domenica 17 maggio 2009

Repubblica 17.5.09
La guerra dichiarata al nemico migrante
di Eugenio Scalfari


IL TEMA dei migranti domina su tutti gli altri l´attenzione degli italiani e delle istituzioni che li rappresentano. Se ne occupa il Parlamento, ne legifera il governo con decreti e voti di fiducia, ne discutono le forze politiche e i "media". La Chiesa si è mobilitata in forze e il presidente della Repubblica è anche lui intervenuto per condannare tentazioni di xenofobia e una retorica che si fa un vanto di chiudere la porta in faccia ad un popolo di disperati che dall´Africa e dall´Oriente tenta di raggiungere l´Europa, il continente del benessere e della gioia (così lo vedono), dei lustrini e della vita facile. Insomma Bengodi.
Questo tema infiamma la campagna elettorale in corso ancor più (ed è tutto dire) del conflitto che oppone Berlusconi a sua moglie e che al di là degli aspetti privati mette in causa la credibilità del presidente del Consiglio e la sua reticenza di fronte a questioni delicatissime e tuttora rimaste senza risposta.
La discussione sui barconi affollati di poveretti «senza arte né parte» secondo la definizione elegante del presidente del Consiglio, investe i problemi della sicurezza, del lavoro, della guerra tra poveri, della criminalità organizzata, ma anche l´etica, la solidarietà, la lotta contro le discriminazioni. Insomma un viluppo di problemi che non è semplice districare ma che incide direttamente sulla sensibilità e sulle legittime paure degli italiani, una volta tanto definibili come indigeni di fronte all´ondata di stranieri che si riversa sui nostri confini marittimi e terrestri.
In questo clima, il governo risponde brutalmente alle critiche dell´Onu, e il ministro La Russa arriva a definire l´Unhcr un´organizzazione "disumana e criminale". D´altronde la Lega e la destra hanno fatto di questo tema il cavallo di battaglia della campagna elettorale di un anno fa, hanno scommesso sulla paura e l´hanno enfatizzata come più potevano. Dovevano dunque pagare il debito contratto con i loro elettori alla vigilia di un altro appuntamento con le urne. Di qui il "respingimento" dei barconi in alto mare, che ha tutte le caratteristiche di uno spot pubblicitario accolto con soddisfazione da una vasta platea di italiani intimoriti e incattiviti dall´arrivo dei barbari, invasori delle nostre terre e della nostra tranquillità.
C´è un punto di equilibrio tra queste due opposte rappresentazioni della realtà? C´è una soluzione che salvaguardi valori e interessi che sembrano inconciliabili?
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Se trionfasse la ragionevolezza sull´emotività non sarebbe difficile trovare quel punto di equilibrio, ma sono molti gli ostacoli che vi si frappongono.
Il primo ostacolo sta nell´interesse politico della Lega e del partito che si è dato il nome (quanto mai incongruo) di Popolo della libertà. Questo interesse mira a mantenere alto il livello di emotività di un´ampia parte del paese e se possibile ad alzarlo sempre di più. Bisogna distrarre l´opinione pubblica da altri temi incombenti e non favorevoli al governo: la crisi economica, la distruzione crescente di posti di lavoro, la perdita di competitività del sistema-Italia, il terremoto d´Abruzzo e i disagi che ne derivano e che sono ancora lontani dall´essere soddisfatti, la cicatrice tutt´altro che rimarginata della credibilità pubblico-privata del premier.
Bisogna trovare un nemico esterno sul quale concentrare la rabbia della gente ed eccolo pronto, quel nemico: è il popolo dei barconi. Le guerre servono a indicare un bersaglio infiammando l´opinione pubblica patriottarda e questa è una guerra. A questo serve il "respingimento", a questo servono le ronde, a questo serve aver istituito il nuovo reato di immigrazione clandestina.
In realtà il 90 per cento del popolo dei migranti entra in Italia e in Europa dai confini dell´Est europeo, l´immigrazione dal mare non supera un decimo dei flussi d´ingresso, ma respingere i barconi con la marina da guerra è molto più teatrale, fa scena, slega gli istinti xenofobi di chi assiste allo spettacolo dal proprio tinello guardando la televisione.
Si dice: quella gente «senza arte né parte» è ingaggiata dalla mafia, trasportata dalla mafia, e da essa controllata; viene da noi per delinquere, ricondurli da dove sono partiti è dunque un nostro diritto, anzi un dovere verso noi stessi e verso la Comunità europea. Ma manca la prova che i migranti dei barconi siano collusi con la mafia. Vengono dai luoghi più disparati, dal Sudan, dall´Eritrea, dall´Etiopia, dalla Nigeria, dal Maghreb, dall´Africa equatoriale. Hanno attraversato boscaglie, foreste, deserti. Inseguono un sogno e affrontano la morte e le sevizie per mesi e mesi. Collusi con la mafia? Trasportati dalla mafia degli scafisti, questo sì. E poi carne da macello di tutte le violenze. E per finire anche con la nostra.
Non è respingendo i barconi che la nostra sicurezza migliorerà. Non è con le ronde. Non è con la vessazione e con le denuncie.
Bossi ha detto: io parlo con la gente e la gente vuole questo. è vero, Bossi parla con la gente e trova consensi. Ma si vorrebbe sapere qual è la gente con la quale parla il leader della Lega.
Certo, l´emotività contro il nemico migrante si estende. è un buon segno? Non direi. è un «trend» verso il peggio. I leader politici che avessero il senso della responsabilità dovrebbero scoraggiarlo. Se invece ne godono, se si fregano le mani e alzano le dita a V come simbolo di vittoria e come fa il nostro ministro dell´Interno compiono un pessimo servizio verso l´interesse nazionale. Giorgio Napolitano, quando manifesta preoccupazione per la retorica sull´immigrazione parla proprio di questa irresponsabilità. Sarà un caso, ma il Capo dello Stato riscuote fra l´80 e il 90 per cento di consenso nazionale. Con chi parlano Bossi, Maroni, Calderoli?
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Quel "trend" irresponsabile e così irresponsabilmente alimentato lambisce anche persone insospettabili. Mi hanno molto stupito e preoccupato alcune recenti dichiarazioni del sindaco di Torino, uno dei leader del Partito democratico. Ha detto che respingere i barconi non viola il diritto internazionale ed ha ragione. Ha aggiunto che il "respingimento" è autorizzato dall´Unione europea e fu adottato nel 1997 da Prodi e D´Alema per bloccare il flusso migratorio dall´Albania. Ha ragione anche su questo punto ma con una piccola differenza: in Albania c´erano anche la polizia e i militari italiani, i centri di raccolta erano sotto il nostro costante controllo e non sono paragonabili con quanto accade nell´inferno dei centri di raccolta libici.
Ma c´è un punto che più mi incuriosisce nelle parole di Chiamparino. Il sindaco di Torino propone di concentrare gli sbarchi verso due porti da indicare dell´Italia meridionale. Sbarchi settimanali, autorizzati a trasportare i migranti regolari o regolarizzabili. Che cosa significa regolari o regolarizzabili? Vuole dire quelli chiamati da un datore di lavoro italiano? Quelli non hanno bisogno di imbarcarsi sui barconi degli scafisti, possono prendere navi di linea e arrivare dove vogliono. Di chi sta parando Chiamparino? Qualche spiegazione sarebbe necessaria. Chi è chiamato non è clandestino. Chi è clandestino non è regolarizzabile e viene respinto in alto mare. Esiste una terza categoria «chiampariniana»? Ed anche «maroniana» e persino «berlusconiana» che noi non conosciamo? è una nostra lacuna informativa. Allora per favore colmatela.
Ho letto che Maroni sta per riproporre il tema delle badanti. Pare ci siano molte badanti clandestine. La polizia le scoverà e saranno rapidamente rimpatriate.
Chiamparino è d´accordo? Spiegatevi perché le vostre parole e le vostre proposte sono molto confuse.
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Da qualche giorno i giornali fanno anche il nome di Piero Fassino tra coloro che dissentirebbero dal segretario del Pd sul tema dell´immigrazione. Fassino è persona che dice sì oppure no con grande chiarezza; non ha in mente altro che l´interesse pubblico e non quelli di partito e di bassa politica. Perciò gli ho chiesto direttamente quale sia la sua posizione in proposito.
Mi ha detto: 1) il "respingimento" è consentito dall´Unione europea. 2) Fu sperimentato con successo per stroncare il traffico di persone in provenienza dall´Albania. 3) L´Albania era sotto controllo della Nato e in particolare dell´Italia. 4) La situazione con la Libia è completamente diversa. 5) I centri di raccolta libici dovrebbero esser messi sotto controllo internazionale; riportare il popolo dei barconi in quei centri significa riconsegnarli ad un sistema di vessazioni crudeli. 6) Il governo italiano dovrebbe chiedere a quello libico un diritto di ispezione dei centri e condizionare a quel diritto l´erogazione delle risorse finanziarie che l´Italia ha promesso alla Libia.
Infine Fassino ha aperto un altro capitolo che a me pare di grande importanza: qual è la politica del governo italiano verso gli immigrati regolari che da anni vivono e lavorano nel nostro paese? è una politica di accoglienza e di integrazione o invece è il suo contrario?
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Quella politica in realtà è un altro ostacolo enorme che si frappone al raggiungimento d´un equilibrio sull´intera questione dell´immigrazione e della sicurezza.
Gli immigrati regolari sono oggi 4 milioni di persone ai quali vanno aggiunti i cittadini europei provenienti dall´Est (romeni, polacchi, ungheresi eccetera).
Le previsioni sui flussi e sulla demografia ci dicono che tra dieci anni gli immigrati «regolari» saranno il 10 per cento dei residenti in Italia. Nel 2020 saranno il 15. Più o meno in tutta Europa sarà quello (e anche più) il livello degli immigrati e figli di immigrati. L´Italia, come già la Francia e la Gran Bretagna, sarà un paese multietnico, multiculturale, multireligioso. Non è un´opinione, è un fatto ed esiste già ora.
Ha ragione Fassino di porre il problema: qual è la nostra politica per gestire questo fenomeno? Del resto anche Fini la pensa allo stesso modo e pone le stesse domande.
Il premier ha già risposto: l´Italia non è un paese multietnico, il governo non vuole che lo diventi e non lo diventerà. Infatti le leggi in corso di approvazione ed il modo con le quali sono già preventivamente fin da ora gestite va nella direzione voluta da Berlusconi, Maroni e naturalmente Bossi.
Il risultato sarà questo: l´estensione della cittadinanza sarà sempre più lenta e contrastata; l´accoglienza istituzionale incerta e insoddisfacente; i rapporti tra le comunità di immigrati e i cittadini italiani saranno di diffidenza e non di integrazione, specie nelle zone di più intensa presenza cioè nel centro nord, la parte più ricca e produttiva del paese.
Questa situazione è quanto di peggio ci si prepara.
Non serve a nulla inseguire su questo terreno leghisti e berluscones. A questa deriva bisogna opporsi, tutelando la sicurezza, non soffiando sulla paura, denunciando il mancato rispetto dei diritti civili nei paesi di provenienza a cominciare dalla Libia. Infine coinvolgendo l´Unione europea in una politica europea dell´immigrazione. Si può fare, però sembra un sogno ad occhi aperti.

