giovedì 21 maggio 2009

Liberazione 20.5.09
L'unico italiano in concorso "rischia" di ammaliare la giuria di Cannes
Con "Vincere" Bellocchio squarcia (di nuovo) la storia d'Italia
di Roberta Ronconi


Cannes. Marco Bellocchio continua a battere sui nervi tesi della storia italiana, e lo fa con coraggio e senza sconti (nemmeno a se stesso), con una generosità che gli riconoscono più i critici stranieri che non gli italiani.
A Cannes il maestro italiano arriva con Vincere, film che sta sollevando un polverone in Italia, e questa volta polverone storicamente giustificato. La vicenda del figlio segreto del duce e della sua presunta prima moglie (scomparsi tutti i documenti ufficiali) è ferita ancora così infetta da provocare negazioni isteriche. Dopo quelle esagitate di Alessandra Mussolini dalle solite poltroncine di Vespa, è ancora di questi giorni la pubblicazione sul settimanale Oggi di documenti sulla "follia" di Ida Dalser, malattia mentale i cui segni erano, secondo la pubblicazione, evidenti ben prima della nascita del piccolo Benito Albino. Smentiscono, qui da Cannes, con forza Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli, autori del documentario Il segreto di Mussolini a cui Bellocchio si è in gran parte ispirato. Così come da oltre mezzo secolo tentano di gridare la loro contro-verità le genti delle zone del Trentino dove Ida era cresciuta e amata. Furono loro, i conterranei di Ida e della sua famiglia, tra i pochi a difenderla, anche contro la giustizia fascista. Soprattutto le donne che videro in lei una madre-martire, gettata a marcire in un manicomio come suo figlio, dove entrambi morirono senza essersi mai potuti rincontrare.
Una storia nascosta sotto il tappeto dell'ipocrisia italiana, scomparsi e distrutti tutti i documenti. Salve solo poche lettere, da cui trapela una donna disperata ma lucida, che dopo la passione travolgente per Mussolini e il suo abbandono è determinata solo a tener viva la verità. Sua e di suo figlio. A costo della libertà, della giovinezza, della vita. A costo di tutto, pur di risultare nelle pagine della Storia come la prima moglie, madre del primogenito del duce. Una avanguardista, futurista, rivoluzionaria, donna a cavallo tra un femminismo ante-litteram e l'adorante donna del capo.
Tra Antigone e Aida, «la nostra è una storia piena di eroi, soprattutto uomini, antifascisti - spiega Bellocchio -. Avevo voglia invece di raccontare la storia originale di una donna che si oppose a Mussolini fino allo stremo, dopo aver condiviso con lui le prime idee rivoluzionarie e averlo amato con passione».
Interpretato con impressionante professionalità da Giovanna Mezzogiorno e da Filippo Timi (più facile, per lui, entrare nei panni del giovane esaltato Mussolini), per il racconto cinematografico Bellocchio sceglie la strada del melodramma, privilegiando così nell'intento la follia amorosa a quella storica. Questa seconda la lascia raccontare per intero ai documenti dell'Istituto Luce che da metà film in poi sostituiscono completamente la parte del duce-finzione con quello reale. Nell'opera si crea una frattura tra la potenza dell'invenzione e la freddezza del documento. Frattura che non si sana e che - a nostro avviso - impedisce la nascita del capolavoro.
Ma poco importa, la densità di Vincere rimane in gran parte intatta. Rafforzata proprio dal soggetto, dal disvelamento storico, dall'intenzione - peccato, poi tradita - di vedere la grande tragica storia di un paese attraverso gli occhi di una piccola, fragile, potentissima, innamorata, tragica donna che alla fine delle sue pene è capace di scrivere al suo Benito: «Va' là Duce che sei solo un pover'uomo».
Di collegamenti con il presente e con il caso Berlusconi-Lario, Bellocchio è costretto a parlare sotto sollecitazione dei giornalisti italiani: «Sono restio a fare paragoni tra Mussolini e Berlusconi, anche se le analogie sono ovvie. Il fatto è che la sinistra si è rotta i denti nello scontro frontale contro il Berlusconi brutto e cattivo. Dimenticandosi in questo accanimento del suo ruolo politico». In realtà, nella mania tutta italiana di fare una lettura politicizzata del cinema, più che all'anti-berlusconismo, in Bellocchio pesa il profondo, inossidabile anti-clericalismo. Quello che con forza gli fa rivendicare la sua «laicità di fronte a una chiesa cattolica che ha le chiese vuote ma che ci riempie i giorni con le notizie su Ratzinger». Sanguigno come di rado, il regista si scaglia contro quei Patti lateranensi che nel '29 vede allearsi «un'ideologia cattolica criminale - si scalda nell'intervento - con il cinico calcolo di Mussolini. Un'alleanza vergognosa che porterà il Papa a definire Mussolini come "l'uomo della provvidenza"».
Vincere esce oggi nelle sale italiane, distribuito da 01. Già venduto in Francia e osannato come pochi dalla rivista-bibbia del cinema Variety , il film scritto da Bellocchio assieme a Daniela Ceselli ha dalla sua anche l'avvolgente fotografia di Daniele Ciprì. Vederlo è il minimo, amarlo soggettivo.

Repubblica 21.5.09
La Chiesa irlandese nella bufera "Abusi sessuali su migliaia di bimbi"
Rapporto shock: per 40 anni violenze "endemiche" negli istituti religiosi
Scoperti 2500 casi avvenuti tra il 1940 e il 1980. Il primate Brady: "Dispiaciuto profondamente"
di Enrico Franceschini


LONDRA - È una delle pagine più nere della storia d´Irlanda, e della storia della Chiesa cattolica: l´abuso sessuale sistematico e ampiamente diffuso ai danni di bambini e adolescenti di entrambi i sessi, in scuole, orfanotrofi, riformatori e altri istituti gestiti da ordini religiosi cattolici irlandesi. Una macchia vergognosa, di cui finora si conosceva l´esistenza attraverso documentari televisivi, film di denuncia come il pluripremiato "Magdalene" di qualche anno fa, inchieste dei giornali e indagini preliminari. Ma adesso la Child Abuse Commission, la commissione istituita dall´allora primo ministro irlandese Bertie Ahern, per fare luce su questo indegno scandalo, ha concluso i suoi lavoro dopo nove anni di inchieste e presentato un rapporto che fotografa con esattezza le dimensioni e i dettagli di quanto è avvenuto.
Il risultato suscita orrore: un dossier con le testimonianze di 2500 vittime di violenze, avvenute tra gli anni ‘40 e gli anni ‘80, negli istituti gestiti da preti e suore in Irlanda. Racconti atroci, di uomini e donne oggi adulti che ricordano di essere stati picchiati in ogni parte del corpo con le mani e con ogni tipo di oggetti, seviziati, stuprati, talvolta da più persone contemporaneamente.
E´ la cronaca di una discesa agli inferi, tenuta nascosto per decenni, poi trapelata qui e là, ma solo ora svelata in tutta la sua mostruosa realtà. Che questo sia avvenuto nel paese più cattolico d´Europa, dove la Chiesa ha per lungo tempo sovrastato con la sua influenza ogni aspetto della società civile, è ancora più grave e raccapricciante, commenta la stampa irlandese. Il rapporto non è una lettura facile. «Credevo che mi avrebbero rivoltato le budella», dichiara un testimone. Altri parlano di «predatori sessuali che colpivano sistematicamente e abusavano sessualmente i bambini più vulnerabili». Le vittime erano spesso giovani "difficili", orfani, disabili, abbandonati, che speravano di ricevere dalla Chiesa il conforto che non avevano mai conosciuto e si ritrovavano invece inghiottiti in un feroce cuore di tenebra. La pedofilia e l´abuso sessuale nei confronti dei bambini erano un fatto «endemico», conclude il documento.
Il fatto che questo orrore sia venuto pienamente alla luce, per iniziativa del governo, è un segno di quanto sia cambiata l´Irlanda negli ultimi vent´anni: oggi è colpita come tanti dalla crisi economica, ma è un paese irriconoscibile, trasformato dalla globalizzazione, moderno e aperto. La Chiesa cattolica irlandese piega la testa: il cardinale Sean Brady dice di essere «profondamente dispiaciuto» per gli abusi sessuali. «Mi vergogno che dei bambini abbiano sofferto in un modo così orribile in queste istituzioni», afferma in un comunicato l´arcivescovo di Armagh e Primate di tutta Irlanda.
Tra gli ordini religiosi investigati dalla commissione ci sono anche le Sisters of Our Lady of Charity Refuge, le suore che gestivano la Magdalene Laundry di Dublino, il soggetto dell´omonimo film del 2002. Ma le resistenze di associazioni religiose e del ministero dell´Istruzione hanno prolungato l´inchiesta, cosicché molti dei carnefici sono già morti; e in base a restrizioni legali la commissione non ha potuto nominarli, tranne nei rari casi in cui un prete o una suora abbia già subito una condanna giudiziaria.

Repubblica 21.5.09
Botte, umiliazioni e violenze sessuali nei racconti degli ex bambini
Sadie, Thomas e gli altri "Eravamo i loro schiavi"
di e. f.


"Il Rapporto non basta Quello che oggi chiediamo è che quegli istituti vengano perseguiti dalla giustizia"

LONDRA - Sadie O´Meara aveva 15 anni quando gli ispettori dell´assistenza sociale la strapparono alla madre, che non era sposata - una colpa imperdonabile nell´Irlanda bigotta e clericale del primo dopoguerra - e la consegnarono alle Sisters of Our Lady of Charuty of Refuge, le Magdalene Sisters, le famigerate suore protagoniste del film che tanto scalpore ha suscitato quando è apparso nelle sale di tutto il mondo nel 2002. «Mi misero a lavorare in una delle "Magdalene Laundries", le lavanderie dove ragazze orfane o private della famiglia venivano sfruttate come schiave», racconta. «Ci facevano alzare alle sei del mattino, marciare in un cortile, assistere alla messa, senza mangiare un boccone e neanche bere un bicchiere d´acqua. Ogni mattina c´erano ragazze che svenivano in chiesa per la debolezza». Sadie è una dei testimoni che hanno parlato con la commissione governativa d´inchiesta, per la compilazione del rapporto di 2500 pagine pubblicato ieri a Dublino. «Dormivo in una cella simile a quella di una prigione. La notte mi chiudevano dentro a chiave. C´era un letto di ferro e un secchio d´acqua come unica forma d´igiene. C´erano sbarre alla finestra, da cui si vedeva solo un grigio cortile. Il cibo era immangiabile. E poi la cosa peggiore erano le botte, le umiliazioni costanti, le violenze sessuali. Mia madre morì mentre ero dentro, non me lo dissero nemmeno».
Una sua compagna di sofferenze, che preferisce non rendere pubblico il proprio nome, testimonia gli abusi sessuali a cui era sottoposta dalle suore del medesimo istituto. «Scrissi una lettera per rivelare cosa stava accadendo lì dentro e riuscii a darla a un uomo che ci portava il pane. Ma lui la restituì alla madre superiora, che mi convocò nel suo studio e mi fece picchiare così selvaggiamente da aprirmi delle ferite nella carne viva delle gambe». Thomas Wall, un orfano di Limerick, fu affidato all´orfanatrofio dei Christian Brothers all´età di tre anni. «Da quando ne avevo otto, fui abusato sessualmente e violentato dai sacerdoti dell´istituto», racconta. «Se piacevi a qualcuno, era finita, non avevi scampo. Non c´era modo di nascondersi o difendersi, avevano accesso a te 24 ore su 24. Mi sono rimaste le cicatrici delle percosse che ho subito». Tom Hayes, anche lui orfano, finì nel medesimo orfanotrofio, ma oltre alle violenze dei preti gli toccarono quelle dei ragazzi più grandi: «Era la norma essere svegliato nel mezzo della notte e stuprato dai tuoi compagni. Da adulto non sono più riuscito ad avere rapporti normali». Dice John Kelly, un´altra vittima di abusi sessuali: «Il Rapporto non basta. Vogliamo che quegli istituti siano perseguiti e puniti dalla giustizia».

Corriere della Sera 21.5.09
Un rapporto di 2575 pagine. «Intervenga il Pontefice»
Abusi sui minori irlandesi L’inchiesta del governo accusa gli istituti cattolici
«Migliaia di casi». Il cardinale Brady: provo vergogna
di Fabio Cavalera


LONDRA — Thomas Wall è oggi un signore di sessant’anni e porta dentro di sé l’incubo di quelle giornate trascorse nella scuola-riformatorio gestita dal­la congregazione dei «Fratrum Christianorum», i Brother Chri­stians di Glin, la città irlandese sul fiume Shan­non. Lì dentro la vita quotidiana era segnata dagli orrori. «Ero un bambino e ogni giorno un presu­le abusava di me. No, non c’era modo di evitarlo, era così per tutti, ventiquattro ore su ventiquattro, la tua intimità ve­niva violata». E i piccoli dove­vano piegarsi alle perversioni degli uomini di Chiesa o dei compagni più grandi che ave­vano la «supervisione» nottur­na sulle camerate.

Accadeva pure negli altri isti­tuti della contea di Limerick, sempre sotto l’insegna dei «Fra­trum Chritianorum» il cui mot­to è «Facere e docere», fare e in­segnare. Ma ciò che facevano e insegnavano era qualcosa di or­ribile, di disgustoso. Come an­che in altri collegi dell’Irlanda: ad esempio governati dalle «So­relle della Pietà» le quali scam­biavano le opere di bene per un diritto assoluto di appro­priazione dei minori che impri­gionavano. Sadie O’Meara era un’adolescente: «Mi rinchiude­vano a chiave la sera, il cibo era fetente, alle finestre c’erano le sbarre, mi maltrattavano, non mi dissero neppure che mia madre era morta». Era questa la regola: scuole lager, orfano­trofi lager.

Un rapporto choc di 2575 pa­gine e si alza il sipario su un tea­tro raccapricciante nel quale «stupri, molestie e abusi erano endemici». È durata nove anni l’inchiesta della commissione presieduta dal giudice dell’alta corte, Sean Ryan, e alla fine i ri­sultati rivelano che le «indu­strial schools» irlandesi per 35 mila bambini e ragazzi abban­donati o in difficoltà, devianti o senza più i genitori, un network di 250 istituti organiz­zati dagli ordini religiosi cattoli­ci per oltre mezzo secolo, fino alla chiusura decisa negli Anni Novanta, sono stati il palcosce­nico segreto di crudeltà «che avevano lo scopo di provocare dolore e umiliazione».

Centinaia di testimonianze descrivono il clima di schiavitù e di terrore. In una scuola della contea di Galway, remota, fon­data nel 1885, per decenni tre presuli si sono accaniti contro i giovani. In un’altra la «San Giu­seppe » per i sordi, a Cabra, i su­periori hanno coperto, persino davanti agli ispettori, le scorri­bande punitive sugli ospiti. Sei riformatori hanno accolto mi­ster John Brander, un educato­re. Solamente di facciata. Era un «serial sexual and physical abuser», un maniaco violento. Fino a che ha concluso la «car­riera » in prigione. E al riforma­torio di San Patrizio tenevano addirittura un registro con il diario delle punizioni corporali inflitte dallo «staff religioso». Nella istituzione controllata dalle «Sorelle della Pietà», nel­la contea di Waterford, i ragaz­zi e le ragazze erano malnutriti, in compenso riempiti di alcol.

Uno scandalo che sconquas­sa la Chiesa cattolica nel Regno Unito. Quasi tutti i responsabili degli abusi e delle violenze so­no garantiti da «immunità pe­nale » perché nel 2004 la magi­stratura, su appello delle Con­gregazioni, assicurò l’anonima­to degli aguzzini. Ora i vertici ecclesiali invocano il perdono, promettono il repulisti. Il Pri­mate della Chiesa irlandese, Se­an Brady, è esplicito: «Provo vergogna». Il comitato che tute­la le vittime delle violenze sco­perte dalla commisione si ribel­la. «Tocca al Papa convocare un concistoro speciale per inve­stigare le attività della Chiesa cattolica in Irlanda».

Repubblica 21.5.09
Nuova legge in arrivo. E i vescovi non si oppongono
Testamento biologico la Svizzera batte tutti
di Valerio Gualerzi


Il clero elvetico: "Prendiamo atto, è il frutto della società nella quale viviamo"

BERNA - In un celebre film Orson Welles sentenziava che secoli di pace avevano fatto degli svizzeri un popolo incapace di andare oltre l´invenzione dell´orologio a cucù. Non è vero. «Anni e anni di guerre di religione ci hanno fatto capire che il dialogo è un valore fondamentale», spiega Alberto Bondolfi, docente di Teologia a Losanna. L´ultimo esempio arriva dalla approvazione della riforma del codice civile in materia di diritti del malato con l´introduzione dell´obbligo per tutti i Cantoni di garantire le «direttive anticipate», quello che in Italia chiamiamo testamento biologico.
Se il contenuto delle modifiche ci può essere da esempio, il metodo con cui ci si è arrivati è una vera lezione. «La nuova norma - spiega Olivier Guillod, docente di diritto privato all´Università di Neuchatel - prevede la possibilità di lasciare indicazioni sulle cure mediche alle quali si vuole o non si vuole essere sottoposti in caso di perdita della capacità di intendere e di volere», compresa l´alimentazione e idratazione artificiale. «Si tratta di indicazioni vincolanti - precisa - alle quali il medico deve attenersi». «La norma - ricorda invece Bondolfi - prevede la possibilità di indicare un "rappresentante terapeutico" delle ultime volontà al quale si può dare carta bianca». Ma ciò che visto da Roma appare straordinario è la serena concertazione con la quale si è arrivati a riformulare la legge. Gli svizzeri sono chiamati ad esprimersi via referendum su qualsiasi dettaglio della vita, ma a nessuno è venuto in mente di convocarne uno per fermare la riforma. «La Chiesa cattolica - spiega il professor Andrés-Marie Jerumanis, membro della Commissione bioetica dell´episcopato svizzero - non è voluta entrare nel merito, prendiamo atto che le "direttive anticipate" sono il frutto della società nella quale viviamo: faremo sentire la voce profetica della Chiesa per evitare che questo primo passo ci possa portare alla deriva». Il tanto deriso orologio a cucù degli svizzeri segna un´ora che in Italia non è ancora arrivata.

Corriere della Sera 21.5.09
Un libro di Hans van Wees sullo spirito bellicoso dalla Grecia al fondamentalismo d’oggi: se l’esercito coincide con il popolo
Guerra, madre di tutte le cose (compresa la letteratura)
La lezione da Tucidide a Tacito: senza conflitto non c’è racconto
di Luciano Canfora


Il fenomeno della guerra è talmente cen­trale nelle società antiche, sin dall’epoca greca arcaica, che ogni aspetto della real­tà ruota intorno a essa: dalla inclusione nella cittadinanza dei soli maschi in quanto guerrieri al linguaggio amoroso che si esprime per l’appunto in termini di guerra e conquista. Il riflesso più evidente è nella storiografia: quando non c’è guerra non c’è racconto. Lo di­chiarano con diversa profondità Diodoro di Si­cilia (XII, 26) in epoca cesariana e Cornelio Taci­to, che scrive all’inizio dell’epoca antoniniana ( Annales, IV, 32) e quasi esprime una qualche invidia per gli storici del passato — pensando soprattutto a Tito Livio — che hanno avuto ben altra materia, «guerre gigantesche e terri­bili conflitti civili», e non invece quella «pace immobile e appena appena increspata di con­flitti » che è per l’appunto la sua materia. E in­fatti archetipo di ogni successivo libro di storia fu l’Iliade, nella quale non soltanto la materia privilegiata è la guerra ma non manca nemme­no il «conflitto civile», che lì si presenta come scontro tra i capi, magari per il possesso di una schiava. Per Tucidide, che, secondo Luciano di Samosata, «dettò le norme dello scrivere sto­ria », scrivere storia è innanzitutto scrivere del­la guerra e di quanto le è connesso, a comincia­re dalla guerra civile. E il rapporto col passato per intendere la grandezza del presente lo si misura, secondo lo storico ateniese, comparan­do questa, «grandissima», con le altre guerre.

È stato calcolato (Yvon Garlan) che la città greca di cui conosciamo meglio la storia, Ate­ne, fu mediamente in guerra ogni due o tre an­ni tra il 490 e il 336, cioè nel periodo che per noi è meglio documentato. Ma se allarghiamo lo sguardo ad altri aspetti del reale, non trovia­mo che conferme di questa impostazione men­tale da cui non si può prescindere se si vuol comprendere il fulminante aforisma di Eracli­to secondo cui il Polemos (la guerra) è «padre di tutte le cose». Così la «virtù» ( areté) è, nella poesia greca, innanzitutto «virtù guerresca», e «morire combattendo nelle prime file» è, per Tirteo, la «bella» morte.

«Quando Roma sottomise l’Italia», scrisse il maggior interprete tardo ottocentesco delle ci­viltà antiche, Ulrich von Wilamowitz-Moellen­dorff, «chi vinceva e poi comandava era il po­pulus Romanus, cioè l’esercito romano: poi­ché questo è il significato vero e proprio di po­pulus.

L’esercito coincide con il popolo. Que­sto populus sceglie i suoi magistrati nei comizi centuriati, vale a dire si raduna per compagnie, e ogni centuria o compagnia ha un voto». E de­scrive la «cerimonia» del voto (la cui scarsa cor­rispondenza alla nozione di suffragio «ugua­le » è ben nota) con dettagli determinanti: «I cittadini eleggono i magistrati nel luogo del­l’adunanza e delle esercitazioni militari davan­ti alle porte della città, sul campo di Marte (…). Chi vota porta l’abito di pace, dunque la città è indifesa e perciò vengono collocati corpi di guardia per proteggerli da un improvviso attac­co dei vicini. Questa istituzione è molto antica: implica che un tale pericolo è sempre presen­te ».

Il Wilamowitz spiegava, in linguaggio sem­plice e accattivante, questa realtà di compene­trazione totale tra esercito e popolo agli ufficia­li tedeschi nel Belgio occupato, nel giorno di Pasqua del 1918, in una conferenza, poi pubbli­cata, dal titolo Esercito e popolo negli Stati del­l’antichità.

Le sue parole, che rendono, con ef­ficacia e piena aderenza ai fatti, la situazione antica, avevano, e volevano avere, implicazioni più attuali. Le quali appaiono a noi non poco inquietanti. Larvatamente, e neanche tanto, lo studioso suggeriva, offrendo quella ricostruzio­ne storica, un modello alla Germania in guerra (in quel momento vincente), un modello posi­tivo, volto a squalificare il primato della politi­ca e dei politici professionali sull’esercito in ar­mi. Era, se si vuole, un appoggio a quella che alcuni storici hanno chiamato la «dittatura del generale Ludendorff».

