esasperata di cittadini dell’Aquila e dell’Abruzzo che hanno sfidato la militarizzazione imposta alla città dai pasdaran della Protezione civile e sono venuti a Roma, davanti al Parlamento a dire la verità. Ovvero la loro vergogna e il loro imbarazzo per essere stati visitati e intrattenuti, a fari accesi e sotto le telecamere, da un finto capo del governo che in realtà era un abile imitatore e anzi, presumibilmente, un nemico giurato del buon governo. Quando si sono accorti del falso, dopo mesi di vita impossibile nelle tende gelate di notte, invivibili nella pioggia e roventi di sole, una specie di Guantanamo venduto per salvezza, sono venuti a Roma in cerca di verità. Non l’hanno trovata. Anche nei palazzi del potere, anche quando non ci sono feste indecorose a pagamento, non c’è il vero capo del governo, uno che accorre quando deve, promette quel che può, e mantiene subito e con rigore le promesse. C’è solo, lontano, incapace, furibondo e distratto “come uno che non sta bene” (fonte: Veronica Lario) l’attore che promette tutto e non sa mantenere niente.
Questo giornale ha dato ai lettori la cronaca di ciò che è accaduto davanti a Montecitorio, di quella folla costretta a rendersi conto della beffa subita dal governo, e dunque dallo Stato italiano, nel peggior momento della loro vita, uomini e donne, giovani e non giovani, che prima, nella loro vita, si erano dedicati alla famiglia, al lavoro, alle professioni, costretti adesso a sfilare con cartelli e striscioni come se esigessero un di più mentre denunciavano il niente. In quelle stesse ore, dentro Montecitorio, si celebrava l’altra parte della vergogna: una maggioranza parlamentare muta e succube di un governo che si occupa di trasporti per feste ma non di terremotati, e che tranquillamente promette la luna, tanto è un argomento di canzoni, non di politica. La vergogna era questa: la legge in discussione era per “Gli interventi urgenti in Abruzzo” e mancava di tutto. Mancava di soldi, di progetti, di idee, aveva saltato interi settori di attività essenziale (le scuole) e interi blocchi di cittadini, i cosiddetti proprietari di “seconde case” che non saranno ricostruite benché siano al secondo e al quarto piano dell’edificio la cui ricostruzione è teoricamente prevista. Non fissava date e non garantiva scadenze.
Tutta l’opposizione (Pd, Italia dei valori, Udc) si è impegnata, emendamento dopo emendamento, a riempire le inaccettabili omissioni, le inspiegabili incompetenze, a correggere l’ovvia e offensiva inutilità della legge. Lo spettacolo triste, durato per tre giorni, è stato il silenzio disciplinato della maggioranza di governo, uomini e donne solitamente vivi e aggressivi ridotti a una assemblea ottusa che non ascolta, non vede, non decide. Ha già deciso il governo. E così, come se questo fosse l’ultimo Parlamento, come se nessuno di questi parlamentari avesse un dopo in cui rendere conto e un elettorato che vorrà sapere, ogni emendamento dell’opposizione, per quanto utile e necessario è stato respinto, anche se diceva che non c’è più università, che è urgente ricostruire la Casa dello studente, che l’ospedale va rimesso in grado di funzionare, che dopo un simile terremoto è assurdo e impossibile distinguere fra prime e seconde case, che i soldi non bastano per cominciare, che occorrono date certe della ricostruzione, fasi realistiche, dati veri, sia per buona organizzazione sia per dare speranza. Lo spettacolo di ciò che è accaduto dentro Montecitorio, mentre fuori una folla di cittadini normali e per bene, è costretta a gridare la sua indignazione, era anche più desolante. Una parte sorda, cieca e muta del Parlamento taceva, evitava ogni confronto, si auto-proibiva qualunque discussione, respingeva in silenzio anche le proposte ispirate a esperienza, mitezza, buon senso. Il governo dello spettacolo aveva già fatto la sua tournée all’Aquila. Sta preparando, a carico dei disperati cittadini dell’Aquila il nuovo mega-spettacolo del G8. I parlamentari del partito di governo sono stati declassati a loggione. Tacciano, ignorino, lascino lavorare chi sa fare spettacolo. L’ultimo Parlamento ha abbassato la testa in segno di umile assenso.
Per fortuna non tanti nell’opposizione pensano ancora che sia estremista dire «no». In tanti si rendono conto, finalmente, che «no» è l’unica risposta possibile.

Repubblica 21.6.09
Un premier sotto ricatto e una suburra di Stato
di Eugenio Scalfari


Le eventuali dimissioni di Berlusconi dipenderanno dal suo senso di responsabilità e dalle pressioni che riceverà all´interno del governo e del partito
La domanda che milioni di persone sempre più disgustate si pongono è ormai martellante: quanto durerà questo sconcio? Come si uscirà da questo pantano?

Attorno al premier l´aria si fa sempre più viziata e rarefatta. Lo scollamento all´interno del suo gruppo dirigente è ormai visibile. Il distacco di settori consistenti del suo elettorato è anch´esso palese e lo ha certificato due giorni fa Gianfranco Fini quando ha detto che il governo è stabile ma cresce l´indifferenza e la sfiducia del corpo elettorale nei confronti della politica, aggiungendo che questo fenomeno rappresenta un pericolo molto serio per la democrazia.
Aumenta anche in modo esponenziale lo stupore dell´opinione pubblica internazionale e dei governi alleati in Europa e in America. Mai il prestigio del nostro paese nel mondo aveva raggiunto un così infimo livello.
Finora i "supporters" del Capo si rifugiavano nella condanna del "gossip", ma ormai anche questo esorcismo è caduto. Anzitutto perché la vita d´un capo di governo non consente distinzioni tra la sfera pubblica e quella privata. Poi perché è stato lo stesso interessato a pubblicizzare il preteso "gossip". Infine perché si è creata una situazione che ormai non è più oltre accettabile: il premier è ricattabile e ricattato e lo sarà sempre di più perché sono decine se non addirittura centinaia i potenziali ricattatori.
Un capo di governo nelle mani di ricattatori non può avere una vita politica lunga perché non può usare lo Stato e le sue istituzioni per soddisfare i ricattatori senza ampliare a dismisura il numero delle persone "informate dei fatti" e necessariamente coinvolte e compromesse nei fatti stessi.
Queste persone cominceranno a fargli il vuoto intorno, per ragioni di onestà personale o di salvaguardia a tutela della propria onorabilità.
Per opporsi a questa deriva che è già in atto il premier cercherà e sta già cercando di blindare la situazione, intimidire i possibili testimoni, mobilitare servizi segreti e polizie private allo scopo di rovesciare sui suoi accusatori la stessa quota di melma nella quale è lui che sta affondando. Se i palazzi e le ville di Stato sono diventate una suburra, la stessa sorte rischia di diffondersi a una società deturpata dalla corruzione.
La domanda che milioni di persone sempre più attonite e disgustate si pongono è ormai martellante e te la senti fare agli angoli delle strade, nelle centinaia di migliaia di lettere che "Internet" rovescia sui tavoli delle redazioni: quanto durerà questo sconcio? Come si uscirà da questo pantano?
C´è un passaparola assordante come un rombo di cannone, per usare le parole del Don Basilio del "Barbiere di Siviglia", e non c´è avvocato Ghedini che possa silenziarlo. Del resto gli stessi Gasparri, Cicchitto, Bondi, Bocchino, hanno smesso di ripetere i loro esorcismi. Ognuno dei potenti comincia a pensare a sé, a prepararsi una via di ritirata e di fuga.
* * *
Molti pretesti fin qui usati e ripetuti come giaculatorie stanno cadendo come foglie secche a cominciare da quello contro le toghe rosse. Non sono certo toghe rosse i magistrati della Procura di Bari, che avevano cominciato la loro inchiesta sulla sanità regionale pugliese, una Regione governata dal centrosinistra.
Strada facendo l´inchiesta si è imbattuta in Giampaolo Tarantini e, senza abbandonare il filone iniziale, altri filoni si sono aperti ed altri reati sono stati ipotizzati. Che cosa dovevano fare quei magistrati? Chiudere il coperchio o adempiere al loro dovere di titolari della pubblica accusa?
Resta l´intimidazione contro i giornali e i giornalisti, "vil razza dannata". Ma non tiene più neanche quella. Che cosa doveva fare il direttore del "Corriere della Sera", Ferruccio De Bortoli, di fronte alle dichiarazioni di Patrizia D´Addario e alla documentazione da lei esibita? Non pubblicare nulla e buttare tutto nel cestino? Ha fatto il suo dovere facendo cadere il suo pregiudizio contro un "gossip" che non è mai stato un semplice pettegolezzo ma, fin dal primo momento, una questione pubblica come noi l´abbiamo sempre ravvisata.
L´avvocato Ghedini vorrebbe ora, in nome e per conto del suo cliente, che il silenzio tombale sulle intercettazioni e sui processi penali in fase istruttoria fosse reso retroattivo e quindi esteso all´inchiesta della Procura di Bari. Una retroattività chiaramente incostituzionale che probabilmente non avrebbe una maggioranza neppure in un Parlamento dominato dal governo attuale e tanto meno la firma di promulgazione del capo dello Stato.
Il problema è a questo punto di una chiarezza elementare: un premier sotto ricatto che deve provare (provare, non affermare soltanto) che i fatti non sono quelli raccontati e provati dai suoi ricattatori; una vita privata del capo del governo costellata da stravizi, alimentata da una corte di ruffiani e gestita da persone ricompensate con scranni in Parlamento a Roma e a Strasburgo, che deturpa l´immagine dello Stato e del Paese e non può più oltre essere sopportata.
Se ne sono resi conto perfino Giuliano Ferrara sul "Foglio" e Giampiero Mughini su "Libero". Una sprovveduta parlamentare di centrodestra, in una sua lettera al "Corriere della Sera", è arrivata ad esaltare Lucio Sergio Catilina e l´ha paragonato a Silvio Berlusconi. La sprovveduta sa molto poco di Catilina, incallito debitore e uomo d´avventura, compromesso con le peggiori bande di eversori ed eversore egli stesso delle strutture della Res publica.
L´avventura di Catilina arrivò alla ribellione armata contro i Consoli e il Senato, ma è vero che una volta imboccata quella via senza ritorno Catilina si batté con coraggio e perse la vita sul campo di battaglia.
È questo lo sbocco che la sprovveduta prevede e la parte che assegna a Silvio Berlusconi? Un caimano che porta le sue truppe all´incendio della piazza e delle istituzioni? Sono questi i consiglieri del premier, "utilizzatore finale" di prostitute in una stanza dalla cui finestra presidenziale sventola il tricolore?
* * *
E´ legittimo tuttavia porsi il problema d´uno sbocco politico che tenga conto delle norme e delle consuetudini che regolano il sistema e sul rispetto delle quali vigila il presidente della Repubblica.
In caso di dimissioni del premier, anche se accompagnate dalla sua richiesta di scioglimento delle Camere, spetta al capo dello Stato di esaminare la possibilità che la maggioranza esistente esprima un altro premier o che si possa formare in Parlamento un´altra maggioranza. Solo nel caso che entrambe le possibilità si rivelino impraticabili il capo dello Stato procede allo scioglimento. In tal caso è possibile che il Quirinale designi una figura istituzionale che conduca il paese alle urne.
Nel caso specifico la figura istituzionale si può ravvisare nel presidente della Camera, che assomma in sé un duplice requisito: è la terza carica dello Stato ed è anche il co-fondatore, insieme a Berlusconi, del partito di maggioranza relativa. Può dunque essere incaricato di portare il paese al voto immediato o anche di portarcelo dopo avere adempiuto ad altre gravissime emergenze connesse con la crisi recessiva che non consente pausa nella gestione della politica economica.
Ma resta la domanda: si dimetterà Berlusconi?
Dipende dal suo senso di responsabilità – che a questo punto sembra piuttosto scarso e soffocato da un vero e proprio titanismo patologico – e dalle pressioni che il gruppo dirigente nel governo e nel partito vorrà esercitare su di lui.
Il paragone con il 25 luglio del 1943 è forzato. C´era una guerra già perduta, l´esercito anglo-americano già sbarcato in Sicilia, quello nazista largamente presente sul territorio, bombardamenti e rovine dovunque.
Qui si tratta invece di una suburra, di banchetti da Trimalcione, di un capo di governo ricattabile e ricattato, d´un rischio di avventura quanto mai incombente, d´un sistema di potere esteso e colluso. Basso impero senza impero, Vitellio o Eliogabalo, non Catilina.
Per certi aspetti stiamo molto meglio del 25 luglio, per altri purtroppo stiamo peggio.
Post Scriptum. Oggi si vota per i ballottaggi in molti e importanti Comuni e Province. L´esito è di grande importanza, anche con riguardo alla crisi politica che abbiamo qui analizzato. E´ dunque auspicabile che gli elettori non disertino le urne.
Si vota anche per il referendum sulla legge elettorale. Con quattro possibili comportamenti: non votare e far mancare il quorum, votare "sì", votare "no". Oppure votare in modo diverso per i tre quesiti referendari.
Credo probabile che il quorum non sia raggiunto. Personalmente non mi strapperei i capelli se questa previsione si rivelasse esatta.

Repubblica 21.6.09
Le Quote Rosa secondo il Cavaliere
di Natalia Aspesi


«Si è presentata al partito a marzo o aprile, ha chiamato il mio capo della segreteria dicendo che voleva candidarsi e l´abbiamo inserita come quota rosa, di cui c´è una percentuale da rispettare».
Vero o non vero, l´ha dichiarato Salvatore Greco, ex deputato e coordinatore della lista di centrodestra "La Puglia prima di tutto" parlando di Patrizia D´Addario, la showgirl o escort che, come fosse Eva Kant, va alle feste, anche a quelle del premier, munita di registratore, si immagina micro data la piccante esiguità del suo abbigliamento serale, figuriamoci quello notturno. La frase, per smentire di essere stato lui a contattare per primo la intraprendente signora, dà alcune simpatiche conferme a notizie che si erano perse nell´incasinamento (per dire confusione) della politica italiana: 1) almeno a livello di partito o di elezioni comunali, in questo caso baresi, esistono ancora le famose Quote Rosa di cui si era persa traccia; 2) C´è una certa difficoltà (maschile) a trovare signore che abbiano tutti i numeri, di avvenenza e disponibilità, da remunerare inserendole nel gruppo QR; 3) Se si pensa che sia più spiccio e più facile fare politica che fiction, basta presentarsi alla sede di un partito, non necessariamente con registratore ma di sicuro con il proprio photobook o calendario per far subito Quota Rosa, essere immediatamente inserita nelle liste e magari anche (non le due suddette signore però) eletta dovunque si eserciti la politica; comune, provincia, regione, Parlamento, italiano o europeo.
Soprattutto in quei luoghi, c´è posto, finalmente, per (quasi) tutte le donne. In particolar modo per quelle giuste passate alle giuste feste, nei giusti palazzi e ville, ovvio. Paiono molto lontani, e non lo sono, i tempi in cui le signore litigavano tra loro pro o contro le Quote Rosa: chi le trovava indispensabili per ricordare ai maschi che anche le donne avevano il diritto di fare cuccù o il gesto dell´ombrello dagli scranni del Parlamento, ma che, dato il loro (degli uomini) incatenamento alle poltrone, era necessaria addirittura una legge che rendesse questo diritto obbligatorio. Chi invece, come l´eroica Emma Bonino che ai tempi della sua campagna (ovviamente persa), "Emma for president", si era presentata come "L´uomo giusto per il Quirinale", trovava le quote femminili inutili e dannose, buone per l´Afghanistan ma non certo per un paese evoluto come l´Italia: dove secondo lei, si poteva, si può dimostrare il proprio valore senza tener conto del genere. Giusto, anche gli uomini erano d´accordo, le donne valgono troppo per contingentarle: e infatti nell´ottobre del 2005 alla camera le Quote Rosa ebbero 140 voti favorevoli e 452 contrari. Trasversalmente, a destra al centro e a sinistra. Con alcuni illuminanti commenti, tipo: "Queste non ci devono scassare la minchia". "Avranno la quota quando smetteranno di ragionare con quella parte che non è il cervello". "Vedove allegre… un pericolo per il Parlamento…".
Durante un drammatico Consiglio dei Ministri, la bella e giovane Stefania Prestigiacomo ministro delle Pari Opportunità, si impegnò sino alle lacrime, ma inutilmente, per ottenere le benedette Quote, un anno dopo ebbe uno scontro con la bella e giovane Mara Carfagna, allora deputata del suo stesso partito, Forza Italia; la quale, con la sua soave innocenza dichiarò, e non aveva torto, che ci voleva ben altro per risolvere i problemi delle donne: e forse per questa sua contrarietà che corrispondeva a quella della maggioranza del partito, appena possibile fu promossa Ministro proprio delle Pari (o impari) Opportunità. Nel 2006 l´Italia, quanto a Quote Rosa, era al 48° posto, e certo faceva una certa impressione che al primo ci fosse il Rwanda. Con le elezioni politiche del 2008, vinte abbondantemente dal Pdl, quel che viene chiamato ormai assurdamente "gentil sesso", ha ottenuto maggior visibilità, 21,1% alla Camera (più nel Pd, 65 seggi su 217, che nel Pdl, 54 su 273); 17,4 al Senato (più nel Pd, 36 seggi su 113, che nel Pdl, solo 13 su 147, forse perché ancora in vigore l´età minima, controproducente per le signore, di 40 anni). Però già da allora il discorso si stava spostando dalle Quote Rosa alle Quote Rosso Fuoco, cominciando, come voleva la signora Carfagna, "a selezionare dal basso", piuttosto che perder tempo con signore già in alto, magari, dio ne scampi, preparate ma fuori taglia.
Ma se le donne aspiravano ad avere più voce in Parlamento, soprattutto a portare nei luoghi del potere i problemi, i bisogni, i desideri delle donne, pare che quell´aspirazione si sia molto impolverata. Come se bastasse chiedere, e onorevole o disonorata, farebbe proprio lo stesso: in televisione, in Parlamento, sul set, bastano visibilità, successo e denaro, che oltretutto, nel caso delle cariche politiche, è un buon affare per l´eventuale filiera degli "utilizzatori", che al massimo se la cavano con una collanina alla escort aspirante parlamentare; che poi, se eletta, allo stipendio ci penseranno i contribuenti. Purtroppo bisogna averne il fisico, l´età, l´astuzia, lo stomaco, le giarrettiere e le foto col sedere per aria. E il promoter giusto, e le feste giuste. E l´indulgenza, e lo sguardo, e la generosità, e il favore, e l´autorizzazione di quegli uomini che, ragionando anche loro, si teme, "con quella parte che non è il cervello", non sono contrari ai "grandi quantitativi" di belle ragazze. Mai le donne, tutte le donne, sono state tanto lontane dalle cosiddette pari opportunità, dalla parità stessa, da una vera autonomia e naturalmente dalla gestione della politica, quella che conta.