l'Unità 17.5.09
Il prossimo giorno della memoria
Tra vent’anni si ricorderà la caccia ai migranti
Gli studenti delle scuole sapranno di Bossi Maroni, Cota e dei complici della maggioranza
di Furio Colombo


Si conclude oggi una settimana in Parlamento di dibattiti, scontri verbali, accuse, polemiche, incroci di dichiarazioni sarcastiche e ostili. È la settimana in cui un impenetrabile, misterioso, opaco voto di fiducia ha coperto un impenetrabile, misterioso, opaco “pacchetto sicurezza”, che significa soprattutto persecuzione dei più poveri, dei più deboli, degli scampati al terrore politico e al rischio di morire nel deserto o nel mare.
Alcuni di noi, in Parlamento, hanno definito il cosiddetto “pacchetto sicurezza” un delitto. Ha come mandante la lugubre coppia Bossi-Maroni, come esecutore il ricattato presidente del Consiglio. Braccio armato della legge-sentenza contro gli immigrati sarà la polizia libica di un governo dispotico che - allo scopo - è stato dichiarato alleato militare di questa Italia. In questo modo ci siamo abbassati al livello del vendicativo dittatore nord africano Gheddafi.
Invano si è mobilitato contro questo delitto il Pd, insieme con le altre opposizioni (Italia dei Valori e Udc). Invano, nonostante il discorso di sdegno e condanna di Franceschini, invano nonostante la denuncia della xenofobia italiana da parte del Presidente della Repubblica. Invano non solo per la sproporzione di forze alle Camere. Invano non solo perché il vagone piombato del voto di fiducia impedisce possibili spaccature a destra.
Invano, purtroppo, a causa di inspiegabili errori commessi dal Pd proprio in Parlamento, proprio nei confronti della Lega: votare a favore del trattato militare con la Libia, un accordo che costa all’Italia miliardi di dollari. E che costerà la vita di molti migranti, a mano a mano che i disgraziati verranno riconsegnati (si dice “respingimento in mare”) alla Libia. È un trattato firmato e sottoscritto da Berlusconi (come lui stesso rivendica) e approvato da tutto il Parlamento, con l’inspiegabile approvazione del Pd, che ha offerto un grande aiuto alla Lega. È stato il primo pezzo di un brutto gioco. Il secondo errore è stato partecipare al “miglioramento” della legge sul federalismo fiscale.
Perché dare una mano alla cucitura di quel bandierone leghista? Purtroppo il Pd ha collaborato alla legge. E con il voto finale di mite astensione il Pd si è messo in un limbo di ridotto peso politico. Ma i due errori non si faranno dimenticare. La Libia ritorna nelle notizie con la sua faccia inumana. Il federalismo leghista si rivelerà inattuabile e iniquo.
Si potrebbe fare ancora una volta un elenco della deliberata e barbara crudeltà che segna questo maledetto “pacchetto sicurezza” che infierisce con puntigliosità razzista contro donne e uomini, mandati allo stupro sistematico e alla schiavitù senza via di riscatto in Libia. Lo stupro sistematico, ci ha detto il giornalista Viviano (Linea Notte, Tg3, 11 maggio) in Libia è una orrenda pratica di potere assoluto. Coinvolge senza pietà e senza controlli bambine e bambini.
Il “respingimento in mare” è un gesto identico, nel suo orrore, al respingimento delle navi di ebrei europei in fuga che nessun porto del mondo voleva accettare. Ci sarà un “giorno della memoria” fra dieci o vent’anni, il giorno in cui si ricorderà la spietata caccia ai migranti. Gli studenti delle scuole sapranno tutto di Bossi, Maroni, Cota, dei loro complici zitti di tutta la maggioranza, dell’incredibile tolleranza dei partiti di opposizione, che pur votando contro, hanno voluto confermare la loro disciplinata accettazione dei fatti, come se le ronde non fossero un colpo di Stato, come se il “reato di clandestinità” non fosse un’invenzione feroce per perseguitare donne e bambini, come se il “respingimento in mare” non fosse un atto contro la civiltà che ha invano provocato l’indignazione della Chiesa e la protesta del Segretario generale dell’Onu. Ma in Italia adesso il compito è perseguitare gli immigrati negando loro ogni diritto, usando persino la marina da guerra italiana per il delitto di “respingimento” che vuol dire riconsegnare al torturatore libico coloro che erano appena fuggiti. Purtroppo un Paese spaventato privo di una forte opposizione, sta al gioco. E tutto ciò nonostante la Chiesa, la Caritas, la comunità di Sant’Eigidio, il Cardinale Tettamanzi, apertamente deriso, l’opposizione accanita dei Radicali di Pannella-Bonino. Un giorno si dovrà dire nelle scuole, che molti italiani hanno accettato di diventare i volonterosi carnefici di Bossi e Maroni. Nelle scuole si leggerà la testimonianza di un ex ministro dell’Interno italiano, Beppe Pisanu: «Esistono presso la Commissione Europea e la Nato immagini che documentano la carneficina nel mare. Quelle immagini raccontano di migliaia di cadaveri che galleggiano nelle acque del Mediterraneo. E, ancora di più, di cadaveri lungo il deserto». Nessuno potrà dire, in quel “giorno della memoria”: io non sapevo.