Incrinare questa immagine della realtà anti­ca non è facile. Certo, ci sono state correnti di pensiero volte ad auspicare la «pace comune», soprattutto quando fu chiaro che nessuna ege­monia era più possibile; e certo le occasioni pa­nelleniche (feste di tutti i Greci a Olimpia e al­trove) imponevano una sospensione dei con­flitti, anche se, in tali occasioni, le rivalità laten­ti prendevano non di rado altre forme. Ma non va dimenticato che la più importante cerimo­nia civica annuale in Atene, occasione per un impegnativo intervento autocelebrativo affida­to al politico più in vista, era la sepoltura di co­loro che, nell’anno, erano morti in guerra. Ed è notevole come nei superstiti discorsi legati a tali cerimonie una parte rilevante venga riserva­ta a descrivere come si fa la guerra, e come in­vece la fanno, e vi si preparano, i «nemici».

Come nota Hans van Wees nel suo impegna­tivo e sistematico volume La guerra dei Greci, ora tradotto in italiano dalla Libreria editrice Goriziana (pp. 432, e 30), ogni straniero ( xe­nos)

era potenzialmente una figura percepita come ostile; «nella cultura, nella società, nella politica e nell’economia dei Greci c’era molto che spingeva le comunità a ricorrere alla vio­lenza ». Il pregio di questo libro, molto scrupo­losamente documentato, consiste nel non per­dere mai di vista i dati essenziali (riepilogati in un capitolo intitolato «I Greci contro il mon­do »), ma, al contempo, nel dare rilievo a tutte le sfumature e le distinzioni, indispensabili perché il quadro non risulti unilaterale. Perciò parla anche di «miti» da sfatare: ma il grande pregio non è nei presupposti ideali, è nella rac­colta empirica dei dati.

In effetti il «modello greco» di guerra ine­sausta, di autostima nei confronti del «barba­ro » e di preventiva ostilità e senso di superiori­tà verso di esso, suggestiona da tempo i moder­ni: non solo il solitario Nietzsche, che in epoca di classicismo accomodante e un po’ oleografi­co mise l’accento sulla durezza del Pericle tuci­dideo, esaltatore sia del bene che del male che gli Ateniesi hanno fatto agli altri, ma anche, al tempo nostro, la produzione storiografico-pub­blicistica di un curioso personaggio di succes­so come Victor Davis Hanson ( Massacri e cul­tura. Il volto brutale della guerra). Hanson apri­va

Massacri e cultura (Garzanti) con il capitolo programmatico intitolato «Perché l’Occidente ha vinto», che prende le mosse dalla battaglia di Cunassa e dall’Anabasi senofontea assunta come simbolo del destino di vittoria e della su­periorità dell’Occidente. Hanson compiva, cioè, con il modello Cunassa (dove i Greci vin­cono comunque, anche all’interno di uno schieramento che nel suo complesso perde), la stessa operazione ideologica che avevano fatto i Greci quando avevano stabilito che la vittorio­sa guerra contro Troia era l’antecedente remo­to delle altrettanto vittoriose guerre contro i Persiani. Sembra passata invano la lezione del Mondo e l’Occidente di Arnold Toynbee (Selle­rio), del libro cioè che è stato, alla metà del No­vecento, il migliore antidoto contro il «fonda­mentalismo » occidentalistico (e nessuno so­spetterà che Toynbee fosse un agente del Kgb!). Ben venga dunque un saggio, come quel­lo di van Wees, che, pure con argomenti non sempre persuasivi, delinea la realtà greca della guerra dando alle sfumature tutto lo spazio che meritano.

Repubblica 21.5.09
Oliver Sacks
Mio padre medico si vergognava dei miei libri
di Douwe Draaisma


Sul "Times" era uscita una recensione positiva del mio primo lavoro. Lui mi disse con area funerea: "Sei sul giornale!"

Pubblichiamo parte dell´intervista a Oliver Sacks contenuta nel libro di Douwe Draaisma Le età della memoria (Bruno Mondadori, pagg. 144, euro 15) in uscita in questi giorni. L´autore, psicologo all´università di Groninga, affronta in particolare il fenomeno delle "reminiscenze", cioè quel flusso di ricordi lontani che affiora in tarda età, proprio quando la memoria comincia a funzionare con più difficoltà.

Chi inizia a scrivere la sua autobiografia si mette al lavoro con i suoi ricordi, ma la motivazione che lo spinge a scrivere un´autobiografia sembra spesso la conseguenza di una situazione inversa: sono i ricordi che si mettono al lavoro con lo scrittore.
«Nel 1993, mentre mi avvicinavo al mio sessantesimo compleanno», scrive Oliver Sacks ripensando alla stesura della sua autobiografia Zio Tungsteno, «cominciai a sperimentare un fenomeno curioso, l´emergere spontaneo e non richiesto di ricordi precoci, ricordi rimasti assopiti per più di cinquant´anni. E non solo ricordi, ma veri e propri stati d´animo, idee, atmosfere, e le relative passioni, ricordi soprattutto della mia infanzia».
Quando Oliver Sacks, nell´ottobre del 2005, è venuto a Groninga per una conferenza, ha accettato di rilasciare un´intervista su ciò che il tempo fa ai ricordi e su ciò che i ricordi fanno al tempo. La conversazione, inaspettatamente, ha preso una piega malinconica. Sacks stava male e questo sembrava rafforzare la sua propensione a riflettere sul rapporto con i suoi genitori, sul corso preso dalla propria vita e sulla vecchiaia.
Quarant´anni di America non sono passati invano per Sacks, che si presenta con un berrettino arancione e scarpette da ginnastica cool. Ma senza berretto e con le scarpe sotto il tavolo, seduto davanti a me, c´è di nuovo innegabilmente l´inglese che lui è per nascita. Non vi è traccia di accento americano. Sacks parla con fare timido, con dolcezza e precisione.
«Quando avevo cinquant´anni non avevo ancora mai preso in considerazione la possibilità di scrivere la mia autobiografia. Ma verso il mio sessantesimo compleanno ho notato che cominciavano ad affiorare spontaneamente dei ricordi di avvenimenti, persone, oggetti ai quali non avevo più ripensato dai tempi della mia fanciullezza. In quello stesso periodo mi hanno chiesto di scrivere un pezzo sui musei scientifici di Londra. Quei musei, per la mia formazione, sono stati più importanti di qualsiasi altro corso di studi. Una volta iniziato a scrivere sui musei e anche su mio zio Tungsteno era come, be´, come urinare: non potevo più fer-marmi».
Lei scrive che non riesce ad ascoltare Nachtgesang di Schubert senza dover pensare, "con nitidezza quasi insopportabile", a sua madre che cantava in piedi vicino al pianoforte. Perché "insopportabile"?
«Perché mi rendo conto che lei non c´è più, che questo è il passato, che non puoi tornare al passato, che lei è morta, che quel tempo è morto, ma anche perché c´è un´insopportabile penosità nella musica di Schubert. Dopo la sua morte per un po´ l´unica musica che riuscivo a sopportare era quella di Schubert».
La scrittura dell´autobiografia ha cambiato il suo modo di pensare riguardo alla memoria?
«Già non credevo, per cominciare, che i ricordi si fondassero sulla semplice riattivazione delle tracce cerebrali. I ricordi sono delle ricostruzioni, e il modo in cui si ricostruiscono dipende tra l´altro dall´età. Avevo messo in conto che avrei dimenticato parecchio. Ma la presenza di ricordi, ricordi molto vividi, rivelatisi non tanto ricostruiti quanto completamente fabbricati, mi ha davvero sorpreso.»
Ripensa talvolta al corso preso, professionalmente, dalla sua vita?
«Sì, e pure di recente, nel treno verso Groninga. La vita di un dottore è diversa da quella di un ricercatore. Io dipendo da persone che bussano alla porta, mi telefonano, mi scrivono. C´è di certo meno coerenza nella mia vita. La mia forza creativa risiede, credo, nelle digressioni inventive verso soggetti esotici. Per la mia carriera non avevo in mente un tragitto chiaro. Ma più libri scrivo, più vedo i miei temi in prospettiva. Vedo con maggior chiarezza quale sia il mio orientamento intellettuale, quale sia il mio valore. Adesso posso commuovermi quando dei giovani mi raccontano di aver deciso di diventare dottori dopo aver letto i miei libri alla scuola media. Tuttavia, ora che sono entrato nella mia ottava decade, spero di avvicinare un po´ di più i miei temi tra loro, di cercare una sintesi. I colleghi qualche volta mi chiedono: "Sacks, dov´è la tua teoria?". Ma io non sono portato per le teorie generali, io fornisco i casi e gli esempi che devono formare il materiale per una simile teoria».
E adesso che è stato insignito di tutta una serie di dottorati di ricerca, appartenenze onorarie, premi letterari e scientifici?
«Credo di essere stato un buon dottore per i miei pazienti. Un paio di giorni fa ho visto la signora Herbst. Ho ascoltato con attenzione, suggerito alcune cose, io conosco la mia disciplina come neurologo. Entrambi i miei genitori erano bravi dottori e loro avrebbero visto che anche io sono un buon dottore, pur avendo sensazioni contrastanti su molte cose che facevo. Nel 1970, dopo la pubblicazione di Emicrania, un giorno entrò nella mia stanza mio padre, cinereo, tremante, con il Times in mano: "Sei sul giornale!". Era sconvolto. C´era un pezzo sul mio libro, definito equilibrato e brillante, ma mio padre riteneva che un medico non dovesse finire sul giornale. Vigeva allora un´etica medica rigorosa, con le A proibite: adultery, alcohol, addiction e anche advertisement. Mio padre trovava doloroso il fatto che avessi reso pubblico in tal modo il nostro nome».
Suo padre visse fino al 1990, cambiò mai opinione sulla sua opera?
«In seguito divenne più benevolo, più mite. Forse perché facevo qualcosa che piaceva fare anche a lui, era bravo a scrivere lettere e a raccontare storie. Forse era orgoglioso di me, anche io ero orgoglioso di lui. Era un tipo modesto, troppo modesto. In Inghilterra, nella medicina, c´erano due livelli, i medici di famiglia, che erano gli operai, e gli specialisti, che si sentivano socialmente e intellettualmente al di sopra dei dottori comuni. Ma mio padre nel fare diagnosi era straordinario, vedeva cose che agli specialisti erano sfuggite. Quando raggiunse l´età di novant´anni gli dissero: smetti adesso di fare visite a domicilio. Ma lui replicò: io smetto col resto e continuo con le visite a domicilio. Sfiorò i 95. Dedicò settant´anni di esperienza e dedizione a quelle visite a domicilio. Lasciai l´Inghilterra per andarmene dai miei genitori e da quella rigida gerarchia medica. Volevo spazio, provavo una sorta di risentimento nei loro confronti. Si può leggere quella rabbia "tra le righe" di Zio Tungsteno. Però man mano che invecchi cominci a vedere le cose diversamente. Nutro grande simpatia per le persone che fanno bene il loro lavoro e mio padre lo faceva. Non erano tempi facili e nemmeno io ero un figlio facile. In un certo senso li avevo sorpassati. Ciò mi impauriva e deve aver impaurito anche loro».
Quindi partendo è stato un bravo figlio?
«That´s a way to put it».

l’Unità 21.5.09
Elaine, Neal e gli altri
Un miracolo di storie: l’universo dell’autismo in forma di musical
di Rossella Battisti


C’è il coraggio di una donna dietro al Miracle Project, il «progetto miracoloso» ovvero un musical che ha portato in scena alcuni ragazzi autistici e, in molti modi, ne ha cambiato la vita e le prospettive. La donna è Elaine Hall, scrittrice, attrice, una carriera tra cinema e tv. E un istinto materno fortissimo. Anni fa decise con il marito di adottare un bimbo e in un orfanatrofio russo le finì tra le braccia Neal, biondissimo cucciolo di nemmeno due anni. «Li volevo tutti - ricorda Elaine - ma Neal mi è volato incontro, ci siamo rotolati sul tappeto felici e non ci siamo lasciati più». L’idillio con Neal non si è incrinato neanche pochi mesi dopo, quando il bimbo ha cominciato a mostrare i primi segni della «stranezza». Agitato, nervoso, passava le notti in bianco e con lui la mamma adottiva. Aveva paura di tutto, anche di fare un semplice bagno. La diagnosi arriva alla fine, impietosa e irreversibile: autismo. Sembra che non ci sia niente che lo possa raggiungere in quel suo mondo a parte. Il marito di Elaine cede e divorzia quando Neal ha otto anni. Elaine tiene duro e rilancia. Ha letto che per cercare un contatto con un bambino autistico bisogna seguirlo in quello che fa e allora pensa al teatro e agli attori che non hanno paura di stare dietro ai giochi lunari di Neal. L’esperimento sembra funzionare, Elaine pensa più in grande: estende il progetto, chiama altre famiglie che hanno bambini con lo stesso «mondo segreto» di Neal e prova a coinvolgerli in un musical.
La storia è tutta in un documentario, Autismo: il musical, che è andato in onda ieri sera su Cult (canale 131 di Sky) in prima visione assoluta. Sono frammenti di vita ricostruiti, attraverso filmini di famiglia - quando ancora non era affiorato «il» problema -, testimonianze dal vivo e foto di coppie sorridenti. Come Hilary e Joe, ritratti il giorno delle nozze, lei luminosa con i fiori in mano, lui in bici e una faccia da luna ridente. Poi è arrivata Lexi e dopo mesi di comportamenti anomali, consultazioni pediatriche, dubbi e affanni, quella diagnosi temuta. Ma non è tutto uguale il mondo dei bambini autistici. Il documentario - distribuito dal canale americano Hbo - lo dimostra con grande delicatezza, frugando tra le pieghe delle storie, ricostruendo un tassello alla volta il variegato mosaico dell’autismo. «Il mondo appare triste e spaventoso per i bambini affetti da autismo - spiega Elaine -, provocando in loro un sovraccarico sensoriale che li sgomenta, ecco perché si rifugiano in un mondo tutto loro». C’è chi resta muto, come Neal e chi è loquace come Wyatt. Alcuni sviluppano straordinarie doti in certi ambiti. Altri hanno difficoltà a controllare i loro impulsi. Tutti stentano a comunicare con il mondo nostro, con i ritmi convulsi che non sanno rispettare la delicatezza di creature diverse, con l’omologazione che impone standard rigidi di comportamento e di reazione. Il teatro, con la sua libertà di fantasia e di azione, si è trasformato in un ponte magico per traghettare pensieri ed emozioni. Da figli a genitori. Dagli attori ai bambini. Fra i ragazzi stessi. Lexi, che ora ha 14 anni, ha tirato fuori una voce da usignolo, canta Miracle e fa sapere a Jakob che si è accorta di piacergli e che anche a lei piace un po’... A Wyatt piacerebbe avere amici con cui parlare, quelli che «ti fanno sentire felice dentro», come Henry che però poi si ritrova nel suo paradiso personale fatto dei dinosauri e dei rettili di cui conosce ogni segreto. Rifugiarsi in un mondo proprio è un modo per rifiutare quello che c’è, prepotente, ostile come «quando a scuola i prepotenti che ti fanno le boccacce e ti prendono in giro», ma stare nel proprio mondo, sottolinea Henry, è «come non parlare con nessuno».
La macchina da presa sosta sui volti, sugli sguardi distolti dei ragazzi, sulle rughe d’espressione che segnano le facce delle mamme. Sono loro in prima fila, presenze costanti, lo sguardo come un tic che scruta di continuo impercettibili tracce di comunicazione con i loro figli. La via segreta per arrivare dove non ci sono le parole per dirlo. Sono loro, le donne - per sempre madri, spesso ex mogli - a restare accanto, a sperare di aprire un giorno quella porta. I padri, a volte, rimangono a distanza, da mariti se ne vanno il più delle volte. «Le mamme dei bambini autistici sono monomaniacali, osssessionate dai loro figli», commenta con sincerità disarmante Richard, papà di Adam, un ragazzino irrequieto con l’istinto per la musica (a due anni suonava l’armonica e a sette si è innamorato del violoncello). Richard non ha lasciato Roxane, però si è preso una «pausa» esterna con un’altra donna. «Non c’entra con l’autismo di mio figlio» dice lui. Lei, Roxane, è meno convinta. Quando l’ha saputo gli ha tirato dietro un tavolo di 180 chili. Di certo, Richard non è cambiato tanto da quando si sono sposati, mentre lei che era una strepitosa modella che lavorava anche nelle fiction tv tipo i Jefferson, oggi quasi non la riconosci con quegli occhiali da maestrina stanca, i capelli tirati indietro alla come viene viene. E solo il lampo di un sorriso un po’ amaro, gli occhi felini ricordano la pantera che fu e che si concentra adesso per far uscire fuori dal nido il suo cucciolo timido.
Il «Miracle Project» forse non ha fatto miracoli, ma un raggio di sole lo porta, per una sera e forse più, su quel palco dove Lexi canta, Adam suona il violoncello, Wyatt parla di sé ed Henry dei suoi amati lucertoloni. Tutti insieme, in coro e non più da soli. Dopo il musical, qualcosa è cambiato. I piccoli eroi hanno mosso qualche passo verso il mondo. Anche Neal comunica adesso con mamma Elaine attraverso una macchina parlante e le dice: «ascoltami di più». Mamma Elaine sorride e accanto a lei sorride anche Jeff, il nuovo compagno che l’ha stretta a sé nel 2007. Tutto compreso. Anche Neal.

l’Unità 21.5.09
I pregiudizi e la scienza
Colpito un bimbo su 150


Fino al 1980 l’autismo era un disturbo relativamente raro, diagnosticato negli Stati Uniti su un bambino ogni 10mila. Secondo dati più recenti del Centers for Diseas Control, colpisce un bambino ogni 150. Oggi questa disabilità colpisce lo 0,6 per cento della popolazione. L’Europa (compresi gli stati membri del Consiglio d’Europa) conta circa 5 milioni di persone con autismo. Alla luce dell’aumentare della diffusione l’associazione Autism-Europe ha chiesto che la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità sia ratificata non solo da pochi, ma da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa. L’autismo è un disturbo pervasivo e permanente che altera lo sviluppo cerebrale e si manifesta nella prima infanzia. I sintomi sono diversi: menomazioni dell’interazione sociale, menomazioni della comunicazione, interessi ristretti e comportamenti ripetitivi. Oggi l’evidenza scientifica indica che molti divesi fattori di natura genetica, medica e neurologica sono coinvolti nel determinare l’autismo. L’antico pregiudizio che attribuiva la responsabilità dell’autismo a mancanze genitoriali è stato smentito.

www.AUTISMOPERCHE.IT
L’autismo e i suoi problemi visti dalla parte dei genitori dei soggetti autistici: sul sito internet dell’associazione ufficiale tutti gli studi, i convegni e tutte le news per essere aggiornati sulla sindrome dell’autismo.

Repubblica 21.5.09
La democrazia stressata
di Aldo Schiavone


Una democrazia stressata. Ancora forte e ben in piedi, per fortuna, ma stressata. Credo che questa sia la rappresentazione più corretta del difficile momento istituzionale e politico che stiamo attraversando non da ora, e di cui le cronache degli ultimi giorni stanno rivelando con sin troppa evidenza l´avvio di una nuova fase.
L´Italia incupita e sofferta del tardo berlusconismo ci restituisce l´immagine di una democrazia sottoposta da tempo a una pressione ostinata e potente, che tende deliberatamente a comprimere alcuni suoi caratteri storici fondamentali, fissati peraltro nella Costituzione, e a ridurla a un solo elemento: la persistente vibrazione di consenso (l´espressione è di Ezio Mauro) che continua a legare il popolo al suo leader. Se essa c´è, e se dura, il resto non conta. Anche se si tratta di un resto enorme, che comprende di tutto: dalle sentenze dei giudici ai comportamenti personali, dai giudizi sulla crisi economica («È finita, è finita; tutto è tornato come prima, meglio di prima» sembra abbia detto - e si stenta a crederlo - il nostro premier a Mosca) alle ingiurie a quella stampa, colpevole di fare solo il proprio dovere.
Il pericolo sta nel fatto che questa idea impoverita fino all´estremo della democrazia - un´idea, per così dire, "usa e getta": aderisci e dimentica - se ha modo di diffondersi e di radicarsi, può alla fine diventare senso comune (il senso comune non è sempre buon senso) di un Paese provato e distratto. Di un´Italia disposta a soddisfare il bisogno di un riferimento sicuro - l´esigenza fisiologica di leadership - con l´abbaglio tranquillizzante di aver trovato una guida che non impone la fatica di una valutazione quotidiana, ma che si può accettare, grazie alla forza carismatica del suo successo, una volta per tutte, senza più discuterne. Se questo accadesse - se un tale atteggiamento si consolidasse davvero - ci troveremmo di fronte a qualcosa di simile a un autentico sfondamento culturale del nostro sentire democratico, all´apertura di una falla rischiosa nel tessuto politico della Nazione, dalle conseguenze difficilmente calcolabili.
La battaglia cui siamo chiamati deve essere dunque in questa circostanza anzitutto una battaglia di idee, in difesa di un paradigma di democrazia faticosamente costruito, dal quale non possiamo e non dobbiamo scostarci. Nessuno scandalismo moralistico, e nessun facile giustizialismo: è possibile che i comportamenti del premier risultino alla fine irreprensibili, ed è altrettanto possibile che egli si sia solo imbattuto in giudici che hanno sbagliato, per errore grave o per prevenzione ideologica: può accadere ai comuni cittadini come al presidente del Consiglio. Il problema però non è questo, ma riguarda i princìpi, e dunque tocca indistintamente tutti noi.
Il punto cruciale - depurato da ogni personalismo - attiene al rapporto fra legge e consenso: e dunque, se si vuole, al nesso fra legalità e democrazia. È una questione che tormenta da millenni il pensiero politico, e gli equilibri costituzionali contemporanei rispecchiano, nella loro delicatezza, questo lungo lavorio di esperienze e di elaborazioni. Essi ci dicono che la democrazia non è fatta solo di consenso, anche se non può assolutamente prescinderne, ma altresì di un insieme di regole, senza le quali il consenso non solo non basta, ma può trasformarsi in dispotismo e in sovversione. È accaduto molte volte nella storia. Ed è per questo che persino la sovranità popolare - che pure è il fondamento supremo e ultimo di ogni modello democratico - si può esercitare solo «nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione» (come dispone l´articolo 1 della nostra Carta).
Il consenso perciò - per quanto vasto - non può essere usato come una purificazione, né come scudo rispetto alle leggi, e nemmeno per sfuggire alla critica che anche una minoranza minima ha il pieno diritto di sollevare. L´appello al popolo - cui si è fatto adirato ricorso anche in questi giorni - è dunque quanto meno improprio, e rivela una deriva che può solo gettarci in un mare in tempesta. Democrazia, significa anche primato della legge - "nomos Basileus", la legge come (unico) sovrano. E significa divisione dei poteri, e soprattutto, nel messaggio delle origini, trasparenza del potere: il popolo riunito nelle piazze delle città inondate dal sole della Ionia o dell´Attica, con i governanti al centro, visibili da tutti e non più chiusi negli antichi palazzi persiani o micenei. È su queste idee fondative di divisione e di trasparenza che bisogna oggi insistere, in una grande campagna di responsabilità e di fermezza. Non c´è domanda a cui il potere non debba rispondere, se non nei casi in cui è la legge stessa che lo obbliga a tacere. E quando il passato imprenditoriale - non meno della felicità privata - diventa il contenuto principale della costruzione del proprio carisma politico, è di ogni cosa che si è chiamati a render conto. E bisogna saperlo fare con umiltà e senza vergogna. Fino a dimostrazione contraria, siamo tutti innocenti. Ma bisogna esibirlo nel contraddittorio e non nella fuga; difendendosi - se occorre - "nel" processo, e non "dal" processo.
Nelle società fluide - attraversate da continue e incontrollabili onde mediatiche - il consenso carismatico, fondato sul prevalere di elementi prepolitici piuttosto che sulle articolazioni di una democrazia partecipata, è sempre assai labile. Il tardo berlusconismo ha oscura ma netta consapevolezza di questa friabilità, ed è perciò che comunica un senso di solitudine e di nervosismo, quanto più sembra arrivato al culmine della parabola. Non capisce la crisi, che tenta di esorcizzare con ottimismi gridati al vento, per la stessa ragione per cui non tollera di essere contraddetto: perché ormai è disposto ad accettare solo una realtà addomesticata, che corrisponda ai suoi desideri. Ma fuori c´è il mondo - o almeno, tutto il mondo che non ha comprato, dove è facile che l´ascendente del principe si rovesci di colpo nel suo contrario. Machiavelli vi ha scritto sopra pagine memorabili.