Repubblica 21.6.09
Sui tg È arrivato il giorno del blackout
di Antonio Dipollina


E arrivò anche il giorno del blackout totale dei principali tg. Giusto, era giornata di silenzio elettorale, giusto era sabato e in qualche modo la settimana è corta, giusto sono tempi in cui la riflessione ogni tanto deve avere il sopravvento. Però, insomma. E quindi nello sconcerto generale in aumento, le questioni legate all´inchiesta che scotta sono sparite del tutto dai principali centri di informazione del paese, appunto i tg più seguiti. Al Tg1 devono aver pensato che era il momento della coerenza: dopo aver oscurato nei titoli di testa tutto quello che potesse avere a che fare con il caso in esame, devono aver pensato che a quel punto non c´era motivo di dare corso nel seguito del telegiornale. Se non l´annunciamo la notizia non c´è, insomma, altrimenti il pubblico rimane disorientato.
Intanto qualche altro tg, intanto tutti i siti internet di informazione, intanto i giornali riempiono le prime pagine, tirano fuori sempre nuovi particolari, fanno intravedere gli scenari futuri. Quelli, invece no: quelli che secondo le recenti indagini forniscono l´informazione primaria al 70 per cento degli italiani hanno deciso che tutta questa gente va accudita e rassicurata fino in fondo, che cedere a questo punto sarebbe disdicevole, che bisogna conservare tutta l´integrità dimostrata in questi giorni. La guardia si fa fino in fondo, incrollabili. Ma questa cosa deve andare avanti così davvero? Deve continuare fino in fondo in questo modo? Insomma, è ancora lunga? No, giusto per regolarsi. La gara a chi si stanca prima può essere divertente, però un minimo di tristezza e di indignazione inizia a farsi largo, ma davvero.

Repubblica 21.6.09
Domani su Current il docufilm "Citizen Berlusconi". Scelto lo slogan per il lancio
Il Cavaliere e la stampa


«C´è libertà d´informazione, allora perché non l´hai mai visto?», è questo lo slogan, scelto dal pubblico di Current, per il lancio della prima visione assoluta in Italia del film Citizen Berlusconi, domani alle 21.20 sul canale Sky 130. In occasione della messa in onda del controverso docufilm sui rapporti del Cavaliere con la stampa, diretto e realizzato nel 2003 da Andrea Cairola e Suna Grey, Current ha infatti chiesto al pubblico italiano del network di Al Gore, di aggiungere ai manifesti realizzati per la campagna di lancio del film, un quesito sull´informazione indipendente in Italia che funzionasse da slogan. Oltre 500 le proposte giunte in meno di una settimana sul sito www. current. it. Un unico vincitore: Trasparente, il nickname a cui va un riconoscimento di 1.750 euro. Questa la motivazione espressa da Current e pubblicata sul sito: «La domanda è semplice e va al nocciolo della questione: perché questo film non è mai stato visibile in Italia, se non in rete?». Citizen Berlusconi, prodotto e distribuito in Italia da SteFilm, è andato in onda nel 2003 sulla Tv pubblica americana Pbs e poi su altre televisioni pubbliche europee.

Repubblica 21.6.09
Quel desiderio di democrazia
di Bernardo Valli


Il potere clericale iraniano esce malconcio, e macchiato di sangue, dal voto espresso proprio nell´anno in cui è appena stato celebrato il trentesimo anniversario della Repubblica islamica. Le imponenti, appassionate manifestazioni nel centro di Teheran hanno inevitabilmente ricordato quelle che, altrettanto imponenti e appassionate, nel 1978 e ´79, vibrarono un colpo fatale alla monarchia dei Pahlevi e decisero l´avvento della teocrazia incarnata dall´ayatollah Khomeini.
Questa volta le manifestazioni denunciano come una truffa il risultato elettorale, e quindi sono rivolte contro coloro che nel regime clericale si sono resi colpevoli dell´inganno. Trent´anni fa le forze armate imperiali si decomposero, o si dichiararono neutrali, e lo scià restò indifeso di fronte alla rivolta popolare, e se ne dovette andare.
Adesso il regime investito dalle proteste di massa dispone invece di milizie armate, almeno per ora decise nei loro interventi repressivi. Mentre i manifestanti sono disarmati.
Nella settimana, tra il 12 e il 19 giugno, e ancora nella giornata di ieri, gli slogan dei manifestanti non sembravano diretti contro la Repubblica islamica in quanto tale. La folla scandiva spesso Allah akbar (Dio è il più grande), parole annuncianti la «chiamata alla preghiera», e scritte sulla bandiera iraniana. Ma al tempo stesso, chiedendo il rispetto del voto che pensano sia stato truccato, i manifestanti rivendicano il diritto alla democrazia. Al di là delle pratiche quotidiane, e degli intimi convincimenti, la religione musulmana sciita è integrata all´identità nazionale iraniana. Ed è quindi nel quadro dei suoi principi fondamentali che vengono denunciati gli abusi del potere clericale, o di una parte di esso, poiché anche i riformatori appartengono alla vecchia guardia della rivoluzione islamica. Tutto questo rivela una profonda divisione all´interno del regime. Le manifestazioni sembrano rispecchiare quella lotta intestina. Anche se le aspirazioni dei giovani, e in generale della società inurbata che si è modernizzata negli ultimi decenni, esprimono il genuino desiderio di democrazia.
Un desiderio che non può lasciarci indifferenti. La democrazia non si addice a una repubblica teocratica, la quale è di per sé un´evidente contraddizione. Una contraddizione che trent´anni dopo diventa esplosiva.
E´ in quanto responsabile degli abusi elettorali che l´ayatollah Ali Khamenei, la Guida suprema, massima autorità del potere clericale, vede il suo prestigio seriamente intaccato. Se non proprio a pezzi. In quanto a Mahmud Ahmadinejad, solennemente riconfermato capo dell´esecutivo dallo stesso Khamenei, si può dire che egli esce dalla vittoria elettorale come un presidente contestato da milioni di iraniani, insomma come un presidente dimezzato, perché su di lui continuerà a pesare il sospetto che la sua carica sia basata su una truffa.
Fondato o meno, quel sospetto non impedirà a Khamenei e ad Ahmadinejad di esercitare il potere e di rappresentare l´Iran nei rapporti con il resto del mondo.
Nell´attesa di imprevedibili conseguenze, dovute alle lotte in corso al vertice del regime, la Guida suprema e il Presidente della Repubblica saranno gli interlocutori indiretti o diretti della superpotenza che ha teso la mano alla Repubblica islamica e che attende una risposta nei prossimi mesi, prima della fine dell´anno, stando a quello che ha fatto capire Barack Obama.
Nonostante i rimproveri dei neocon, nostalgici del linguaggio in vigore durante la presidenza di Bush jr, Barack Obama ha seguito la situazione iraniana con giusta severità.
Non si è risparmiato, in più occasioni, nell´esprimere simpatia e solidarietà ai manifestanti di Teheran, senza tuttavia ricorrere agli anatemi un tempo lanciati con generosità dalla Casa Bianca contro la Repubblica islamica.
Nessuno, nella Washington ufficiale, l´ha definita «asse del male». E Barack Obama si è ben guardato dal prendere posizione in favore di uno dei candidati. Se l´avesse fatto sarebbe stato accusato di interferenza e comunque non avrebbe contribuito al successo del prescelto, poiché il suo intervento avrebbe urtato l´orgoglio e il nazionalismo degli iraniani. Ha invece fatto sapere che il futuro, eventuale interlocutore degli Stati Uniti sarà quello eletto dal popolo.
Adesso si possono avanzare seri dubbi sull´autenticità dell´elezione di Ahmadinejad. E tuttavia non si deve dimenticare che ci sono sempre stati dei dubbi sui riti democratici nella Repubblica islamica. Sussistevano anche prima dell´apertura diplomatica americana. La quale non viene certo agevolata da quel che è accaduto e potrebbe ancora accadere a Teheran. Essa rischia di essere ritardata da imprevedibili avvenimenti interni alla Repubblica islamica; e, se quegli avvenimenti fossero ancora più sanguinosi di quelli verificatisi finora, dal modo in cui le opinioni pubbliche democratiche li valuteranno. Ma la questione iraniana è al centro di un´operazione da cui dipendono sia il successo o meno in politica estera del presidente americano, sia i futuri rapporti tra il mondo musulmano e l´Occidente. Né si deve dimenticare il capitolo della proliferazione delle armi nucleari. L´operazione abbraccia direttamente l´area geopolitica più critica del pianeta. Un´area che va dalla Palestina all´Afghanistan. Dal Pakistan all´Iraq. E´ difficile archiviarla.
Per quanto coinvolti nelle lotte intestine, né Khamenei né Ahmadinejad ignorano il rischio di isolamento che corre la loro Repubblica islamica. Il primo è noto per il suo virulento anti-americanismo; il secondo è celebre per le provocazioni antisemite e anti occidentali. Ma nel discorso di venerdì, nel quale ha minacciato «un bagno di sangue» se le manifestazioni continueranno, e ha confermato l´elezione di Ahmadinejad, l´ayatollah Khamenei è stato persino patetico quando ha indicato l´Inghilterra come il nemico numero uno dell´Iran. Doveva puntare il dito contro qualche paese occidentale, e ha scelto, a sorpresa, il Regno Unito. Cosi ha tenuto fuori gli Stati Uniti. E ha evitato di sbattere la porta in faccia a Barack Obama. Anche Ahmadinejad, nel suo primo discorso, ha evitato le solite provocazioni. Neppure lui ha chiuso la porta.

l'Unità 21.6.09
Nessuno ha vinto se non c’è una stampa libera
di Jean-Francois Julliard


Vietato parlare di brogli, troppi giornalisti in carcere
troppi vincoli e censure sull’informazione dopo le elezioni
L’Europa non riconosca la vittoria di Ahmadinejad

I governi democratici non dovrebbero riconoscere la vittoria di Ahmadinejad in Iran. Un’elezione democratica implica media liberi di osservarne lo svolgimento e di fare inchieste su eventuali brogli. A Teheran non è così. La stampa straniera non può più lavorare. Ai corrispondenti è vietato uscire in strada e fare il loro lavoro. I media iraniani hanno l’ordine di pubblicare solo le informazioni che trattano della bella e larga vittoria del Presidente. Chi recalcitra, viene minacciato, picchiato o imprigionato. Di una dozzina non si hanno più notizie dal giorno delle elezioni. Nel migliore dei casi sono fuggiti, nel peggiore sono dietro le sbarre, con colleghi da tempo imprigionati.
È indispensabile che gli inviati e i corrispondenti stranieri restino in Iran e possano lavorare. Una volta partiti, c’è da scommettere che la repressione contro gli oppositori raddoppierà. Se il presidente Ahmadinejad non intende rispettare la libertà di stampa, bisognerà riportarlo a ragione. Se i capi di stato europei contestassero in modo chiaro i risultati elettorali forse il presidente iraniano cambierebbe linea. Barack Obama, dopo la disfatta degli Hezbollah libanesi, sogna un vero cambiamento in Medio Oriente. Anche lui non deve cedere.
La vicenda del nucleare iraniano non serva di scusa per restare in silenzio. Non è il momento di dichiarazioni prudenti. Berlino ha convocato, lunedì mattina, l’ambasciatore iraniano in Germania. Poi l’ha fatto la Francia. Bisogna continuare, esigere che il popolo iraniano abbia l’informazione di cui è oggi privo.
Non è possibile vincere un’elezione a suon di censura e giornalisti arrestati. La libertà di stampa è componente essenziale del processo elettorale. Ci sono stati, certo, per la prima volta dibattiti in tv, e i candidati hanno potuto esprimersi più liberamente del solito. Ma non basta. I media devono pure riportare le posizioni di chi contesta i risultati. È inaccettabile che il giornale di Mehdi Karoubi, candidato battuto, sia imbavagliato. Gli uomini di Ahmadinejad entrano nelle redazioni per sorvegliare il rispetto delle consegne.
Se gli inviati stranieri sfuggono alle manette, trovano gli stessi ostacoli dei colleghi iraniani. La rete telefonica è controllata, internet è censurato e a volte inaccessibile, le mail passano con difficoltà, come gli sms. Trasmettere immagini è quasi impossibile. Persino le onde della potente Bbc sono un disastro.
Non è tutto. C’è ancora la chiusura per una settimana dell’ufficio della tv satellite Al Arabya, l’obbligo di restare nella camera d’albergo per il corrispondente della catena tedesca Ard, l’espulsione di molti inviati delle tv europee. L’Unione europea devono difendere la libertà di espressione. Nessun governo avrebbe accettato di riconoscere i risultati di una buffonata come questa, se si fosse tenuta nel vecchio continente. Per l’Iran bisogna abbassare la guardia? Sarebbe una pugnalata per chi, in Iran, ha pensato che la sua scheda elettorale avrebbe potuto cambiare il suo destino. Gli stati democratici non prendano parte all’imbroglio delle elezioni iraniane.