Repubblica 17.5.09
La democrazia del privato
di Ilvo Diamanti


È comprensibile lo sconcerto pubblico suscitato dalle vicende personali del premier. Al di là del "merito" (si fa per dire), hanno indotto a riflettere sul significato stesso della politica e della democrazia.
Al proposito, Barbara Spinelli, sulla Stampa, ha denunciato l´intreccio perverso che lega i fatti personali e la politica. Sottolineando che «non si vorrebbe saper nulla dell´uomo politico se non quel che riguarda il bene comune». Le ha fatto eco Eugenio Scalfari, osservando, opportunamente, che la «tenda divisoria» tra pubblico e privato in democrazia può sussistere: sottile. Ma, ha aggiunto, scompare nei regimi autoritari. In realtà, è scomparsa anche nei regimi democratici. Da tempo. Anche dove il conflitto di interessi non si presenta esplicito come in Italia. Che costituisce, semmai, un laboratorio, come si è soliti dire. Dove i processi avvengono più violenti che altrove. Ma non un´anomalia. Perché - ormai da tempo - in molti paesi occidentali la politica si è personalizzata, insieme ai partiti. I quali hanno rimpiazzato l´ideologia con la fiducia nella personalità del leader; l´organizzazione e la partecipazione con il marketing e la comunicazione. Bernard Manin ha parlato, a questo proposito, di «democrazia del pubblico». Dove il «pubblico» non si riferisce a «ciò che è di interesse comune». Né allo spazio del dibattito sui temi (appunto) pubblici creato e occupato dagli intellettuali. Il «pubblico» evoca, invece, il cittadino-spettatore di fronte alla «messa in scena della politica» (per parafrasare Balandier, quando definisce i rituali del potere nelle società pre-moderne). Interpretata dai leader. Massimo Gramellini, commentando la performance televisiva di Berlusconi nel salotto di Bruno Vespa, ha parlato (anch´egli sulla Stampa) del «primo statista pop che abbia mai calcato il Palcoscenico della Storia». Osservazione spiritosa e acuminata. Ma anch´essa imperfetta.
Berlusconi, infatti, non è il «primo» ad aver scelto la strada della «politica pop» (titolo di un interessante saggio di Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini, in corso di pubblicazione per «il Mulino»). Intanto, perché, non solo in Italia, la politica si è da tempo travasata dal territorio e dalla società sui media. E, proprio per questo, si è rapidamente integrata nei moduli e nei linguaggi pop della televisione.
Delineando format e generi sempre più ibridi: «infotainment», «politainment». Miscela di informazione, intrattenimento e politica. Dove i fatti privati degli uomini pubblici fanno spettacolo e audience. Con le parole di Edmondo Berselli: «Nei talk show politici a metà programma accanto a D´Alema, Amato, Rutelli e Berlusconi possono entrare in studio Anna Falchi, Valeria Marini, Alba Parietti, Sabrina Ferilli (.); una conferma spettacolare che la televisione è fungibilità assoluta. L´importante è esserci».
Dunque, non è solo la politica ad aver appreso e imitato il linguaggio e il format dei media. è vero anche l´inverso. I media hanno adeguato i loro format e i loro linguaggi alla politica. La satira è entrata dovunque. Anzi: ambisce a fare «informazione vera». Mentre i programmi di informazione politica hanno accolto i comici, gli attori, gli esperti di vario genere e tipo. Peraltro, l´ingresso in politica di personaggi dello spettacolo e dei media (attori, giornalisti, ecc.) è frequente. (E non nuovo). Tuttavia, si assiste anche al passaggio inverso. Dalla politica allo spettacolo. Irene Pivetti: da presidente della Camera ai reality choc, alle danze sotto le stelle. Vladimir Luxuria. Dallo spettacolo alla Camera di nuovo allo spettacolo. L´Isola dei famosi. Reality di successo, che, peraltro, ha vinto.
Da questo ragionamento possiamo trarre alcune considerazioni sul cambiamento dei sistemi democratici. Le abbozziamo in ordine sparso.
1. Se il rapporto fra politica e media è così stretto (soprattutto in Italia) i media (e la televisione) diventano luoghi di lotta politica. E la televisione (si pensi alle nomine) un campo di battaglia permanente.
2. La distanza fra cittadino e spettatore si sta assottigliando sempre più. L´opinione pubblica è sovrana. Identificata dall´intreccio fra media e sondaggi. Principio di legittimazione politica e istituzionale sempre più importante. Anche perché agisce in tempo reale. La democrazia (parafrasando Renan sulla nazione) diventa, così, un plebiscito, o meglio: un sondaggio di ogni giorno. Anzi: ogni ora. Pubblicizzato dai media, testimoniato dai giornalisti, legittimato dagli esperti. Ispirato da chi li fa, commissiona, pubblica, commenta, ecc.
3. Se nella scena pubblica i ruoli sono fungibili, se il politico canta e cucina oppure discute di etica e della finanziaria con la velina, il cuoco e il cantante, perché scandalizzarsi se il cuoco, il cantante e perfino la velina ambiscono a calcare la scena politica? Ad andare in Parlamento?
4. Per la stessa ragione, la pretesa di ridurre le vicende personali e familiari dei leader politici a «fatti privati» e dunque privi di interesse pubblico, per questo, è insostenibile. Tanto più nel caso del premier, che ha fatto della «politica pop» (e del populismo mediatico) la base del suo successo: negli affari e in politica.
5. D´altronde, la «democrazia del pubblico» si sta traducendo in «democrazia del privato». Dove i fatti personali e familiari diventano di pubblico interesse. Non perché siano di interesse pubblico ma perché interessano al pubblico.
6. Questa tracimazione del privato nel pubblico, secondo alcuni studiosi (Crouch e Mastropaolo, fra gli altri), evoca l´avvento di una «post-democrazia». Una democrazia minima. Ridotta al voto. Dove il cittadino esercita il suo potere (?) una volta ogni cinque anni. Per trenta secondi. Poi si siede davanti alla Tv. E guarda. Al più: risponde a un sondaggio.
Noi ci limitiamo a osservare la singolarità del caso italiano anche nell´era della «democrazia del privato». Dove il governo, il partito e i media sono tutti e tre personalizzati. Tutti e tre riassunti in una sola persona. La stessa.

Repubblica 17.5.09
"Faccia per Noemi ciò che non ha fatto per me"
La madre parla al Times. "Speriamo che il premier possa aiutarla"
Il quotidiano torna sulla vicenda, riprendendo l'inchiesta di Repubblica
di Enrico Franceschini