Repubblica 21.5.09
Il Cavaliere, Noemi e la cena a Villa Madama
di Massimo Giannini


Noemi e quella cena a Villa Madama con il Cavaliere e le griffe della moda
Le testimonianze degli invitati ad una serata ufficiale organizzata dalla presidenza del Consiglio

Il presidente del Consiglio continua a non fornire risposte alle dieci domande che Giuseppe D´Avanzo gli ha rivolto su "Repubblica", una settimana fa. Berlusconi continua a opporre l´invettiva, o il silenzio. Negando, o fingendo di non vedere, i palesi risvolti pubblici (e quindi politici) di una vicenda solo all’apparenza privata.
Così, nell´indifferenza costante dei media italiani ma nell´attenzione crescente di quelli stranieri, continuano a risultare inevase le cruciali questioni sollevate dalla moglie del presidente Veronica Lario nel colloquio con Dario Cresto-Dina, le numerose contraddizioni nelle quali è incappato con la vicenda delle candidature alle europee e con il caso della giovane Noemi e della sua partecipazione alla festa di Casoria, raccontata su questo giornale da Conchita Sannino.
La storia si condisce ora di un nuovo capitolo, che ripropone e rafforza le ricostruzioni dissonanti fornite da Berlusconi fino ad oggi. Dopo approfondite verifiche condotte da "Repubblica" presso diverse fonti dirette, risulta quanto segue. La sera del 19 novembre 2008 il presidente del Consiglio, nella splendida cornice romana di Villa Madama, ha ricevuto i più bei nomi dell´imprenditoria del Paese, per una cena ufficiale tra il governo e le grandi firme del Made in Italy. Almeno una sessantina gli invitati, che il premier ha intrattenuto insieme a diversi ministri, da Letta a Tremonti, da Bondi a Fitto. Al suo tavolo da otto, al centro del salone, insieme a stilisti di spicco come Santo Versace e la moglie, Leonardo Ferragamo e la sorella Giovanna, Paolo Zegna e Laudomia Pucci, il Cavaliere ospitava «una splendida ragazza», secondo il racconto di chi c´era. Capelli castano chiari, vestito in lamè. Molto giovane, molto avvenente, sconosciuta a tutti. Berlusconi, secondo la testimonianza di un industriale che ha partecipato all´evento, l´ha presentata ai commensali come «Noemi Letizia, figlia di carissimi amici di Napoli. Sta facendo uno stage - ha aggiunto il premier - ed è qui per conoscere i grandi protagonisti del mondo della moda».
La ragazza ha parlato poco, e ascoltato molto. A un certo punto, secondo la ricostruzione di almeno tre fonti diverse invitate alla cena, ha fatto un rapido giro del salone, mentre l´orchestra suonava musiche americane e francesi. E non è passata inosservata. Uno dei commensali, seduto ad un altro tavolo a fianco all´allora segretario generale della presidenza del Consiglio Mauro Masi, ha chiesto lumi. «Chi è quella ragazza?». La risposta è stata la seguente: «È una cara amica napoletana del presidente. Non era previsto che venisse, ma lui l´ha voluta a tutti i costi, e per questo è stato addirittura necessario rivedere il "placement" del tavolo uno...». Cioè la distribuzione dei posti al tavolo nel quale era seduto il premier. A fine cena, secondo il ricordo dei presenti, sarebbe stata vista allontanarsi su un´auto blu, al seguito dell´Audi A8 nera del premier.
Berlusconi, come ha affermato in diverse interviste, ha dichiarato di non aver mai conosciuto personalmente la ragazza di Casoria, e di averla incontrata un paio di volte, sempre al seguito dei suoi familiari. «Ho avuto occasione di conoscerla tramite i suoi genitori. Questo è tutto», ha detto ai microfoni di "France 2" il 6 maggio. «Sono amico del padre. Punto e basta», ha aggiunto nell´intervista a "La Stampa" il 4 maggio. Con tutta evidenza, la ricostruzione di quanto accaduto quella sera di novembre sembra quindi aprire un´altra faglia nella linea difensiva costruita dal Cavaliere intorno all´intera vicenda. Come Repubblica ha accertato, il premier ha incontrato Noemi - sua ospite a tavola senza genitori - almeno in una circostanza.
Alla luce di tutto questo, ci permettiamo di rilanciare al presidente del Consiglio due delle dieci domande che D´Avanzo gli ha già rivolto. E cioè: «Quando ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia?». E «quante volte ha avuto modo di incontrare Noemi Letizia e dove?». E dopo la scoperta che Noemi l´ha accompagnato da sola quel 19 novembre a Villa Madama, mentre a "France 2" il Cavaliere aveva detto di non averla mai vista da sola, potremmo aggiungere anche un altro interrogativo: perché ha mentito agli italiani (e stavolta persino ai francesi)?
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 21.5.09
Il Pdl stacca il Pd, crescono Bossi e Di Pietro
Sondaggio Demos: il centrodestra sfiora il 50%. Le due liste di sinistra in ripresa
di Roberto Biorcio e Fabio Bordignon


La campagna elettorale per il 6-7 giugno (europee e amministrative) procede sottotono, senza produrre (per ora) grandi cambiamenti nelle preferenze di voto degli italiani. I risultati dell´ultimo Atlante Politico, realizzato da Demos per Repubblica, confermano l´ampio vantaggio del centro-destra. Ma se lo scarto Pd-Pdl rimane sostanzialmente invariato, rispetto alle stime di marzo, spostamenti più rilevanti sembrano investire i loro alleati e le "terze forze".
Dopo le politiche 2008, il Pd ha subìto una forte emorragia di consensi. A marzo era stimato al 26%. L´adozione di una strategia più "aggressiva" ha permesso di frenare questa tendenza al declino, senza però invertirla. Il sondaggio - realizzato prima che le motivazioni della sentenza Mills - individua, tuttavia, un´area non trascurabile di elettori che, pur avendo scelto il Pd nel 2008, non hanno ancora deciso se riconfermare il voto passato oppure orientarsi su altre forze (o sull´astensione).
A beneficiare dei flussi "in uscita" dal Pd è stato, in una prima fase, soprattutto l´Idv (a marzo sopra l´8%), la cui progressione sembra essersi però arrestata. Riprende quota, invece, la sinistra comunista, che, sebbene divisa, punta a raddoppiare il (magro) bottino di un anno fa. Entrambe le formazioni dell´area rimangono, per ora, poco sotto la soglia di sbarramento del 4%: Prc-Pdci si attesta al 3.7%, Sinistra e libertà al 3.1%. Sotto il 3 per cento sono invece i radicali che corrono da soli. L´Udc, grazie al ruolo "equidistante" assunto dopo il 2008, conferma la crescita registrata a marzo (7%).
Sul fronte di centro-destra, prosegue la marcia di avvicinamento alla soglia simbolica del 50%, soprattutto grazie alla crescita della Lega, che sembra poter sfondare il tetto del 10%. La coalizione berlusconiana si attesta intorno al 49%. Senza contare l´Mpa, il cui patto con la Destra di Storace non pare corrispondere, per ora, alla "somma" dei due partiti (e delle altre forze confluite nel cartello elettorale). Il Pdl conferma il suo largo seguito elettorale (38.8%), mentre cresce la concorrenza interna nella maggioranza, in particolare nelle regioni del Nord.

Corriere della Sera 21.5.09
Le stime Solo il 36% degli italiani «interessato» alla campagna elettorale. Democratici favoriti a Firenze e Bologna
L’ultimo sondaggio Pdl vicino al 40% il Pd tra il 25 e il 27
Europee, avanzano Lega e Di Pietro
di Renato Mannheimer


Le prossime elezioni europee e am­ministrative (che coinvolgono co­muni e provincie di grandi im­portanza) hanno acquisito, col passare del tempo un significato politico sem­pre più ampio e di rilievo. Per molti ver­si, si tratta di una vera e propria mid-term election, una sorta di verifica — finalmente non basata solo su dati di sondaggio — degli attuali rapporti di forza tra i partiti e della loro popolarità nell'elettorato. È del tutto evidente che gli esiti delle consultazioni che si terran­no tra poco più di due settimane condi­zioneranno nettamente — in un modo o nell'altro — lo scenario politico dei prossimi mesi. In particolare, sono de­stinati ad essere verificati il consenso at­tuale per il presidente del Consiglio e il suo partito (messi fortemente in discus­sione, proprio in questi giorni, dai casi Letizia e Mills che, tuttavia, non sembra­no avere incrinato granché la popolari­tà di Berlusconi) e, dall'altro verso, la «tenuta» del Pd, minato da molteplici fratture e discussioni interne.

Nonostante il loro rilievo, si registra sin qui un interesse relativamente mo­desto per la prossima scadenza elettora­le, specie quella europea (le ammini­­strative interessano e coinvolgono in­fatti localmente gran parte della popola­zione). Solo il 36% degli italiani (vale a dire poco più di un cittadino su tre) di­chiara di essere «molto o abbastanza» interessato alla campagna elettorale. Si tratta peraltro grossomodo del livello di interesse riscontrato in occasione del­le passate elezioni europee (era pari al 34%), molto meno della partecipazione alla campagna che ha caratterizzato le consultazioni politiche dell'anno scor­so (si dichiarava interessato il 56%). Ap­paiono più coinvolti nella campagna i possessori di titoli di studio più elevati, le persone di età dai 55 ai 65 anni (la generazione del '68, tradizionalmente più partecipe politicamente), i residen­ti al Nord-Est. Sul piano politico, l'inte­resse per le elezioni risulta molto mag­giore tra gli elettori del centrodestra, un altro segno, forse dello smarrimen­to e della disaffezione presenti nella fila del centrosinistra.

L'incognita, a questo punto, sta nella partecipazione al voto. Malgrado l'85% degli intervistati dichiari di volere anda­re a votare (ma, tra costoro, il 17% con­fessa di non essere proprio certo e dice che lo farà «probabilmente»), è possibi­le che una certa quota, all'ultimo mo­mento, rinunci a recarsi alle urne. Va da sé che l'affluenza potrà avere una rile­vanza fondamentale nel formare gli equilibri di forza tra i diversi partiti.

Per questo, occorre leggere con caute­la i dati degli ultimi sondaggi. Infatti, questi strumenti di analisi non sempre riescono a tenere conto appieno degli effetti del livello di partecipazione. In ogni caso, le stime pubblicate più di re­cente tendono a confermare il successo del Pdl (vicino al 40% anche se, proprio negli ultimi giorni, sembra aver subito un calo relativo di consensi), quello del­la Lega (stimata attorno al 9%) e del­­l’Idv (8-9%). Dall'altro verso, pare «tene­re » anche il Pd, per il quale le ultime ri­levazioni ipotizzano un risultato tra il 25 e il 27%.

Per ciò che concerne le amministra­tive, appaiono sintomatiche le ultime ricerche pubblicate (rispettivamente su Il Resto del Carlino e su La Nazio­ne)

riguardo alle consultazioni comu­nali a Bologna e a Firenze. In entram­bi i casi, il candidato principale del centrosinistra (Delbono e Renzi) vie­ne dato per favorito. Ma, sia a Bolo­gna sia a Firenze, il livello dell'indeci­sione dichiarata non permette sino ad oggi di stabilire definitivamente se si andrà o meno al ballottaggio. Il conno­tato delle «regioni rosse» è finito da tempo.

Il quadro non appare dunque ancora del tutto privo di incertezze. Peraltro, l'alto livello di indecisione traspare an­che dalle stesse risposte degli intervista­ti nei sondaggi. Solo il 55% sostiene, per ciò che riguarda le europee, di vole­re, in questa occasione, scegliere nuova­mente «il partito che voto di solito». Ap­paiono da questo punto di vista più cer­ti i maschi, la solita generazione dai 55 ai 65 anni, gli elettori residenti al cen­tro e, quel che è forse più significativo, i votanti per il Pdl e la Lega. A questo gruppo si contrappone quel 42% che si dichiara oggi indeciso tra diversi partiti o, addirittura, «in alto mare» riguardo alla scelta di voto. Si tratta perlopiù di giovanissimi (ove si riscontra addirittu­ra più del 60% di indecisi) e di casalin­ghe.

Una così diffusa incertezza indica che, come sempre accade — ma questa volta il fenomeno sembra ancora più ac­centuato — gli ultimi quindici giorni di campagna elettorale sono davvero de­terminanti nel definire il risultato.

Repubblica 21.5.09
Le minoranze ribelli che parlano all’Italia in cerca di sicurezza
Due italiani su tre approvano i "respingimenti" dei migranti in mare
Il sondaggio è stato condotto prima che le motivazioni della sentenza Mills investissero Berlusconi
di Ilvo Diamanti


L’Atlante Politico di Demos registra e conferma tendenze già osservate negli ultimi mesi, fra gli elettori. Poco allegre per il centrosinistra e soprattutto per il Pd.
Al di là delle specifiche stime di voto, il clima d´opinione sembra premiare tutte le principali scelte del governo e tutte le azioni del premier. Anche le più discusse e discutibili. Dai respingimenti delle imbarcazioni cariche di immigrati, approvate da oltre 2 italiani su 3 (da 4 su 10 fra gli elettori del Pd e dell´Idv), alle vicende personali e familiari di Berlusconi. Quasi 8 italiani su 10 pensano che il divorzio annunciato e le amicizie femminili del premier siano fatti suoi e di sua moglie.
Va detto che il sondaggio è stato condotto prima della sentenza sul caso Mills, che accusa il premier di corruzione. Anche se dubitiamo che possa scuotere un elettorato largamente immune dal vizio dell´indignazione.
L´emergenza-terremoto, invece, ha esercitato effetti positivi sulla popolarità del governo. Da ciò l´impressione che l´esito delle prossime elezioni europee sia già scritto. Una replica - dai toni più forti - del risultato di un anno fa. Le elezioni europee, tuttavia, non sono mai davvero prevedibili. Perché hanno effetti politici nazionali, ma le loro conseguenze istituzionali riguardano, appunto, il contesto europeo. Per questo sono caratterizzate da un tasso di astensione più elevato del consueto (il 30%, cinque anni fa). Per questo molti elettori usano criteri di scelta diversi. Votano (oppure non votano) in modo più "libero" che in altre consultazioni. Meno attenti alla logica del voto utile e maggiormente disposti, invece, a esprimere un voto a elevato valore simbolico. Che suoni come minaccia, avvertimento oppure auspicio. Per questo, in particolare, conviene guardare anche "dentro" alle coalizioni, dove si gioca una partita altrettanto importante di quella "fra" le coalizioni. In particolare, occorre fare attenzione alla sfida lanciata da Antonio Di Pietro al Pd ma anche a quella, altrettanto esplicita, della Lega contro il Pdl. Di Pietro alle elezioni di un anno fa aveva raggiunto il 4,4%. Oggi, secondo Demos, è quasi raddoppiato. Mentre il Pd è sceso di 7 punti percentuali. Insieme, Pd e Idv raggiungono a fatica il dato ottenuto un anno fa dal Pd da solo. Ma oggi l´Idv costituisce un quarto dei voti di quest´area politica. Circa un terzo rispetto alla base elettorale del Pd. Non un settimo (e anche meno) come un anno fa.
Diverso è il caso della coalizione che sostiene il governo. Il cui partito di riferimento, il Pdl, non sembra aver perduto consensi. Anzi, li sta allargando. Ma la Lega, rispetto a un anno fa, è cresciuta maggiormente. Secondo le stime di Demos, avrebbe superato il 10%, come solo nel 1996 le era capitato. Quando si era presentata da sola contro tutti, agitando la bandiera della secessione. Una minaccia che, in seguito, però, l´avrebbe sospinta ai margini del sistema politico e dell´elettorato. Oggi invece agisce da alleata inquieta, ma fedele, del Pdl. Sta al governo e al tempo stesso assume atteggiamenti da opposizione. E sembra trarne un doppio beneficio. Lega e Idv, quindi, corrono per rafforzare il loro ruolo nella politica del paese ma anzitutto nelle due coalizioni. Mirano a diventare i veri punti di riferimento della maggioranza e dell´opposizione. Soggetti che dettano l´agenda e impongono il linguaggio della politica nazionale. La Lega, d´altronde, oggi è divenuta portabandiera del tema della sicurezza; in modo aggressivo. Rivendica l´autodifesa personale e delle comunità locali. Oggi le ronde. Domani, magari, la liberalizzazione della vendita delle armi. Seguendo il modello americano. Ha, inoltre, assunto il ruolo di guida della lotta contro l´immigrazione clandestina. Anzi, diciamo pure: contro l´immigrazione tout-court. Intanto, ha conquistato il federalismo fiscale. Il suo marchio di fabbrica. Ma oggi sembra maggiormente interessata ad apparire garante della sicurezza e della paura. Perché non c´è domanda di sicurezza senza paura. E viceversa. In questo modo, conta di scavalcare il confine "naturale" del Nord padano. Il Po, appunto. Perché la paura non ha confini.
L´Idv di Di Pietro assorbe e intercetta almeno una parte di questo sentimento. La domanda di sicurezza. Perché, a differenza del Pd, non ha remore a esprimere un linguaggio securitario contro la criminalità comune e l´immigrazione clandestina. Inoltre, pratica la linea della fermezza antiberlusconiana. Senza se e senza ma. Fa l´Opposizione inflessibile. Sempre pronta a manifestare apertamente e rumorosamente la protesta contro il governo. In modo da sottolineare la timidezza degli alleati e da coprire la voce del leader democratico Dario Franceschini. Così, sullo spazio politico, i due partiti sono scivolati via dal centro. Oggi il 50% degli elettori leghisti si colloca a destra. Nel Pdl, invece, un terzo. Per cui la Lega è più a destra del Pdl (dove sono confluiti gli elettori di An). L´Idv, anch´essa, tempo fa, vicina al centro, se ne è allontanata. Il 33% dei suoi elettori oggi si dicono di sinistra, il 34% di centrosinistra. Solo l´8% di centro. Fa concorrenza alla Lega, per linguaggio e inflessibilità (non per i riferimenti di valore). Ma anche alla sinistra radicale.
Lega e Idv, per questo, giocano una partita importante: per sé, per la propria area, per il sistema politico italiano. Di cui ambiscono ad assumere la leadership. Minoranze dominanti di un paese "contro".

il Riformista 21.5.09
Perché fa ancora scandalo il Duce seduttore?
Benito Mussolini aveva carisma. È ora di accettarlo
di Lucetta Scaraffia


Le critiche di Natalia Aspesi al film di Bellocchio derivano dall'impossibilità di ammettere la capacità di seduzione del Duce. Basta con la favola degli italiani stupidi e accecati, ieri con lui e oggi con Berlusconi