Repubblica 21.6.09
Parla lo scrittore Kader Abdolah, costretto all'esilio dagli Ayatollah
"Il regime è più forte ma questi ragazzi non si fermeranno"


Questa protesta ha strappato la maschera al governo:ora è chiaro che si tratta di una dittatura Ma i religiosi non cederanno. In piazza si sta facendo la Storia

Parla al telefono con la voce che si spezza: «Per anni mi sono sentito in colpa perché ero scappato. E i miei amici erano rimasti lì a soffrire. Oggi li guardo mi sento di nuovo in colpa. Perché vorrei esseri lì con loro a lottare». Kader Abdolah è uno dei più importanti scrittori della diaspora iraniana degli ultimi anni. Il suo ultimo libro, "La casa nella moschea" (pubblicato in Italia da Iperborea), è il racconto di una famiglia la cui storia viene travolta dall´avvento della rivoluzione khomeinista, della voglia di cambiamento che affoga nella repressione degli ayatollah. La repressione e le stragi di cui si narra nelle sue pagine oggi, guardando le immagini di Teheran, sembrano più che mai attuali.
Signor Abdolah lei è fuggito dall´Iran perché perseguitato: cosa prova oggi guardando la gente andare contro quel potere che lei attacca sin dagli anni ‘80?
«È una cosa bellissima e allo stesso tempo dolorosa. I giovani ci stanno dicendo che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato, che non siamo riusciti a cambiare le cose per loro e che ora è il loro momento. I genitori li guardano con le lacrime agli occhi quando escono di casa ma sanno che hanno ragione: quello che sta accadendo è triste, ma meraviglioso. Nessuno può dire cosa accadrà: questi ragazzi stanno facendo la Storia».
Quante possibilità hanno di avere successo?
«Poche perché il regime è forte. Ma questo è il seme da cui verrà il cambiamento nei prossimi anni. Mai i religiosi erano stati così divisi. Mai un esponente della classe politica al potere, come è da anni Moussavi, si è dovuto piegare alle richieste della piazza e cambiare le sue posizioni per seguire quelle della gente. La realtà è che questi ragazzi non hanno un leader, perché Moussavi non è per il cambiamento radicale che chiedono loro. E che l´Ayatollah Khameini non cederà».
Sta dicendo che questa è una rivoluzione inutile, almeno nel breve periodo?
«No, perché il regime non è già più lo stesso. I ragazzi hanno strappato la maschera scura dalla faccia di Khameini: ha sempre detto di essere il portavoce di Allah sulla Terra. Oggi tutti possono vedere che è un dittatore».
Un dittatore che non cederà, a suo parere. E i giovani: si fermeranno loro?
«Non so quanto potranno resistere. Una settimana fa non avrei detto che saremmo mai arrivati a questo punto, ma c´è in loro l´energia di trenta anni di umiliazione. La forza di chi aveva cacciato lo Scià e si è visto tradito dagli Ayatollah. Non gli importa nulla di morire, questa è la verità: anche se ne uccideranno cento non si fermeranno. Hanno arrestato i leader e i giornalisti: e questi ragazzi continuano a mandare notizie e filmati sul web. Ho visto in piazza moltissime ragazze: trent´anni fa erano poche. Oggi sono lì e si battono contro la polizia: sono il volto dell´Iran che vuole cambiare, quello che si riconosce nella moglie di Moussawi prima ancora che con lui. Non so se ce la faranno a vincere: ma so che non si fermeranno».
(fr. caf.)

Corriere della Sera 21.6.09
Il dilemma dell'Occidente
di Angelo Panebianco


Ciò che è acca­duto ha tutta l'aria di esse­re un salto di qualità irreversibile nel conflitto che oppone l'ala dura del regime iraniano ai riformisti. La manifesta­zione non autorizzata de­gli oppositori è stata af­frontata con la violenza dagli apparati repressivi. Un attentatore kamikaze si è contemporaneamente fatto esplodere presso il mausoleo di Khomeini (e si tratta, come ognun capi­sce, di un fatto di grande impatto simbolico). So­prattutto, Mousavi, il can­didato sconfitto alle ele­zioni per la Presidenza, si è ribellato apertamente al­la Guida Suprema Khame­nei, è sceso in piazza con gli oppositori, si è dichia­rato pronto a morire e ha chiesto l'azzeramento del­le elezioni («i brogli erano pianificati da mesi» ha detto). Non sappiamo co­me finirà questa prova di forza, anche se al momen­to le carte migliori (gli ap­parati della forza, le mili­zie armate) sembrano es­sere saldamente nelle ma­ni di Khamenei e di Ahma­dinejad. Sappiamo però che il mondo occidentale deve ora fronteggiare un terribile dilemma.
Prima che arrivassero le nuove notizie sulla pro­va di forza in atto a Tehe­ran, le difficoltà di fronte a cui si trova l'Occidente erano ben illustrate da una apparente contraddi­zione. Nello stesso mo­mento in cui l'Unione Eu­ropea (con fermezza) e l'Amministrazione Oba­ma (con circospezione) condannavano i brogli elettorali e le violenze del regime contro gli opposi­tori, l'Italia confermava di avere invitato, in accordo con gli Stati Uniti, il mini­stro degli Esteri iraniano Mottaki a partecipare alla conferenza sull'Afghani­stan che si terrà a Trieste, in occasione del G-8, dal 25 al 27 giugno. Cinica re­alpolitik?
No, la contraddizione era figlia di un dilemma autentico. Da un lato, c'è infatti la necessità di assi­curarsi la collaborazione di una potenza regionale del peso dell'Iran per veni­re a capo della guerra in Afghanistan (e per stabi­lizzare l'Iraq). Dall'altro la­to, c'è il fondato timore che l'evoluzione in atto in Iran, la scelta della Guida Suprema Khamenei di so­stenere Ahmadinejad, e la possibile, definitiva, scon­fitta delle componenti ri­formiste, possano irrigidi­re ulteriormente le posi­zioni internazionali del re­gime. Con gravissimi ri­schi per la pace.
Non c'è, al momento, molto che dall'esterno si possa fare per favorire un' evoluzione della politica di Teheran che sia coeren­te con le aspirazioni di li­bertà di tanti iraniani e fo­riera di cambiamenti nel­la politica estera del regi­me. Anzi, come è illustra­to dal dibattito americano (di cui il New York Times ha dato ieri un ampio re­soconto) è anche possibi­le che un aperto sostegno occidentale, soprattutto americano, agli opposito­ri di Ahmadinejad e di Khamenei possa risultare controproducente, possa essere proprio ciò che ser­ve all'ala dura del regime per gridare al complotto internazionale e sbarazzar­si con la violenza degli op­positori.
Ciò spiegherebbe, secondo questa interpretazione, la cautela diplomatica fin qui tenuta da Obama nonostante la netta presa di posizione, quasi unanime, del Congresso a favore degli oppositori scesi in piazza a Teheran. Se la situazione precipita è difficile che Obama possa mantenere a lungo la posizione prudente assunta.
Se, come allo stato degli atti sembra probabile (ma c'è sempre, in questi frangenti, la possibilità di svolte repentine e imprevedibili), il regolamento di conti in atto mettesse completamente fuori gioco le componenti più moderate del regime, la politica estera iraniana diventerebbe ancora più pericolosa di come oggi è.
Finora, gli estremismi di Ahmadinejad erano, a detta degli specialisti di politica iraniana, parzialmente frenati dalla necessità, per Khamenei, di tenere conto dell'equilibrio delle forze fra le diverse componenti del regime. Rotto quell'equilibrio, spostato definitivamente il baricentro verso l'ala dura, sarebbe difficile immaginare una politica estera iraniana meno aggressiva. Tanto più che i fallimenti economici interni richiederebbero, per essere nascosti, una escalation della conflittualità con il mondo esterno. Con ricadute sul conflitto israeliano-palestinese, sull'Iraq e su altri scacchieri.
Nel suo discorso in Egitto di due settimane fa Obama ha proposto al mondo islamico di voltare pagina. Una parte di quel mondo ha accolto con favore l'invito. Ma un'altra parte no.
Quel discorso, pur innovativo, aveva un punto debole. Che succede se gli «uomini di buona volontà» delle diverse civiltà e religioni non riescono a tenere sotto controllo i fanatici e i propagatori d'odio?
L'universo politico (come scriveva il giurista Carl Schmitt) è in realtà un «pluriverso»: oltre che per le possibilità di compromesso lascia sempre spazio per differenze e odi irriducibili. Mentre si offre il dialogo occorre disporre anche di strategie alternative. E' il tema di una discussione che appare assai serrata all'interno dell'Amministrazione americana. Se in Iran la situazione precipita, se la fazione di Ahmadinejad, sostenuta da Khamenei, si sbarazza, anche fisicamente, degli oppositori, Obama dovrà presto dotarsi di qualche carta di riserva.

Corriere della Sera 21.6.09
Intervista. Lo storico inglese sull’atteggiamento da tenere
«L’Occidente esporti solo idee e tolleranza»
Paul Kennedy: intervenire è una follia
di Ennio Caretto


WASHINGTON — Secondo lo storico Paul Kennedy — l’autore di Ascesa e declino delle grandi potenze e Il parlamento dell'uo­mo — il contributo che l’Occi­dente può dare all’Iran «è un contributo di idee e di tolleran­za ». Più che cercare d’interveni­re in quella che definisce «la len­ta, dolorosa alba della democra­zia in Iran», l’America e l’Euro­pa, dice lo storico, devono cerca­re di alimentarne i principi che la guidano, la libertà e l’egua­glianza.
Il richiamo di Obama agli ayatollah al rispetto dei diritti ci­vili e la rinuncia alla violenza rientra in questa strategia. Il pre­sidente si è forse esposto ad ac­cuse d’interferenza da parte di Teheran ma, aggiunge Kennedy, «appellarsi all’umanità e alla ra­gione è diverso dal prendere du­re misure».
Finora Obama non è stato troppo attendista? L’Iran non è sull’orlo dell’abisso?
«Credo che sostanzialmente il futuro dell’Iran sia nelle mani del popolo iraniano e che l’Ame­rica abbia un connotato così ne­gativo nell’Islam da rendere con­troproducente delle sue eventua­li iniziative. Storicamente, in si­tuazioni quale questa, i grandi statisti come Bismarck si sono astenuti dal prenderle. Quasi un secolo e mezzo fa, l’Europa dibat­té se intervenire nella guerra ci­vile americana. Ma se lo avesse fatto sarebbe stata una follia».
Potrà però Obama astenersi dall’adottare nuove sanzioni contro Teheran se la situazio­ne peggiorerà?
«Presumo che si aprirà un di­battito al riguardo dentro l’am­ministrazione e con gli alleati. Ma sono del parere che abbia più senso un confronto con un paese come la Corea del Nord che non un confronto con una nazione come l’Iran. Tra l’altro, noi ignoriamo chi abbia davvero vinto le elezioni, se le autorità iraniane siano davvero unite, se lo scontro sia davvero tra le for­ze religiose e quelle secolari co­me sembra. Il mondo iraniano è molto complesso».
La repressione in Iran non neutralizzerà il contributo che l’Occidente può dare al popolo iraniano?
«La repressione ha quasi sem­pre successo fisicamente, ma non intellettualmente. L’Iran è la nazione islamica che ha più studiosi, medici e ingegneri. È un’antica civiltà, ed è capace di cambiamenti per quanto difficili siano. Inoltre il dissenso si avva­le di un medium che qualsiasi dittatura è impreparata ad af­frontare, Internet. Non dimenti­chiamo che il linguaggio degli iraniani riparati in Occidente è secolare, non religioso».
Secondo lei, a Teheran è in corso una rivoluzione?
«Non saprei come definirla. Alle dimostrazioni prima del vo­to mi colpì che i maschi giovani fossero in maggioranza a favore dell’ordine musulmano, e le fem­mine giovani a favore dei cam­biamenti, un fatto che induce al­cuni a parlare di un movimento dei diritti civili, e quindi di un’in­surrezione pacifica. Comunque, è chiaro che l’Iran è in preda a gravi, anzi gravissime scosse. Noi vediamo quelle di Teheran, ma si verificano in altre città, co­me accadde a Marsiglia o Lilla nella rivoluzione francese».
È possibile una sua risoluzio­ne pacifica?
«Gli islamici dicono che se uno azzecca una previsione non è perché è intelligente ma per­ché è fortunato. Tuttavia dubito che le due parti trovino un accor­do. La situazione in Iran mi ricor­da la Guerra dei trent’anni nel­l’Europa del Seicento tra cattoli­ci e protestanti. Sono di fronte due mondi opposti. Il conflitto è appena incominciato e finirà so­lo con la vittoria di una delle due parti».
Attualmente non vincono gli ayatollah?
«Sì, ma credo che dietro le quinte la situazione resti in bili­co. È dalla caduta dello scià trent’anni fa che il potere religio­so non si trovava alle prese con un problema di tali dimensioni. Quanto a lungo potrà tenerlo sotto controllo? Solo la Cina s’il­lude di mantenere sempre lo sta­tus quo. Ma ripeto, nell’età di In­ternet se un paese vuole progre­dire è quasi impossibile fermar­lo ».

l'Unità 21.6.09
Gaza, due anni di isolamento
E Hamas è più forte
di Umberto De Giovannangeli


Nella Striscia c’è più sicurezza. Ma la situazione è drammatica. E i palestinesi pagano con povertà e disoccupazione la rottura con Fatah e Anp

Hamas e Gaza. Due anni dopo la presa del potere. Radiografia di un consenso che non è venuto meno. Nonostante il blocco imposto da Israele. Nonostante una guerra che ha provocato morte e distruzione. Osservatori ed esponenti politici palestinesi su una cosa convengono: Hamas ha posto fine al caos e all’anarchia nella Striscia e ha assicurato alla popolazione, anche se a caro prezzo, un minimo di stabilità. Prima che Hamas prendesse il potere c’erano, in lotta tra loro, 12 servizi di sicurezza «il cui solo scopo era di causare anarchia» dice Ihab al-Ghussein, portavoce del ministero per la sicurezza nel governo di fatto di Hamas, non riconosciuto dalla comunità internazionale. «Una forza di 14 mila persone, circa un quarto delle truppe al comando del Fatah - prosegue al-Ghussein - è riuscita a ridare sicurezza alla popolazione». È vero, risponde Talal Oukal, docente all’università al-Zahar di Gaza; ma poi aggiunge che la spaccatura tra Hamas e Fatah - con Gaza nelle mani di Hamas e la Cisgiordania, col placet di Israele, sotto il relativo controllo dell’Autorità palestinese e del Fatah, «è stata pagata a caro prezzo dai palestinesi».
Consenso e repressione Per Oukal le due linee di azione nei confronti di Israele - la lotta armata propugnata da Hamas e il dialogo sostenuto dal Fatah - «sono egualmente fallite». Inoltre il rigido blocco della Striscia imposto da Israele dopo la presa del potere di Hamas, afferma, hanno aggravato le difficoltà di vita a Gaza, dove la disoccupazione e la povertà hanno raggiunto livelli da record mondiale. Il blocco israeliano, denuncia Marwan Khalil, un ristoratore di 35 anni, ha fatto salire vertiginosamente i prezzi e causato la chiusura di negozi. «Sembra di vivere in prigione, abbiamo paura di ammalarci perché non è possibile partire da Gaza per ricevere adeguate cure mediche». Anche Khalil Abu Shamal, attivista sei diritti umani, accusa Israele e la comunità internazionale, e non direttamente Hamas, della drammatica situazione socio-economica nella Striscia.
A dispetto delle difficoltà economiche, del blocco, dei danni causati dall’offensiva militare israeliana lo scorso gennaio, è un fatto non contestato che il movimento islamico in due anni è riuscito a consolidarsi al potere a Gaza. È la convinzione dell’esponente di Hamas Ismail Radwan condivisa anche dal docente di scienze politiche Mukhaimar Abu Sàada. «A quanto pare - dice - l’assedio non ha dato i frutti che Israele sperava. Semmai ha rafforzato il potere di Hamas e anzi ne ha aumentato i consensi». Fehmi al-Zàarie, un portavoce del Fatah, accusa Hamas «di repressione delle libertà personali e collettive e dei diritti politici delle forze avversarie». È d’accordo anche Abu Shamala per il quale «la situazione di diritti umani, culturali, economici e sociali è peggiorata». Ma di ciò incolpa la rottura tra Hamas e Fatah.
La sfida qaedista A sfidare l’ordine garantito da Hamas nella Striscia sono i gruppi più estremi dell’arcipelago jihadista. Tra questi «Jaljalat», ossia «Tuono dirompente», nato due anni fa mentre Hamas conquistava il potere con la forza espellendo da Gaza gli uomini di Abu Mazen. Raccoglie fuoriusciti di Hamas ed ex militanti di un altro gruppo filo Al Qaeda, l’Esercito dell’Islam. In mesi recenti a Gaza sono venute alla ribalta altre sigle che si ispirano alla Jihad mondiale: fra questi «Jund Ansar-Allah» (I Soldati del Dio vincente), che hanno nelle loro file anche mujiaheddin stranieri, «Jaish al-Umma» (l’Esercito della Nazione), e l’Esercito dei credenti. Sono alcune centinaia di miliziani, oggi la spina nel fianco di Hamas. (ha collaborato Osama Hamdan)

il Riformista 21.6.09
Noi comunisti letterari della Napoli togliattiana
di Alberto Alfredo Tristano


Ermanno Rea. «Per un mese il Migliore non mi parlò mai di politica, solo di letteratura». Intervista-ritratto di un singolare gruppo di militanti. Da Massimo Caprara (recentemente scomparso), all'irregolare Renzo Lapiccirella («il partito scialacquò il suo talento»), a Giorgio Amendola («rigoroso e poco incline alle scapigliature»).
In alto, Massimo Caprara. Nella fotografia al centro, Giorgio Amendola. Qui sopra la copertina ...