LONDRA - Nello spazio di una settimana, gli inviati del "Times" di Londra riescono a intervistare non una ma ben due volte Noemi Letizia e la sua famiglia. Nella prima puntata, Noemi aveva detto a una cronista del quotidiano londinese che Silvio Berlusconi non è suo padre: «Assolutamente no», aveva risposto lei a una domanda in merito. Nella seconda puntata, apparsa ieri, al centro dell´articolo di Richard Owen, corrispondente da Roma dell´autorevole giornale, ci sono i genitori della ragazza, il padre Elio e la madre Anna. Ed è una dichiarazione di quest´ultima, citata da Owen, che è subito rimbalzata su tutte le agenzie di stampa italiane: «Spero che Berlusconi possa fare per mia figlia quello che non ha potuto fare per me». Ovvero, lascia capire il giornalista, che le faccia fare la carriera che non ha fatto lei, dopo un´apparizione, a 19 anni, quando era già sposata con Elio, in uno show di una stazione televisiva locale.
Il reporter del "Times" afferma di avere fatto qualche indagine su come e quando l´attuale presidente del Consiglio conobbe la madre di Noemi. Dal certificato di nascita, evidentemente verificato nel suo comune di residenza, risulta che Noemi è figlia di Benedetto (detto Elio) Letizia ed è nata nell´aprile 1991. La madre Anna, scrive Owen, sostiene di averla concepita nell´agosto 1990. E in quel periodo, osserva il giornalista, Berlusconi era spesso a Roma, per assicurarsi che il parlamento «approvasse la legge che avrebbe permesso la creazione del suo impero mediatico». Le circostanze precise del primo incontro con Berlusconi, nota il corrispondente del "Times", Anna Palumbo in Letizia però non le rivela.
Al signor Letizia, Owen pone una domanda molto diretta. Lei è stato l´autista di Craxi? «No», risponde il padre di Noemi. E allora perché Berlusconi ha detto che vi siete conosciuti quando lei era l´autista di Craxi? «A Berlusconi vengono attribuite tante cose che non ha detto», risponde Elio Letizia. Owen gli fa notare che la frase in questione è stata detta dal premier, secondo l´agenzia Ansa, alle 16 e 34 del 29 aprile. Per tutta risposta ottiene da Elio Letizia un´alzata di spalle, una stretta di mano, un sorriso. Può darsi, conclude il reporter, che ci siano semplici risposte per tutte le domande, «ma il primo ministro si è finora rifiutato di darle». Perché, si domanda per esempio Owen, Noemi ha detto al collega Angelo Agrippa del "Corriere del Mezzogiorno" che Berlusconi l´ha "tirata su", che le dava costosi regali e che lei lo ha visitato spesso a Roma, a Milano, in Sardegna? «Silvio deve ancora spiegare un po´ di cose», dichiara al "Times" Giulio Di Donato, un veterano della politica napoletana che fu strettamente legato a Craxi.
Il quotidiano londinese, che venerdì aveva ripubblicato le dieci domande di "Repubblica" a Berlusconi, ieri ha dedicato due pagine alla vicenda, pubblicando tra l´altro un estratto dell´editoriale scritto venerdì del direttore di "Repubblica", Ezio Mauro, in risposta a Palazzo Chigi. Privatamente, i colleghi del Times ci dicono di essere rimasti sorpresi dalla facilità con cui un giornale inglese come il loro ha fatto uno scoop in Italia, intervistando la famiglia Letizia, e di essere stupiti dall´assenza di giornalisti italiani attorno all´abitazione di Noemi. «Se una ragazza di 18 anni fosse sospettata di essere l´amante o la figlia segreta di Gordon Brown, ci sarebbe una carovana di fotografi, cameramen e cronisti attorno a lei e alla sua famiglia dovunque andassero», confida un caporedattore del quotidiano londinese. «Strano che in Italia non succeda».

Repubblica 17.5.09
E oggi la campagna degli atei trasloca dagli autobus ai giornali
Spazi sui quotidiani dopo la censura a Genova. "Libertà di parola per tutti"
di Alessandra Retico


ROMA - C´era una volta l´ateobus. Ma è stato fermato, revisionato e infine rottamato. Adesso c´è una pagina di pubblicità comprata sui giornali. Anche su questo quotidiano, proprio oggi. Dice: «Per farlo circolare, abbiamo dovuto metterlo sulla pagina che state leggendo». Lo spazio è stato acquistato dall´Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar), quelli che a Genova nel gennaio scorso hanno scatenato un inferno. Avevano concordato con l´azienda dei trasporti pubblici Amt di far circolare alcuni mezzi con su lo slogan "La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona, è che non ne hai bisogno". Parole forse spiazzanti in un Paese come il nostro, ma altrove sono scivolate facili: l´idea nasce in Gran Bretagna dalla British Humanist Association, poi viene ripresa negli Stati Uniti, Canada, Australia, Brasile, Finlandia, Germania, Svizzera, Croazia e nella cattolicissima Spagna.
Ma a Genova no, in Italia no. Quella frase va contromano, «offende», dunque va raddrizzata. La città di Bagnasco insorge e si divide fino a che la Igp Decaux, agenzia concessionaria di pubblicità dei trasporti pubblici, blocca tutto. Commenta il cardinale e arcivescovo, presidente della Cei: «Ferita alla sensibilità religiosa. La decisione di cancellarla è un atto di buon senso». Il sindaco Marta Vincenzi invece chiede spiegazioni: «È censura». Alla fine lo slogan viene stemperato, altra strada non c´è, diventa: "La buona notizia è che in Italia ci sono milioni di atei. Quella ottima, è che credono nella libertà di espressione", solo così il bus numero 36 può partire, gironzolare per la città. Per un po´. Un mesetto. Intanto la Uaar non si arrende. Vuole provare a convincere altre città a mettere sui bus la scritta originale, ma niente. Tutti rifiutano. La Igp Decaux ha un quasi monopolio come concessionaria di pubblicità per i mezzi pubblici. I legali dell´Uaar stanno esaminando come difendere il diritto dei non credenti alla libertà di espressione.
Gli atei riescono nel frattempo ad affiggere manifesti con il medesimo slogan bocciato a Genova: a Pescara (con polemiche), poi nella stessa Genova, a Cernusco sul Naviglio (Milano), Venezia-Mestre, Modena. Raccolgono oltre 31 mila euro con le sottoscrizioni, e vanno avanti perché il loro messaggio, spiegano, «vuole invitare a riflettere, con l´aggiunta di un pizzico di fiducia e ottimismo in chiave umanista». La Chiesa ha e deve continuare ad avere libertà di parola, dicono, «purché vi sia adeguato spazio anche per chi cattolico non è». Questo spazio, in qualche modo, qui c´è.

Corriere della Sera 17.5.09
L’intervista. «Gli scioperi? Abbiamo anche firmato 5 mila accordi»
Epifani: un atto sgangherato ma il malessere sociale c’è
Il leader Cgil: subito un tavolo su Fiat, il governo non stia alla finestra
intervista di Antonella Baccaro


Il Lingotto sta diventando una società transnazionale. La crisi peggiora, Tremonti minimizza

ROMA — «L’aggressione di un gruppo ben circoscritto», «l’ennesima prova di quanto sia sgangherato un certo modo di fare estremismo». Il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, vorrebbe parlare d’altro: della crisi, della Fiat e del governo «che fa tutto da solo». Ma nella giornata in cui il leader dei metalmeccani­ci del suo sindacato è stato tirato giù dal piccolo palco su cui parlava, l’argomento c’è tutto.
Che idea si è fatto dell’episodio di Tori­no, segretario?
«Una quarantina di persone, un gruppo circoscritto, ha fischiato Rinaldini e gli ha tolto il microfono, che poi ha ripreso».
Si trattava di Cobas, con cui spesso la Fiom ha manifestato.
«Con i Cobas nel passato abbiamo avu­to discussioni e confronti. Fiom ha una li­nea precisa e netta, però è sempre nel sin­dacato confederale. L’estremismo sta dal­­l’altra parte».
Teme una deriva violenta della conflit­tualità sociale?
«La situazione è delicata e si può aggra­vare, soprattutto se non si fa nulla».
Non vede in questi episodi un proble­ma di rappresentatività del sindacato?
«Il sindacato in questi giorni in Europa è stato presente con grandi manifestazio­ni, che puntano proprio a rimettere la per­sona al primo posto».
Il tafferuglio di Torino avrà conse­guenze?
«Il risultato di simili azioni è che l’ac­cento poi va a finire su altre cose rispetto a quelle di cui si dovrebbe parlare. Tipo la crisi del settore auto».
Il ministro Tremonti ha detto al «Cor­riere » che il crollo si sta fermando.
«Ha parlato di un rallentamento della caduta, che è fisiologico, ma vuol dire pur sempre che la caduta continua. È inutile far finta di non vedere».
Silvio Berlusconi dice che «compito del governo è infondere fiducia».
«Eh no! Si è bloccata l’apocalisse, e va bene, ma c’è una significativa caduta della domanda mondiale che, per Paesi esporta­tori come l’Italia e la Germania, è molto grave. Senza alcun sostegno agli investi­menti e ai consumi, visto che lo stesso Tre­monti giudica marginale l’effetto della so­cial card, rischiamo la stagnazione».
La crisi rallenta. Con quali effetti sul­l’occupazione?
«Gli effetti della crisi sull’occupazione non si sono neppure prodotti tutti: penso a quello che può succedere alla petrolchi­mica, alla chimica, al made in Italy. Penso all’allarme dei costruttori dell’Ance... E poi sento Berlusconi dire che a drammatiz­zare sono solo l’opposizione e i giornali. Cioè che non farà nulla».
E lei che farebbe al suo posto?
«Tre cose ma importanti. Rendere più flessibile il patto di stabilità dei Comuni per far ripartire gli investimenti; raddop­piare la durata della cassa integrazione or­dinaria per evitare il conflitto sociale e au­mentare un po’ i redditi, perché la social card è troppo poco».
E sul piano fiscale?
«Auspico una maggior lotta all’evasio­ne e all’elusione perché ho l’impressione che i controlli si siano allentati».
Lei dice che il governo non fa nulla ma intanto il gradimento resta alto. Co­me lo spiega?
«Questo è un fatto tutto italiano. Forse dipende dall’abilità mediatica del presi­dente. Forse dalla disillusione che il cen­trosinistra ha seminato in questi anni».
E il sindacato non ha niente da rim­proverarsi?
«Noi abbiamo fatto 5 mila accordi con imprese e decine con le amministrazioni. Il Paese corre a due velocità: c’è quello do­ve i tavoli si aprono e quello dove si dice che la crisi è finita».
Ci sono pure tavoli da cui vi siete alza­ti e scioperi generali. È dialogo?
«Gli scioperi si fanno proprio quando manca il dialogo. Tremonti ha un bel dire che l’utilità marginale sta nel discutere per portare a casa qualcosa. Il problema è che il governo non discute né con noi né con altri. Perché non si fa un tavolo sul ter­remoto?».
Su cosa?
«La gestione emergenziale va bene, ma adesso stanno sorgendo problemi. Che succede se le case non arrivano entro l’in­verno? E perché la gestione sul posto è an­cora in mano alla Protezione civile e non agli enti locali?» Il tavolo sulla Fiat invece Marchionne vuole farlo dopo l’accordo con Opel, con­divide?
«Non è accettabile. Capisco la cautela di Marchionne perché la faccenda Opel mi pare più complessa di quella Chrysler, ma noi non discuteremo solo delle ricadute di quegli accordi sui nostri stabilimenti. E poi c’è un problema importante».
Quale?
«Che società ha in mente Fiat? Qui si sta facendo il primo gruppo automobilisti­co transnazionale: chi ne avrà il controllo? Siamo sicuri che sarà italiano? E il gover­no perché sta alla finestra?».
Si parla di snellimenti e chiusure di stabilimenti, tra cui quello di Pomiglia­no.
«In Italia si produce già poco, è inam­missibile ridurre ancora».
E’ vero che la Fiat, come ha ricordato Tremonti, ha fornito impegni sull’occu­pazione quando ha ottenuto gli incentivi dal governo?
«Avremmo voluto un accordo più espli­cito, ma l’impegno morale c’è. Anche per­ché è proprio grazie agli incentivi se Fiat sta facendo meglio degli altri».