In Italia, quando si parla di Mussolini, tutti si agitano ancora, e molto. Come sta avvenendo per il film di Bellocchio presentato a Cannes Vincere, che, come ormai ben si sa, riprende una storia d'amore della sua gioventù con Ida Dansen, dalla quale nacque un figlio, Benito. Il giorno dopo l'anteprima, Natalia Aspesi sgridava il regista su Repubblica, dicendo che era sbagliata la rappresentazione di Benito Mussolini, secondo lei macchiettistico. Peccato però avesse detto, appena qualche riga prima, che nei cinegiornali dell'epoca, che inframezzano la finzione cinematografica, il dittatore vero appariva macchiettistico. Forse la Aspesi non possiede una collezione di fotografie di famiglia, in cui gli uomini di quell'epoca si mostrano con colletti duri e facce feroci in mezzo a donne e bambini, in una rappresentazione esasperata e guerriera della mascolinità che certo poco si addiceva magari a tranquilli borghesi ma che era tipica e ampiamente diffusa. Il mio nonno, che aveva fatto il bersagliere nella prima guerra mondiale, e che era l'uomo più buono che io ricordi di avere conosciuto, nelle foto ha una faccia da cattivo che avrebbe dovuto terrorizzare noi nipoti, che invece lo adoravamo.
Anche l'idea di fascino maschile è molto cambiata: ai nostri occhi appare buffo il grande seduttore Rodolfo Valentino, per cui si sono addirittura suicidate delle donne, mentre troviamo affascinante l'eleganza spiegazzata di un Jeremy Irons e l'autoironia di Sean Connery, tanto per citare solo due seduttori di lungo corso.
Quindi è chiaro questo primo punto: macchiettistico è un comportamento, un modo di proporsi di altri tempi, che oggi ci infastidisce perché non corrisponde per nulla alla nostra concezione della vita, ma che può essere perfettamente autorizzato in un film storico, o meglio addirittura richiesto dal soggetto. Ma quello che disturba la Aspesi, mi viene il dubbio, non è questo, ma piuttosto il fatto che Mussolini viene rappresentato come affascinante sciupafemmine di sinistra invece che il dittatore rigido e imbolsito quale ormai siamo abituati a vedere. Certo, è un mascalzone, ma come ben si sa i mascalzoni sono sempre piaciuti, come ben prova il fatto - verità storica - che la povera Ida Dalsen, se pure non richiesta, vende il suo istituto di bellezza e tutti i suoi averi per fornirgli i soldi necessari a iniziare la pubblicazione del nuovo giornale nazionalista, Il Popolo d'Italia.
Mussolini, quindi, è un seduttore dei primi decenni del 900, con una vita sentimentale complicata e confusa, in cui si barcamena a fatica: l'unica cosa ben chiara è che il suo interesse principale non sono le donne - che pure gli piacciono molto - ma il suo destino futuro, la sua ambizione smisurata di figlio del popolo che vuole disperatamente arrivare in alto, il più alto possibile. In questo senso agli sceneggiatori del film si può imputare un'assenza importante, quella di Margherita Sarfatti, in quegli stessi anni certo la donna più influente nella vita di Mussolini, non tanto per amore, ma perché estremamente utile alla sua scalata sociale. A differenza di Ida e di Rachele, Margherita era una donna colta e ricca, di alta classe sociale, moglie di un avvocato socialista che era stato parlamentare, e soprattutto molto intelligente: non solo è lei che insegna a Mussolini a vestirsi e a mangiare in modo decente, dirozzandolo dal punto di vista sociale, ma è anche una utilissima ed esperta consigliera culturale. È lei che lo mette in contatto con i futuristi - che compaiono nel film - e con vari intellettuali, che gli suggerisce di utilizzare il mito di Roma imperiale e che scrive la biografia Dux, tradotta in molte lingue, che contribuirà in modo decisivo a creare consenso e approvazione intorno al dittatore non solo in Italia. E fu Margherita a suggerirgli di sposare Rachele, e non Ida, perché pensava che una povera contadina le avrebbe dato meno ombra: si sbagliava, però, e le leggi razziali avrebbero dato il colpo definitivo ad una influenza già declinata.
Invece nel film è molto ben ricostruita la figura di Ida, certo vittima di una situazione sbagliata e di un uomo di potere senza cuore, ma anche artefice essa stessa, con la sua fissazione amorosa, della sua fine tragica.
Mussolini non fa certo bella figura, ma neppure risulta un mostro di cattiveria: è un uomo ambivalente ed egoista, e anche un po' vigliacco con le donne, come spesso i seduttori, ma si capisce, almeno, quale fascino abbia potuto esercitare sulle donne, e in generale sugli italiani. Perché non si può continuare a dire che gli italiani che hanno favorito e accettato l'ascesa di Mussolini erano solo stupidi e accecati, esattamente come oggi si dice di chi vota Berlusconi: nella vita politica moderna il fascino carismatico occupa un posto importante, e bisogna farsene una ragione.

il Riformista 21.5.09
Il silenzio su Pannella

Caro direttore, martedì scorso, durante il Tg1 della sera, sono incappato nel viso provato e segnato di Marco Pannella. Era un'immagine silenziosa, di pochissimi secondi, ma dava il senso di una lotta interminabile e inesausta. Pannella è in sciopero totale della fame e della sete per denunciare, appunto, un silenzio: quello dei maggiori media sulla candidatura dei Radicali alle prossime elezioni europee. Un silenzio rappresentato benissimo dal primo tg della Rai: dei pochissimi secondi dedicati alla notizia, più della metà era senza audio! Saltato, soppresso, annullato. Ancora silenzio, nel chiasso dei poteri dominanti.
Paolo Izzo, radical-socialista

Al menù di questa giornata sulla Croisette, la presentazione dell’unico film italiano in competizione quest’anno: Vincere di Marco Bellocchio. E’ un po’ il suo “coming out” di due vittime quasi sconosciute della dittatura, un’amante e figlio ---- nascosto e perseguitato- del Duce…

Ci viene da pensare che l’Italia è ossessionata dalla sua storia!
- Cannes 2008: 3 film sono presentati al pubblico, tutti i tre rivisitano la politica o i problemi sociali italiani di questi ultimi 60 anni. (Gomorra, ispirato dall’inchiesta di Roberto Saviano, sulla Mafia, Il Divo di Paolo Sarrentino, ritratto di un uomo politico, presunto mafioso, emblematico del dopo-guerra italiano et Sanguepazzo, evocazione di un caso poco glorioso – un crimine – della Liberazione.)
- Cannes 2009: l’unico film italiano va ancora dare alla giuria di Cannes l’occasione di ascoltare una lezione di storia contemporanea. Questa volta, ritratto di due vittime del dittatore italiano. Ma non proprio politici, intimi …

Il Mussolini nascosto: amante di un’estetista e militante socialista
Si chiamava Ida Dalser e gestiva un centro estetico a Milano. Suo figlio si chiamava Benito (come Mussolini). Inizialmente sorvegliati dalla polizia, sarebbero stati in seguito rinchiusi, ancora giovani, in ospedali psichiatrici fino alla loro morte. Un mezzo per Mussolini per far sparire questi due scocciatori, perché dicevano – e sembra che lo fossero*- l’una la sua ex amante, l’altro suo figlio nascosto. Il Duce avrebbe quindi avuto una vera doppia vita: così nel 1915, se celebrava il suo matrimonio con Rachele, la sua moglie ufficiale, è anche, in questo stesso anno, che nasce questo Benito, il figlio della sua amante estetista. Qualche rivelazione e inchiesta su questa “famiglia nascosta” del dittatore sono già uscite *, ma niente di meglio di una presentazione sulla Croisette perché il presunto figlio di Mussolini sia finalmente (ri)conosciuto!
Storia di una tragedia – tra tante altre – dell’epoca mussoliniana. Tuttavia, il film non si limita a questo caso privato, si assiste anche alla genesi di Mussolini, giovane socialista prima di diventare un dittatore.
Infine, da notare che il regista è un uomo del cinema italiano dei più impegnati politicamente. Di quasi 70 anni, nato all’inizio della guerra, Marco Bellocchio non ha mai nascosto il suo militanza (di sinistra) e ha anche tentato di farsi eleggere al Parlamento italiano tre anni fa.
Bisognerò aspettare questa sera per conoscere i pareri dei commentatori presenti a Cannes , e domenica prossima per sapere se “Vincere” avrà vinto … contro i suoi 19 altri concorrenti!
Gersende DELCROIX _Martedì 19 maggio 2009

*Nelle sue memorie, la sposa di Benito Mussolini, Rachele Mussolini evoca Ida Irene Dalser come una delle compagne di suo marito; anche su questo argomento, un’inchiesta del giornalista Marco Zeni…
traduzione di Corinne Lebrun

Terra 21.5.09
Vincere nel privato
di Luca Bonaccorsi

È uscito solo ieri nelle sale e ha già scatenato un fiume di inchiostro. Il nuovo film di Marco Bellocchio, Vincere, come tutti i capolavori, però, continuerà a far parlare di sé perché irrompe nell’attuale dibattito politico e culturale come il taglio nella tela di Fontana. Come una tragedia greca non parla né degli anni in cui è ambientato, né di quelli che viviamo. Non parla di comunismo, di ’68 o di socialismo, di destra e di sinistra. Non parla di femminismo né di religione. Eppure parla di tutte queste cose insieme. Lo fa perché va dritto al cuore della questione delle questioni: la donna. E il rapporto tra uomini e donne. Vincere è un film quintessenzialmente laico e femminista. Intelligente, potente e profondo al punto da far apparire meschini e volgari i paralleli con l’attualità dei Berlusconi, delle Veroniche e delle Noemi. Eppure. Il sociologo Ilvo Diamanti, su Repubblica, pochi giorni fa si lamentava di questa irruzione del privato nella sfera pubblica. Bellocchio risponde raccontando il senso del fascismo, ridefinendolo come dimensione personale di distruzione della donna e riduzione di questa a fattrice di pargoli per la gloria della nazione. Ribelle emarginata e schiacciata o moglie stupida e mediocre. Solo due le strade che la storia, scritta dagli uomini, ha lasciato alle donne secondo Bellocchio. Ce n’è da riflettere per tanti di noi: di destra e di sinistra. Laici e cattolici. Precipitato nella dimensione personale, Mussolini diventa ogni uomo incapace di vivere una storia d’amore senza interessi o calcoli. Ogni uomo non in grado di riconoscere alle donne identità e libertà. Ogni uomo incapace di sostenere la dialettica, anche feroce, con la donna. Il nesso tra la dimensione personale e quella politica, tra il mondo degli affetti e le idee, persino tra il sesso e la guerra, esce dalla ricerca personale di Bellocchio per finire nel dibattito italiano. In un contesto in cui il discorso razionale si sfilaccia e la comunicazione domina, in cui la maschera falsa di un premier antico, che dietro moderno cerone e miracoli tricologici, ripropone la cultura che speravamo di aver sconfitto, e miete consensi. In questo contesto, la sinistra non può non approfittarne per cercare, anche nel privato, i motivi di una sconfitta. Perché Berlusconi e Bondi, Gasparri e Cicchitto, ma anche la Veronica e la Carfagna quella bataglia l’hanno persa, nonostante la conquista del potere. Ma la sinistra non l’ha vinta. Personale e politico, rivoluzione e affetti, prassi e teoria. Bellocchio rilancia. Chi saprà raccogliere?

mercoledì 20 maggio 2009

Asca 19-05-09
Cinema: Cannes. Piace alla stampa internazionale “Vincere” di Bellocchio


(ASCA) - Roma, 19 mag - Fuochi d'artificio d'autore. Cosi' Screen International descrive Vincere, il film con il quale Marco Bellocchio- unico autore italiano- concorre alla Palma d'oro in questo Festival di Cannes. A criticare il film sembrano essere stati soprattutto alcuni giornalisti italiani, mentre la stampa internazionale ha applaudito anche all'interpretazione di Giovanna Mezzogiorno nel ruolo di Ida Dalser, che mori' internata nel manicomio di Venezia, rivendicando fino all'ultimo giorno il suo matrimonio con Mussolini e la paternita' del duce di suo figlio Benito Albino, anche lui morto internato a 26 anni. Nel ruolo di Mussolini, sia padre che figlio, c'e' uno straordinario Filippo Timi. Un film costruito come un melodramma futurista ci ha detto Bellocchio, che fa ampio uso di materiali di repertorio integrandoli perfettamente nella storia. E cosi' mentre il giovane e passionale Mussolini e' interpretato da Timi, il Mussolini uomo di potere lo si vede nelle immagini dell'Istituto Luce, repertorio usato- secondo la critica di Variety- in modo unico...

l’Unità 20.5.09
Pedro & Marco, il potere è sempre un melodramma
di Alberto Crespi


È la giornata di Almodovar e del suo «Abrazos Rotos», ma anche della «rivincita» di Marco Bellocchio, che incassa le lodi di «Variety» e di «Screen». A loro modo, i due film sono ritratti del potere «dall’interno».

«Ho scoperto solo adesso che stasera dobbiamo metterci tutti in smoking. Faremo la marcia dei pinguini». Filippo Timi è un ragazzo dolce e simpaticissimo, e visto come diventa mostruoso sullo schermo (un nazista in Come Dio comanda, Mussolini in Vincere) bisogna dire che è un grande attore. Ma tutti, in Vincere, sono grandi. Potrete constatarlo da domani, nei cinema (distribuisce la 01). E se qualche quotidiano italiano l’ha snobbato a caldo, per ansia da prestazione, due testate di livello mondiale come Variety e Screen International gridano al capolavoro. Facciamolo anche noi. Vincere è bellissimo. La storia che racconta è nota: è quella di Ida Dalser, la donna che ebbe un figlio da Mussolini nel 1915 e lottò fino alla morte (avvenuta nel 1937) per farsi riconoscere come moglie legittima del duce. Ma essendo un film di Marco Bellocchio l’importante non è cosa racconta, ma come. Bellocchio non è mai stato un regista realistico. Fin dai tempi dei Pugni in tasca i suoi interni borghesi sono sedute psicoanalitiche, o danze macabre che mettono in scena un unico, grande Tema: la repressione politica e psichica dell’individuo da parte delle istituzioni (siano queste la famiglia, lo stato, l’esercito, il manicomio, la religione o, in questo caso, il fascismo). Solitamente i suoi personaggi sono in lotta contro il potere e contro la storia. Il salto di qualità di Vincere – che sale, con L’ora di religione e il citato I pugni in tasca, sul podio del suo cinema – è che stavolta i personaggi sono due, uno (Ida) è la vittima e l’altro (Mussolini) è il grande manipolatore, l’uomo che intuisce i meccanismi del potere e li utilizza per instaurare una dittatura a livello sia politico che familiare. In questo senso il massiccio uso del repertorio non è accessorio, ma è l’anima profonda del film. I filmati d’epoca diventano l’inconscio dei personaggi, i sogni selvaggi di lui, gli incubi repressivi di lei. La montatrice Francesca Calvelli ha fatto un lavoro degno di Dziga Vertov: di tanto in tanto i filmati luce (ma anche Ottobre di Eisenstein e Il monello di Chaplin) vengono ristrutturati per comporre una verità inedita, nello stile delle Kinopravde della vecchia Urss. Ha ragione Bellocchio quando afferma che il film ha un ritmo futurista, ma è il futurismo alto di Majakovskij, non quello reazionario di Marinetti. E comunque, quando Ida rivive il proprio dramma di madre piangendo davanti alle immagini di Charlie Chaplin e di Jackie Coogan, è inevitabile piangere con lei. Vincere vola alto: è una riflessione su tutte le forme di potere che azzerano l’individuo – né Mussolini è stato l’unico dittatore bigamo della storia, anzi, sembra essere una malattia professionale!
EVVIVA PENELOPE
Paradossalmente il vero film su Berlusconi nella giornata di ieri è Gli abbracci spezzati di Pedro Almodovar (uscirà in Italia, per la Warner, il 3 ottobre). Un ricco imprenditore decide di produrre un film per trasformare in attrice la propria amante, la quale però lo cornifica con il regista. Anni dopo il medesimo regista, diventato cieco, viene contattato dal figlio gay del riccone per scrivere un film che distrugga il mito del padre. Scherzi a parte, Gli abbracci spezzati è un melodramma sui meccanismi del potere nel mondo del cinema, una storia che negli anni ’50 sarebbe piaciuta a Billy Wilder o a Vincente Minnelli. I problemi del film – decisamente meno entusiasmante degli Almodovar più recenti, da Tutto su mia madre a Volver – sono due: un’eccessiva complicazione della struttura narrativa, spezzata (come gli abbracci) in una serie di flash-back, e un gelo diffuso sui personaggi, tutti cinici e poco affascinanti. Detto in soldoni: il film non emoziona, o almeno non ha emozionato chi scrive. Resta la maestria della confezione e la bravura acclarata di Penelope Cruz; e comunque, un Almodovar minore è sempre un signor film.

l’Unità 20.5.09
Bellocchio: «Ci sono analogie tra il duce e Berlusconi...»
di AL.C.


L’Italia di Mussolini e quella di oggi hanno delle cose in comune, dice Bellocchio ma non c’entrano con il suo film «Vincere», incentrato sulla figura di Ida Dalser, prima moglie del duce che non assomiglia a Veronica Lario.

Conferenza stampa di Vincere. Domande deferenti ed entusiaste, quasi tutte di giornalisti stranieri. Le risposte di Giovanna Mezzogiorno (che ha letteralmente conquistato il festival: c’è chi è disposto a occupare il Palais se non vincerà il premio come migliore attrice) e di Filippo Timi sono accolte da applausi. Marco Bellocchio farebbe bene a riservare l’albergo fino a domenica, giorno della premiazione. Per ora, diamogli la parola. «Qualunque cosa succeda, sono felice di aver fatto questo film. Sono rimasto molto colpito dalla storia di Ida Dalser. Era una donna pazzamente innamorata di Mussolini, che ha condiviso le sue idee, e poi si è ribellata dopo essere stata messa crudelmente da parte. Questo fa di lei un’eroina tragica. Nel rapporto con lei ho individuato ciò che mi interessava del personaggio di Mussolini: non il dittatore grondante di sangue, ma il politico spregiudicato che si serve spietatamente delle donne, di tutte le donne, perché ha uno scopo: diventare il duce. Nel ‘25 si sposa in chiesa solo per presentarsi in regola al Papa in occasione dei Patti Lateranensi: l’uomo che all’inizio del film – e anche quella è storia, perché tutto nel film è vero, a parte qualche minima licenza narrativa – cantava “con le budella dell’ultimo papa strangoleremo l’ultimo re”… lì il fascismo si allea con l’ideologia cattolica, terribile e criminale, ed è come se Vincere si legasse all’Ora di religione …»
Melodramma futurista
«Vincere -continua Bellocchio- è un melodramma futurista. Il film affonda le radici nella struttura dell’opera lirica, su cui mi sono culturalmente formato. Ho però cercato di girare questo melodramma con la velocità, lo stile, del futurismo. L’ho scritto e girato in modo molto libero, l’ho poi costruito al montaggio assieme a Francesca Calvelli. E non l’ho scritto, né girato, né pensato in rapporto all’attualità politica di oggi».
Eppure, ammette Bellocchio, ci sono: «Sicuramente delle analogie. Mussolini intanto è il primo dittatore e politico che si serve dei media, foto, cinema, radio diventando ovviamente il padrone. Si è parlato ultimamente dell'Italia di Berlusconi come di una democrazia autoritaria: se tu controlli l'arma più potente che c'è, ovvero i media» Deluso dalla sinistra, che «ha un’obbedienza formale al Vaticano», Bellocchio dice che voterà radicale ed è divertito dall’attenzione degli stranieri per l’Italia e spiega: «Non capiscono come facciamo a sopportare Berlusconi».

Repubblica 20.5.09
Diventa un caso "Vincere", unico film di casa nostra in concorso al festival
Il Duce di Bellocchio "Con radio e cinema cambiò la politica"
Italiani tiepidi, all’estero piace
"Mussolini divenne papista per calcolo anche oggi ci si piega al Vaticano con cinismo"
di Natalia Aspesi


CANNES. «Concepito come un potente melodramma, nella struttura e nel tono, Vincere si apre con la grandiosità di Il crepuscolo degli Dei stemperandosi poi come fosse Sigfrido. Wagner, in tutti i casi». È il giudizio entusiasta di Variety, come molto positive sono le critiche di quasi tutti i giornali stranieri che candidano il film al palmarès. Come mai parte della stampa italiana è rimasta invece perplessa e, amando e stimando molto il regista Marco Bellocchio, ora si batte il petto e pensa di non aver capito niente? Può essere che essendo Mussolini, per noi italiani, una figura ancora troppo nera, funesta, eppure caricaturale, metta disagio vederlo giovane, bello, nudo e impegnato in lunghi affamati amplessi? O che rivedendo il filmato del suo discorso di Ancona, in cui appare oggi come un irresponsabile buffone, ci si vergogni pensando che mai un uomo fu tanto amato da un intero popolo malgrado la sua tragica ridicolaggine, e che purtroppo questi innamoramenti si ripetono? Marco Bellocchio assicura che raccontando la storia del breve amore tra Mussolini trentenne e Ida Dalser di tre anni più grande, che sino alla morte non si rassegnò al ripudio suo e del figlio di entrambi, non aveva nessuna intenzione di provocare riferimenti al presente italiano.
«L´antiberlusconismo non mi sfiora perché ha distrutto la sinistra italiana, rendendola incapace di proporre alternative, di rendersi conto della realtà, di capire e farsi capire dalla gente. Oggi io mi riconosco nei radicali, e comunque, essendo ottimista, dovunque ci sia la capacità di guardare oltre il momento contingente. Se proprio devo trovare un´analogia col presente, mi pare che Mussolini sia stato il primo uomo politico mediatico, che si sia servito della propria immagine, del proprio corpo, per asservire il paese al suo potere: sapeva come conquistare le masse apparendo in divisa, partecipando alla battaglia del grano a torso nudo, sollevando bambini e baciandoli, trasformando fatali errori come la guerra di Etiopia in entusiasmante propaganda. Allora non esisteva l´idea di conflitto di interessi, c´era la dittatura: e il Duce controllava tutti i mezzi d´informazione, radio, giornali, e soprattutto il cinema, messi al servizio della sua glorificazione personale: i funzionari provvedevano e censurare ogni sua immagine che limitasse il suo imperio e non fosse abbastanza carismatica. Non sempre era necessario massacrare o chiudere in galera gli oppositori: bastava renderli invisibili, cancellare la loro immagine e le loro parole da ogni forma di comunicazione; e nello stesso tempo far dilagare la propria ovunque, ossessivamente negli uffici, nelle scuole, negli ospedali, nelle strade». Come capita oggi con il premier, moltiplicato quotidianamente nei giornali e alla televisione.
Bellocchio mostra Mussolini giovane (il bel baffuto Filippo Timi) quando, socialista, antinterventista, giornalista dell´Avanti!, marcia con i compagni (i socialisti di Bellocchio sono sempre vecchi, litigiosi e urlanti) gridando «strapperemo le budella al papa per strangolare il re!». Poi nel ´27 sposa in chiesa Rachele già sposata civilmente nel ´15, un mese dopo aver riconosciuto Albino Benito, figlio suo e di Ida che aveva sposato in chiesa nel settembre del 1914: il suo potere si trasforma in dittatura, e Vincere ci mostra il vecchio tremolante filmato della firma dei patti lateranensi nel ´29: «Cinicamente, Mussolini era diventato papista per consolidare il suo potere, tanto da meritarsi, da parte di Pio XI, il titolo di "Uomo della provvidenza": oggi le chiese sono semivuote ma si pratica una sottomissione altrettanto cinica e formale alle posizioni del Vaticano, che ricambia con il suo appoggio ottenendo anche di avere come in nessun altro paese cattolico al mondo, Papa Benedetto XVI quotidianamente e più volte al dì nei telegiornali».
La tragedia dell´ostinata Ida Dalser (l´appassionata Giovanna Mezzogiorno) e del figlio Benito Albino (da adulto lo stesso carismatico Timi), separati per sempre e fatti scomparire in due diversi manicomi, era conosciuta nel loro paese, Sopramonte, e in tutto il Trentino, ma tale era stata la rete di sindaci, poliziotti, medici, avvocati, tutori, magistrati, ecclesiastici, funzionari pubblici, disumani e cortigiani, che avevano provveduto a stracciare documenti e a sorvegliare e punire la fastidiosa ripudiata e il suo innocente figlio. In Italia dove tutto si sapeva delle tante amanti del duce, di questa moglie non si sapeva nulla: «Se sospettavano che qualcuno ne parlasse, arrivavano le squadracce fasciste e bastonavano le persone e distruggevano le case», dice Fabrizio Laurenti che con Giancarlo Norelli tre anni fa ha prodotto un documentario molto bello per RaiTre, cui Bellocchio si è ispirato. «Quando sei anni fa ho cominciato le ricerche, dopo più di 70 anni dalla morte di Ida e più di 60 dalla fine del fascismo, i pochi sopravvissuti di quegli anni avevano ancora paura a parlare, a rivelare dove erano nascoste le lettere che dal manicomio Ida scriveva al duce, al papa, al re, e che non furono mai spedite». Vincere, dice Bellocchio, è non solo la rievocazione di una storia vera e crudele e di una drammatica stagione politica, di guerra, miseria e morte, della giovinezza violenta di un futuro dittatore e della tragica parabola di una donna che osò opporsi sola al potere, ma è anche un tetro ritratto di quel che fu e potrebbe ancora essere, la società italiana.