Comunismo letterario. Delle diverse forme in cui si declinarono azioni e biografie del Pci, quella napoletana nel dopoguerra ebbe il fascino di una narrazione, quasi di un romanzo generazionale, così fitto di osservanti e dissidenti, sregolati e irregolari, apocalittici e apostati. Il cemento della militanza, un gradino sotto la battaglia per una Napoli finalmente nuova, per molti fu la letteratura, diffusa passione della meglio gioventù comunista partenopea. E acquista valore di rappresentazione collettiva quanto disse Massimo Caprara, scomparso martedì scorso, rievocando il primo incontro nel '44 con Palmiro Togliatti, di cui sarebbe diventato di lì a poco segretario particolare: «Per un mese il Migliore non mi parlò mai di politica. Solo di letteratura, italiana e francese».
Comunismo letterario fu dunque quel comunismo, secondo la definizione che ne dà Ermanno Rea in questa conversazione con il Riformista. Rea di quel gruppo fu militante, iscritto al partito negli anni Cinquanta, giornalista in forze alla redazione partenopea dell'Unità. Tempi rievocati nel libro "Mistero napoletano". «Ancora oggi sono rimasto con la testa in quegli uffici all'Angiporto Galleria. Uffici che sono la mia giovinezza, che per me si chiuse, almeno formalmente, quando decisi di lasciare Napoli, ma che ho ritrovato nella tardiva scrittura di "Mistero napoletano", vera e propria ricerca del tempo perduto. Quel libro sollevò molte polemiche e malumori. Sono convinto che la vecchia guardia del Pci sia stata incapace di sottoporre a un esame critico spregiudicato la vicenda vissuta, preferendo rimuoverla, ignorarla. Perché? Il fatto è che molti avevano abbracciato il comunismo in maniera acritica, con un'adesione di tipo fanatico. Ci furono invece, e io tra questi, coloro che la vissero senza sottrarsi alle sue dure contraddizioni. Eravamo un partito stalinista, in cui vigevano il culto della personalità e tante altre assurde anomalie antidemocratiche. Nello stesso tempo però quel partito conduceva grandi battaglie per il rinnovamento sociale, ponendosi come il rappresentante più intransigente della Costituzione. Che diventò la nostra bandiera. E c'era poi uno sforzo concreto per la modernizzazione di Napoli, per un riscatto che avrebbe dovuto bonificare il vicolo. Osservo con sbigottimento la scelta di quanti hanno smesso d'essere comunisti per diventare, con non meno fanatismo di prima, anti-comunisti. Vivendo il tutto con una nevrosi permanente: evidentemente il comunismo ha prodotti molti malati. Io, come altri, dopo i fatti d'Ungheria non mi sono più iscritto al partito, ma non rinnego, anzi rivendico la mia militanza a quel Pci, perché iscriversi a quel Pci fu la cosa migliore che un giovane animato da impegno sociale potesse fare allora».
L'adesione al partito comunista riguardò anche molti figli dell'alta borghesia cittadina. Togliatti scelse come suo braccio destro Caprara, preferendolo per esempio a Renzo Lapiccirella, personaggio scomodo del partito a Napoli, che con lo studio aveva riscattato le umilissime origini diventando medico, ma aveva poi anteposto alla medicina la militanza. La storia di Lapiccirella e del suo amore sfortunato con la suicida Francesca Spada è l'architrave del "Mistero". «Non so dire perché il partito scialacquò il talento di Lapiccirella e di tanti altri irregolari come lui. Ma è certo che la borghesia napoletana ci fornì alcune delle sue risorse migliori. Penso a Mario Palermo, avvocato di grande nome che segnò la strada a molti di noi. Penso a Renato Caccioppoli, matematico insigne, nipote dell'anarchico Bakunin, non organico al partito ma comunque nella sua orbita. E poi Giorgio Amendola, figlio di Giovanni, esponente della grande borghesia intellettuale e liberale. Non c'è dubbio che Amendola fu la figura più eminente del Pci napoletano di quel periodo e per lunghi anni a seguire, per il carisma che gli derivava anche dalla provenienza sociale, perché non bisogna dimenticare che il consenso si ottiene in molti modi, anche col cognome. Amendola fu un riferimento sicuro, gestendo sapientemente il Pci locale, in qualche caso senza rinunciare alla mano pesante. Era un uomo rigoroso e poco incline alle "scapigliature". Si racconta per esempio che una volta rimproverò Caccioppoli per un suo intervento pubblico svolto a braccio senza seguire una scaletta. Ma Caccioppoli era un istintivo, uno che viveva delle sue contraddizioni, con un rapporto critico rispetto al partito, vissuto né come chiesa né come inferno. Non apparteneva al genere degli affermativi, degli ortodossi. Viveva dei suoi dubbi. Come Lapiccirella. Come Francesca Spada. E tanti altri: i personaggi a cui io mi sentivo più legato».
«Amendola tenne le redini di un gruppo certamente multiforme, che avrebbe espresso molta classe dirigente del Paese, fino ai massimi livelli, anzi oggi al più alto in assoluto, e cioè la presidenza della Repubblica, con Giorgio Napolitano. Che, da amendoliano rigoroso, ha saputo vivere il suo comunismo senza lacerazioni, ma sempre conservando l'intelligenza del futuro. Con lui mi piace ricordare Maurizio Valenzi, grande sindaco di Napoli, di cui quest'anno festeggeremo i cento anni, vissuti con un impegno senza mai sussiego».
Il partito voleva dire anche il giornale. L'Unità. «Quando andai via da Napoli e mi fu proposto di lavorare nella stampa che noi chiamavamo "borghese", decisi piuttosto di farla finita con la scrittura, perché avrei vissuto la svolta come un tradimento. Mi misi così a fare il fotografo, in giro per il mondo. Sarei ritornato alla carta stampata solo alcuni anni dopo. Sin da ragazzo ho sognato di scrivere libri. Ma ho rimandato ripetute volte perché convinto che la vita bisognava conoscerla prima di raccontarla».
Ai primi di luglio la Bur manderà in libreria la trilogia napoletana che Rea è andato componendo nel corso degli anni: "Mistero napoletano", "La dismissione" dedicata all'Ilva di Bagnoli e il più recente "Napoli Ferrovia". Il titolo del volume sarà "Rosso Napoli. Trilogia dei ritorni e degli addii ": mille pagine di racconto su quel che è stata la città nell'ultimo cinquantennio.
E intanto Rea si prepara per un viaggio negli Stati Uniti: «Sarò nel Vermont per un incontri di lezioni universitarie dedicate all'Italia e agli italiani, intesi come figli della Controriforma. Il punto di partenza per queste conversazioni sarà un testo di Bertrando Spaventa, preziosa figura di filosofo legato all'hegelismo che a Napoli ebbe una scuola notevole, e che influenzò a mio parere anche l'attività del nostro Pci, che vi trasse il richiamo all'unità dello Stato e all'ordine, idea maturata nella città del caos e del sottosviluppo. Spaventa alla metà dell'800 scrisse un libro sul mondo etico di Giordano Bruno intitolato "Rinascimento, Riforma e Controriforma" in cui sostiene che il cittadino responsabile è stato inventato in Italia con l'Umanesimo e il Rinascimento, che mette l'uomo al centro del mondo. È il cittadino che vive secondo le regole, che cura la propria civiltà. Nell'analisi che del testo fa Eugenio Garin, tra i maggiori studiosi di Spaventa, questo cittadino con la Controriforma viene espulso dall'Italia lasciando il posto a un suddito deresponsabilizzato: l'uomo non è più al centro del mondo, anzi gli viene preclusa l'intraprendenza e l'autonomia di giudizio, e chi si azzarda a contravvenire alla regola è un eretico da eliminare. Di contro, Spaventa esalta il «carattere germanico de' Riformatori», che non credono nella povertà predicata dalla Chiesa ma piuttosto nel lavoro, anzi nel godere del proprio lavoro. Io ritengo che lo scandalo del suddito irresponsabile sia ancora tra noi, e che in Italia ne abbiamo avuto la migliore rappresentazione nella nostra più feroce commedia cinematografica, con i suoi "Mostri", i "Vitelloni", italiani un po' mammoni, un po' puttanieri, un po' imbroglioni. Guai naturalmente ad assumerli come ritratto del carattere nazionale, ma certamente alcuni elementi tendenziali di comportamento sono giusti e ahimé inalterati. Credo che lo dimostrino le attuali vicende che interessano il nostro presidente del Consiglio, che a me ricorda quell'Achille Lauro di cui cinquant'anni fa noi comunisti fummo avversari totali».
«L'idea del suddito irresponsabile introduce l'idea di come governare questo tipo di uomo, e nelle conversazioni in America introdurrò il tema della democrazia bloccata che ha caratterizzato la vicenda italiana durante la Guerra fredda. Democrazia bloccata: una specie di ossimoro, perché se è bloccata vuol dire che è una democrazia solo di forma. Come è possibile mantenere una democrazia solo sul piano formale? La risposta che mi sono dato è che questo avvenga svendendo la legalità per acquisire consenso. Il carburante della democrazia diventa così l'illegalità, l'impunità. Si pensi allo scandalo dei rifiuti tossici. Se ne parla riferendosi alla Campania, eppure mai si ricorda che, quel accade oggi lì, è accaduto anni prima al Nord, devastando il Po, l'Olona, il Lambro e così via. Il male della democrazia riguarda la nazione intera. E qui nasce l'accusa al ceto politico di ieri e tanto più di oggi: ma se sapevano perché non hanno parlato? E se non sapevano, perché non si sono dimessi per il loro mancato controllo, per la loro inconsapevolezza? A Napoli abbiamo visto le conseguenze più perverse di uno scempio che è nazionale. E a chi mi domanda al riguardo, rispondo: non chiedetemi cosa accade a Napoli, chiedetemi piuttosto cosa accade in Italia».

Repubblica 21.6.09
Naufragi
Nell'abisso e ritorno
di Giuseppe Montesano


Un rito di passaggio per il quale valgono i versi di Hölderlin: "Dove è pericolo, vi è anche salvezza"
Come Ulisse, forse gli scampati e i dispersi che siamo hanno ancora molto da raccontare
Da Gilgamesh a Moby Dick, Gulliver e Robinson Crusoe. Dall´Odissea al Titanic passando dai quadri di Turner, Delacroix e Géricault Un libro ripercorre l´idea romantica per eccellenza: perdersi nell´abisso e sopravvivere rigenerati Anche quando l´ignoto non è l´oceano, ma il mondo moderno, la mediocrità, la chiacchiera, il nulla

La nave è ferita, sfondata, immobilizzata da lastre di ghiaccio preistorico, forse è sconquassata da secoli, forse è stata morsa da marosi pietrificati un attimo fa, forse si è conservata nella frantumazione del gelo dai primordi della Creazione, o forse si sta spaccando ora negli occhi che guardano affascinati e atterriti: così appare il naufragio sublime che il pittore romantico Caspar David Friedrich dipinse due secoli fa e chiamò Mare di ghiaccio. Le immagini di Friedrich, insieme a quelle dei naufragi infuocati e tempestosi di Delacroix, e Géricault, e Turner, tornano in un bellissimo e agile libro di Esperanza Guillén Marcos pubblicato da Bollati Boringhieri: Naufragi. Immagini romantiche della disperazione. La Guillén parte dall´idea di Sublime in Kant per leggere nei naufragi in mare l´idea romantica di disfatta eroica, la figura avventurosa di un´esperienza del viaggio e del pericolo supremo che ossessionò i Romantici da Byron a Hugo. Ma la figura del naufragio è antichissima, e ambigua fin dalle origini.
In Mesopotamia, due millenni prima di Cristo, nel poema di Gilgamesh, il diluvio universale è una tempesta in cui i mari inferi salgono a galla e distruggono tutto tranne il battello di Gilgamesh, che sopravvive per ricostruire il mondo. Ma mille anni dopo, nella Grecia di Omero, il naufragio che sbatte Ulisse nudo davanti a Nausicaa è già diventato una metafora: Ulisse, lo scampato, non ricostruisce niente, racconta solo una storia.
Nell´epoca in cui i naufragi erano una realtà quotidiana, tra Cristoforo Colombo e il Colonialismo, l´affondamento di una nave e la morte di tutti tranne uno sembra assumere un senso positivo. È grazie a un naufragio che Robinson Crusoe scopre di saper vivere da solo nella Natura; in Swift è con un naufragio che Gulliver ha la rivelazione che il mondo cosiddetto civile è un universo falso, retto da leggi assurde; ed è un naufragio magico che nella Tempesta di Shakespeare ripristina l´ordine e fa trionfare la giustizia.
Sembra che il lavacro nelle acque in tempesta sia simile a un rito di passaggio, una prova che dà inizio a una trasformazione, un disastro per il quale valgono i versi di Hölderlin: «Là dove è pericolo, cresce anche la salvezza». E i primi veri poeti della modernità confermano questa idea di una prova iniziatica, che a loro però è vietata: nel Battello ebbro Rimbaud si augura che il battello della sua mente-corpo sia squassato dalle tempeste e che la sua chiglia «scoppi», ma cade in una quieta disperazione quando scopre che il naufragio rigeneratore è un sogno, e il battello ebbro è stato sostituito da una barchetta di carta che un bambino fa scivolare in una pozzanghera; Baudelaire nel Voyage invita il lettore a seguirlo «in fondo all´abisso», nel solo naufragio che può condurre ancora al «nuovo», ma il nuovo è possibile solo pagandolo con la morte: «O Morte, Vecchio Capitano, leviamo l´ancora…».
In forme variate all´infinito il tema di Ulisse che sopravvive per narrare non finisce, e arriva fino al Melville di Moby Dick: un immenso flashback narrato da Ismaele, il solo scampato al naufragio. Ma mentre raccontava l´ultima epica del naufragio nel Male, Melville stava inventando con Bartleby lo scrivano un´altra figura di naufragio, totalmente moderna e metaforica: il naufrago nell´anonimato del lavoro meccanizzato, il sopravvissuto perso in un mondo estraneo, l´impiegato universale privato dell´avventura e la cui sola resistenza al male è un lapidario «preferisco di no».
Il vecchio Melville, ex marinaio e scrittore fallito arenato per vivere in un impiego alla dogana di New York, ha capito che i viaggi sono finiti, e i naufragi sono ormai di altra specie. In America Kafka farà naufragare Karl Rossman nell´immensità spersonalizzata dell´America, e lo definirà "il disperso"; l´uomo di Sartre resterà chiuso in una stanza, naufrago nel Niente e nella Nausea; l´Io di Heidegger si perderà nell´Abgrund, l´abisso senza fondamento, o affogherà nella Chiacchiera; e, sepolto in una buca, immobile, con solo la testa fuori dal deserto, il sotto-essere di Beckett racconterà in Giorni felici la fine frivola e banale di ogni sublime.
Fine di tutto? No, qualcosa ancora galleggerà della vecchia metafora, affiorando in uno dei rari grandi poemi postmoderni, La fine del Titanic di Hans Magnus Enzensberger, dove, nell´anno di piombo 1978, si racconta il naufragio delle illusioni di progresso e di democrazia della Modernità, con un sopravvissuto che come Ulisse parla, ma parla una lingua indecifrabile: «Non era né un morto né un Messia, e nessuno comprese quel che diceva». Quel che diceva lo scampato del Titanic lo capiamo appena oggi, nel naufragio che nessuno vuole vedere e chiamare con il suo nome: forse gli scampati e i dispersi che siamo hanno ancora molto da raccontare.

sabato 20 giugno 2009

l'Unità 20.6.09
Priapismo al potere
di Moni Ovadia


Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi non riesce più a contenere l’alluvione di notizie, gossip, ricatti, segreti da boudoir, intemperanze sessuali che corrono sul filo. Il puzzle di questo personaggio da commedia all’italiana nella versione più strapaesana e pecoreccia si sta componendo in quella patetica verità che ancora, con indegna fedeltà servile, i suoi scherani e cortigiani si affannano a negare o ad attenuare. Siamo dunque governati da una specie di dottor Katzone, a scanso di equivoci preciso di non volermi riferire all’epiteto ingiurioso “cazzone” mascherandolo con una grafia cosmopolita, quanto al personaggio del superpriapico collezionista di femmine creato da Federico Fellini nella “Città delle Donne” ed interpretato da un indimenticabile Ettore Manni. Il maniacale e commosso rubricatore di femmine le esponeva in una galleria di immagini in merito ai loro attributi erotici e alle loro prestazioni sessuali dalle più ovvie alle più eccentriche dopo averne espunto qualsiasi riferimento di altra umanità. Ma i geni sanno creare figure sublimi attraverso l’iperbole del grottesco, i grandi lettrati come Gadda raccontano con ineguagliata maestria i rapporti fra potere ed erotismo, il suo “Eros e Priapo” dovrebbe essere lettura d’obbligo di questi tempi. Silvio Berlusconi invece, per ciò che la marea di indiscrezioni e rivelazioni porta a galla, si configura come la versione infima di quelle basse pulsioni. Il ragazzino fermato dalla polizia perché, armato di telecamera amatoriale riprendeva di nascosto le parti intime delle donne a loro insaputa, sembra essere il suddito epigono del nostro leader, la differenza sta solo nei mezzi. Stupisce e amareggia pensare al vasto consenso di cui gode presso l’elettorato femminile un uomo la cui visione della donna è confinata negli angusti confini del suo priapismo.