il Riformista 17.5.09
Intervista. parla il leader della sinistra Cgil: «a Epifani dico: serve più conflitto sociale»
Cremaschi: «Sono teppisti»
di Gianmaria Pica


Serve una rappresentanza sindacale forte, «un sindacalismo di lotta e di conflitto sociale che si contrappone alla scelta non adeguata della segreteria Epifani». Con queste parole Giorgio Cremaschi - membro della segreteria nazionale della Fiom e leader dell'area programmatica della Cgil, Rete 28 aprile - chiede ai lavoratori la costruzione di una posizione alternativa all'interno del primo sindacato italiano. Ma ieri, alla manifestazione nazionale dei dipendenti Fiat a Torino, si è aperto anche un fronte tra confederali e autonomi: alcuni rappresentanti Cobas sono saliti sul palco spintonando e togliendo la parola al segretario generale Fiom Gianni Rinaldini.
Cremaschi, chi sono i contestatori?
Una quarantina di teppisti di un piccolo gruppo - Slai Cobas - che non è rappresentativo di alcun lavoratore in Fiat. Volevano prendere la parola e sono venuti sotto al palco con fare minaccioso. Fanno sempre così, sono pochi e lo fanno per farsi notare. Credo che sia giunto il momento di prendere qualche iniziativa per isolarli. Comunque Rinaldini non è stato buttato giù dal palco come ha scritto qualcuno. È un'invenzione giornalistica: è stato semplicemente spintonato.
È un problema tra sindacati di base e confederali?
Non credo. Non c'è tensione tra la Cgil e le altre organizzazioni autonome: alla manifestazione hanno partecipato anche Rsu e Sdl, con loro non c'è stato alcun problema. La tensione invece c'è tra i dipendenti Fiat e l'azienda, ora si è trasformata in preoccupazione e rabbia.
Cosa chiedete concretamente al Governo?
Chiediamo che si faccia semplicemente sentire. Oggi è l'unico paradossale assente. Con il suo fare l'esecutivo sta danneggiando i lavoratori della Fiat. Chiediamo all'esecutivo la convocazione di un tavolo per avere immediate garanzie di occupazione. Abbiamo deciso di bloccare tutti gli straordinari negli stabilimenti Fiat. La cosa scandalosa è che oggi la metà dei lavoratori è in cassa integrazione e all'altra metà si chiede di fare gli straordinari.
Quali richieste a Sergio Marchionne?
Marchionne sta discutendo con tutti i Governi del mondo tranne che con quello italiano. Diamo la presidenza del Consiglio a Marchionne, così Berlusconi avrà tempo di occuparsi delle cose che gli piacciono di più. In Italia è in atto una totale privatizzazione della politica con un bassissimo profilo nel dibattito politico. In Germania, per esempio, la campagna elettorale si fa sulla questione Opel. Purtroppo la politica del nostro Paese è su un altro pianeta: non quello del lavoro, ma quello delle veline.
Che dovrebbe fare il sindacato?
Ieri (venerdì, ndr) abbiamo avuto l'assemblea di Rete 28 aprile. Abbiamo lanciato l'idea di costruire una posizione alternativa: un sindacalismo di lotta e di conflitto sociale che si contrappone a quella che secondo noi è la scelta non adeguata e non sufficiente della segreteria Epifani. Da un lato è stato giusto bocciare l'accordo sul sistema contrattuale. Però, quel no secondo noi è costituente, non è una semplice parentesi: dovrà servire a lanciare un sindacato che metta al centro i salari e le condizioni di lavoro.

Corriere della Sera Salute 17.5.09
Fecondazione assistita. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha ribaltato la legge
La fine dell’esodo
Non sarà più necessario farsi curare all’estero per tentare di avere un figlio sano
di Franca Porciani


Infertilità. Ora la cura è libera
La Consulta ha ribaltato la legge 40: quali regole per fecondazione assistita e diagnosi preimpianto?