Corriere della Sera 20.5.09
«Vincere» La storia della moglie segreta di Mussolini
L’ira di Bellocchio: «Il mio melodramma pugnalato in Italia»
Elogi all’estero e applausi dal pubblico
di Giuseppina Manin


Confronti. «Analogie tra il Duce e Berlusconi? L’uso dei media e dell’immagine.
Tra Ida Dalser e Veronica Lario nessun paragone»

CANNES — «Siamo stati pu­gnalati alla schiena dalla stam­pa italiana». Marco Bellocchio ha appena letto i commenti su Vincere (da oggi nelle sale) e ne è rimasto amareggiato. Non tan­to per i giudizi, non sempre lu­singhieri, ma per quella loro «frettolosità» che, a suo dire, impedisce una seria riflessione. Nel frattempo, a consolarlo arri­vano le prime recensioni stranie­re.
Variety, bibbia del cinema americano, definisce Vincere «un film che toglie il respiro», l’autorevole Screen parla di «Fuochi d’artificio d’autore». Perfino L’Osservatore Romano lo elogia. E in nottata alla proie­zione per il pubblico sono arriva­ti lunghi e calorosi applausi. «Qualunque cosa succeda sono molto orgoglioso di questo film, un melodramma futuri­sta », lo definisce Bellocchio, 70 anni, sette volte al Festival, una da giurato.
Regista civile, scomodo, sta­volta sa di aver portato in gara un film che scotta, su uno dei se­greti meglio custoditi del fasci­smo: la relazione del giovane Mussolini (nel film Filippo Ti­mi) con Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno), forse sposata for­se no, la nascita di un figlio, Be­nito Albino, prima riconosciuto, poi rinnegato. Una storia ricca di appigli con il presente. «Per la stampa straniera il parallelo Mussolini-Berlusconi è inevitabi­le — assicura —. In effetti, qual­che analogia non manca». Per esempio? «L’uso dei media e del­l’immagine. Mussolini è stato il primo a capire quanto fosse im­portante. Come Berlusconi ha preteso il controllo di ogni foto, di ogni filmato. Come Berlusco­ni era lui il padrone di gran par­te dei mezzi di comunicazione». Un uso dei media spregiudi­cato e abilissimo nella cui trap­pola oggi, spiega Bellocchio, è caduta la nostra sinistra, con­vinta di batterlo sullo stesso terreno cavalcando l’anti­berlusconismo. «Men­tre la sola vera arma sarebbe quella di proporre un’alter­nativa di idee.
Tanto per comin­ciare un sano lai­cismo, fronte su cui invece resi­stono solo i radi­cali. Perciò alle prossime elezio­ni voterò per loro.
Non ne posso più di aprire la tv e vede­re il Papa. La Rai è un servizio pubblico, non del Vaticano. In nessun altro Paese d’Europa accade questo, solo da noi».
E poi c’è la questione delle donne. Certi politici sembrano attrarle come mosche al miele. Tutte pazze per il Duce, ai tem­pi. Un immaginario erotico fem­minile segnato dal maschio Be­nito, dal torace possente, virile pelata, voce stentorea, labbra e gli occhi roteanti all’unisono co­me gli attori del cinema muto. Chissà che amante, sognavano impiegate e sartine, maestre e si­gnore dell’alta società. Persi­no belle, colte e appassionate co­m’era Ida Dalser. Quando lo in­contrò, poco più che ventenne, Mussolini non era ancora il Du­ce. Un ambizioso socialista po­pulista, agitatore di folle, man­giapreti. Ida ne è folgorata. Per lui vende tutto quello che ha, i soldi servono a finanziare il «Po­polo d’Italia» il giornale che gli fa da trampolino di lancio. Gli dà un figlio. In cambio chiede solo di essere amata. «Ma Mus­solini era quanto mai spregiudi­cato e cinico verso le donne, le usava finché gli servivano poi le gettava via — prosegue Belloc­chio —. Così successe con Ida. Solo che al contrario delle altre lei non si rassegnò, non volle mai scendere a patti, accettare vitalizi o risarcimenti. Lei soste­neva di essere la moglie, e vole­va che Benito si occupasse di lo­ro figlio». Una battaglia pubbli­ca contro l’uomo più potente e tutti i suoi accoliti che fa di Dal­ser un’eroina, sostiene Belloc­chio. «Nel tentativo di non farsi dimenticare Ida scrisse lettere su lettere a tutti, dal Papa all’al­lora direttore del Corriere Alber­tini ». Una denuncia mediatica per qualcuno affine a quella re­cente di Veronica Lario. «Mi sembra tutta un’altra storia — ri­sponde Bellocchio —. La signo­ra Lario ha reso pubblica la sua volontà di divorziare ma non mette certo in discussione i suoi diritti e privilegi. Ida è mor­ta in manicomio, offesa e di­menticata. Non sarà certo la sor­te di Veronica».

il Riformista 20.5.09
Carlo Freccero: «Vi sfido a stroncare Bellocchio»
«Un capolavoro, non si discute»
di Michele Anselmi


CONVERSAZIONE. Carlo Freccero e l'ultimo film del regista, da oggi nelle sale: «Un racconto in musica di mirabile bellezza. "Vincere" è un romanzo capolavoro».
A sinistra, Filippo Timi e Giovanna Mezzogiorno in "Vincere". A destra, Carlo Freccero.

«Un capolavoro, non si discute. I francesi ne andranno pazzi». Carlo Freccero ha appena visto Vincere all'anteprima romana, in contemporanea con la proiezione per la stampa a Cannes. Anche qui, come lì, un applauso tiepido a fine film, pure qualche sbadiglio. Ma il vulcanico presidente di RaiSat non sembra sorpreso. Per questo, il giorno dopo, non lo colpiscono i titoli rispettosamente "diplomatici" dei quotidiani, per la serie: «Bellocchio convince a metà». Commenta: «Cosa vuole, mi sa che i critici abbiano scritto spinti dalla fretta. Invece Vincere va contestualizzato, non è un film di intreccio, la sceneggiatura non è satura d'azione, come va di moda oggi. È un mélo, riprende un'antica tradizione italiana: da Matarazzo a Bertolucci. La cosa interessante è il testo in musica, perché la musica è fondamentale. La storia di Mussolini, di Ida Dalser e del figlio Benito Albino custodisce un sentimento flamboyant, fiammeggiante. Per questo serviva, stilisticamente, un scenario retrò. Gli americani non hanno forse fatto lo stesso con Lontano dal Paradiso?».
Intendiamoci, anche Freccero, prima di vedere il film, temeva il morso della cronaca, il riferimento alla presunta «dittatura democratica» evocata dallo stesso Bellocchio. «Confesso. Ero scettico. Avevo paura che la lettura giornalistica, pigramente didascalica, creasse un corto circuito negativo, che invece non c'è. Il film ha una sua coerenza, riassume il miglior Bellocchio. Poi, certo, può succedere che la bellezza di un film crei un immaginario talmente forte, specie nel conflitto tra personaggi, che alla fine si riverbera sulla nostra vita quotidiana». In che senso, scusi? «Beh, io vedo Vincere come un melodramma antifascista. Uso apposta un aggettivo - antifascista - quasi espunto dal nostro vocabolario. Bellocchio non ha neanche bisogno di marcare e denunciare le nefandezze del regime. Gli basta suggerire, col suo racconto in musica, un sentimento avvertito da molti di noi oggi in Italia. Un po' come Ida Dalser, rinchiusa in manicomio perché scalcia, protesta, rompe le scatole, ci sono italiani che si sentono in gabbia. Il potere assoluto s'è trasformato in conformismo totale, sicché se fai un discorso di opposizione frontale, netta, passi per scemo, cretino, stupido, vetero, matto».
Ancora una parola e rispunta Berlusconi. «Ma no, non c'è nulla che riporti a Berlusconi in modo diretto, banale. In Vincere non sento la storia di Veronica Lario, come fa l'Unità scrivendo di mogli scomode, ieri nascoste e oggi crocifisse sui giornali a seno nudo. Il film, di una coerenza stilistica e di una bellezza estetica mirabili, vola più alto, grazie al suo potere visivo, appunto da melodramma, seguendo una traiettoria inedita, che non deriva dal gusto televisivo e si libera dall'obbligo della narrazione codificata. Stupendo quel Mussolini che parte futurista e diventa tiranno, prima avanguardia e poi oppressore».
Una scena, in particolare, ha colpito Freccero. Quando Filippo Timi, in sottofinale, ricompare nel ruolo di Benito Albino, ormai adulto. «Lo spettatore prima ha conosciuto il Mussolini degli inizi, irruente e rivoluzionario; ora vede il figlio infelice, che sta impazzendo. La sua maschera, nell'imitare per gli amici la mimica e la voce del padre, diventa, nel montaggio alternato con gli spezzoni del cinegiornale Luce, simbolo della follia di Mussolini. La pazzia del figlio coincide con la pazzia del padre».
Impossibile frenare l'entusiasmo frecceriano. «Ho letto le recensioni. La parte più strettamente politica soffocherebbe la passione, troppi filmati e titoli d'epoca, eccetera. Non sono d'accordo. Vincere ricicla moduli narrativi antichi, che appartengono al romanzo, inteso come critica della società. Bellocchio, partendo da un genere d'antan, da una storia tipicamente italiana, degna di un'opera lirica, riesce, pur rigettando l'attualità, a raccontare un conflitto col potere dai riverberi attuali». E quindi? «Sfido chiunque a stroncarlo, significherebbe non capire che Vincere non ha nulla del cinema attuale: ha un fuso orario da anni Sessanta, esce da uno scrigno poco praticato, è un film vintage, un'operazione laterale. Penso a Giovanna Mezzogiorno, magnifica, sembra uscire da un film muto. Lei che scappa travestita da suora… Che idea. Le suore sono un dispositivo di racconto straordinario». E a non chiedergli di Filippo Timi. «Il suo Mussolini, energico, provocatore, anticlericale, ci ricorda la forza d'innovazione della fase iniziale. Poi l'attore scompare, per lasciare il campo al Duce in bianco e nero dei documentari».
Insomma, un film senza pecche. Prezioso, secondo Freccero, anche nelle citazioni cinematografiche: dal Christus di Antamoro al Monello di Chaplin, passando per Maciste alpino di Pastrone. «Guardi, per Mussolini non parlerei di potere mediatico, bensì cinematografico. Lui crea il cinema in Italia e il cinema, col neorealismo, alla fine lo distrugge». Il film è da oggi nelle sale.

Le Monde 20.5.09
“Vincere” : Mussolini et sa famille cachée, le fascisme incarné.
par Jean-Luc Douin

qui di seguito la traduzione di Susanne Portmann
l'originale qui

Nuovo aspirante alla Palma d’oro, “Vincere”, di Marco Bellocchio. Racconta un episodio della vita di Benito Mussolini che i libri di storia hanno poco considerato. Quello delle relazioni segrete del “Duce” e Ida Dalser, bella estetista con la quale ha vissuto una passione e che ha ripudiata all’ascesa al potere.
Sindacalista e membro del Partito socialista italiano, accanito anticlericale e antimonarchico, Mussolini è quella specie di demone che, invitato nel 1907 a parlare a una riunione politica, sfida Dio: “Gli do cinque minuti per folgorarmi. Se sono ancora vivo tra cinque minuti, vuol dire che Dio non esiste!” Tra il pubblico, Ida Dalser che lo divora con gli occhi. Lui visionario, inquietante, senza scrupoli, determinato a salire “in alto, cambiare la società, in barba alla morale.” Lei lo segue, spirito sottomesso, il suo corpo esulta sotto le lenzuola. Gli offre la sua fortuna perché possa lanciare il suo giornale, lui la sposa, la mette incinta del bambino che lui ha riconosciuto e battezzato Benito Albino Mussolini. Poi prende gli scalini del potere e si allontana da Ida Dalser. La giovane di buona famiglia scopre che è anche sposato con un’altra donna, Rachele Guidi, e padre di famiglia.
Quello che Marco Bellocchio racconta, in modo grandioso, è la lotta accanita di Ida, che rifiuta la sua destituzione, rivendica la sua qualità di sposa legittima, reclama la sua verità, sola contro tutti, al rischio di essere presa per psicotica delirante. Mussolini la fa internare in un asilo per alienati, dove finirà i suoi giorni nel 1937, dopo 12 anni di torture mentali, senza mai aver rivisto suo figlio che, arrestato e rinchiuso a sua volta, muore all’ospedale psichiatrico di Milano, a 26 anni.
Non esistono tombe di Ida Dalser e di suo figlio: i loro corpi sono stati gettati in fosse comuni. Della fine del regime del dittatore, fucilato il 28 aprile del 1945, Marco Bellocchio ci mostra solo un busto ammaccato. Dissipazione di tracce, edificazione di una leggenda. E’ da uomo di immagini che Marco Bellocchio costruisce il suo melodramma antico: Ida è Antigone e contemporaneamente una lupa strappata dal suo bambino. Sempre da uomo di immagini conduce la sua protagonista a frequentare le sale cinematografiche per vedere i cinegiornali e dove scopre con stupore la trasformazione fisica dell’uomo che ama.
Attraverso le attualità filmate che partecipano all’ascesa mediatica di Mussolini, con l’estratto dal “Monello” di Chaplin che esalta lo strazio del bambino e di sua madre, strappati l’uno all’altra, carreggia piani visuali da opera (Ida diventa Aïda), all’espressionismo, al futurismo, all’iconografia fascista. Tutto ci riporta alla rappresentazione, quella del potere, quella di un uomo che non può ammettere che la sua immagine sia sfiorata dallo scandalo, quella di un fascista che soggiace le folle con discorsi e comportamenti da clown.
Lo psichiatra di San Clemente, dove Ida soggiorna un breve momento, tenta di spiegare alla giovane donna che nell’abominevole epoca in cui vivono, sia vitale adottare un modo di difesa ipocrita: essere buoni commedianti, il che per lei significa marcare la donna sottomessa.
Alle evocazioni del "Duce" che seduce il suo popolo con l’immagine e il suono, Bellocchio oppone le proprie visioni: quelle di una repressione della polizia nelle strade buie, di lanciatori di volantini, del bacio di una mano coperta di sangue; quella di una rissa in una sala scura, della proiezione di un film sul soffitto di una chiesa in cui giacciono i feriti di guerra, e delle donne folle (o presunte) legate ai loro letti. Quella ancora di Ida che si arrampica sul cancello dell’ospedale per lanciare fuori appelli di soccorso indirizzati al re, al prefetto, al papa...
La forza del film è nella sua metafora: smonta il meccanismo del fascismo, l'annientamento fisico e morale di un’oppositrice, a partire da un vampirismo familiare.
Bellocchio è nel suo elemento, lui che ha denunciato gli internamenti abusivi, la sottomissione dei figli ai padri, l’ipocrisia della chiesa, i processi alle streghe…
Il suo primo film, “I pugni in tasca” (1965) già affondava nel microcosmo di una famiglia i cui membri nutrono l’ossessione di dominare gli altri. “Vincere” rinvia alla storia contemporanea e a Berlusconi. E mostra l’ambizione di veder incoronato una messa in scena effervescente.

Avui 20.5.09
El jove Mussolini i un lluitador en decadència
B.S.


La secció competitiva d'ahir es va completar amb Vincere, una pel·lícula de Marco Bellocchio (l'únic italià a concurs, després de l'esclat de l'any passat) que recupera la història d'una amant de Mussolini quan era jove. Tancada en un manicomi i separada del fill il·legítim que va tenir amb el futur dictador, Vincere mostra com el feixisme comença en la intimitat de la família, a través d' una pel·lícula lloable des del punt de vista ideològic, però incapaç de transmetre amb intensitat les fortes emocions d'aquesta història basada en fets reals.
Un antic campió de lluita lliure i el seu representant (brillantment interpretat per Gary Piquer) són els protagonistes de Mal día para pescar, que ha participat a la Setmana de la Crítica de Cannes i ha certificat el naixement d'un cineasta a tenir en compte, l'uruguaià afincat a Madrid Álvaro Brechner. Es tracta d'una pel·lícula de personatges, poc habitual en un festival en què abunden els autors disposats a deixar empremta. "Per a mi, l'important d'una pel·lícula no és el que li passa al director, sinó als protagonistes", explica Brechner a l'AVUI. Barreja de western, drama i comèdia, el film s'ambienta en un poble perdut d'algun país de l'Amèrica Llatina, i tampoc es precisa el moment (potser entre els 70 i els 90). Els protagonistes, sense un cèntim a la butxaca, busquen un oponent per organitzar un combat i guanyar alguns diners. La història es basa en un relat breu de Juan Carlos Onetti.

Gazzetta del Sud 20.5.09
Bellocchio ha presentato "Vincere"
Piace agli stranieri il «melodramma in stile futurista»
di Francesco Gallo


CANNES. Ci sono analogie tra Silvio Berlusconi e Benito Mussolini ma non tra Ida Dalser e Veronica Lario: sono le considerazioni fatte, con stile e toni moderati, da Marco Bellocchio a Cannes, dove ieri ha presentato "Vincere", unico film italiano in concorso alla 62/a edizione del Festival, per il quale le prime critiche internazionali sarebbero di segno positivo: Variety lo ha definito «un'opera entusiasmante e una brillante messa in scena»; e Screen International ha parlato di «fuochi d'artificio d'autore», aggiungendo che «la Mezzogiorno dà un'interpretazione incontenibile ed emozionante». Giudizi dello stesso segno anche alla proiezione romana, tenuta in parallelo con quella di Cannes.
Il regista, incalzato dalle domande dei giornalisti italiani, nell'incontro seguito alla conferenza stampa ufficiale, alla fine si è lasciato andare anche su altri temi. Sul possibile paragone Berlusconi-Mussolini, Bellocchio ha detto : «Ci sono tra i due personaggi sicuramente analogie. Mussolini intanto è il primo politico che si serve dei media, foto, cinema, radio diventandone il padrone. E i media sono l'arma più potente che c'è». Ma non ci sarebbero invece analogie tra la protagonista storica del film, Ida Dalser, forse moglie di Mussolini e madre di suo figlio (Albino) abbandonata poi dal Duce e morta in manicomio, e Veronica Lario. In proposito il regista spiega: «Nel caso di Veronica Lario, lei dopo aver fatto delle belle "uscite" mi sembra rientrata in un discorso di buonsenso che non mette in discussione le proprie fortune». Dicendosi deluso dalla sinistra, che avrebbe sbagliato tanto e da troppo tempo, Bellocchio poi ha rivendicato il suo essere ateo.
Ma soprattutto, il regista ha parlato del suo film, definendolo «un melodramma futurista». «Credo che le radici del melodramma – ha detto – siano state trascurate, ma di questo genere c'è qualcosa che mi riguarda personalmente». «Il futurismo – ha aggiunto – ha avuto però la sfortuna di essere legato al fascismo e recuperato ingiustamente solo da poco tempo». Bellocchio ha rivendicato poi con forza la scelta della storia poco conosciuta di Ida Dalser. «Si è sempre parlato tanto di eroi antifascisti come Gobetti, Amendola, Gramsci e poco di questa donna che era a tutti gli effetti un'eroina tragica», ha spiegato.
Giovanna Mezzogiorno, che nel film interpreta la protagonista assoluta, Ida Dalser, una donna che è stata legata a Mussolini e da cui ha avuto un figlio, racconta invece così la difficoltà di interpretare questo ruolo: «Il problema per me è stato quello di non renderla pazza. Una cosa difficile perché è una donna che ha sacrificato tutta la sua vita a un uomo. Una donna che ha chiaro quello che vuole, ma non è mai una calcolatrice, anzi in lei c'è sempre ingenuità e cecità». «Vincere – ha poi aggiunto – è stata davvero un'opera difficile da recitare: neppure per un minuto son riuscita a rilassarmi».
Per Filippo Timi, che ha interpretato il doppio ruolo del Mussolini della prima ora, quello socialista e anarchico, e del figlio Benito Albino Mussolini da adulto, la cosa più difficile è stata invece «uscire da un ruolo così forte, anche se, devo dire, non è certo un personaggio storico che amo troppo».
Mentre sulla scelta dei due attori Bellocchio ha detto: «Di Timi mi ha colpito subito l'evidente somiglianza con Mussolini giovane e poi anche la sua autorevolezza e capacità di mostrare la violenza. In fondo, Filippo doveva interpretare un uomo affascinante che si serve spietatamente delle donne per diventare il Duce, che resta il suo vero obiettivo». Per Giovanna Mezzogiorno «la scelta è stata più difficile e complessa. È come se avessi capito però che quelle ossessioni di Ida Dalser le avesse in qualche modo vissute anche lei in qualche modo e questo mi ha convinto».
Il film, ha detto ancora Bellocchio, «è un melodramma con un montaggio futurista e con una protagonista che ricorda Antigone e Medea». Le molte immagini di repertorio? «Mi piaceva il contrasto, ma comunque ho cercato che si fondessero il più possibile con quelle di fiction».