Repubblica 20.6.09
L´isolamento dello stregone
di Giuseppe D'Avanzo


Il battibecco in diretta tv tra il capo del governo e l´avvocato Ghedini («Come puoi pensare, Niccolò, che ti ho dato del "pazzo", ora sono io che mi offendo…») chiude una lunga stagione e ne annuncia una nuova, più incerta, dove nella sorridente e amabile stregoneria mediatica di Berlusconi affiorano disgregazioni e svuotamenti di cui nessuno, per il momento, può immaginare gli esiti. La politica di Arcore finora è stata soprattutto arma psicologica, sapientissimo governo di una macchina del consenso capace di distribuire gesti, parole, discorsi.
Inoculare passioni e fobie attraverso format semplificati: «l´uomo del fare», «i comunisti». Ispirare finte idee: «Saremo tutti felici». Fabbricare una scena di cartone: «I successi del governo che non lascia nessuno indietro». Indurre decisioni e, naturalmente, una propensione al voto.
Berlusconi aveva (e ha) il controllo pieno di un efficiente arsenale per affatturarsi il mondo e la realtà. Televisioni pubbliche e private; influenza diretta o indiretta su quotidiani e settimanali; dominio pieno dell´industria dell´intrattenimento che crea miti, stili di vita, desiderio, incantesimi. Indifferente a ogni self-restraint, Berlusconi ha usato quel ferro semiotico senza parsimonia e con calcoli freddi. Là dove c´era il «pieno» del potere (e la sua responsabilità, i suoi doveri, anche la sua sofferenza) è nato un «vuoto» dove tutto – ogni magia, ogni promessa, ogni favola – poteva felicemente trovar posto per durare un solo giorno perché il «pubblico» è "educato" a dar fede soltanto a «credenze» che possono essere cancellate o sostituite il giorno successivo («Tutti gli aquilani avranno le loro case in autunno»).
Le tecniche di questa nuova «civilizzazione», che ha reso indifferente sulla scena politica e nel discorso pubblico la domanda «che cosa accade davvero?», è stata manifesta nel corso del tempo. Il signore tecnocratico-populista scriveva l´agenda dell´attenzione pubblica. I media ubbidienti o gregari (la maggior parte) ne riproducevano l´eco. Discorsi precostituiti pronti all´uso ne assicuravano una «coda lunga». Infine, maschere salmodianti (in assetto variabile, Gasparri, Quagliariello, Bocchino, Cicchitto, Bonaiuti) li recitavano come filastrocche all´ora del tiggì.
Bene, la diavoleria non funziona più. Da due mesi Berlusconi è inchiodato su un´agenda che non ha scritto lui, che lo ha sorpreso e ancora lo stupisce. È costretto a inseguire una "realtà" (le feste di compleanno in periferia, le vacanze con le minorenni, l´ossessione per il sesso, le notti a pagamento) che non riesce a cancellare dalla pubblica attenzione. Più il premier si rifiuta di rispondere a legittime domande e all´opinione pubblica per liberarsi delle ombre e delle contraddizioni che oscurano i suoi comportamenti privati, tanto più è chiaro – ora, anche a chi l´ha a lungo negato – che la questione è politica, e il capo di un governo non se ne può sottrarre. I caudatari, nella corvée televisiva della sera, sono come intrappolati in un´alternativa del diavolo, in un gioco a perdere. La litania preconfezionata prevede di distruggere con parole arroventate la "realtà", di ridurla a questione privata e dunque protetta allo sguardo di chicchessia. Ma quanto più i corifei demoliscono tanto più le loro parole provocano imbarazzo anche nella loro area di consenso e spargono la convinzione che, se il presidente del consiglio tace, la ragione è nell´impossibilità di essere trasparente, di dire qualcosa senza correre il rischio di danneggiare se stesso. Peggio accade quando la controffensiva si fa gaglioffa. Come d´abitudine l´informazione al servizio del premier calpesta tutti coloro che sono in grado di dire una parola di verità. Così la signora, ospite a pagamento del premier nel «letto grande» di Palazzo Grazioli, diventa nei resoconti una pazza, una squilibrata, per di più puttana. Disegnata così la scena, crescono e non diminuiscono dubbi, domande, sconcerto. Ci si chiede quanto irresponsabile sia chi permette a un personaggio così avventuroso di entrare nella sua camera da letto, armato di videocamera e registratore. Per liberare il Cavaliere dall´accusa di pagare prostitute, c´è poi chi (Feltri su Libero) si spinge a giurare sulla sua impotenza: che bisogno ha di pagare una donna se il sesso gli è impedito? Il polemista non si accorge che, per salvare il suo Cavaliere, gli infligge un´umiliazione. Come capita anche all´avvocato-consigliere che definisce il suo "principe" innocente e, se non innocente, soltanto «utilizzatore finale» di quel corpo-merce.
Il vivamaria ci racconta come la stregoneria politica e mediatica si è infranta. Chiunque ha potuto vedere, nelle immagini di Sky dal Consiglio europeo di Bruxelles, il nuovo Berlusconi. Cupo, livoroso, spogliato del suo dinamismo estroverso. Il capo del governo freneticamente si inumidisce, sulle labbra, l´indice e il medio della mano destra. Sfoglia rapido la rassegna stampa. Con la sinistra regge il telefono e alza voce. E´ compulsivo. Nemmeno si accorge della telecamera. E´ a un consesso internazionale e deve occuparsi degli affari di bottega, da solo e direttamente, improvvisando, privo di una exit strategy. Non ha accanto consiglieri, spin doctor, staff. Il ministro che gli siede vicino, Frattini, finge di leggere e sembra imbarazzato da quel che sente. Sente che il premier deve rabbonire finanche l´avvocato finora bravo ad ingrassare soltanto le sue difficoltà, convinto com´è che l´affare sia penale e non politico.
Sono immagini che indicano l´isolamento del presidente del consiglio, la paralisi di chi – ripetendo come un mantra salvifico «spazzatura, spazzatura» – crede di poter esorcizzare le difficoltà che lo affliggono e lo occupano in modo esclusivo a dispetto delle sue responsabilità di governo. I fotogrammi di Bruxelles possono essere la fine della magia cesaristica, possono essere la conclusione di un sogno bonapartista, evocato da Gianfranco Fini come «impotente e inefficace», come nemico e minaccia di una democrazia «più forte, più rappresentativa, più partecipata». L´Italia berlusconiana sembra abbandonare le tentazioni – da Secondo Impero – del plebiscito. Nessuno sentirà l´assenza di Louis-Napoléon.

l'Unità 20.6.09
I mille volti di Patrizia. Escort, avventuriera o spia?
Ci si chiede perché un personaggio così screditato, nota a Bari come
una prostituta, riesca a entrare e documentare le serate a palazzo Grazioli
di Claudia Fusani


Come può una tipa come Patrizia D’Addario, prostituta di professione, nota da anni a polizia e carabinieri di Bari per aver denunciato e subìto violenze, minacce, truffe, una calamita di guai da cui è generalmente preferibile stare alla larga; come può, si diceva, una tipa così trascorrere due serate a palazzo Grazioli e festeggiare con il presidente del Consiglio l’elezione di Barak Obama? E soprattutto, perchè proprio adesso il Corriere della Sera, il primo quotidiano nazionale di sicuro non ostile al premier, ospita, pur a freni tirati, le accuse di un personaggio così screditato?
Saper rispondere a questa domanda significa trovare il pezzo mancante del puzzle Bari-gate e capirne, soprattutto, le conseguenze. Significa sapere se Patrizia D’Addario è una moderna Mata Hari, “scelta” per mettere in difficoltà il premier, infiltrarne la privacy e rivelarne i “vizi” privati addirittura documentandoli (è la tesi del complotto evocato da Berlusconi). O se, più banalmente, è un’avventuriera che dopo vari tentativi, tutti falliti, riesce a dare una svolta alla sua vita. Positiva o negativa ancora non si sa. Di sicuro ha gettato nel ridicolo il sistema di sicurezza nazionale che ogni paese deve poter garantire al proprio Presidente del Consiglio.
Patrizia D’Addario, dunque. Quarantadue anni, nata il 17 febbraio 1967 a Bari, ambiziosa, sognatrice, passione per la magia e il potere. Ha detto di sè al Corriere del Mezzogiorno il 21 gennaio 2004, un’intervista che è già un cult: «Gli uomini hanno paura di me, ho comportamenti arrischiati, quelli che loro usano per mostrare il loro vigore alle femmine. Io sono sempre stata intrepida». In quel momento della sua vita ha un nome d’arte - Patricia Brummel, uno dei tanti - e sta lanciando un calendario di nudi e trasparenze, un mezzo «per scialare con il corpo, l’ebrezza che provoca la nudità è l’illusione più bizzarra». A 30 anni fa una figlia con un imprenditore che poi uscirà presto dalla sua vita. La figlia vive tutt’oggi con lei e la nonna. Patrizia fa la modella, qualche apparizione a Telenorba e Tele Bari, servizi fotografici, qualche pubblicità, quella della Coca Cola le regala un altro nomignolo: «Coca». Ma la vera passione resta la magia. «Sono attratta dalla simulazione e dalla dissimulazione» racconta nell’intervista cult, «a 5 anni giocavo alla bambina invisibile e mi sentivo superiore». Da grande, per più di dieci anni, vive in America dove incontra e collabora con David Copperfield, Barry Collins, il mago Oronzo.
La magia e il sogno si frantumano in un attimo nel 1999 quando conosce Giuseppe B., detto Spaghetto, imprenditore edile barese che ben presto si rivela uno sfruttatore di prostitute armato di pistola. A questo punto parlano i mattinali di polizia e carabinieri. La fa lavorare in un appartamento in via Napoli, quartiere Palese: lei in una stanza, lui in quella accanto, dai 250 ai 500 euro a cliente, 2-3 mila euro al giorno; una collega con cui fa coppia, Marisa Scopece, il cui corpo viene trovato carbonizzato a Barletta. Dal 2005 l’archivio dei carabineri registra varie denunce per violenze, abusi, anche una truffa di 90 mila per la ristrutturazione di un casale di famiglia in zona Carbonara: Patrizia è sempre parte lesa, Giuseppe B, finisce in galera (lei lo inchioda grazie ad una registrazione) poi esce e continua a sfruttarla e perseguitarla.
Altro che magie e giochi di prestigio. Certo, Giampy Tarantino, il suo giro e le sue conoscenze, deve esserle sembrata un’altra occasione. L’ingresso a palazzo Grazioli, per ben due volte, la sensazione di avercela fatta. La candidatura in «Puglia prima di tutto», lista che fa capo al ministro Fitto, ne è la prova.
Ma prenderà solo sette voti. E il 31 maggio quando Berlusconi va a Bari non se la fila proprio e lei farà poi una piazzata alla sede del partito. Comincia, allora, a meditare la vendetta? O la mission era molto più antica nel tempo, almeno un anno prima? «Conserva la mia foto, ti potrà servire» dice il 31 maggio a un fotografo. E’ quella uscita su tutti i giornali, lei dietro che lo guarda, il premier di fianco.

Corriere della Sera 20.6.09
Il Cavaliere e la svolta invocata dagli amici
di Francesco Verderami


Palazzo Chigi L’attesa di un gesto per uscire dalla «condizione di minorità». Il Cavaliere «vittima della generosità»

L’ esortazione è stata pubblica e privata, perché non solo Giuliano Ferrara l’ha invitato a un mutamento radicale, a una rigenerazione. Anche Fedele Confalonieri, l’amico di una vita, confida in un «nuovo inizio».Serve una «palingenesi», questo è l’auspicio di chi tiene disinteressata­mente alle sorti di Silvio Berlusconi. Per­ché senza uno scatto del premier — co­me scriveva l’Elefantino sul Foglio l’al­tro ieri — si protrarrebbe un «clima da 24 luglio permanente». Ed è impensabi­le che la politica viva l’eterna vigilia di un crollo, la fine di un’era, quella berlu­sconiana, che il presi­dente della Camera nemmeno prevede. Ma non c’è dubbio che a lungo andare il clima che si respira nel Palaz­zo e nel Paese avrebbe un costo per la demo­crazia, potrebbe porta­re — come dice Gian­franco Fini — alla «sfiducia dei cittadi­ni verso le istituzioni».
È come se la nemesi si fosse abbattu­ta sul Cavaliere: per quindici anni il suo privato ha contribuito alle sue vittorie pubbliche, e adesso lo costringe sulla di­fensiva. E mentre in passato a Berlusco­ni veniva contestato il modo in cui si proponeva agli elettori e li conquistava, ora gli viene chiesto — gliel’ha chiesto ieri il quotidiano dei vescovi, Avvenire — «un chiarimento con l’opinione pub­blica » sui suoi fatti personali.
Tutti attendono un gesto da Silvio Berlusconi, coinvolto in una storia di fe­ste e di donnine che al momento ha mi­nato la sua immagine, non i suoi con­sensi. Al di là dei giochi di potere e di macchinazioni giudiziarie, il premier di­ce di sentirsi vittima anche di se stesso, «vittima cioè della mia generosità». È una valutazione complessiva, non per questo legata alle ultime vicende, che però riflette lo stato d’animo del Cavalie­re e anche il suo atteggiamento, le sue scelte che stupiscono, ma fino a un cer­to punto, chi lo conosce bene.
Malgrado gli ultimi due mesi siano stati costellati da errori mediatici e di tattica politica, malgrado la sua macchi­na di voti si sia inceppata, difende i col­laboratori più stretti e le loro mosse, con la stessa foga con cui difende se stesso. Perché non è stato solo Ferrara a criticare Nico­lò Ghedini per quel concetto, «utilizzatore finale», di cui pure l’av­vocato si è scusato. Ep­pure Berlusconi — a quanti gli facevano no­tare l’errore e i rischi che determinava — ha chiesto comprensione per il pena­­lista: «Poveretto, deve fare tante cose ogni giorno».
All’indomani delle elezioni europee, aveva sottratto Adriano Galliani alle ac­cuse di numerosi dirigenti del Pdl che gli addebitavano una percentuale nella perdita di consensi, dato che a due gior­ni dalle elezioni l’amministratore del Milan aveva rilasciato un’intervista alla Gazzetta dello Sport con la quale aveva di fatto annunciato la cessione di Kaká al Real Madrid. «È un amico di vecchia data. Non vi mettete pure voi, che già in famiglia...», era stata la risposta del pre­mier: «Il fatto è che c’era una perdita nel bilancio societario e non potevo ri­pianarla io, in un momento di crisi eco­nomica come questo». Eppure Berlusco­ni sapeva quanto avesse pesato l’addio del calciatore brasiliano. Alle sole Pro­vinciali di Milano, infatti, tremila sche­de erano state annullate dagli elettori, che dopo aver barrato il simbolo del Pdl avevano aggiunto: «Questo è per Kaká».
Tutti aspettano dal premier ciò che il premier però — almeno per il momen­to — non intende dare, perché si senti­rà pur vittima della sua generosità, «è così che mi fregano», ma si sente soprat­tutto al centro di oscure «trame», e se ora il fronte giudiziario è Bari, immagi­na se ne aprano altri a Palermo, a Mila­no, pare anche a Firenze. Non crede, al­meno così dà conto, a chi lo invita a guardare verso gli Stati Uniti, perché «con Obama abbiamo chiarito tutto, con la signora Clinton le relazioni sono eccellenti, e ho uno splendido rapporto con la presidente Pelosi».
No, è in Italia — a suo modo di vede­re — l’epicentro del terremoto, è verso i palazzi della politica nazionale che ten­de lo sguardo, e di Massimo D’Alema di­ce oggi che «usa mezzucci». Avrà anche ragione il premier quando rigetta certe accuse dell’opposizione, perché è diffici­le immaginarlo a capo di un regime se poi non ne controlla i gangli più impor­tanti, ed è esposto in questo modo. Em­blematica è l’immagine di ieri, con Ber­lusconi che confida al telefono di non sentirsi spiato, proprio mentre è sotto l’occhio furtivo di una telecamera.
Tuttavia per il premier resta il proble­ma di uscire da quella che Ferrara ha de­finito «l’incredibile condizione di mino­rità in cui si è ficcato». E resta il nodo di governare il Paese, di dare risposte agli interrogativi che il presidente della Ca­mera pone ormai da mesi, a partire dal­la necessità di varare una riforma dello Stato che sia condivisa dall’opposizio­ne, per passare alla costruzione di una forza, il Pdl, che secondo Fini «di fatto non è ancora nata»: «La Lega è l’unico partito vero in Italia».
Chissà se pensa anche a «Gianfran­co » quando dice di sentirsi vittima del­la sua stessa generosità, è certo che per misurare la distanza dal «cofondatore», il Cavaliere usa l’ironia: «Gianfranco al­la Camera ha otto commessi che lo se­guono ovunque. Io a palazzo Chigi ne ho uno solo». Ma non c’è sorriso sul vol­to di Berlusconi. Non era così che imma­ginava la vigilia di un G8 molto delica­to. Dovesse superarlo senza intoppi for­se inizierebbe per lui il 26 luglio.