Basta con gli «emigranti per un figlio», i «paradisi del­la provetta» e quant’altro il linguaggio giornalistico si è inventato in questi cinque anni per descrivere il disa­gio delle coppie infertili in cerca del bebè altrove. Una recentissima sentenza della Corte costituzionale ha ribal­tato gran parte dei divieti della legge 40 sulla feconda­zione assistita (no alla crea­zione di più di tre embrioni, no al congelamento, no alle indagini genetiche sull’em­brione), riallineando l’Italia alla maggior parte degli pae­si europei.
I punti chiave del cambia­mento sono la possibilità di fecondare tutti gli embrioni che si ritiene necessario, di trasferirne in utero quanti sembra utile per ottenere la gravidanza e di congelare gli altri per eventuali successivi tentativi. Ma si apre anche la strada alla diagnosi preim­pianto (per farlo sono neces­sari diversi embrioni) in ca­so di malattie genetiche, messa all’indice dalla legisla­zione varata cinque anni fa.
Uno scenario nuovo che dovrebbe arrestare la fuga al­l’estero delle coppie con pro­blemi di fertilità e permette­re ai centri che operano nel­l’ambito della fecondazione assistita di lavorare con una certa tranquillità. Ma non era di tranquillità l’atteggia­mento prevalente fra gli spe­cialisti riuniti a Roma pochi giorni fa; sembravano, piut­tosto, preoccupati di capire meglio che cosa diventa leci­to e cosa è ragionevole aspet­tarsi nel prossimo futuro.
Lo hanno fatto con giuri­sti esperti in materia in un convegno organizzato dalla Società italiana di fertilità e sterilità a Palazzo Marini. La libertà ritrovata fa paura — ha detto qualcuno —, cosa comprensibile visto il ribal­tamento che la sentenza del­la Corte costituzionale ha de­terminato in questa com­plessa materia. Evidentemente basandosi su principi «forti», ma quali esattamente? «Il principio cardine cui si è ispirata la Corte è cha la tutela dell’em­brione anziché assoluta (co­me previsto dalla legge 40, ndr), deve essere limitata dalla necessità di trovare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di pro­creazione — ha spiegato Ma­rilisa D’Amico, ordinario di diritto costituzionale all’uni­versità Statale di Milano —. In sostanza si 'affievolisce' la tutela dell’embrione per assicurare possibilità concre­te di gravidanza. La Corte ha quindi stabilito che una cop­pia ha diritto al trattamento più adatto nel suo singolo caso, concordato con il me­dico che si assume piena­mente la responsabilità del­la strategia scelta. Va comun­que precisato che la decisio­ne della Corte è una senten­za 'manipolativa' che riscri­ve la legge per renderla com­patibile con la Costituzione; ha, perciò, un valore incon­futabile. Non troveranno spazio perciò ipotesi come quelle ventilate dal Movi­mento per la Vita, che alla sentenza vuole contrappor­re la 'tutela giuridica del­l’embrione' ».
«Il legislatore di fatto ave­va considerato la donna co­me mero strumento di pro­creazione e aveva annullato completamente la figura del medico e la sostanza dell’at­to terapeutico: ora gli ridà autonomia e libertà di offri­re alla coppia il trattamento che ritiene più idoneo — pre­cisa l’avvocato fiorentino Maria Paola Costantini — . Che cosa succederà adesso? Il ministero dovrà stilare nuove linee guida che armo­nizzino il testo della legge 40 con la presa di posizione del­la Corte costituzionale».
E la diagnosi preimpian­to? Già una serie di pronun­ciamenti del Tribunale di Ca­gliari e del Tar del Lazio, in seguito a richieste di diagno­si genetiche pre-impianto per gravi malattie eredita­rie, aveva aperto la strada al­la sua fattibilità in Italia. «Ora, con questa sentenza, la Corte ha dichiarato illegit­time le limitazioni al nume­ro di di embrioni producibi­li e alla crioconservazione, rendendola finalmente pra­ticabile ». precisa Marilisa D’Amico.
In sostanza non ci sono più limiti agli esami per co­noscere lo stato di salute dell’embrione e, una volta effettuata la diagnosi geneti­ca prima dell’impianto, è possibile congelare gli em­brioni malati trasferendo in utero soltanto quelli sani o, al massimo, portatori sani della malattia (per lo più si tratta di talassemia e di fi­brosi cistica). Si tratta in conclusione di una piccola rivoluzione che riporta sulla scena il medico come figura «forte» delle scelte di cura e enfatizza il patto terapeutico fra lui e le pazienti. «Paradossalmente, da domani per noi medici il lavoro diventa più difficile; utilizzare tre ovociti e trasfe­rire gli embrioni formati è si­curamente più semplice che capire le reali necessità caso per caso — afferma Andrea Borini, direttore scientifico del centro Tecnobios di Bolo­gna — . Non è possibile ipo­tizzare il numero 'giusto' di embrioni che bisogna crea­re. Si dovrà tornare ad utiliz­zare una serie di parametri, quale l’età della donna e i tentativi infruttuosi prece­denti. Spero, però, che non si arrivi al paradosso oppo­sto, che le coppie infertili considerino più attraenti i centri che utilizzeranno mol­ti ovociti».
Come dire: dopo i danni della carestia, il rischio è che si punti un po’ troppo sul­l’abbondanza.
Vedremo..

Corriere della Sera Salute 17.5.09
I limiti della politica
di Riccardo Renzi


La fecondazione, quella Assistita Ma Non Troppo, è stata bocciata, alfine, dalla Consulta. Dimostrando la necessità della cautela con la quale la politica, soprattutto se venata da forti connotazioni ideologiche, si debba accostare alla scienza in generale e in particolare alla medicina.
La politica, sia chiaro, ha il diritto (e anche il dovere) di intervenire, di affrontare i temi etici che le nuove tecnologie pongono, di porre limiti e regole alla scienza.
Ma deve farlo coerentemente con le regole della scienza. Non può muoversi con le stesse modalità di compromesso che ben si applicano in altri campi. Si può mediare su una legge elettorale o su una Finanziaria, ben più difficile è 'trovare una via di mezzo' su una procedura medica. Nel momento in cui una nuova cura, come la fecondazione assistita, viene accettata, è poi sbagliato porre degli ostacoli tali da mettere a rischio la salute stessa del paziente e il suo diritto a essere curato nel modo migliore. Il che è esattamente quanto è avvenuto, portando inevitabilmente la Corte costituzionale a «correggere» alcuni articoli della legge 40. È come se si stabilisse che si può trapiantare un cuore, ma che per prelevarlo fosse obbligatorio aspettare tre giorni per essere certi della morte del donatore.
È come se si accettasse la sperimentazione con le cellule staminali, per trovare nuove cure, ma poi si vietasse di utilizzare quelle più promettenti, cioè quelle embrionali.
Il che è esattamente quello che avviene.

Corriere della Sera Salute 17.5.09
Lutto. In un saggio due psichiatri e psicanalisti discutono il problema dell’elaborazione delle perdite subite
Come si può «dimenticare ricordando»
Riuscire ad esprimere le emozioni permette di tornare a guardare avanti
di Angelo de’ Micheli


Un grande silenzio avvol­ge, nella nostra società, i temi della morte e del lutto. Sono argomenti tabù, oggetto di una grande rimozione colletti­va, se ne parla solo quando non se ne può fare a meno: davanti a tragedie come terre­moti, alluvioni, guerre o epi­sodi di terrorismo, oppure se si discute di testamento biolo­gico o eutanasia.
Eppure tutti facciamo l’esperienza del lutto e cer­chiamo di uscirne, presi tra mille dubbi e domande. Due psichiatri e psicoanalisti, l’ita­liano Michele Sforza e lo spa­gnolo Jorge Tizon, hanno cer­cato di darci qualche risposta nel loro Giorni di dolore (edi­tore Mondadori).
Tra tante domande possibi­li, la prima può essere: quan­do il 'normale' dolore per la perdita di una persona diven­ta patologia?
«Il dolore di un lutto scon­volge il nostro modo di senti­re e di essere, modifica le no­stre reazioni emotive e perfi­no le nostre reazioni fisiche: immunologiche, endocrinolo­giche, metaboliche — rispon­de Sforza — e questo è anco­ra 'normale', ma lutti ripetu­ti o, come diciamo noi psi­chiatri, 'non elaborati' posso­no portare a veri e propri di­sturbi fisici o psichici».
Con lutto 'non elaborato' che cosa si intende? Quello non espresso, non manife­stato ... «Un antico proverbio spa­gnolo dice che 'un lutto di cui non si parla è un lutto che non guarisce'. Poter esprime­re le emozioni, gestendole adeguatamente, rappresenta un aiuto perché permette di attenuare il dolore, e, allo stesso tempo, di rendersi con­to di ciò che si prova, e della realtà di quanto è accaduto».
Allora, dobbiamo impara­re a non mettere un freno al­le nostre emozioni?
«C’è chi ha più facilità nel­l’esprimerle e chi meno, mol­to dipende dalla cultura della famiglia e del gruppo sociale in cui si vive. In generale, pos­siamo però dire che soffocare le emozioni non è salutare perché ostacola la consapevo­lezza.
Senza dimenticare che le emozioni taciute spesso 'ri­tornano' sotto altre forme e a volte in modo patologico. Un lutto deve essere elaborato passando attraverso diverse fasi: l'accettazione della perdi­ta, l'elaborazione della turbo­lenza emotiva, il riadattamen­to alla nuova realtà ed, infine, la capacità di trovare un po­sto, nella propria interiorità, per la persona perduta.
Questo 'percorso' è ugua­le per ognuno di noi?
«Fatte salve tutte le diffe­renze individuali, il percorso elaborativo è una strada ob­bligata che intraprendiamo spontaneamente al termine della quale si trovano nuovi equilibri per riprendere a vi­vere in modo più sereno».
C’è chi dice che davanti a un lutto si è sempre soli, che lo si può superare solo facendosi forza da sè, è d’ac­cordo?
«Anche in questo caso c'è grande variabilità. Ma non c'è dubbio che la famiglia, in primo luogo, e tutte le altre nostre 'reti' sociali , siano in­vece un aiuto, un sostegno per superare più facilmente, e con esiti migliori, il proces­so dell'elaborazione.
Alcune persone reagisco­no al lutto mettendo la per­sona scomparsa al centro dei loro pensieri, rendendo­la quasi più presente di quanto non lo fosse in vi­ta...
«Per alcuni il dolore dell’as­senza si trasforma in una ri­cerca ossessiva di contatto, a volte così intensa ed esaspera­ta da impedire la ripresa della vita. E' una reazione molto frequente nelle prime fasi del lutto, ma in seguito, gradual­mente, compaiono meccani­smi più sani che consentono di tenere 'dentro' di sé la per­sona perduta attraverso quel meccanismo che abbiamo de­finito il 'dimenticare ricor­dando'».
E possibile far sì che tutto il percorso del lutto avvenga in tempi più veloci, non per favorire l’oblio, ma per ri­durre la sofferenza?
«Ogni percorso elaborati­vo ha tempi e modalità stret­tamente legate alla persona, alla cultura della sua famiglia e della società in cui vive. È comprensibile che si desideri accorciare l’ora della sofferen­za, ma è bene ricordare che bi­sogna rispettare i propri tem­pi e seguire il proprio cammi­no per fare un cammino ela­borativo sano, evitando peri­colose scorciatoie che posso­no portare a problemi più gra­vi in seguito».
Ci sono coppie in cui chi resta che non sa rassegnarsi alla perdita del compagno? È una forma di fedeltà estre­ma o è la paura di affrontare da soli la vita che amplifica il lutto?
«Non è facile rassegnarsi ad una perdita quando il lega­me affettivo è forte. Molti co­niugi si privano perfino di piccole soddisfazioni per ti­more che questo significhi tradire la memoria del pro­prio caro perduto finendo co­sì per vivere in un mondo ari­do e 'congelato'. Altre volte aggrapparsi ossessivamente al ricordo della persona per­duta può essere l'espressione del timore di non essere in grado di affrontare la vita da soli. L'incertezza e le paure ag­giungono ulteriore sofferen­za a quella della perdita».
Come affrontare il terribi­le lutto per un figlio?
«La perdita di un figlio vie­ne vissuta come incolmabile perché dietro il dolore del lut­to c'è l'ombra del fallimento della propria esistenza che ap­pare improvvisamente priva­ta di ogni prospettiva. In un figlio i genitori ripongono, ol­tre che il proprio amore, mol­te aspettative che, con la sua scomparsa, vengono irrime­diabilmente perdute. È un lut­to che comporta l'insieme di più perdite contemporanea­mente ».