Libero News 19.5.09
Mezzogiorno di lotta
"Un pugile che non va mai giu'": e' l'Ida Dalser di Giovanna. A Cannes per Vincere con un inchino alla Huppert
intervista a Giovanna Mezzogiorno di Federico Pontiggia - cinematografo.it


"Una grande lottatrice, un pugile che non va mai giù, nemmeno al millesimo round. A testa alta fino alla fine: viene sepolta in una fossa comune, ma oggi ne parliamo ancora con questo film". Un film, da oggi nelle nostre sale 20 maggio in sala, che è l'unico italiano in Concorso al 62esimo Festival di Cannes: Vincere di Marco Bellocchio.
Protagonista, lo scandalo segreto nella vita di Mussolini: una moglie, Ida Dalser, e un figlio, Benito Albino, concepito, riconosciuto e poi negato. Due esistenze cancellate dal mondo e dalla memoria "riportate in vita" da Filippo Timi, nei duplici panni di Mussolini e il figlio Benito Albino, e Giovanna Mezzogiorno, ovvero Ida Dalser, "il pugile che non va mai giù".
Conoscevi la Dalser?
No, è stata una scoperta e credo lo sarà per molti: quanti sanno che Mussolini ebbe un figlio prima di Rachele? Ho letto i due libri sulla Dalser, visto il documentario, ma finita la documentazione devi dare spazio alla creazione, quella di una donna forte, caparbia, che non s'arrende.
E vincente?
Non riescono a spezzarla, ma il film mostra il sistema del Ventennio, polizia, controllo e repressione, di fronte a cui il singolo non può nulla.
Facile identificarsi in Ida?
No, difficile. Premessa politica, il Duce non mi avrebbe affascinato, ma di certo emanava grande carisma, virilità, e le donne si saranno sentite attratte. Non neghiamolo, le donne sono attratte dal potere.
Duce a parte, perché è difficile?
Perché con cotanta cecità e ottusità insegue una relazione finita. La sua non accettazione della realtà, che un uomo non ti voglia, non ti desideri, è una sindrome comune a tante donne. Ida non era pazza, ma si era ammalata d’amore: il suo chiodo fisso l’aveva distaccata dalla realtà. Non mi assomiglia molto, ma ha grinta e tenacia che in altri momenti e con altre motivazioni ho riconosciuto in me.
Una donna moderna?
C’è ancora soggezione e soggiogamento, legati a potere, amore, passione fisica. Sono motivi di ossessione che non cambiano con la politica e i movimenti, perché riguardano l’essere umano.
Il parallelismo col presente regge anche politicamente?
Vincere quale metafora dell’Italia presente che segretamente miete vittime e cerca di mettere a tacere l’antagonista con mezzi da regime? Lo possiamo vedere tranquillamente: offesa, insulto, menzogna, c’erano allora come ci sono oggi.
Perché il Duce rifiutò Ida?
Ida l’avrebbe sostenuto fino all’esasperazione, si sarebbe fatta bruciare per lui, ma Rachele era una donna più comoda, più gestibile, quella che molti uomini di potere si augurerebbero. Ida era invasiva, rumorosa, non una brava massaia: ha pagato il prezzo della sua personalità.
Contenta che il presidente di giuria a Cannes sia Isabelle Huppert?
A casa ho una sua foto incorniciata: è il mio punto di riferimento attoriale, ha fatto ruoli mostruosi con classe, stile e sobrietà non comuni.
E un premio vicino alla foto...
Con una bella freccia, sarebbe il massimo. Detto ciò, ci vuole saggezza: siamo a Cannes, siamo una bella squadra, è già molto.

Libero News 19.5.09
Il corpo del Duce
"Mussolini conosceva l'efficacia di essere e di imporre un'immagine", dice Bellocchio su Vincere


Un dramma familiare nascosto tra le pieghe della Storia. Un melodramma intrecciato con una vicenda politica che scopre il potere pervasivo dell’immagine. In Vincere, il film di Marco Bellocchio interpretato da Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi, unico italiano in concorso a Cannes, l’indomabile Ida Dalser chiede, per sé e per il figlio, di non essere più il segreto innominabile di Benito Mussolini.
Che cosa ti ha affascinato di questa vicenda?
L’attrazione cinematografica per questa tragedia è nata leggendo dei libri e vedendo un documentario. Si trattava, a quel punto, di tradurla in un film. La vicenda ha le caratteristiche di un feuilleton, ci sono momenti da sceneggiata napoletana. La sfida di questa impresa è stata di assemblare, sia inventando sia utilizzando materiale documentario, una forma per raccontare la vicenda privatissima e abbastanza oscura di un giovane Mussolini e di una donna che si innamora di lui.
Malvestito, squattrinato, esaltato, diventerà direttore dell’Avanti, deciderà, poi, di rompere con i socialisti e da rivoluzionario passerà ad essere interventista, nazionalista, fascista. Ida lo seguirà, lo affiancherà e sosterrà le sue idee fino ad un certo punto. Convinta, per molti anni, che lui, in fondo, sia sempre innamorato di lei e che abbia soltanto cattivi consiglieri che la calunniano. Fino a quando la sua disperazione la renderà più intelligente, più saggia e si preoccuperà solo del figlio, ma avrà perduto anche la sua creatura. Questo arco temporale, questo sviluppo dei fatti porta ad una rappresentazione complessa, ma anche - spero - interessante.
Nel momento in cui Mussolini sparisce dalla vita di Ida Dalser, la protagonista potrà vederlo solo al cinema, attraverso i documentari e i cinegiornali. La prima domanda riguarda il lavoro sul repertorio. La seconda sull’uso dell’immagine come strumento di persuasione politica.
Comincio dalla seconda. Sono stato sollecitato dalla lettura di un libro di Luzzatto sul corpo del duce. Nel Novecento, Mussolini, in Italia capì questa trasformazione, che oggi è del tutto scontata, dell’efficacia di essere e di imporre un’immagine. E quindi di utilizzare i nascenti mezzi di comunicazione per esaltare quell’immagine. Mussolini non si è limitato a fare questo, ha anche proposto una figura/immagine di politico inedita, diversa da quelli del passato nell’abbigliamento e nel rapporto con le persone. Il repertorio è stato prezioso perché mi ha consentito di raccontare momenti storici grandiosi che meriterebbero cinquanta ore di cinema, ma dovevo trovare - e questo è un rischio - una chiave sintetica perché il film procede per grandi salti espandendosi su quasi trenta anni e strutturandosi in un triplo passaggio temporale. I cinegiornali, i documentari e le immagini dei film del passato sono una materia prima che abbiamo assemblato e in questa fase il lavoro del montaggio e della musica sono stati straordinariamente importanti.
L’ossessione d’amore della protagonista fa pensare ad un melodramma.
Un melodramma modernizzato continuamente osteggiato da elementi estranei al melodramma. Se ci pensiamo bene, il futurismo è l’antimelodramma. In Vincere l’amour fou di Ida è l’amore che si fissa su un uomo e per lui sacrifica la propria identità, il proprio patrimonio. Lui non è un mascalzone o un profittatore nella grande tradizione di certi sfruttatori dell’Ottocento. Lui ha un certo fine, lei gli serve per un passaggio della sua vita e poi basta. Lei insiste in modo grandioso e suicida. Da un certo momento in poi, quando Mussolini diventa primo ministro doveva essere frenata, contenuta.
Il film potrebbe essere visto, anche, come un altro viaggio intorno ad un'anima femminile.
Di Ida mi hanno sollecitato, lavorando con la fantasia e tenendo conto dei riscontri storici, il carattere ostinato, la sua determinazione. La sua patologia è nel non tener conto dei rapporti di forza. Capisce, però, che la sua vocazione allo scontro, la sua furia le consentono di non essere dimenticata.
È quello che è accaduto. E' un’eroina e mi ricorda Antigone perché non arretra di un millimetro. Per tutta la vita ribadisce di essere stata abbandonata da Mussolini e di essere stata schiacciata dal regime. Mussolini pronuncia lo slogan "vincere" e cade nella polvere, Ida pur sconfitta sembra la vincitrice. Naturalmente, non voglio, con i miei film, fare una collezione cinematografica di ritratti femminili. Ida non somiglia alla Donatella Finocchiaro de Il regista di matrimoni o all’insegnante de L'ora di religione. Forse è simile, vagamente, alla Maya Sansa di Buongiorno, notte.

Il Tempo 19.5.09
Croisette all'italiana
Bellocchio convinve i bookies
Favorito per la Palma d'oro
di Dina D'Isa


Cannes: due giorni all'insegna del cinema "made in Italy": l'omaggio a Pietro Germi, la presentazione del Festival di Roma, gli applausi a "Vincere", il nostro film in gara.
Un'immagine del film Nel giorno in cui Marco Bellocchio è stato applaudito, anche se non in modo plateale, a Cannes per il suo film in concorso, "Vincere", molte iniziative nazionali hanno movimentato la Croisette che sembrava, almeno nell'area mercato e alberghiera, in leggera crisi. Gli italiani sembrano già trionfare a Cannes, con l'omaggio a Germi e le anticipazioni sulla Festa del Cinema di Roma, del presidente Gian Luigi Rondi.
Avvincente e appassionante, la pellicola di Bellocchio rievoca la storia di Ida Dalser. Il film che passerà oggi ufficialmente in concorso, e che domani sarà nelle sale italiane, è già stato dato dai bookmakers tra i vincitori della Palmares. Insomma c'è un'altra Palma d'Oro in vista per il cinema italiano a Cannes secondo gli scommettitori. Per i bookmaker inglesi, il favorito per il trionfo sulla croisette è proprio «Vincere» di Marco Bellocchio con Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi, la storia della compagna di Benito Mussolini e madre del suo primo figlio, durante gli anni dell'ascesa politica del Duce. Bellocchio convince e appassiona quando rimane sui toni del melodramma, senza mai cadere in facili sentimentalismi. A volte, anche per la critica straniera, diventa però ripetitivo soprattutto quando esalta l'aspetto politico della personalità del Duce.
Il successo della pellicola di Bellocchio, secondo i dati riportati da Agipronews, è proposto a 4,00. Stroncato dalla critica «Antichrist», primo horror del regista danese Lars Von Trier, passa da 7,00 a 17,00. Perde colpi anche «Los Abrazos Rotos»: il thriller di Almodovar è salito da 6,00 a 15,00. Chance di vittoria anche per «Inglourious Basterds» di Tarantino, a 8,00, ma l'insidia peggiore per Bellocchio è «Das Weisse Bande» di Michael Haneke, offerto a 6,00. (...)

La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino 20.5.09
"Vincere". Piace al pubblico il film su Ida e Benito Mussolini
Bellocchio: «La mia eroina. Così vera, melodrammatica»
di Andrea Martini


FUTURISTA «Ho mostrato il Duce socialista e superuomo»
La Mezzogiomo 'ipoteca' il premio

Cannes. «HO FATTO "Vincere" con convinzione e sono soddisfatto; contento del risultato» Sono parole che smorzano le polemiche, mostrano la saggezza di chi per una vita si è confrontato a viso aperto col pubblico e la critica e adesso si sente in pace con se stesso, potremmo dire, 'a prescindere'. Vincere in sala è stato applaudito e chi sulla stampa di ieri ha sollevato qualche dubbio è già pentito. Nella selezione di quest'anno, giunta giusto alla boa della mezza corsa, abbiamo visto bei film. Originali, spesso riusciti, quasi mai inutili, ma per vedere del cinema abbiamo dovuto aspettare il film di Bellocchio. Dopo la storia più recente, drammatica, irrisolta di Buongiorno notte la vicenda oscura ma rivelatrice di Ida Dalser. Non una pazza isterica ma un'eroina tragica (Giovanna Mezzogiorno pone un'ipoteca sul premio finale), ostinata come già Enrico IV e il principe di Homburg: incuranti di un potere che li nega. Pronti a gridare la loro scomoda verità. «Mi ha sempre interessato la vicenda della Dalser perché esprime una resistenza privata, una donna che patisce il regime non sotto forma ideologica ma personale: una sostenitrice di Mussolini che il duce sfrutta cinicamente - come più tardi la Sarfatti - e di cui non esita a sbarazzarsi biecamente», dice Bellocchio. Il cammino agli inferi di questa donna approda alla tragedia ma passa per il dramma e il melò («sono nato nella cultura melodrammatica») ma Bellocchio evita saggiamente l'appiattimento naturalistico e anche i manicomi non trasudano quelle violenza che potremmo immaginare. Sono gabbie alla cui guardia è posta - accusa - la «terribile e criminale ideologia cattolica quella che spinge Ida a lasciar perdere tutto ed a accontentarsi di essere stata l'amante del duce».
IL FILM mescola sapÌentemente immagini nuove con pellicole d'archivio e vecchi capolavori come Il monello chapliniano. E' il suo modo non retorico di dire che il cìnema è stato la più importante forma di conoscenza del secolo passato e l'arma più forte, come comprese bene Mussolini. Non a caso il duce non si vede mai se non nelle immagini dei cinegiornali. «Ho mostrato il Mussolini socialista e irredentista ma non quello storico. Quello che Ida vede solo sullo schermo non poteva che essere quello vero, imponente, del Luce: la sua retorica, oggi, fa sorridere ma è studiata; nell'elaborarla il Duce fa il suo capolavoro». Così facendo Bellocchio è riuscito nella difficile impresa di render conto del superomismo futurista e della seguente sua trasformazione nell'uomo «della Provvidenza», dei patti Lateranensi. E anche a ribadirci che le nostre menzogne ci fanno arrossire «mentre quelle dette dai dittatori, di destra come di sinistra, non fanno altro che confermare il potere della loro sfrontatezza».

Il Giornale 20.5.09
«Pugnalato dalla stampa italiana»
di Maurizio Cabona


Cannes«Siamo stati pugnalati alla schiena dalla stampa italiana» esordisce Marco Bellocchio, col migliore dei sorrisi, peraltro, nell’incontro con un’ampia rappresentanza della categoria pugnalatrice al Festival.
Il regista allude alle stroncature di Vincere, il film italiano in concorso al Festival. Cita anche Stefano Lorenzetto a difesa della tesi del suo film, secondo il quale Ida Dalsér (Giovanna Mezzogiorno) fu vittima della miseria morale di Benito Mussolini (Filippo Timi), padre di suo figlio - (sempre Filippo Timi) - più che della propria ossessione: dire che Mussolini dal 1914 era suo marito davanti a Dio.
Chiedo a Bellocchio perché un ateo socialista - tale era allora il futuro Duce - dovesse sposare in chiesa una donna che l’adorava anche per l’ateismo. Dice Bellocchio: «Il matrimonio sarebbe avvenuto a Trento, allora asburgica, e non si sarebbe potuto celebrare civilmente fra una suddita di Francesco Giuseppe come la Dalsér e uno straniero, Mussolini appunto».
Così il film presenta le nozze in chiesa come un sogno della Dalsér, visto che nessun certificato l’avalla.
Il dettaglio è importante nel giudicare il caso Dalsér, perché il definirsi «moglie di Mussolini» (e non solo madre di suo figlio, Benito Albino) determinò i referti di insanità mentale che portarono lei - colta, emancipata, intelligente - a finire i suoi giorni nel 1937 in manicomio.
In un altro manicomio li avrebbe finiti nel 1942 anche Benito Albino, nato nel 1915. Nella rovina di quest’ultimo, continua Bellocchio «il disinteresse del padre si sommò all’ostinazione della madre nel pretendere che Mussolini le riconoscesse il rango di moglie», sottrattole da Rachele Guidi, che gli aveva dato Edda ben prima della nascita di Benito Albino. Quanto al paragone della stampa straniera (il caso Dalsér-Mussolini sta al caso Lario-Berlusconi), Bellocchio lo considera sbagliato, perché «nessuno pensa di mettere la Lario in manicomio e di toglierle i figli. E poi lei ha chiesto il divorzio, non il riconoscimento come moglie...». Per Bellocchio, «lei rovinò se stessa e soprattutto il figlio nel chiedere l’impossibile» e «la si poteva considerare una donna sul filo della follia», forse valicato dopo, se non prima dell’internamento. La Dalsér fu una «disturbatrice» per il regime «nella sua fase catto-fascista subito prima e subito dopo il Concordato». Così, al povero Benito-Albino, dimenticato dal padre e usato dalla madre, toccò quel destino da tragedia greca perché sua madre s’era rivelata una nuova Medea.

velino.it 20.5.09
Cannes, 17 minuti di applausi per Bellocchio


Roma, 20 mag (Velino) - Standing Ovation di 17 minuti per Marco Bellocchio ieri alla proiezione ufficiale di “Vincere”, unico film italiano in concorso alla 62esima edizione del festival. Un lungo applauso che si accompagna alle ottime recensioni della stampa estera – in primis “Variety” e “Screen International” – e ai pronostici che danno Bellocchio in odore di Palma d’oro. “Vincere” racconta della forza di Ida Dalser, donna colta e benestante che offre tutta se stessa – anche il proprio patrimonio – a un Benito Mussolini ancora sconosciuto e dal quale subirà il “tradimento”: una volta salito al potere, il regime fascista cercherà di cancellare ogni traccia della relazione dalla quale nasce Benito Albino. Ma la Dalser non piegherà mai la testa anche una volta internata, continuando a gridare la sua verità: moglie legittima del Duce e madre del suo primo figlio maschio. Protagonisti della pellicola un’intensa Giovanna Mezzogiorno nei panni della Dalser e Filippo Timi che dà il volto a Mussolini prima e al figlio poi. Oggi “Vincere” esce in 300 sale italiane distribuite dalla 01.

il manifesto 20.5.09
Il buio nella mente dell'Italia oscura
L'talia internata di Bellocchio
di Roberto Silvestri


Cannes. È quasi il Novecento di Marco Bellocchio. Non un affresco epico contadino, bensì un duetto «da camera», metropolitano, di oltre due ore. Una tragedia rigonfia di passione e sentimento, come un melo di Raffaello Matarazzo, mai di sentimentalismo. Vincere è un poema dark sul dµplice omicidio legalizzato, mandante il duce, di Ida Dalser e Benito Albino Mussolini. Ovvero la moglie e il figlio «segreti» annichiliti con ferocia terragna dal leader massimo del fascismo. Eppure a «vincere», irreversibilmente, è stata propria Ida. E vincerà. Il film è la metafora di come un intero paese fu diseredato, cancellato dalla vista e dai mass media, reso sadicamente impotente, con l'uso di squadracce psicotiche. Fu isolato, scisso, internato e disfatto nella mente, Infine «assassinato», E le donne subirono una sorte ben peggiore, congelate vive e mostruosizzate nel loro innaturale ruolo di «casalinghe», «madri» piccole italiane e «credenti», alla faccia della stessa contessa Sarfatti che pure aveva guidato come una marionetta il duce, prima che lui si imbarcasse nella più stupida delle imprese, l'aggressione razzista, coi gas, all'Etiopia. Ida spirò nel 1937, dopo 20 anni di elettroshock che neppure Gramsci, e Benito Albino, dopo un esilio in Cina mascherato da impegno bellico in marina, nel 1942, a soli 27 anni, e anche lui in ospedale psichiatrico. Eppure la forza dei loro sentimenti, e di continuare a dire la verità contro tutto e contro tutti, ha superato l'anonimia della fossa comune e ignota dove riposano, e l'affetto dei loro compaesani trentini. E un esperto di anti-psichiatria come Bellocchio (suo Matti da slegare), con tatto e pudore ci racconta anche come è 'malato' profondamente dentro un paese che ha bisogno di 'legarli' i suoi matti, fosse pure nella follia della vendetta, comprensibile, di piazzale Loreto.
Insomma il film racconta un misfatto di cronaca politica per decenni tenuto nascosto o rimosso, Finché a gettare la prima luce sulle sensazionali rivelazioni dei primi anni 50 considerate fantasie o bieca propaganda rossa fu il libro di Marco Zeni (2000) e il bellissimo documentario di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli, Il segreto di Mussolini (2005), voluto da una fronda intelligente che ancora si aggira per i sotterranei della Rai, Il documentario, cui Bellocchio deve tutto dal punto della sostanza conoscitiva, fu venduto ovunque, perché sco (...) della prove, testimoni, moventi, 'senso', carte e responsabilità di quel dòppio calvario. Primo malefico regista fu il moderato Arnaldo Mussolini, fratello del dittatore, direttore del Popolo d'Italia, una sorte di Gianni Letta della situazione (per l'abile ricucitura dei rapporti tra fascismo, Pio XI e Vaticano che culminò nel 1931 nel suo capolavoro, il Concordato), del tutto ignorato, però, nella sceneggiatura di Marco Belloccio e Daniela Ceselli, anche se quel quotidiano è stato particolarmente importante. È proprio la militante socialista inquieta Ida Dalser che vende casa e atelier, e consegna tutti i suoi risparmi all'uomo che ama, Benito Mussolini, appena espulso dal Psi e cacciato dalla direzione dell'Avanti! (che ha portato a 100 mila copie di vendite), per fondare quel foglio interventista. Anna Kuliscioff conferma nelle sue memorie che Mussolini, socialista massimalista, pacifista e rivoluzionario, si trasforma di colpo in interventista dopo un ritorno dalla Svizzera con valigetta zeppa di denaro francese, Certo, fu anche di Gramsci (aspettando Lenin) il desiderio di stracciare la tessera di un Ps diretto da opportunisti, 'positivisti' e miglioristi alla Labriola, incapaci di alcuna forzatura soggettiva rivoluzionaria e neppure lettori di Gentile, Ma Ida Dalser sapeva esattamente come erano andate le cose, quando, dopo 10 milioni di cadaveri da grande guerra, la psiche dell'Europa e di troppi socialisti era ormai stata definitivamente mutata dal mostro nazionalista. La linea fu: cancellare la prima moglie demodé e sposare l'italiana docile, l'allevatrice di galline e figli, donna (di una volta) Rachele, per rivoluzionare l'Italia senza cambiare nulla (e anche in questo il progetto di Mussolini ci ricorda qualcosa). Applaudito dalla critica internazionale di Cannes questo terrificante psico-thriller storico, che Giovanna Mezzogiorno (Ida), Filippo Timi (Benito, ma anche Benito Albino) e le luci metafisiche, horror ma introverse, di Daniele Ciprì, trascinano al di là del realismo, nel regno degli spettri che tornano, saltano sulle grate e esigono vendetta, è uno sguardo intenso e concentrato lanciato obliquamente sulla storia, su una persecuzione totale che lascia inorriditi, quasi increduli.
Fossi Alessandra Mussolini, come parente delle vittime (Ida e Benito jr.), chiederei l'immediato risarcimento da uno stato erede dei Savoia. Forse così uscirebbe finalmente fuori quel famoso 'certificato di matrimonio' che nessun fascista può ammettere. Plurifedifrago, il duce? Certo, Se no che superuomo sarebbe! Ma vedere il duce assassinare lentamente moglie e figlio, è insostenibile. È impressionante comunque vedere, tra il 1918 e il 1937 (che sequenze di film e documentari d'epoca impagineranno come utile breviario storico), giornali e cinegiornali 'embedded', suore, militari, questori, spie, poliziotti, medici, psichiatri, prefetti, federali, direttori di manicomi e stupidi balilla, partecipare all'operazione 'talamo pulito' eseguendo da robot gli ordini dall'alto.
Bellocchio analizza così il doppio, traumatico shock della nostra modernità, grande guerra e ventennio, e come modificò ogni cosa, l'equilibrio di potere tra i sessi, prima di tutto, per capire, oggi, come uscire dal tragico 'offuscamento morale e mentale' che minaccia una civiltà, Prima del 1915. Ida Dalser, giornalista trentina, donna libera e in via di emancipazione politica, suffragetta che, tra falene d'argento, come le pittrici futuriste Dlga Biglieri Scuto o Valentie de Saint Point, istiga alla liberazione dai ceppi vittoriani, erotici, psicologici e estetici. Amerà l'ateo Mussolini, aprirà a Milano un salone di trucco e bellezza 'francese', vivrà addirittura, scandalosamente, al fianco dell'uomo che ha scelto e lo spronerà all'azione, Dopo il 1919, La donna ha subito una irreversibile sconfitta, Schiacciata, torna in casa, Se si ribella nel bordello, in convento o in manicomio. Da oggi nelle sale italiane Vincere, titolo di buon auspicio per la Palma d'oro, ma già semistroncato ieri dai nostri maggiori quotidiani, che non hanno fatto in tempo a vederlo tutto per la fretta di scriverne in anticipo. Bellocchio in gran forma prosegue l'indagine di profondità dentro la storia e l'immaginario (la 'sovrastruttura', che gli artisti colgono meglio di altri, spesso indisponendoli), che il regista di I pugni in tasca sta dedicando, con rabbia lucida, alla nostra contemporaneità. Nei momenti tragici della storia, si richiede massima allerta e attenzione. Gomorra, Il divo e Vincere sono i nostri Young Mr. Lincoln di Ford o Apocalypse now di Coppola. Bellocchio guarda molto indietro e scopre non come si trattarono i nemici, Matteotti, ma l'amica, la compagna di lotta, la sempre fedele, la moglie, la madre del proprio figlio, il proprio figlio, Strana quella dittatura ritagliatasi, a poco a poco, elezioni impresentabili dopo elezioni farsa, leggi disgustose dopo leggi aberranti, dentro una monarchia, a sua volta controllata da una teocrazia, E oggi?