Corriere della Sera 20.6.09
Un alone di incertezza sull'azione del governo
di Massimo Franco


La fase nuova Si è aperta una fase nuova, forse destinata a scheggiare la patina del successo del premier

Sarebbe ingiusto legare la probabile bocciatura del candidato italiano al vertice del Parlamento europeo alle vicissitudini private di Silvio Berlusconi. Ma c’è da giurarci: l’eventuale insuccesso verrà visto come controprova del logoramento progressivo del presidente del Consiglio. Se non altro perché aveva proiettato su Bruxelles le sue ambizioni di vittoria elettorale; e preannunciato un Pdl fondamentale nello scacchiere continentale. Alone d’incertezza sull’esecutivo
In realtà, è probabile che la posizione non sia stata né rafforzata né indebolita da quanto accade fra Bari e Ro­ma. Ma quello sfondo finisce per rivelare una sopravvalu­tazione del ruolo italiano, che adesso emerge insieme a problemi di colpo fuori controllo.
La reazione irritata di Berlusconi contro i giornali di­pende dal fatto che in questa fase, a torto o a ragione, gli sembrano dei nemici. Anche la sua stizza sorridente in conferenza stampa, però, comincia ad apparire sotto una luce un po’ diversa dal passato. Non trasmette più un sen­so di sicurezza, quanto un presagio di debolezza e di fragi­lità. È difficile dare torto al premier quando bolla come fantapolitica l’ipotesi di una congiura nel centrodestra per scalzarlo da palazzo Chigi. Della maggioranza rimane il padrone, seppure ormai a mezzadria con la Lega di Um­berto Bossi. Si può discutere se questo oggi rappresenti un elemento di stabilità o di precarietà della coalizione: è comunque un dato di fatto.
Ma all’ombra delle difese rocciose, della denuncia di complotti fra pezzi d’opposizione e di magistratura, è pal­pabile il nervosismo del capo del governo; e l’imbarazzo, autentico o ben studiato, di alcuni alleati. È come se cre­scesse la consapevolezza che si è aperta una fase nuova, forse destinata a scheggiare la patina del successo che Berlusconi è riuscito ad associare alla propria leadership. Per quanto da tempo ec­centrico rispetto alla strategia del Pdl, ieri il presidente della Came­ra, Gianfranco Fini, ha additato il pericolo che corrono il governo ed il Paese. Nessun rischio di instabilità; ma una per­dita progressiva di fidu­cia verso «il fondamento della democrazia».
Si tratta di una deriva verso la sfiducia nella politica, che non può essere data per avvenuta e dunque irreversi­bile. Ma certamente, oggi la capacità berlusconiana di ar­ginarla ed incanalarla sembra meno prepotente ed indi­scussa di appena un anno fa. È possibile che all’origine di questa magia inceppatasi improvvisamente ci sia quella che Berlusconi chiama la «spazzatura» di alcune inchie­ste giudiziarie: «rifiuti» dei quali giura si libererà come quelli a Napoli. E la sua reazione indignata ai contestatori di sinistra che ieri sera lo hanno fischiato a Cinisello Bal­samo, riflette la pressione a cui è sottoposto. Ma questo non basta a cancellare la sensazione di una difficoltà.
Lo dimostrano le richieste di chiarezza da parte di un mondo cattolico disorientato dagli scandali che lambisco­no il premier; l’alone di incertezza che si avverte nel go­verno; e, di nuovo, un contesto internazionale nel quale l’Italia berlusconiana si accorge di avere qualche amico meno del previsto. È un’incrinatura quasi impercettibile, e senza contraccolpi elettorali, a breve termine. Ma alla lunga può oscurare quanto di buono il governo ha fatto: dalla gestione del terremoto a quella di una situazione economica che può ancora creare tensioni sociali. Sareb­be grave se ci fosse una crisi sull’onda di quelle che il pre­mier chiama «trame giudiziarie»: e non solo perché si cre­erebbe un vuoto preoccupante.
Rimane da capire se Berlusconi sarà in grado di riem­pirlo, o contribuirà a crearlo.

Corriere della Sera 20.6.09
Riforme e storia
Ma il premier non è Catilina
di Nicola Tranfaglia


Caro Direttore, ho letto ieri sul Cor­riere una lunga lettera dell’onore­vole Deborah Bergamini che para­gona l’attuale presidente del Con­siglio Silvio Berlusconi al romano Catilina, accusato da Cicerone di una prima e di una seconda congiura, allontanato da Roma e sconfitto, attribuisce a Catilina una figura positiva e addirittura di innovatore e salva­tore della Repubblica romana. Portando il confronto storico a quello che sta succe­dendo nel nostro paese afferma che «gli op­timates di ieri che armarono le azioni di Ci­cerone erano i rappresentanti di una classe senatoriale gelosa custode di privilegi poli­tici ed economici».
«Gli optimates che violentano le regole di oggi — afferma l’onorevole Bergamini — sono potentati senza patria, politici me­diocri e polverosi intellettuali. Il potere non accetta gli imprevisti e spesso i grandi riformatori, gli uomini in grado di cambia­re la storia, si presentano all’appuntamen­to senza bussare. Questo li rende inaccetta­bili ».
Sono rimasto colpito dalla disinvoltura storica della parlamentare e dalla duplice forzatura: quella di chiudere di colpo il di­battito sempre aperto sulla figura di Catili­na rispetto alla quale gli storici esitano an­cora ad attribuirgli una funzione politica chiara e determinata. Ma soprattutto, di fronte a quella perdurante incertezza, mi è parso ancora più infondato e fragile il con­fronto tra Catilina e l’attuale presidente del Consiglio. La Bergamini li mette sullo stes­so piano come innovatori e, nel caso di Ber­lusconi, grandi riformatori.
Ma, lasciando da parte Catilina, si può dal punto di vista storico parlare di Berlu­sconi come di un grande riformatore? Io avrei al riguardo seri dubbi. Non si può ne­gare che l’attuale presidente del Consiglio si sia rivelato negli ultimi vent’anni un in­novatore: ha riunito la destra e l’ha succes­sivamente condotta a formare un solo parti­to politico, ha più volte sconfitto il cen­tro- sinistra e, aggiungerei, ha conquistato negli ultimi vent’anni un’egemonia politi­co- culturale legata alla sua visione del mon­do che si accorda per altro con i successi delle destre europee e americane dagli an­ni Settanta ad oggi.
Ma come si fa a parlare di Berlusconi co­me di un grande riformatore quando di ri­forme ne ha fatte pochissime, preoccupan­dosi soprattutto di fabbricare leggi ad per­sonam, per sé e per i suoi più diretti segua­ci (vedi il lodo Alfano approvato un anno fa) ne annuncia in continuazione ma poi trova ostacoli insuperabili sia nel cen­tro- destra che nella società italiana?
E si può dire che ci siano particolari ag­gressioni nei suoi confronti quando sono tutti i grandi giornali che parlano dei nu­merosi scandali e la stampa straniera in una situazione nella quale — fatto inaudi­to in tutto l’Occidente — il presidente del Consiglio è proprietario di tutte le televisio­ni commerciali, controlla i canali della Rai ed è in grado di influenzare fortemente il mercato pubblicitario?
Insomma, mi pare che il confronto con Catilina non regga sia per le incertezze per­duranti nella storia romana sia perché è im­possibile vedere lo scontro tra Berlusconi e i suoi avversari come quello tra un grande riformatore aggredito dai difensori di anti­chi privilegi.
Sicché, pur se in circostanze assai diver­se, viene alle labbra il celebre incipit di Ci­cerone alla sua orazione in Senato: «Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pa­zienza? ».

il Riformista 20.6.09
Bari in apnea: scosse sulla giunta Vendola
di Tommaso Labate


IL PUZZLE. A un passo dal voto, il capoluogo si interroga sul terremoto imminente. Nelle pagine dell'inchiesta aumentano i nomi targati pd. Finita l'indagine sulla sanitopoli del 2000.

Ancora ventiquattr'ore. Che diventano quasi sessanta, considerando che lunedì si voterà fino alle 15. A Bari, tra i corridoi semideserti della Procura e i tanti palchi elettorali su cui sono disseminati esponenti locali e nazionali di centrosinistra e centrodestra, si sussurra che tutto ciò che è emerso fino a oggi «è solo l'inizio». Di più, si sostiene sottovoce che il «filone Patrizia» delle inchieste sulla sanità, quello che riguarda le registrazioni della D'Addario a palazzo Grazioli, non è altro che «la punta di un iceberg». Un iceberg che potrebbe travolgere berluscones ortodossi ma anche fior di piddini. Un iceberg che potrebbe addirittura arrivare a minare la tenuta della giunta regionale guidata da Nichi Vendola.
Quanto può pesare l'atmosfera da cataclisma politico imminente che si respira nel capoluogo pugliese sulla sfida tra Emiliano e Di Cagno Abbrescia? Gianrico Carofiglio - magistrato, giallista e senatore del Pd - cerca di sdrammatizzare: «Mai visti così tanti giornalisti in giro per la città». Ma poi ammette: «Me lo sono chiesto anch'io se le "voci" possono incidere sul secondo turno delle comunali. E ancora non sono riuscito a trovare la risposta. Di sicuro non ci saranno elettori che si sposteranno da una parte all'altra. Ma l'astensionismo, questo sì, può crescere».
Lo scenario di cui sopra vale solo in assenza di nuovi sviluppi, certo. Ma, tempistica a parte, a Bari si ha la sensazione bipartisan che lo scandalo vero stia per arrivare. Non a caso, salvo le dichiarazioni quotidiane d'opposizione al governo, il Pd continua nella strategia di dribblare le rivelazioni della D'Addario. E pure i dipietristi, tolta qualche puntura di spillo di Luigi De Magistris (che pure in una dichiarazione ha "assolto" D'Alema), continuano a improntare le loro dichiarazioni a un bassissimo profilo.
L'attenzione di tutti, a Bari, è concentrata sulle ripercussioni che l'inchiesta della Procura potrebbe avere sull'attuale giunta di Vendola e su quella, targata Fitto, che l'ha preceduta al governo della Regione Puglia.
Tra le carte dei pm relative alla rete dell'imprenditore Giampaolo Tarantini c'è finito infatti Sandro Frisullo, vicepresidente della giunta, che ieri ha smentito (al Corriere) l'ipotesi di essere stato lui «il suggeritore di D'Alema» ma non ha potuto escludere il suo coinvolgimento nell'inchiesta.
Il secondo nome del Pd, secondo quanto riportato da Repubblica, è quello di Gero Grassi, deputato del Pd e capofila della corrente dei Popolari in Puglia. In una dichiarazione all'Ansa, l'interessato ha detto di «cadere dalle nuvole»: «Mai avuto rapporti con i fratelli Tarantini, non ho mai parlato con queste persone». Eppure, le notizie sulla comparizione del suo nome tra le carte dell'inchiesta sembrano reggere anche alla smentita. Con una sola precisazione: «Il nome di Grassi - dice una fonte affidabile al Riformista - è legato a vicende la cui rilevanza penale è tutta da dimostrare». Quali? Chissà. Una cosa è certa: Grassi, legato a Marini e Fioroni, è un personaggio chiave per la "stabilità" della giunta Vendola: oltre ad essere amico d'infanzia di «Nichi» (anche se di vedute politiche differenti - ex democristiano l'uno, ex comunista l'altro - sono cresciuti entrambi a Terlizzi), a lui si fa risalire la preistoria dell'avvento vendoliano alla scrivania ch'era stata di Fitto. A prendere per buona una leggenda che circola in Puglia da un lustro, fu proprio Grassi - con uno spostamento di voti in extremis - a determinare la vittoria di Vendola nelle primarie pugliesi del 2004 che lo videro vincitore a danno del favorito Francesco Boccia.
Ma è forse il «terzo uomo» quello che potrebbe tornare a mettere in imbarazzo il centrosinistra pugliese e il Pd nazionale: l'ex assessore regionale alla Sanità Alberto Tedesco, che lasciò la giunta per l'esplosione della prima Sanitopoli, si prepara a fare il suo ingresso a Palazzo Madama al posto di Paolo De Castro, fresco di elezione al parlamento europeo. Il centrosinistra pugliese trema ma il centrodestra non sta meglio. Le inchieste sulla Tecnohospital di Tarantini sono infatti due. Per la prima, incetrata su episodi di corruzzione nella sanità pubblica dal 2000 in poi (il governatore era Fitto), il sostituto procuratore Roberto Rossi si appresta a inviare agli indagati l'avviso di conclusione delle indagini.

l'Unità 20.6.09
Iran, Khamenei minaccia un bagno di sangue
di GA.B.


Khamenei all’opposizione: basta con le manifestazioni. «Se ci sarà spargimento di sangue, i leader della protesta ne saranno ritenuti responsabili», dice la Guida suprema parlando in pubblico a Teheran.
La Guida suprema si schiera con Ahmadinejad, che considera eletto senza brogli
Avviso a Mousavi: «Se ci saranno violenze, sarai considerato responsabile»

Ha atteso che trascorresse esattamente una settimana dal contestatissimo voto per le presidenziali. Poi, ieri, la Guida suprema Ali Khamenei, massima autorità della Repubblica islamica, ha battuto minacciosamente il pugno sul tavolo. Non saranno più tollerate altri cortei a Teheran. Se le agitazioni continueranno, le forze di sicurezza interverranno duramente.
SENZA EQUIVOCI
Khamenei ha usato un giro di parole che non dà adito ad equivoci: «Se ci sarà un bagno di sangue, i leader delle proteste ne saranno tenuti direttamente responsabili». Messaggio ai militanti: manifestando rischiate una repressione violenta. Messaggio ai dirigenti: se non bloccate il movimento finite in galera.
Primo destinatario dell’avvertimento è Mir Hossein Mousavi, che non accetta la sconfitta subita, secondo lui irregolarmente, dal capo di Stato uscente Mahmoud Ahmadinejad nelle elezioni del 12 giugno. Quel risultato è valido, ha sentenziato ieri Khamenei, parlando ad un’enorme folla radunatasi nel cortile dell’Università e nelle vie adiacenti per ascoltare dalla sua bocca il sermone del venerdì. «L’esito del voto viene dalle urne, non dalla strada -ha detto la Guida suprema tra le grida d’approvazione della folla-. Oggi la nazione iraniana ha bisogno di calma. Le nostre leggi non consentono i brogli, specialmente nella dimensione di undici milioni di schede». Tale è infatto il numero di consensi che secondo i conteggi ufficiali Ahmadinejad ha ottenuto in più rispetto al principale avversario. In percentuale, quasi il 63% contro circa il 34%.
Ahmadinejad era in prima fila ad ascoltare l’oratore. Le immagini televisive non hanno mostrato né Mousavi né importantissime personalità dello Stato solitamente presenti quando parla in pubblico la Guida suprema. Ad esempio l’ex-presidente Mohammad Khatami, o Akbar Hasehemi Rafsanjani. Quest’ultimo presiede il Consiglio degli esperti, cioè l’assemblea di teologi che ha fra i propri poteri anche la scelta della persona cui affidare la carica di Guida suprema. Khatami e Rafsanjani si sono apertamente schierati con Mousavi prima del voto, e in questi giorni ne hanno sostenuto con forza la richiesta di ritorno alle urne. Il controllo ferreo che viene esercitato sui media non permette di sapere se certi volti non siano comparsi sugli schermi perché assenti o per un deliberato intento censorio. In favore di Rafsanjani comunque Khamenei ha spezzato una lancia per difenderlo dalle accuse di corruzione rivoltegli da Ahmadinejad. «Lo conosco da 52 anni -ha affermato- e non l’ho mai visto arricchiersi illegalmente». Durissimo Khamenei con i governi stranieri, soprattutto americano e britannico, che interferiscono nelle vicende interne iraniane. Da parte degli Usa in particolare «le osservazioni sui diritti umani sono inaccettabili dopo quello che hanno fatto in Afghanistan, Iraq e altrove».
CORTEO CANCELLATO
Al discorso di Khamenei ha fatto seguito, almeno sino a tarda ora, l’assordante silenzio di Mousavi, che nei giorni passati aveva incitato i connazionali a scendere in piazza diffondendo comunicati sul suo sito online. Fonti vicine ai capi del movimento hanno fatto sapere in serata che la manifestazione annunciata per oggi sin da giovedì era stata cancellata.

l'Unità 20.6.09
Repressione o ritirata
Il Deng Xiaoping di Teheran
di Gabriel Bertinetto


Khamenei getta tutto il peso della sua carica istituzionale a sostegno di Ahmadinejad. Nel conflitto fra governo e blocco militare-integralista da un lato, opposizione e popolo in rivolta dall’altro, si schiera apertamente con i primi e accusa gli altri di sovversione. In tempi normali la Guida suprema agisce dietro le quinte, indirizza le strategie di governo ed influenza le decisioni più importanti, ma non rinuncia ad apparire come il capo di tutta la nazione e non di una fazione. Mousavi si è illuso forse che anche nell’emergenza Khamenei esercitasse le sue prerogative di leader numero uno, nel modo consueto. Accentuando anzi le potenzialità di arbitraggio, moderazione, mediazione offertegli dal ruolo. Per una settimana ha atteso che la Guida suprema e gli altri organismi politico-religiosi della Repubblica islamica gli tendessero la mano. Magari sperava che parte dell’establishment teocratico fosse pronto a rompere con Ahmadinejad. Forse ha sopravvalutato i contrasti emersi anche in campagna elettorale fra Ahmadinejad e una parte dell’alto clero.
Dopo il sermone di Khamenei, i leader del movimento anti-Ahmadinejad sono ad un bivio. Se fermano la protesta, non saranno più credibili agli occhi di coloro che si sono mobilitati per «riavere indietro i propri voti rubati». Se la rilanciano, proiettano il movimento in una dimensione di lotta assolutamente nuova, più contro il sistema che per la sua riforma. E rischiano, in questo secondo caso, una reazione violenta degli apparati di sicurezza. Si profila l’ombra sinistra di una Tiananmen iraniana. Con il discorso di ieri, Khamenei ha fatto chiaramente capire che se si arrivasse ad un punto di tensione troppo forte, lui non si tirerebbe affatto indietro. La Guida suprema non ci penserebbe due volte a vestire i panni dello Deng Xiaoping di Teheran.