Corriere della Sera 17.5.09
L’anniversario. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 la repressione della rivolta di studenti e lavoratori
Tienanmen, un mistero lungo 20 anni
di M.D.C.


Il ricordo. Le nuove generazioni cinesi non sanno niente di quello che successe in quei giorni. E sono pochissimi gli adulti che ancora ne parlano
Mai svelato il numero dei morti. Trenta persone ancora in carcere. I silenzi delle autorità di Pechino e le memorie di Zhao Zhiyang
La rivolta. Jean-Philippe Béja: «Centinaia di città furono coinvolte. Si deve indagare su ciò che accadde davvero»

PECHINO — I carri armati non fanno più rumore. Sono passati, so­no lontani. La Tienanmen è silenzio­sa. Il caos insanguinato di vent’anni fa non si sente più. Sparito dall’oriz­zonte della Cina: le nuove generazio­ni non sanno o quasi, solo pochissi­mi coltivano apertamente la memo­ria ed è più facile farlo all’estero. «Di allora — ha ricordato sui giorna­li Wuer Kaixi, uno dei leader studen­teschi — mi addolora la sorte delle vittime. Noi capi siamo sopravvissu­ti, loro no. Ma la colpa è solo del re­gime ».
Ciascuno dei superstiti ha vissuto una Tienanmen diversa. Durante le proteste emersero divergenze fra le anime della piazza, poi ci sono state liti tra reduci. Ma «le differenze di opinione su come andarono le cose non dovrebbero intaccare la grande nobiltà di quant’è successo» ha com­mentato Ma Jian, che l’anno scorso ha condensato il suo ’89 in un ro­manzo visionario, Beijing Coma, presto in uscita in Italia (Feltrinelli). Anche allora ci furono tante Tie­nanmen. La protesta prese corpo tra il 15 e il 22 aprile, morte e funerale dell’ex segretario riformista del Par­tito comunista Hu Yaobang. Le in­quietudini per le disuguaglianze tra beneficiari ed esclusi delle aperture economiche, le richieste di democra­zia, l’insofferenza per la corruzione, l’inflazione agitavano la società cine­se da almeno tre anni ed è anche per questo che nell’87 Hu Yaobang era stato rimosso da Deng Xiaoping. «Fu la prima volta — spiega da Hong Kong il sinologo Jean-Philip­pe Béja — che un movimento così coinvolse centinaia di città. Proprio su quanto accadde nelle province, sulla lotta nel Partito, sui rapporti fra i segretari regionali e Pechino si deve ancora indagare».
Molte cose accaddero dal 15 apri­le fino alla notte fra il 3 e il 4 giugno. Il bilancio è ancora controverso, cen­tinaia di morti (secondo alcuni an­che migliaia), più la repressione suc­cessiva. Tentativi di dialogo, la mo­bilitazione della popolazione (non solo studenti, ma anche intellettua­li, operai, comuni cittadini), lo scio­pero della fame, la legge marziale. E, nelle stanze del potere, la divarica­zione fra i falchi, come il premier Li Peng che ottenne l’appoggio di Deng, e i fautori della linea morbi­da, come il segretario del Pcc, Zhao Ziyang, che venne esautorato e poi messo ai domiciliari fino alla morte (2005).
Molte cose accaddero, appunto. E la Tienanmen non fu uguale per tut­ti, anche dopo. Shao Jiang, più volte incarcerato, ha ammesso: «Come molti studenti, non fui picchiato con la ferocia riservata ai lavoratori. Loro soffrirono il peggio». Trascorsi 14 anni di carcere e 5 di libertà con­dizionata, Zhang Yansheng, uno di loro, ha potuto parlare: «Gli studen­ti non hanno patito gravi conse­guenze, tornarono nelle aule, li rie­ducarono lì. Noi operai fummo puni­ti duramente, come monito per lo­ro ».
È la voce di un’emarginazione in­nominabile. Secondo la Fondazione Dui Hua nelle carceri cinesi riman­gono una trentina di persone con­dannate per i fatti dell’89, un anno fa il Dipartimento di Stato america­no diceva tra 50 e 200: chi ne è usci­to porta con sé un corpo devastato e un passato di cui non si può parlare. Quando negli anni Novanta l’ex stu­dentessa Diane Wei Liang, diventata docente negli Usa, venne invitata in Cina per un corso di business admi­nistration, provò a parlare della Tie­nanmen ai suoi allievi: «Non era nei libri. Chi ne sapeva qualcosa cono­sceva solo la versione del regime. Agli altri non importava. Pensavano solo a far soldi».
Bollati come controrivoluzionari, studenti e lavoratori del movimen­to proclamavano invece che «il pa­triottismo non è un crimine» e can­tavano l’Internazionale.
Il mutismo delle autorità di Pechi­no sembra destinato a non incrinar­si neppure con la pubblicazione, in questi giorni, delle memorie di Zhao Zhiyang, un atto d’accusa ai vertici, una vendetta postuma. Un si­lenzio non privo di imbarazzi, come in una lettera al giornale di Hong Kong Ming Bao ha sottolineato Wang Dan, forse il più carismatico dei leader studenteschi, ora a Oxford: coloro che sostengono che la repressione militare fu la «giusta decisione» tacciono, anzi «non solo non è permesso criticarla, ma è an­che vietato elogiare il governo. Ra­gionate: se i leader pensano sul se­rio di aver ragione, perché evitano di affrontare l’argomento? Solo gli insicuri scansano i problemi...».
Molte carriere politiche sono den­se di omissis. Il premier Wen Jiabao, uno dei più riformisti di oggi, com­parve accanto a Zhao che implorava gli studenti di lasciare la piazza. Un’espressione impietrita, quasi a dire: che ci faccio qui? «È stato mol­to abile a far dimenticare quella fo­to, Wen» dice Béja. Guidava lo staff del segretario generale del Partito, cioè Zhao, ed era lì in quel ruolo. Un funzionario, leale all’incarico più che alla persona del capo: «Non fece parte del gruppo che decise la legge marziale ma Wen per ricomparire avrà dovuto fare autocritica e si sarà difeso dicendo che aveva eseguito gli ordini. Non ha convinzioni politi­che forti e infatti non ha incarnato alcun new deal ».
Vent’anni dopo si lambisce il para­dosso di constatare che certe riven­dicazioni della piazza sembrano sod­disfatte. «Non la richiesta di demo­crazia, però. Anzi, il sistema e la ri­flessione sulle riforme sono più che mai bloccati» avverte Béja. Wang Xiaodong, ricercatore presso un cen­tro di pedagogia che dipende dalla Lega della gioventù comunista, ha curato il recente bestseller «naziona­lista » La Cina è infelice e non può essere sospettato di avversione al si­stema: «Sì, il governo non ama che le gente parli dell’89. Ma in questi anni — dice al Corriere — la vita è migliorata, la libertà politica aumen­tata. Una parte delle richieste fatte dagli studenti di 20 anni fa sono sta­te realizzate, anche se certamente ci sono anche quelle non realizzate. Quindi forse i giovani non sentono l’importanza di quell’evento. Che il governo ne parli o no, non dipende dalla sua forza. Se ne discuterà se la società cinese sarà migliore, più tranquilla e parlare del 4 giugno non provocherà turbolenze. Franca­mente neanche adesso causerebbe disordini parlarne. Ma forse il gover­no ha altro a cui pensare».