Quelle analogie fra il duce e Silvio
Subito dopo la proiezione del film, numerose le domande al regista sulle possibili analogie fra le figure di Benito Mussolini/Silvio Berlusconi e Ida Dalser/Veronica Lario. «Sì, ci sono probabili analogie - ha spiegato Marco Bellocchio - tra Silvio Berlusconi e Benito Mussolini ma non tra Ida Dalser e Veronica Lario. Mussolini intanto è il primo dittatore e politico che si serve dei media, foto, cinema, radio diventandone anche ovviamente il padrone. Si è parlato ultimamente dell'Italia di Berlusconi come di una democrazia autoritaria. Ma è evidente: se tu controlli l'arma più potente che c'è, ovvero i media». Molti dubbi invece sull'accostamento tra la «prima» moglie del duce nonché madre del suo primogenito, e la neoseparata Veronica Lario. «Nel caso di Veronica Lario, lei, dopo aver fatto delle belle uscite, mi sembra rientrata in un discorso di buon senso che non mette in discussione le proprie fortune. In caso contrario, sarebbe stata un'eroina proprio come Ida Dalser».

Terra 20.5.09
Vincere: il Mussolini tragico di Bellocchio
Di Alessia Mazzenga e Luca Bonaccorsi


CANNES. Arriva in sala da oggi la nuova opera del regista piacentino. Un film epico, antico, dai toni forti. Magistrale interpretazione dei protagonisti Filippo Timi e Giovanna Mezzogiorno in odore di Palma d’oro

Ida Dalser, disperata Antigone, è donna ribelle e sessuata che paga con la pazzia e la morte il prezzo
di non voler diventare moglie obbediente e madre scialba

Un capolavoro tragico. Assoluto. È la nuova fatica di Marco Bellocchio, Vincere, unica opera italiana in concorso a Cannes presentata ieri alla kermesse, che esce oggi in Italia. Il film si apre sul primo incontro tra Ida Dalser e Mussolini nel 1907, durante un’accesa riunione in cui il giovane Benito infiamma gli animi con le sue idee rivoluzionarie, contro la morale religiosa: «Se entro cinque minuti Dio non mi fulmina. Dio non esiste!», dirà. Con Ida è amore a prima vista, almeno per lei che, bella, colta e intraprendente vende ogni cosa per finanziare il Popolo d’Italia. Futuro organo del Partito fascista, che Mussolini dirigerà dopo aver lasciato l’Avanti per diventare nazionalista e interventista.
La prima parte del film ci racconta, attraverso i bellissimi chiaroscuri della fotografia di Daniele Ciprì, i molti orgasmi dei due amanti, mentre sullo sfondo l’Italia, a suon di slogan futuristi, corre verso la guerra. Attraverso il sapiente montaggio di Francesca Calvelli, che alterna i filmati futuristi che incitano alla guerra e i cinegiornali d’epoca, alla storia d’amore, tutta giocata sui corpi nudi e i primi piani dei due protagonisti, si giunge alla seconda parte del film in cui la Dalser si trasforma nella vittima sacrificale di un meccanismo di potere. Mussolini sposerà Rachele il 17 dicembre 1915, solo un mese dopo la nascita di Benito Albino, il figlio nato dalla relazione con la Dalser e da lui riconosciuto. Sceglierà una ragazza del suo paese, obbediente massaia, in grado di “portare le corna” come, secondo lui, avrebbero dovuto fare tutte le brave donne. Bravissimi gli interpreti, da Filippo Timi che rende tutta la ferocia e lucidità dell’uomo Mussolini a una splendida Giovanna Mezzogiorno, candidata alla vittoria come migliore attrice. In una sorprendente aderenza al suo ruolo, mostra tutta la tragicità delle donne che non accettano di diventare docili mogli e madri scialbe. Quelle, irriducibilmente belle, fiere e intelligenti, che pagano con la solitudine e la follia la propria ribellione.
Vincere è un film duro, difficile, monumentale, che reclama mille aggettivi. Antimoderno, per una serie di motivi. Film così non li fa più nessuno. Vincere si iscrive nella storia del cinema tra le “corazzate Potemkin” e i “Ben Hur”, per estensione epica e ambizione narrativa. In secondo luogo, perché è una pellicola in cui non ti puoi identificare con nessuno. Non c’è nessuna concessione alla logica dei buoni e dei cattivi, e anche l’eroina Ida è una ribelle assurda che ti fa solo arrabbiare: sceglie l’uomo sbagliato, gli resta avvinghiata, e segue con una coerenza autodistruttiva la sua verità fino in fondo. Le vuoi bene ma la odi, anche. Poi perché non concede nulla al minimalismo contemporaneo: è grandioso, epico, vive solo di emozioni forti e straripanti. Le scene sono ricche, le musiche di una tensione estenuante. In fine perché non concede nessuno spazio al buonismo, o a lieti fine di sorta. Un film nietszchiano nella sua integrale tragicità che rifiuta qualsiasi mediazione. Nietszchiano perché emerge da un uomo che, dal vivo, emana tranquillità e benessere. Forse quel benessere che solo, come diceva il filosofo, può permettersi il gusto di affondare nella tragedia pura di una Antigone che va verso la morte pur di non tradire se stessa. Antimoderno perché è un film sul ’900, del ’900, fatto da un maestro del ’900. L’immagine femminile, tema ormai onnipresente e centrale nei lavori di Bellocchio, qui si divide in due: la moglie scema borghese (esilarante la scena di Rachele che nutre e chiacchiera con le galline nel pollaio personale, dei giardini di Villa Torlonia), e l’eroina ribelle (e martire). Ida Dalser è ribelle e sessuata. Il suo sesso lo espone senza timore, con disinvoltura sessantottina, alla mostra futurista. In questo senso il film denuncia assai bene la violenza che si abbatte su una donna libera. Che la ribellione di Ida porti all’emarginazione, follia e morte può essere accettato solo come rappresentazione di una condizione storica e culturale. Visto che, chiaramente, non corrisponde all’idea delle possibilità rivoluzionare delle donne, rappresentate da Bellocchio in modo assai meno disperato in altri suoi film. Infiniti sono gli affreschi e i cameo. La vecchia psichiatria è rappresentata nel consulto a Ida, con le domande idiote («quante dita ci sono in una mano?»). Numerose le citazioni dei grandi maestri del cinema e le autocitazioni. Dall’insofferenza al lenzuolo nell’amplesso di Diavolo in corpo, al volto della Mezzogiorno Detmers durante il discorso dello psichiatra esaminatore. Ma non hanno sapore narcisistico, perché è come se Vincere dovesse comprendere tutto Bellocchio. Dai Pugni in tasca a oggi. E tutta la storia del grande cinema. Infinite le scene che restano impresse. Il volto deforme di Timi Mussolini junior, prossimo alla morte per follia, ricorda la faccia deforme del protagonista dei Pugni in tasca. O Ida che emerge dal fumo degli scontri spingendo sicura la sua carrozzina con bimbo. O Ida e Benito novelli innamorati, sulla panchina di notte, nella piazza attraversata da una comitiva di ciechi. O Ida che si arrampica verso il cielo innevato, nella immensa gabbia manicomio. E poi le suore, i matti del manicomio, i discorsi scemi e delinquenti della madre superiora. C’è tutto il repertorio di immagini e di vita del regista piacentino. Vincere è un film che disorienta, colpisce, annichilisce. È una citazione infinita, eppure assolutamente originale. Strizza l’occhio ai melodrammi della tv di prima serata ma non lo è. Racconta bene la nuova poetica di Bellocchio: parlare di temi assolutamente popolari in modo totalmente originale. È il cinema d’autore per le masse, sulla scia de L’ora di religione e Buongiorno notte. Vincere farà discutere. Ma soprattutto, è un film da non perdere.

Il Foglio 19.5.09
"Così abbiamo tradito Spinoza - L'Olanda ha scelto la strada dell'autocensura sull'islam. Parlano i protagonisti"
Parla Wilders, l’uomo più odiato e più amato d’Olanda“La più grave malattia dell’Europa è il relativismo culturale di fronte all’islam”
di Giulio Meotti


Sul Foglio di oggi in edicola la quarta puntata dell'inchiesta di Giulio Meotti sull'Olanda e la fine del multiculturalismo: "Così abbiamo tradito Spinoza - L'Olanda ha scelto la strada dell'autocensura sull'islam. Parlano i protagonisti".

L’Aia. Quando Geert Wilders si alza in piedi, con la testa riesce quasi a toccare il soffitto angusto dell’ufficio. Piccolissimo e senza finestre, si trova nel punto più alto del Parlamento olandese. Non è stato scelto a caso. Gli assassini possono arrivarci da una sola direzione, rendendo più facile l’intervento della scorta. Di tanto in tanto il Parlamento deve ricollocarlo all’interno dell’aula in un punto non visibile al pubblico, per meglio tutelarlo. Non sono ammessi visitatori nel suo ufficio se non dopo una trafila lunghissima, persino le penne vengono setacciate, in cerca di ordigni. La compagnia aerea olandese Klm ha rifiutato d’imbarcarlo su un volo per Mosca, per problemi di sicurezza. Il suo entourage è perlopiù anonimo. Quando il livello d’allerta sale, Wilders non sa dove passa la notte, lo portano via e basta. Non usa il telefono e per mesi ha visto la moglie due volte la settimana, in un appartamento sicuro e quando lo decideva la polizia. Prima di questa intervista al Foglio, le sue assistenti ci hanno annullato due incontri. Per ragioni di sicurezza.
Il punto più basso Wilders lo ha toccato quando è stato costretto a vivere in una prigione di stato, il campo Zeist, nella cella accanto a quella dei terroristi dell’aereo abbattuto nel cielo scozzese di Lockerbie. “In carcere avevo una stanza per dormire e vestirmi e una per mangiare”, ci dice Wilders. “L’Olanda dopo la morte di Van Gogh non era preparata. Ho perso la mia libertà, da sei anni vivo 24 ore su 24 sotto la protezione della polizia, ovunque vada ci sono con me molti poliziotti, devo dare loro la mia agenda, privata e professionale, con largo anticipo. Potrei andare al ristorante con mia moglie, ma la polizia dovrebbe prima evacuarlo. Quando andiamo al cinema, entriamo dalla porta di dietro, arriviamo dopo che il film è iniziato e andiamo via prima che finisca. Sono sotto scorta permanente, grazie a coloro che preferiscono la violenza al dialogo. Sono grato a chi mi protegge, fiero di vivere in una società che tutela chi viene minacciato, ma è terribile quello che sta accadendo”. Wilders è il grande scandalo che agita oggi i Paesi Bassi. Il suo atteggiamento è spesso sopra le righe, appositamente provocatorio e verbalmente incendiario. Osa irridere anche la regina Beatrice, figura sopra i partiti e amata dal popolo olandese. L’atteggiamento di Wilders è quello di chi sa di non avere alternative. Come quando ci dice: “Non lascerò scrivere la mia agenda a un mullah iraniano. Sono l’unico olandese più al sicuro in Israele, il mio amato Israele, che nel mio paese”. Il quarantaquattrenne Wilders, leader del “Partito per la Libertà”, ha fatto breccia nei rancori europei sullo scontro di civiltà. All’esordio elettorale, nel 2006, conquistò nove seggi. Se si votasse oggi, sarebbe il primo partito.
“La più grave malattia dell’Olanda e dell’Europa è il relativismo culturale”, dice. “L’idea che tutte le culture siano uguali, ecco il punto. L’umanesimo europeo, costruito su basi cristiane e giudaiche, è migliore della cultura islamica, anche se una secolarizzazione estrema sta distruggendo gran parte di quel patrimonio. Il multiculturalismo funziona se sei forte abbastanza per dire che la tua cultura è migliore e dominante. Ma quando il multiculturalismo si coniuga al relativismo culturale, è suicidio. Da quando i nostri padri fondatori trasformarono questa palude, l’Olanda, in un’oasi di tolleranza, il nostro stendardo merita di essere librato in aria e in libertà. La correttezza politica ci impedisce di farlo, si ha paura di essere chiamati ‘estremisti’. L’islamizzazione ha successo nella mancanza di coraggio. Siamo diventati come tanti Chamberlain, anziché Churchill, i politici non conoscono la storia del proprio paese, non hanno identità, non sanno chi rappresentano. Non hanno più la volontà di battersi per i propri valori”. La migliore definizione di Wilders l’ha data James Taranto intervistandolo per il Wall Street Journal: “Campione della libertà o provocatore antislamico? Entrambe”. Per i suoi estimatori, il grande braccato Wilders, con il suo convoglio di automobili simile a quello che aveva Pervez Musharraf, è un pegno intorno al quale si consuma il destino del nostro continente, assieme a una caterva di opere d’arte, libri, pellicole e articoli. Per i suoi critici, è un populista aggressivo. Wilders ci spiega che non può visitare un paese straniero con l’assicurazione che non verrà arrestato e processato. In tutto il mondo, da Amman a Londra, non si contano più le azioni legali contro di lui.
Le sue idee sull’islam sono molto problematiche. Dopo l’11 settembre gli Stati Uniti, a cominciare da Bush, hanno dibattuto a lungo su come definire il nemico. Per Wilders, l’islam è più ideologia che religione. “Una ideologia come lo fu il comunismo, l’islam non vuole competere con le altre fedi, non vuole cambiare la vita dei singoli esseri umani, ma l’intera società. A differenza del giudaismo, non vuole integrarsi nelle democrazia occidentale, l’islam vuole dominarla, sottometterla”. Una delle ultime minacce che gli hanno recapitato diceva: “Oh infedele! Non pensare di essere al sicuro. Il tuo sangue scorrerà sulle strade olandesi”.
Dalla parte del suo allarmismo ci sono i dati più recenti forniti dalla polizia olandese. Nel 2008 ben 428 minacce di morte da parte di gruppi o individui di matrice islamista. Nel 2007 erano state 264. “La giusta risposta della sharia è tagliargli la testa e fargli fare lo stesso destino del suo predecessore, Van Gogh, spedendolo all’inferno”, recita il forum al Ekhlaas su Wilders. C’era lui in cima alla lista dei “bersagli” inchiodata al petto di Theo van Gogh, il regista ucciso da un fanatico islamista per il cortometraggio “Submission”. Il suo nome è stato trovato persino fra alcune carte a Hebron e in Iraq. Alcuni siti in arabo offrono laute ricompense per chi riuscirà a ucciderlo. Gli analisti ritengono che fin dall’inizio il vero obiettivo fosse lui.
Molto prima dell’uccisione di Van Gogh, Wilders riceve un video: l’invocazione ad Allah, un mappamondo coperto da un Corano su cui si erge un kalashnikov. E il suo nome. “Nemico dell’islam – recita una scritta in olandese – Condannato alla decapitazione. Chi eseguirà la pena salirà in paradiso”. La polizia ha arrestato un diciassettenne in possesso di una bomba carica di chiodi, sul modello di quelle di Londra del 7 luglio 2005, che intendeva usare contro Wilders. L’ironia, dice Wilders, è che chi lo minaccia è liberissimo di andarsene in giro, mentre lui, eletto dal popolo, non può neppure annunciare i suoi comizi. “La libertà di parola è il più grande tesoro dell’occidente”, dice Wilders. “Se vogliamo rimanere liberi, se vogliamo che lo siano i nostri figli e nipoti, dobbiamo difendere la critica dell’islam come il nostro bene più prezioso. E’ il fondamento della democrazia. Ma stiamo andando nella direzione opposta. Dobbiamo riacquistare il senso dell’urgenza, è una battaglia esistenziale, chi siamo e cosa saremo nel futuro”. Qualcuno lo ha ribattezzato “l’uomo invisibile”. Guai ad accusarlo di essere simile a Le Pen o Haider, “sono un conservatore tocquevilliano”, ripete Wilders. Lui è fiero di essere invitato a parlare all’American Enterprise Institute, lo stesso pensatoio di Washington per il quale lavora Ayaan Hirsi Ali. E alla benemerita Freedom House, che non accoglie certo xenofobi e fanatici di destra.
Molti lo accusano di usare il giudeocristianesimo a fini elettorali. “Io non sono un cristiano praticante, sono ateo, ma amo la cristianità come insieme di principi, è ciò che siamo, quello da cui proveniamo”, dice. “Se perdiamo tutto questo, qualcun altro riempirà il vuoto che lasciamo. I cristiani e gli ebrei sono le prime vittime quando facciamo appeasement nei confronti dell’islam. La cristianità ha dovuto imparare la tolleranza, ma oggi è di gran lunga superiore all’islam. Penso alla separazione di stato e chiesa, il rispetto per le donne, i diversi, gli apostati, i gay. Potrei darle 500 esempi di come la nostra cultura è superiore”. 
 Sui giornali e le televisioni olandesi non passa giorno senza che non si auspichi un “cordone sanitario” intorno a lui. “Non mi sento offeso quando mi chiamano Haider o Le Pen, è semplicemente ridicolo, offendono chi mi vota, la maggioranza degli olandesi. Se domani ci fossero le elezioni, saremmo il primo partito. Abbiamo paura che le nostre scuole, le nostre strade, le nostre città, tutto cambi velocemente. Verso il peggio. Non c’è via di mezzo: mi odiano o mi amano. Ieri ho ricevuto una minaccia di morte dall’Arabia Saudita, mi dicevano che sarei stato assassinato nel momento in cui meno me lo sarei aspettato. Ci sono tante ragioni per essere pessimisti, l’Europa sta perdendo se stessa. Spero che non sia troppo tardi. Voglio che i valori di Roma, di Atene e di Gerusalemme restino i nostri valori, e non quelli della Mecca, di Rabat o di Teheran”.
Un record, a parte le minacce di morte, Wilders lo ha già conquistato. E’ l’unico parlamentare di un paese europeo bandito dal Regno Unito. “All’aeroporto di Heathrow mi hanno negato l’ingresso, mentre ogni giorno nelle strade di Londra si manifesta a favore di Hamas e per la distruzione di Israele. Ero stato invitato da un parlamentare inglese e questo bando mi ha soltanto dimostrato a che punto siamo arrivati. Se avessi criticato la cristianità o il giudaismo, non mi avrebbero bandito. Ma l’islam è intoccabile. Ho commesso quel che George Orwell avrebbe definito ‘reato di pensiero’. Per la generazione dei miei genitori la parola ‘Londra’ era sinonimo di speranza. Quando il mio paese era occupato dai nazisti, milioni di miei connazionali ascoltavano la Bbc illegalmente. Le parole ‘Questa è Londra’ erano il simbolo di un mondo migliore. Cosa sarà trasmesso tra quarant’anni? ‘Questa è Londra’ sarà ancora un simbolo di speranza o dei valori di Medina? Che cosa offrirà l’Inghilterra, sottomissione o perseveranza? Libertà o schiavitù?”.