Corriere della Sera 20.6.09
Intervista Parla Ebrahim Nabavi, il più noto autore satirico iraniano
Lo scrittore: «È un ultimatum Adesso temo la legge marziale»
di Alessandra Muglia


«Khamenei nella preghiera del venerdì ha dato un ultima­tum: la gente ora sa che se usci­rà ancora in strada a protestare pagherà un prez­zo molto alto.
Ma il monito è ri­volto soprattutto ai politici, da Mousavi a Khata­mi fino a Rafsanja­ni: vuole cancellar­li dalla scena politi­ca ».

Ebrahim Nabavi, penna satirica irania­na censurata dal regi­me, non si stupisce che l'ultimatum della Guida Suprema arrivi all'indo­mani dell'invito al dialogo rivol­to dagli ayatollah ai tre candida­ti «sconfitti».
Lui, che nel suo recente Iran. Gnomi e giganti. Paradossi e ma­lintesi (Spirali) prende di mira le contraddizioni del suo Paese, ha vissuto la situazione grotte­sca di essere arrestato a Teheran per «pubblicazioni menzogne­re » nello stesso giorno in cui gli veniva annunciato un premio per la miglior satira politica.
Altro paradosso: in Iran i re­clusi sono i più liberi, dice. Tant'è che non è mai riuscito a pubblicare così tanto nel suo Pa­ese come durante i suoi 18 mesi di cella. Dal suo rilascio vive esu­le in Belgio, a Overijse, alle por­te di Bruxelles, dove scrive libri e articoli (anche sul sito www.roozonline.com), condu­ce un programma per una radio olandese e un altro per una tv americana. Risponde al telefono sollevato dall'arrivo della sua compagna Sanam, che lo ha rag­giunto da Teheran alla vigilia dell'annunciata repressione.
Oggi è un giorno pericoloso per l'Iran, si teme la resa dei conti.
«Khamenei vuole che la gente resti a casa, così se nelle strade resta un manipolo di irriducibili potranno essere arrestati come ribelli. A partire dai leader di questo movimento, Mousavi e Khatami. Non mi stupirei se ve­nisse dichiarata la legge marzia­le » Perché la rabbia è esplosa ora?
«La gente non ne può più di Ahmadinejad, delle sue bugie e dei suoi insulti. E non si ricono­sce nel volto ridicolo dell'Iran che lui mostra agli incontri inter­nazionali, come ha fatto all'Onu e alla Columbia University».
Come andrà a finire secondo lei questa contesa tra piazza e regime?
«Vedo due possibilità: o si crea un governo fascista per 2-3 anni destinato a finire con rivo­luzione sanguinosa. Oppure Khamenei perde il potere…».
L'unico che può «sconfigger­lo » è il silente Rafsanjani.
«Sì, lui (il leader dell'Assem­blea degli esperti, ndr) ha porta­to Khamenei al potere e lui po­trebbe farlo cadere. So che sta cercando di convincere i mem­bri dell'Assemblea degli esperti a far saltare la Guida Suprema. Per spuntarla però deve portare dalla sua parte oltre metà dell' Assemblea. Finora non ce l'ha fatta, ma sta ancora lavorando in questa direzione».
Le manifestazioni di questi giorni sono state paragonate a quelle del 1979 a cui lei ha par­tecipato.
«Allora lo Scià non poteva ac­cettare che la gente non lo amas­se più e quando lo capì era trop­po tardi, il suo popolo non pote­va perdonarlo, era determinato ad andare fino in fondo. Proprio come oggi con Ahmadinejad. Ma adesso c'è una maggiore ma­turità politica rispetto ad allora: al tempo dello Scià i 40enni pen­savano come i 20enni di oggi. La società iraniana ha capito che, per vincere, questa protesta pacifica deve continuare. Oggi sono fiero di dire che sono ira­niano ».
Insomma ci sono più «gigan­ti » che «gnomi» rispetto a un tempo, per dirla con il suo ulti­mo libro?
«Sì anche se gli gnomi al go­verno tentano di abbassare l'in­telligenza dei giganti».
Come lei?
«Sì, e per fortuna sono in buo­na compagnia'.

Corriere della Sera 20.6.09
Fame nel mondo, superata la soglia del miliardo
di Giulio Benedetti


Rapporto Fao Prima volta nella storia. Colpito un sesto della popolazione del pianeta. Il demografo: «Un balzo senza precedenti»
Sono cento milioni in più solo nell’ultimo anno, 15 vivono nei Paesi industrializzati

ROMA — Nel mondo oltre un miliardo di persone soffre la fame. Un sesto della popola­zione del pianeta non dispone di una quantità di cibo ade­guata. Nell’ultimo anno 100 milioni di esseri umani hanno perso la possibilità di nutrirsi regolarmente. E tra questi 15 milioni vivono in Paesi svilup­pati. Il dato allarmante emer­ge dal periodico rapporto del­la Fao sulla fame nel mondo.
«La fame e la povertà pon­gono seriamente a rischio la si­curezza e la pace mondiale», avverte Jacques Diouf, diretto­re generale dell’agenzia del­l’Onu. Per Antonio Golini, de­mografo de «La Sapienza» di Roma, non ci sono preceden­ti: «Forse qualcosa di simile potrebbe essersi verificato nel ’29, ma non è mai successo che una crisi economica abbia portato in un anno alla fame 100 milioni di persone».
L’impatto si farà sentire in particolar modo nei Paesi in via di sviluppo, sommandosi alle preesistenti difficoltà cau­sate dagli alti costi dei prodot­ti agricoli (2006-2008), attra­verso la riduzione (25-30 per cento) delle risorse che i Paesi ricchi destinano agli aiuti umanitari, proprio nel mo­mento in cui ce ne sarebbe più bisogno, e la riduzione del­le rimesse da parte degli emi­grati. Per il direttore della Fao sono necessarie «azioni rapi­de e sostanziali». L’obiettivo di far scendere il numero dei poveri sotto i 420 milioni en­tro il 2015 appare, alla luce dei nuovi dati, molto incerto. Una prima risposta all’appello lan­ciato da Diouf potrebbe veni­re dal World food summit che si svolgerà a novembre a Ro­ma, alla presenza dei capi di Stato di tutto il mondo.
Nell’Asia e nel Pacifico, la re­gione più popolosa del mon­do e col maggior numero di persone sottonutrite (642 mi­lioni), coloro che soffrono la fame sono aumentati del 10,5 rispetto al 2008. Nell’Africa Sub-Sahariana (265 milioni) la crescita è stata dell'11,85. Nel Medio Oriente e nel Nord Africa (42 milioni) l’aumento è stato pari al 13,5. In America Latina e Caraibi (53 milioni) la denutrizione è cresciuta del 12,8. L’aumento più consisten­te di persone che non riesco­no a mettere insieme il pran­zo con la cena, sempre rispet­to al 2008, è avvenuto nelle na­zioni sviluppate: 15,4 per cen­to.
«Siamo in presenza di una pandemia da fame — spiega il professor Golini —. Difficile fare previsioni. Molto dipen­derà dalla tenuta dell’econo­mia cinese e indiana. In quei Paesi vivono 2 miliardi e mez­zo di persone». Per l’ecologo Gianni Gilioli, docente del­l’ateneo di Reggio Calabria, la crisi finanziaria ha solo peg­giorato l’impatto della specu­lazione sui prezzi agricoli. «Il mondo ha diritto ad avere un’agricoltura che ritorni ad essere capace di sfamare tutti i suoi cittadini. I dati della Fao tormentano la nostra coscien­za civile e cristiana», ha dichia­rato il ministro delle Politiche agricole, Luca Zaia.

l'Unità 20.6.09
La storia dei rifugiati eritrei di Milano
Senza più rifugio
di Maria Pace Ottieri


Scappano dall’Africa cercano aiuto in Italia ma trovano ostilità, botte, povertà, violenze. La storia dei rifugiati eritrei di Milano, accampati
come fantasmi scomodi in piazza Oberdan
Sono un esercito di vessati senza difesa: vulnerabili per eccellenza
Oggi è la loro giornata

La loro isola è uno slargo di asfalto, un rettangolo grigio circondato da un mare luccicante di automobili, l’unico riparo dal sole e dalla pioggia, una pensilina di ferro e cemento. Sono rifugiati politici eritrei e quest’angolo di Piazza Oberdan, a Milano, Porta Venezia, è la loro casa. Naufraghi urbani che si lavano alle fontanelle dei giardini pubblici antistanti, si sfamano alla mensa dei frati cappuccini, fumano sigarette chieste ai passanti, dormono su cartoni e in questi giorni, sulle facce compiacenti dei manifesti dei candidati alle recenti elezioni europee. «In Italy life is knife», si sente bisbigliare, il tono è sempre sommesso, nessuno ha voglia di parlare di sé, della sua storia, della fuga dal suo paese. Noi parliamo dei nostri diritti, non dei segreti della nostra vita, siamo stati riconosciuti come rifugiati, allora perché dobbiamo fare questa vita da cani?
Anzi i cani stanno meglio di noi, hanno un diritto qua in Italia, conosco un cane che i suoi padroni spendono quattrocentocinquanta euro al mese per dargli da mangiare e lo portano anche dal parrucchiere.
Un ragazzo giovanissimo legge un libro in tigrino alla fioca luce di un lampione. Alle sue spalle quattro ecuadoregni ubriachi schiamazzano e vomitano, ma nessuno ci fa caso, gli eritrei stanno seduti su uno stretto muretto, fieri, cupi, sfuggenti, lo sguardo nel vuoto. Di che cosa parlate tra voi durante la lunga giornata? Della nostra vita di merda, è come se uno ti fa entrare in casa come ospite e poi ti chiude in cantina, al buio, con i topi, è così l’Italia. La mattina all’alba arriva la polizia ed è guerra, si uniscono anche i connazionali che dormono sugli spalti erbosi dei giardini, qualcuno viene arrestato, gli altri si ricompongono come uno stormo di uccelli immemori dello spavento. Agli occhi dei passanti somigliano più a un branco di sparuti gatti randagi, difficile spiegare da dove si viene, come si vive in un paese dove un ragazzo può essere preso per la strada e costretto a una leva militare indefinita che dura dieci anni, o spedito al confine con l’Etiopia, mille chilometri dove una guerra permanente ti uccide, difficile anche dire che del tuo paese puoi avere nostalgia se fai una vita ancora peggiore.
La polizia qui arresta i poveri perché è più facile, mormora Gavriel, l’unico che ha voglia di parlare. È il più vecchio, ha combattuto a quindici anni per la liberazione dell’Eritrea dall’Etiopia, era molto coraggioso. Il suo gruppo l’ELF è stato soppiantato dall’EPLF , quello dell’attuale presidente, lui è diventato un oppositore. È scappato prima in Sudan, no problem, poi in Libia, l’inferno. Otto mesi di prigione ad Al Zawia, in settanta in una camera per venti, vessazioni continue e stupri di ragazzine, Gavriel le difende, si ribella, parla arabo. Il giorno dopo portano lui e il suo gruppo nel deserto e li lasciano lì a morire di sete. Trovano una macchina che li porta a Tripoli, Gavriel ha in tasca qualche migliaio di dollari mandati dalla sorella emigrata in America. A Tripoli lo arrestano con tutti i suoi compagni di viaggio, di nuovo la prigione. La polizia è d’accordo con i trafficanti, ti arrestano e ti rivendono e ti riarrestano. Dopo due tentativi andati a vuoto, la traversata in barca, 1200 dollari a testa da Zwara a Lampedusa, 153 persone, di cui tre morti in mare. Il poco italiano che sa Gavriel lo ha imparato in Puglia dove ha lavorato come bracciante, 25 euro al giorno per dodici ore di lavoro. Era riuscito a raggiungere Londra, ma poiché le sue impronte digitali erano state prese a Lampedusa, ha dovuto tornare qui.
L’Italia è un brutto paese, non ricorda niente, settemilaottocento di noi sono morti per la bandiera italiana, il sangue rosso di mio nonno Goitam Tosfu è qui, era un ascaro morto per voi. Addosta’ casa, lavoro, dottore? Addosta’ human rights? Quando il Signore porterà la sua lampada su di me, dice Gavriel mostrandomi il braccialetto con l’immagine di Gesù, forse qualcosa cambierà. Per un rifugiato la vita ha smesso di scorrere. In fuga da uno stato che lo minaccia, non trova, da parte dello stato in cui cerca riparo che un’ospitalità passiva, nominale. È l’ennesimo tradimento dell’Italia a cui gli eritrei, benché da sempre ignorati e usati, guardano come a una “casa madre” che non solo li aspetta, ma è pronta ad accoglierli e a proteggerli.
Due mesi fa insieme un folto gruppo di rifugiati eritrei, etiopi, somali e sudanesi, hanno occupato l’ala abbandonata da vent’anni di un ex albergo, un immenso edificio senz’acqua e senza luce ma con mille stanze. Di fronte alla porta a vetri, sui gradini della scalinata, hanno fatto prove di democrazia: divisi in quattro gruppi hanno eletto dei rappresentanti che parlassero almeno due delle quattro lingue, il tigrino, l’amarico, il somalo e l’arabo e decidessero come dividere le stanze fra tutti. È stato un momento di euforia, qualcuno si è subito messo al lavoro per coprire con cartoni e teli le finestre senza vetri, i colpi di martello rispondevano ai boati del treno che sfrecciava al di là della siepe. Due giorni dopo sono stati accerchiati dalla polizia in assetto di guerra e per resistere allo sgombro, hanno inscenato un sit in sui binari della vicina stazione e fermato per mezz’ora un treno di inferociti pendolari. La polizia li ha sollevati di peso, picchiati e ributtati per la strada. Erano poco meno di trecento, giovani, ma non forti. Da mesi vivevano all’addiaccio, tra loro c’erano anche una quarantina di donne e una decina i bambini, di cui uno di un mese, tutti con permesso umanitario, di richiedenti asilo, o riconosciuti come rifugiati. Hanno vagato, pesti, sfiniti, affamati per le strade di Bruzzano, alla periferia di Milano e si sono dispersi di nuovo nella città.
La maggior parte di loro è arrivata nell’ultimo anno a Lampedusa, ma molti sono qui da tempo. C’è chi ha esaurito il periodo di accoglienza in uno dei dormitori della città previsto dal Piano asilo ( in tutta Milano 320 posti, 500 in Lombardia) e chi invece è stato mandato via dai dormitori dopo soli tre mesi, per problemi di capienza, chi ha raggiunto altri paesi europei. Tutti vengono dal Corno d’Africa, Sudan, Somalia, Etiopia ed Eritrea, l’area africana più martoriata nell’ultimo decennio. Ci siamo mai chiesti da che cosa scappano? Le origini di queste ondate? Come mai gli eritrei hanno ricominciato a emigrare solo dal 2000 in avanti, quando la morsa della dittatura, forse la più efferata dell’ Africa contemporanea, ha avuto un’ulteriore stretta trasformando il Paese in un lager a cielo aperto?
Quella dei rifugiati non è un’emergenza, ma una conseguenza della Storia, non è un ennesimo e seriale fatto di cronaca, ma un fenomeno cronico, di fronte al quale i paesi ricchi non possono ignorare le loro responsabilità.
È mezzanotte passata, ora di dormire. Qualcuno attraversa la strada e dagli alberi dei giardini coglie un sacco a pelo, uno straccio, una coperta logora. Fra poco lo slargo di Piazza Oberdan sarà tappezzato di corpi stesi come nella fotografia di una strage.