Repubblica 20.5.09
Berlusconi attacca Repubblica: non vi rispondo
"Vergogna su Noemi: sono cose private, non ne parlerò in Parlamento"
"Pensate che posso interferire sulla libertà di stampa? Certe cose fanno male al Paese"
di Silvio Buzzanca


ROMA - «Vergognatevi, vergognatevi». Silvio Berlusconi è indignato, adirato, infuriato con i giornalisti. E alle dieci domande di Repubblica non vuole rispondere. Anzi non vuole proprio rispondere alle domande in genere e attacca a testa bassa i cronisti che ieri a L´Aquila hanno cercato di farlo parlare sul caso Mills e sul caso Noemi. Niente da fare.
«Non rispondo a "Repubblica". Se "Repubblica" cambiasse atteggiamento potremmo trovare un accordo, ma adesso non rispondo. Ho già risposto quando mi hanno detto che ero malato: ho risposto che eravate malati voi di invidia personale e di odio politico. Lo riconfermo in pieno», ha detto, con un tono di voce molto alto, all´inviato del quotidiano Gianluca Luzi. Il giornalista gli aveva appena chiesto se in Parlamento, dopo avere spiegato cosa pensa dei giudici, avrebbe risposto anche ai quesiti che gli ha posto il nostro quotidiano.
Poi, alla fine della conferenza stampa, in piedi ha proseguito. Perché dovrei rispondere su Noemi, chiede al giornalista. «Sono cose private, ma le pare che possa rispondere a queste cose in Parlamento? È un caso privato, non è un attentato alla libertà di stampa. Non pensate di cadere nel ridicolo - ha detto di nuovo quasi gridando - quando sostenete che in Italia non c´è libertà di stampa? Pensate che il premier possa interferire nella libertà di stampa? Se volete scherzare scherziamo, ma all´estero certe affermazioni passano per vere e questo fa male al paese e agli italiani».
Il presidente del Consiglio è molto adirato, difende a spada tratta la famiglia Letizia. «Sono andato a chissà quanti matrimoni, festeggiamenti e anniversari, non ho nulla da nascondere, con che diritto state perseguitando una famiglia per bene? Su questo caso c´è stato un comportamento vergognoso, vergognatevi. Gli italiani sono con me, con me». E meno male - ha spiegato - che in Italia è riuscito a parare il colpo, visto che la sua popolarità al 75 per cento. Ma, rammarica, all´estero le bugie sono passate.
Berlusconi a questo punto se la prende senza citarlo con il Sole 24 Ore, reo di avere indagato sulle proprietà immobiliari di Noemi e della sua famiglia. «La ragazza è stata bersagliata in modo incredibile dai giornali, si sono interessati perfino ai beni intestati a lei dalla famiglia. Tutto ciò è veramente vergognoso, mi vergogno per questi giornali nel leggere queste cose, oltretutto interamente inventate», ha detto.
Non va meglio all´inviata dell´Unita Claudia Fusani che gli ha chiesto se adesso non fosse il caso di rinunciare allo "scudo" e di farsi processare sul caso Mills. Si è vista rispondere: «Su questa cosa mi infurio. Lo posso giurare sui miei figli. Non perdo tempo a risponderle. Me ne vado o sennò se ne va lei. Questa cosa mi fa infuriare, è come se mi dicessero che non mi chiamo Silvio Berlusconi».

Repubblica 20.5.09
Dov’è la vergogna
di Ezio Mauro


Immerso fino al collo nello scandalo Mills, rispetto al quale le leggi ad personam lo hanno aiutato a fuggire la condanna ma non il disonore, impegnato a lottizzare in fretta e furia la Rai prima delle elezioni, ieri Silvio Berlusconi ha perso la testa insultando "Repubblica". è successo quando Gianluca Luzi, il nostro notista politico, gli ha chiesto durante una conferenza stampa se e come avrebbe risposto alle dieci domande che gli abbiamo rivolto sul caso del «ciarpame politico» sollevato dalla moglie con la denuncia dei suoi metodi di selezione delle candidate, i suoi comportamenti da «malato» che «frequenta minorenni».
«Vergognatevi», ha intimato il Presidente del Consiglio. Per aver colto le contraddizioni tra le sue versioni dei fatti e quelle degli altri protagonisti della vicenda? Per avergli chiesto di chiarirle? Per aver posto queste domande in pubblico? Per aver rotto il conformismo italiano che è l´altra faccia del cesarismo? O per non aver censurato la denuncia della moglie? Spiace per il premier ma le contraddizioni del potere e le domande che ne nascono sono lo spazio proprio del giornalismo. Che cosa intenda il Capo del governo quando dice che «se Repubblica cambiasse atteggiamento potremmo trovare un accordo» non è chiaro ma è impossibile.
Non cerchiamo «accordi», ma trasparenza. E in ogni caso, non cambieremo atteggiamento anche perché l´imbarazzo di Berlusconi e la sua ira spingono a cercarne le ragioni, come deve fare un giornale. Il premier dovrà rassegnarsi. Non tutto in questo Paese è «arrangiabile», risolvibile con qualche patto oscuro. Se è capace di togliere le sue contraddizioni dal tavolo, lo faccia davanti ai cittadini. Altrimenti, continueremo a dire che non può farlo, e a chiedergli perché.
Per il resto il Presidente del Consiglio ripete la sua invettiva abituale: ora rivendica una dimensione privata, dopo che anche la sua Prima Comunione viene spacciata dai suoi giornali come volantino elettorale. E insiste sull´odio «politico» e l´invidia «personale», come se non fosse possibile la critica dei cittadini che non hanno bisogno di odiarlo e non si sognano nemmeno di invidiarlo, perché gli basta giudicarlo.
«Gli italiani stanno con me, con me» ha urlato alla fine il premier. Intendendo che il numero dei consensi oltre al pieno diritto di governare gli conferisce anche l´immunità da critiche, osservazioni e domande. Non è così in nessun paese democratico, signor Presidente, s´informi, entrando finalmente in Occidente. Ma il fatto che lei lo pensi, per tappare la bocca ai giornali, ci fa davvero vergognare un po´.

Repubblica 20.5.09
Un leader in fuga dalla verità
di Giuseppe D’Avanzo


È giusto ricordare che, se Silvio Berlusconi non si fosse fabbricato l´immunità con la "legge Alfano", sarebbe stato condannato come corruttore di un testimone che ha protetto dinanzi ai giudici le illegalità del patron della Fininvest. Condizione non nuova per Berlusconi, salvato in altre occasioni da norme che egli stesso si è fatto approvare da un parlamento gregario.
Le leggi ad personam, è vero, sono un lacerto dell´anomalia italiana che trova il suo perno nel conflitto di interessi, ma la legislazione immunitaria del premier è soltanto un segmento della questione che oggi l´Italia e l´Europa hanno davanti agli occhi. Le ragioni della condanna di David Mills (il testimone corrotto dal capo del governo) chiamano in causa anche altro, come ha sempre avuto chiaro anche il presidente del consiglio. Nel corso del tempo, il premier ha affrontato il caso "All Iberian/Mills" con parole definitive, con impegni che, se fosse coerente, oggi appaiono temerari: «Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conoscevo neppure l´esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario» (Ansa, 23 novembre 1999, ore 15,17). Nove anni dopo, Berlusconi è a Bruxelles, al vertice europeo dei capi di Stato e di governo. Ripete: «Non conoscevo Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l´Italia» (Il sole24ore.com; Ansa, 20 giugno 2008, ore 15,47). È stato lo stesso Berlusconi a intrecciare consapevolmente in un unico destino il suo futuro di leader politico, «responsabile di fronte agli elettori», e il suo passato di imprenditore di successo. Quindi, ancora una volta, creando un confine indefinibile tra pubblico e privato. Se ne comprende il motivo perché, nell´ideologia del premier, il suo successo personale è insieme la promessa di sviluppo del Paese. I suoi soldi sono la garanzia della sua politica; sono il canone ineliminabile della «società dell´incanto» che lo beatifica; quasi la condizione necessaria della continua performance spettacolare che sovrappone ricchezza e infallibilità.
Otto anni fa questo giornale, dando conto di un documento di una società internazionale di revisione contabile (Kpmg) che svelava l´esistenza di un «comparto estero riservato della Fininvest», chiedeva al premier di rispondere a qualche domanda «non giudiziaria, tanto meno penale, neppure contabile: soltanto di buon senso. Perché questi segreti, e questi misteri? Perché questo traffico riservato e nascosto? Perché questo muoversi nell´ombra? Il vero nucleo politico, ma prima ancora culturale, della questione sta qui perché l´imprenditorialità, l´efficienza, l´homo faber, la costruzione dell´impero ? in una parola, i soldi ? sono il corpo mistico dell´ideologia berlusconiana» (Repubblica, 11 aprile 2001). Berlusconi se la cavò come sempre dandosi alla fuga. Andò a farsi intervistare senza contraddittorio a Porta a porta per dire: «All Iberian? Galassia off-shore della Fininvest? Assolute falsità».
La scena oggi è mutata in modo radicale. Se il processo "All Iberian" (condanna e poi prescrizione) aveva concluso in Cassazione che «non emerge negli atti processuali l´estraneità dell´imputato», le motivazioni della sentenza che ha condannato David Mills ci raccontano il coinvolgimento «diretto e personale» di Silvio Berlusconi nella creazione e nella gestione di «64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest». Le creò David Mills per conto e nell´interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), Mills mentì in aula per tener lontano Berlusconi dai guai, da quella galassia di cui l´avvocato inglese si attribuì la paternità ricevendone in cambio «enormi somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali», come si legge nella sentenza.
È la conclusione che ha reso necessaria l´immunità. Berlusconi temeva questo esito perché, una volta dimostrato il suo governo personale sulle 64 società off-shore, si può oggi dare risposta alle domande di otto anni fa, luce a quasi tutti i misteri della sua avventura imprenditoriale. Si può comprendere come è nato l´impero del Biscione e con quali pratiche. Lungo i sentieri del «group B very discreet della Fininvest» sono transitati quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che hanno ricompensato Bettino Craxi per l´approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi (se non si vuole dar credito a un testimone che ha riferito come «i politici costano molto? ed è in discussione la legge Mammì»). E ancora, il finanziamento estero su estero a favore di Giulio Malgara, presidente dell´Upa (l´associazione che raccoglie gli inserzionisti pubblicitari) e dell´Auditel (la società che rileva gli ascolti televisivi); la proprietà abusiva di Tele+ (violava le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell´86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l´acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; la risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma; gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. Sono le connessioni e la memoria che sbriciolano il «corpo mistico» dell´ideologia berlusconiana: al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c´è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.
Questo è il quadro che dovrebbe convincere Berlusconi ad affrontare con coraggio, in pubblico e in parlamento, la sua crisi di credibilità, la decadenza anche internazionale della sua reputazione. Magari con un colpo d´ala rinunciando all´impunità e accettando un processo rapido. Non accadrà. Il premier non sembra comprendere una necessità che interpella il suo privato e il suo ufficio pubblico, l´immagine stessa del Paese dinanzi al mondo. Prigioniero di un ostinato narcisismo e convinto della sua invincibilità, pensa che un bluff o qualche favola o una nuova nebbia mediatica possano salvarlo ancora una volta. Dice che non si farà processare da questi giudici e sa che non saranno «questi giudici» a processarlo. Sa che non ci sarà, per lui, alcun processo perché l´immunità lo protegge. Come sa che, se la Corte Costituzionale dovesse cancellare per incostituzionalità lo scudo immunitario, le norme sulla prescrizione che si è approvato uccideranno nella culla il processo. Promette che in parlamento «dirà finalmente quel che pensa di certa magistratura», come se non conoscessimo la litania da quindici anni. Finge di non sapere che ci si attende da lui non uno "spettacolo", ma una risposta per le sue manovre corruttive, i metodi delle sue imprese, i sistemi del suo governo autoreferenziale e privatistico. S´aggrappa al solito refrain, «gli italiani sono con me», come se il consenso lo liberasse da ogni vincolo, da ogni dovere, da ogni onere. Soltanto un potere che si ritiene "irresponsabile" può continuare a tacere. Quel che si scorge in Italia oggi ? e non soltanto in Italia ? è un leader in fuga dalla sua storia, dal suo presente, dalle sue responsabilità. Un leader che non vuole rispondere perché, semplicemente, non può farlo.

Repubblica 20.5.09
Il modello nordcoreano
di Curzio Maltese


Con quello che viene fuori ogni giorno, sarebbe curioso se gli italiani si scandalizzassero per le nomine Rai. Eppure anche in questo teatrino dell´abuso di potere, si stanno raggiungendo livelli d´inaudito squallore.
Oggi i vertici di viale Mazzini approveranno la prima rata delle nomine decise un mese fa a casa Berlusconi. A casa del proprietario di Mediaset. Magari negli intervalli fra una visita dell´avvocato Mills e un karaoke con Noemi. La prima tranche di nomine prevede l´arrivo al Tg1 di Augusto Minzolini da La Stampa e a Raiuno di Mauro Mazza, in quota ad An. Berlusconi per ora si ferma qui, al boccone più grosso, lasciando a Fini un pezzo dell´arrosto. La seconda rata di lottizzati è rimandata a dopo le elezioni di giugno, nella speranza di fare il pieno di voti e quindi di poltrone Rai, strappando anche le bricioline destinate all´opposizione.
Il Genio, l´Uomo dei Miracoli, il Premier Ingegnere, il Premier Generale, tanto per citare alcune definizioni del Minzolini, in uno dei suoi tanti splendidi esempi di reportage nordcoreano, insomma padron Berlusconi ha deciso così. Furbo com´è, avrà la sua convenienza. Piuttosto chiara, peraltro, anche a noi fessi. In vista delle elezioni, ottiene il massimo vantaggio. Intanto occupa militarmente il Tg1, avviato sulla gloriosa strada di Tele Pyongyang. Quindi terrorizza i superstiti da un lato e dall´altro spinge gli altri aspiranti direttori ad aumentare il grado di piaggeria nei confronti del capo. Il che per molti di loro non è neppure semplice. A meno di non presentarsi alle serate di Porta a Porta direttamente da uomini sandwich elettorali. Oppure tenere pubblici comizi contro Veronica Lario, come del resto hanno già fatto quasi tutti, con bieca ingratitudine. Non fosse per l´alt di Veronica, l´anziano leader ormai annoiato dai cortigiani avrebbe già nominato al posto loro un battaglione di veline e letteronze, studiosissime di Heidegger s´intende, più un paio di Oba Oba a Rai International.
Di fronte a un simile disprezzo per la tv di Stato, sarebbe lecito e normale in altri paesi l´incatenamento di massa ai cancelli di viale Mazzini da parte di dirigenti, leader politici, sindacalisti, maestranze in genere. È invece difficile anche soltanto ascoltare una voce critica. L´unica a bucare l´assordante silenzio è stata quella di Sergio Zavoli, presidente della commissione di vigilanza parlamentare, uno che vuole davvero bene alla Rai. Una bella voce, con il tono giusto, fra l´indignato e l´avvilito. La Rai che sta uscendo da queste bulimiche riunioni di potere a casa Berlusconi, sostiene Zavoli, è una Rai dove sono negati il pluralismo, il merito, la decenza. «Le nomine non tengono conto della ricchezza culturale dell´azienda e del Paese». Si può aggiungere che negano l´identità stessa della Rai. Nel bene o nel male, la tv di Stato ha sempre rispecchiato il Paese, con le sue piaggerie e servilismi, ma anche con le oasi di intelligenza, coraggio, talento. Nella Rai fatta a casa Berlusconi non vi saranno neppure le oasi e i nuovi direttori dovranno accollarsi un compito di pulizia e polizia, la chiusura delle poche finestre informative superstiti, i programmi di Gabanelli, Iacona, Fazio e Santoro. Per approdare a Tele Pyongyang, all´elogio permanente del capo e del suo governo.

il Riformista 20.5.09
Non chiedete a Bertinotti perché la sinistra ha perso
di Stefano Cappellini


Disfatte. Nel suo libro offre una spiegazione che è insieme uno scoop («Avevamo perso da quarant'anni») e un alibi per non affrontare gli errori recenti: l'idillio con Veltroni, la sciagurata invenzione dell'Arcobaleno, la battaglia per la presidenza della Camera anziché quella per trasformare Rifondazione in una vera forza di governo.

Alla lettura dell'ultimo libro di Fausto Bertinotti, scritto con Ritanna Armeni e Rina Gagliardi (Devi augurarti che la strada sia lunga, Ponte alle grazie, pp. 229, 14 euro) ci si può accostare in due modi. Il primo è concentrarsi a godere le doti di amabile conversatore dell'ex presidente della Camera, la sua affabulazione per simboli e immagini, quasi una scansione cinematografica di mezzo secolo di storia privata e pubblica, abilmente sollecitata dalle domande ora incalzanti ora invitanti di Armeni e Gagliardi, giornaliste ma anche sodali politiche (la prima è stata a lungo portavoce di Bertinotti, la seconda senatrice di Rifondazione comunista). Questa è la dimensione che esalta i racconti della Milano operaia del dopoguerra, il ritratto di sindacalisti come Aventino Pace ed Emilio Pugno, i giorni dell'occupazione di Mirafiori e le sconfitte della sinistra anni Ottanta, fino alla ricca aneddotica sugli anni da leader della minoranza interna alla Cgil, che spinsero poi Bertinotti alla segreteria del Prc (1994) e a trasformare un partito residuale, zavorrato dalla vetusta immagine del suo principale fondatore, Armando Cossutta, in una forza vitale e capace di svolte storiche (ripudio assoluto dello stalinismo e del leninismo, adozione della nonviolenza e altro ancora). Fin qui, insomma, una pacchia per il lettore.
I guai vengono dopo. Quando Bertinotti deve fare i conti con il passato più recente. Se fino ai resoconti datati anni Novanta abbondano personaggi e retroscena (la resa dei conti nel sindacato dopo la vittoria Fiat del 1980, gli scontri con Bruno Trentin, il rapporto con Cossutta) - si insegue la «materialità» degli eventi, come direbbe l'autore - nell'ultima parte invece, quella che conduce al disastro elettorale del 14 aprile 2008, l'incedere si fa impersonale, concettuale quando non concettoso, e pare che gli accadimenti siano guidati solo da forze superiori. L'eccezione è lo sferzante giudizio sulla parabola politica di Romano Prodi, «spregiudicato uomo di potere». Il resto è Grande Storia: «Abbiamo perso - riflette Bertinotti in chiusura di libro - perché abbiamo prolungato una fase storica che invece era finita, abbiamo pensato di riformare qualcosa che come tale non era più riformabile». Il Novecento, e con esso il comunismo, qualsiasi comunismo, era finito con la Primavera di Praga, intende l'ex subcomandante.
Bertinotti ha probabilmente ragione. Ma Achille Occhetto - si dovrebbe aggiungere a questo punto - se n'era accorto vent'anni prima (quando anche Bertinotti, inizialmente, era entrato nel Pds...), perché, al netto di fallimenti ed errori personali, la Quercia nacque proprio su questo presupposto: l'irriformabilità del comunismo. Quel che poi non si capisce è cosa c'entri il ritardo sulla Primavera di Praga col 3 per cento raccolto dalla Sinistra Arcobaleno, col pasticcio di un cartello elettorale messo su in fretta e furia contraddicendo anni di dichiarazioni bertinottiane («La sinistra non dovrà essere la sommatoria di sigle e apparati dirigenti»), con l'incapacità di Rifondazione di ripensarsi forza di governo, con l'errore di puntare alla presidenza della Camera anziché chiedere per il suo partito ministeri adeguati al proprio peso politico, dato che nel 2006 - nonostante i trentotto anni di ritardo su Praga - il Prc era uscito premiato dalle urne con un roboante 7,5 per cento e poteva permettersi di incassare, anziché accontentarsi di un ministero senza portafoglio in cambio del leader sullo scranno più alto di Montecitorio. La spiegazione della disfatta concessa da Bertinotti è al tempo stesso uno scoop (io vi dico che eravamo sconfitti da quarant'anni, e non ce ne eravamo accorti) e un gigantesco alibi (un po' l'effetto di chi giustifichi gli incidenti automobilistici con l'invenzione della ruota: ineccepibile, ma un tantino parziale). Lo stesso Bertinotti si rende conto del rischio, tanto che alle sue intervistatrici premette che la sua risposta «può sembrare autoconsolatoria».
Resta dunque al lettore la curiosità (politica) di capire cosa si dicessero Bertinotti e Walter Veltroni in quelle lunghe telefonate in cui progettavano la separazione consensuale delle due sinistre (che adesso, avverte l'autore, «sono morte entrambe»), di sapere cosa passasse per la testa dell'uomo quando iniziò una campagna elettorale da candidato premier annunciando che dopo il voto si sarebbe ritirato, di capire a chi sia venuto in mente, in un'era in cui il Pd e persino Silvio Berlusconi si dotavano di un partito vero, inventare l'Arcobaleno e prolungare la triste stagione della politica delegata alla botanica e al naturismo. Piccole e meschine questioni, per carità, in confronto al ritardo sulla Primavera di Praga, ma su cui tanti lettori avrebbero voluto sapere di più, e magari anche ascoltare dal leader autocritiche meno indulgenti. Perché augurare al viandante di sinistra che la strada sia lunga è una crudele realtà. Nascondergli il Tuttocittà, è un'altra cosa.

Adnkronos 19.5.09
Cinema: Cannes, l'Osservatore Romano loda 'Vincere' di Bellocchio


Roma, 19 mag. - (Adnkronos) - L'Osservatore Romano esprime giudizi molto positivi sul film 'Vincere' di Marco Bellocchio in concorso a Cannes. ''Lasciati i campi notturni dove ha scatenato oscure visioni del Sabba, abbandonata l'aula dove ha tenuto una mistificatoria ora di religione, ancora con i pugni saldamente in tasca, Marco Bellocchio - scrive tra l'altro Luca Pellegrini in un articolo che uscira' domani - unico regista italiano invitato a concorrere al festival di Cannes, provoca ancora una volta la storia italiana - come gia' aveva fatto con la tragedia di Aldo Moro - piegandola al senso e al modo, non sempre limpido, del suo fare cinema, ma questa volta non privo di forte suggestione. Racconta liberamente, dopo averne visto una rigorosa ricostruzione televisiva a firma di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli, il caso della "moglie segreta" del Duce, una innocua e ingenua trentina del 1880 risucchiata poi nei gorghi del potere e della presunta follia, fino a essere triturata nei manicomi di Pergine e di San Clemente a Venezia, soccombente ad appena 57 anni di eta', dopo innumerevoli battaglie, caparbie e velleitarie''.
''I fatti - scrive ancora Pellegrini -sono continuamente riconvertiti in immagini, immagini impressive, collegate tra loro attraverso il sofisticato montaggio di Francesca Calvelli, sostenute dalla bella musica di marca minimalista di Carlo Crivelli e dalla raffinata fotografia di Daniele Cipri'. La disperazione che accompagna i successivi tragitti di allontanamento, con i silenzi autoritari di Benito, il calvario della madre, il rapimento del figlio e l'imposizione di una nuova identita', il teatro delle tante ipocrite figure che condannano e consolano - quelle che Bellocchio sa sempre mettere in rilievo pur nella parsimonia dello spazio - innesca una piu' aerea veduta, riflessi metastorici e onirici nei quali Ida si cala, si confonde, si perde''.
''Ed e' stato giusto scegliere - conclude l'articolo - il volto di Giovanna Mezzogiorno, assolutamente in linea con questi diversi registri espressivi. Al suo fianco Filippo Timi sostiene spiritato il Benito delle diverse eta' e tutti gli altri attori offrono un'ottima partecipazione corale alla tragedia delle persone e dei tempi. Il vittorioso dittatore verra' spremuto dalla storia, come spremuto vediamo alla fine il suo busto nei giorni della caduta. Bellocchio immagina e spera ancor "bello" il Paese nel quale sono suonate, e le abbiamo ascoltate