l'Unità 20.6.09
Le ferite aperte dei più piccoli
Congo, Sudan, Pakistan, Sri Lanka... L’allarme dell’Unicef
sui bambini costretti a combattere o a prostituirsi, stuprati e affamati
di Umberto De Giovannangeli


Un grido d’allarme disperato. Un quadro agghiacciante. Un rapporto che scuote, o dovrebbe farlo, le coscienze. E che pone i potenti della Terra di fronte a responsabilità pesantissime. Nessuno può dire: non sapevo. Stuprati, arruolati negli eserciti, obbligati a prostituirsi: ben 21 milioni di bambini nelle zone di guerra di tutto il mondo incontrano questo destino. Nei migliori dei casi, soffrono la fame e non conoscono l'istruzione; nel peggiore, muoiono. È la fotografia dell’infanzia violata, presentata dall'Unicef in vista della Giornata mondiale dei profughi che cade oggi, 20 giugno. Negli ultimi decenni - ricorda l'Unicef- i bambini sono stati sempre più coinvolti nei conflitti in corso in tutto il mondo, sfruttati nelle guerre degli adulti come facchini, servitori, schiavi sessuali e anche come soldati
Sono 42 milioni i profughi nel mondo, uno su due è minorenne. In alcuni Stati, come la Repubblica Democratica del Congo (Rdc), la situazione è drammatica. La sorte di quattro sorelle congolesi ne è la sintesi: i soldati di una milizia le hanno violentate tutte. Una di loro era una bambina, di soli tre anni. È morta. Julien Harneis, direttore dell'Ufficio Unicef di Goma, Congo orientale, racconta della catastrofe nell'Est del Paese. «I profughi sono più di un milione, di cui molte donne e bambini, che vivono in estrema povertà, soffrono la fame, sono vittime di violenze e rapimenti», ha detto.Nella sola provincia di Kivu Sud, ci sono stati 2.283 stupri nel 2008. Quelli non rilevati sono ancora di più e solo il 6% delle vittime ha ricevuto soccorso nelle prime 72 ore. Quando le scuole non vengono bruciate, diventano centri di reclutamento per le forze armate: per l'Unicef ci sono ancora almeno 8.000 soldati bambini inquadrati nell'esercito. «La situazione peggiorerà nelle prossime settimane: si prevede un'azione militare di truppe congolesi e ruandesi», sottolinea Harneis.La Rdc è per l'Unicef «uno dei peggiori Stati al mondo dove nascere. Un posto dove tra chi ha meno di cinque anni, il 38% soffre di malnutrizione cronica e il 20% muore per malaria, diarrea o infezioni respiratorie. Neppure una persona su due ha l'acqua potabile».
Nel mondo ci sono poi 100 milioni di bambini che non vanno a scuola, la metà vive in zone in conflitto, dove gli stupri sono usati sempre di più come arma di guerra. Sono Paesi dove i bambini, costretti a scappare, sono obbligati a prostituirsi o a imbracciare un'arma. È una scelta che i minori fanno spesso per disperazione, per uno dei 56 eserciti che non rispetta il divieto di arruolarli.«Non solo in Congo i minori vivono in condizioni disperate - riflette Rudi Tarneden, portavoce dell'Unicef in Germania, il Paese dove l’agenzia dell’Onu per l’infanzia ha presentato in anteprima il rapporto - . Tutti i profughi provengono da Paesi in via di sviluppo, dove la popolazione è di giovanissimi». Solo in Iraq, ha aggiunto, «i profughi sono più di due milioni e mezzo e vivono in condizioni estreme. Molti sono bambini. Anche quando trovano riparo da parenti o amici, non hanno mezzi di sussistenza».«A causa delle operazioni militari contro i talebani in Pakistan, ci sono circa 2,5 milioni di profughi, tanti vivono in campi di fortuna - ha spiegato Tarneden -. I bambini non hanno sostentamento ed è estremamente ridotta la possibilità di andare a scuola o di essere vaccinati». Dalla fine della guerra civile in Sri Lanka, poi, «nel Nord dell'isola oltre 300mila persone, tra cui molte donne e bambini, vivono in un grande campo, in condizioni durissime. E non è neanche sicuro se potranno tornare a casa», aggiunge. L’ultima considerazione è un appello e, al tempo stesso, un potente j’accuse rivolti ai potenti della Terra: «Mentre l’attenzione dell'opinione pubblica si concentra soprattutto sulla crisi finanziaria, il dolore dei bambini che vivono in Congo, Sudan, Pakistan e Sri Lanka rischia di finire nel dimenticatoio», denuncia l’Unicef.

Repubblica 20.6.09
Se chiude la Scuola di musica di Fiesole
risponde Corrado Augias


Caro Augias, com'è possibile che in questo paese passi praticamente sotto silenzio la possibile chiusura dell''Orchestra Giovanile Italiana'? Il taglio di fondi pubblici e le inevitabili difficoltà di quelli privati a questo potrebbero portare. L'istituzione creata da Piero Farulli è il primo e ancora oggi unico percorso formativo per professori d'orchestra. Altri complessi come la Mahler di Abbado e la Cherubini di Muti sono istituzioni meritevoli, ma non di formazione. Nella scuola di Fiesole arrivano giovani da tutta Italia per lavorare nel giusto contesto e avviarsi a una carriera spesso assai significativa nelle maggiori orchestre, a cominciare da quella della Scala. Ora si minacciano tagli. Se tagliamo su queste cose tagliamo via il meglio della nostra cultura. Se diamo spazio a giovani energie, ragazzi che spesso associano la passione per la musica a altre specializzazioni, forse facciamo un investimento serio per la nostra società di domani. Mi creda, caro Augias, meglio cento orchestre (il Venezuela insegna!) di un inutile e temo dannoso ponte sullo Stretto. E potrei continuare a lungo sull''indotto'.
Mathias Deichmann mathias.de@alice.it

Ho letto anch'io con dolore la notizia uscita nei giorni scorsi che la benemerita scuola di musica di Fiesole potrebbe essere costretta a chiudere. Il suo bilancio, meno di un milione di euro annui, era sostenuto per la massima parte da fondazioni bancarie. Ora la crisi potrebbe spingere queste ultime a ridurre i loro contributi. Il pianista Andrea Lucchesini, direttore artistico della Fondazione ha messo il dito nella piaga ricordando che in Italia non si è ancora riusciti a dare facilitazioni fiscali agli sponsor di iniziative meritevoli come è senz'altro Fiesole. Gli allievi sono circa 80, ognuno di loro costa 10 mila euro l'anno compresa l'ospitalità. I docenti sono alcuni tra i migliori nomi del concertismo, a cominciare dal grande Salvatore Accardo, ma anche direttori di fama mondiale, compresi Claudio Abbado e Riccardo Muti, sono ospiti frequenti per quelle che si chiamano "masterclass". A che serve Fiesole? Serve ad imparare a suonare insieme, ad ascoltarsi, a formare quell'organico strumentale che assicura il "suono", la cifra, la firma, di una grande orchestra. Dopo le brutte notizie dei giorni scorsi, il maestro Accardo ha dichiarato al "Corriere della Sera": « La scuola di Fiesole è un'eccellenza musicale di cui l'Italia dovrebbe andar fiera. In nessun altro Paese verrebbe abbandonata». L'intuizione di un istituto del genere la ebbe trent'anni fa Piero Fa Frulli, già viola del mitico "Quartetto italiano", vedendo in quali povere condizioni si presentavano i diplomati dei conservatori alle audizioni. Trent'anni di lavoro che ora rischiano di andare in fumo.

Corriere della Sera 20.6.09
Atene Inaugurazione dopo 30 anni. Il British Museum: vi prestiamo i pezzi mancanti se riconoscete che sono nostri
Apre il super museo dell’Acropoli
Oggi il debutto, ma i marmi del Partenone restano in Gran Bretagna
di Antonio Ferrari


ATENE — L’ombra sinistra dello scozzese Thomas Bruce, settimo conte di Elgin, che nel 1799 fu nominato ambasciato­re britannico presso il sultano di Costantinopoli, si allunga e violenta la luce che illumina le vetrate del nuovo museo del­l’Acropoli, che verrà inaugura­to stamane. È un’ombra sini­stra perché Lord Elgin, con il permesso dell’impero ottoma­no, che allora occupava la Gre­cia, sottrasse dalla collina più celebre del mondo le statue più preziose, per inviarle a Londra. Dove si trovano ancora, esposte al Bri­tish Museum.
Decenni di sforzi per ottenerne la restitu­zione, nei quali si impe­gnarono da Lord Byron al­l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, sono stati va­ni. Ma i greci non hanno inten­zione di rinunciare. Anzi, l’inau­gurazione di stamane, di fronte ad alcuni potenti della terra, è diventata l’occasione per rilan­ciare l’operazione-recupero, con la speranza di vederla rea­lizzata in occasione delle Olim­piadi del 2012, che si svolgeran­no a Londra. Far tornare a casa i preziosi marmi, quando il mondo celebrerà l’ennesima fe­sta dello sport, nata nell’antica Grecia, sarebbe davvero un bel gesto. Ma sul risultato è assai azzardato scommettere.
Per Atene le Olimpiadi, il Partenone, l’Ortodossia, la ban­diera e i confini nazionali sono valori che non conoscono schieramenti politici né socia­li. Per difenderli, l’orgoglioso Paese è pronto a tutto. Pur di cancellare, proprio con la vi­cenda dei marmi rimossi, quel­lo che è stato definito un «cri­mine culturale». Un conto, in­fatti, è l’asportazione di opere d’arte nella loro interezza, co­me è accaduto durante tutte le guerre, le rivoluzioni, e le occu­pazioni. Un conto è mutilare un corpo unico delle sue parti, come è accaduto con il Parte­none. Ecco perché l’inaugura­zione del Museo dell’Acropoli (3 livelli; 21000 metri quadrati, di cui 14000 riservati all’esposi­zione), ideato dall’architetto franco-svizzero Bernard Tschumi, è diventata la ram­pa di lancio dell’attacco deci­sivo a un recupero che i gre­ci ritengono non possibile ma doveroso.
Per ora i contatti con Lon­dra sono gelidi. Il British Museum ha annunciato d’essere disponibile alla re­stituzione dei marmi, in cam­bio di un accordo che ne garan­tisca la proprietà. Come dire: noi ve li prestiamo, ma sono nostri. La risposta è stata un ri­fiuto secco. La Grecia avanza un nugolo di ragioni, e non sol­tanto perché quello compiuto da Lord Elgin viene ritenuto quasi un tollerato furto, visto che il sultano di Costantinopoli fu spinto ad accettare la richie­sta dell’ambasciatore per piag­geria nei confronti di Londra; ma perché, più volte, la Gran Bretagna aveva opposto alle rei­terate pressioni una sola rispo­sta: «Nessun luogo in Grecia è adatto per difendere e proteg­gere dall’incuria del tempo le statue». Questa poteva essere una comprensibile giustifica­zione. Ma dopo aver atteso 30 anni, Atene oggi può offrire il più grande e moderno museo del pianeta, ai piedi dell’Acro­poli, per offrire un confortevo­le, sicuro e definitivo rifugio ai suoi preziosi cimeli.
La Grecia è attraversata, in queste ore, da brividi di orgo­glio nazionale, che non si av­vertivano dal 2004 quando, in pochi mesi, la squadra di cal­cio vinse a sorpresa l’Europeo, e i giochi olimpici, dopo un’at­tesa durata oltre cent’anni, tor­narono a casa e offrirono un’edizione che tutti gli osser­vatori, persino coloro che iro­nizzavano sulle capacità orga­nizzative del Paese, giudicaro­no perfetti, spendendo giudizi ammirati. Ora la battaglia è sui marmi del Partenone, e se si fa un pensiero all’ostinazione di Atene nell’impedire che la re­pubblica ex-jugoslava di Mace­donia possa fregiarsi del titolo di Macedonia (come il nome storico della regione greca do­ve nacque Alessandro Magno) si può concludere che pensare a qualche parziale compromes­so è quasi impossibile.

Corriere della Sera 20.6.09
Progetto europeo: ricreare neuroni specchio negli androidi
E’ in arrivo il robot che indovina i pensieri
Impara come un bimbo e interagisce con l’uomo
di Paola Caruso


I nuovi robot somigliano poco agli an­droidi di Asimov, ai C-3PO di Guerre Stella­ri o a «aNDRew» dell’Uomo bicentenario. Ma sono sempre più capaci e intelligenti. Per non dire «più umani». Sì, perché san­no anche fare esperienza: imparano come i bambini e interagiscono con l’uomo. Al punto che sono quasi in grado di intuire i comandi e i desideri del «creatore». E così gli tocchi la spalla e si girano, gli parli e ti rispondono, gli indichi la strada con il dito e la percorrono, gli spieghi come montare un tavolino e lo assemblano. Non solo per­ché sono stati programmati, ma perché «vivendo» assimilano informazioni ricor­dandole in maniera costruttiva.
Insomma, nessuna registrazione asetti­ca. Per produrre un cervello artificiale per robot che imiti bene il nostro lavorano di­versi team internazionali multidisciplina­ri: mix di ingegneri, neuroscienziati, infor­matici, psicologi e altri specialisti. Tre esempi europei su tutti sono: i ricercatori del progetto Jast (partecipano Germania, Olanda, Regno Unito, Portogallo e Grecia), quelli del progetto Paco-plus coordinato dalla Universitaet Karlsruhe in Germania o quelli dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Genova che operano in collaborazio­ne con la scuola Sant’Anna di Pisa, l’Univer­sità di Ferrara e la società Telerobot. Tutti a caccia di software sempre più sofisticati per migliorare la «cyber-materia grigia» e per ottimizzare i dispositivi che devono funzionare come i nostri «neuroni spec­chio », ossia quei neuroni che ci permetto­no di capire e imparare. In par­ticolare il programma Jast pun­ta a rendere l’interazione uo­mo- macchina sempre più natu­rale, creando sistemi cognitivi artificiali che simulano i «neu­roni specchio» biologici e fa­cendo esperimenti in cui mac­chine e umani lavorano insie­me. L’obiettivo è: arrivare a ro­bot che si pongono domande da soli.
Le ricerche serviranno a sviluppare i ro­bot- colf per la casa, bipedi e non su ruote, che sappiano usare un coltello o un teleco­mando. Ma queste macchine hanno davve­ro un potere di intuizione? «Li definirei ap­prendisti perché possono imparare movi­menti semplici — spiega Giulio Sandini, di­rettore del dipartimento di robotica dell’Iit che ha costruito iCub (Cub in inglese signi­fica cucciolo), un robot bambino quasi in­telligente — ma esiste una barriera di ap­prendimento: non capiscono cosa succede intorno a loro». Secondo Sandini a blocca­re la loro intelligenza è il fatto che il nume­ro di connessioni che simulano i neuroni è limitato: «Nei robot le connessioni si realiz­zano con cavetti che hanno dimensioni molto grandi rispetto alle connessioni neu­ronali e sono in numero minore, senza di­menticare che i chip hanno due dimensio­ni, mentre i cervelli umani ne hanno tre». Questo vuol dire che siamo lontani dal ve­dere un «uomo bicentenario» girare per l’appartamento? «Per produrre un ro­bot- badante ci vogliono almeno 10 anni — afferma Roberto Cingolani, direttore dell’Iit — anche se si stanno facendo pro­gressi con i sistemi sempre più integrati».
Certo, le macchine vanno perfezionate, innanzitutto dal punto di vista energetico: l’alimentazione portatile non basta per staccarli dal cavo elettrico. Poi vanno mi­gliorati i materiali: carrozzerie soffici al po­sto di latta e bulloni. «Oggi se urti con il robot ti tagli» precisa Cingolani. Neanche all’uomo bicentenario piaceva la carena di metallo.