l'Unità 17.5.09
Il nuovo realismo egiziano
L’ultimo libro di ’Al-Aswani, l’autore di «Palazzo Yacoubian»: una raccolta di storie sulla libertà che non c’è
di Roberto Carnero


Presentato ieri a Torino il nuovo libro di ’Ala Al-Aswani, la raccolta di racconti Se non fossi egiziano. L’autore ha raggiunto la notorietà mondiale con Palazzo Yacoubian, romanzo basato sull’incrocio delle storie degli abitanti di un condominio del Cairo (ne è stato tratto anche un film). Un vero caso letterario nel mondo arabo, dove quel libro ha venduto un numero di copie considerevole, tanto che, negli ultimi anni, è stato secondo solo al Corano. L’autore, 52 anni, egiziano del Cairo, di professione dentista, ha scritto ora un volume composto di 17 racconti, che mettono a fuoco, con un realismo dai tratti a volte surreali, una varia umanità molto variopinta: un misantropo ossessionato dalla sua ‘allergia’ per gli altri; fanatici religiosi però molto ipocriti; il lutto di un figlio la morte del padre; una giovane insegnante che cerca di ottenere un posto di istitutrice in una ricca famiglia, ma alla fine ci rinuncia perché si sente inadeguata; un ragazzino obeso vittima di bullismo da parte dei compagni di scuola, soprattutto quando il professore di educazione fisica lo obbliga a indossare canottiera e pantaloncini, una tenuta di cui lui si vergogna perché espone al ludibrio degli altri tutto il suo sovrappeso.
Il primo testo, quello più lungo, ha per protagonista un giovane di talento, che però rifiuta il conformismo della società egiziana e finisce per alienarsi in una follia che alla fine lo travolgerà. «Una storia», ci spiega l’autore, «per mettere in luce come quando un Paese non garantisce a tutti le stesse opportunità, e soprattutto non consente di esprimere le proprie doti, significa che c’è una mancanza di democrazia. Perché la democrazia non riguarda soltanto i meccanismi politici, ma anche la possibilità di vivere e di operare liberamente per tutti i suoi cittadini».
Al-Aswani non manca di criticare esplicitamente il governo di Mubarak, anche se afferma che gli piacerebbe che la politica rimanesse fuori dal discorso letterario: «Capisco le contestazioni delle organizzazioni filo-palestinesi alla presenza dell’Egitto alla Fiera del Libro di Torino, perché c’è una delegazione ufficiale del governo del Cairo. La stessa cosa è avvenuta lo scorso anno per la presenza a Torino della delegazione israeliana. Penso che sarebbe meglio non coinvolgere i governi in appuntamenti come questo».
IDEALI E REALTÀ
Nell’introduzione al suo nuovo libro Al-Aswani racconta la sua odissea presso l’Ente egiziano del libro (una sorta di casa editrice di stato) a cui inizialmente si era rivolto per la pubblicazione. In Egitto in molti non lo amano perché ritengono che con la sua rappresentazione realistica della vita del Paese, compresi vizi e difetti di molti personaggi, egli finisca con il dare un’immagine negativa dell’Egitto. «Ma a questi signori», afferma, «non mi stancherò mai di dire che la letteratura non è la realtà. Un pensiero di questo tipo è davvero ingenuo e infantile».
Certo è che Al-Aswani alla realtà si ispira: ci confida di continuare a fare il dentista proprio per non isolarsi in un mondo artificiale, staccato dalla concretezza della vita quotidiana: «Sono interessato alla gente, alle storie di chi mi sta intorno. Gli amici mi sfottono perché quando vado in un museo sono molto più interessato a osservare i visitatori che a guardare le opere esposte». E per concludere ci dà un distillato della sua poetica: «La letteratura deve lavorare nella distanza che esiste tra come il mondo dovrebbe essere idealmente e come invece è di fatto. Quanto più questa distanza è ampia, tanto più è fecondo il lavoro dello scrittore».

l'Unità 17.5.09
Massimo D'Alema
«L’Italia non è la fiction del capo, il Pd trovi valori e un progetto condivisi»
di Massimo D'Alema


La crisi del capitalismo globale selvaggio, o come altri preferiscono dire, del “mercatismo” è una crisi politica e culturale prima che economica fa cui, sono convinto, uscirà un mondo profondamente cambiato. Quale sarà il posto dell’Europa, dell’Italia nel nuovo mondo? Sembra di essere di fronte a un paradosso: c’è un bisogno forte di politica dopo anni in cui il dominio dell’economia si è accompagnato all’antipolitica, al disprezzo verso le istituzioni internazionale considerate un’inutile superfetazione burocratica, alla dottrina del declino degli Stati nazionali. Torna oggi invece sulla scena l’idea kantiana di un ordine giuridico internazionale: una grande idea “europea” che è in fondo alla base della stessa costruzione dell’Europa. Ma l’Europa sembra impacciata, di fronte a questa sfida. Mentre la spinta all’innovazione viene dal Paese che è stato il promotore del dominio neoliberista e l’epicentro della crisi: gli Stati Uniti d’America.
(...) È aperta una grande sfida, decisiva per i democratici e per i riformisti. Quale deve essere la nostra risposta alla crisi? Come far avanzare un nuovo progetto? La mia convinzione è che una grande prospettiva di cambiamento debba muovere intorno a tre idee forza fondamentali: la democrazia, l’eguaglianza, l’innovazione.
(...) La crisi può e deve essere l’occasione di un grande cambiamento. L’occasione per riforme coraggiose tanto più necessarie in un Paese come il nostro, da troppi anni bloccato, incapace di crescere al livello degli altri Paesi europei, di sprigionare pienamente e liberare le sue potenzialità e le sue energie.
Per la destra italiana e per Silvio Berlusconi la crisi è invece sostanzialmente una occasione per consolidare il potere. L’Italia è, tra le nazioni più sviluppate, quella che sta impiegando meno risorse per rispondere all’emergenza economica, per aprire una nuova fase di crescita contando sulla possibilità che la ripresa mondiale ci trascini a rimorchio. È il Paese che nulla sta facendo per riequilibrare la distribuzione iniqua della ricchezza fra le diverse fasce sociali. È il Paese che meno innova e che anzi riduce le risorse per la formazione e la ricerca, e in cui non a caso più pesante si presenta la caduta dell’economia, l’aggravamento strutturale della finanza pubblica, la crescita del disagio sociale e della povertà. Si rafforza invece il potere politico. Una economia indebolita riduce l’autonomia dei gruppi finanziari e industriali che devono appoggiarsi ai poteri pubblici. Si rafforzano così l’influenza sulla società e il controllo sull’informazione, rendendo ancora più acuta l’anomala concentrazione di potere che caratterizza il caso italiano nel quadro delle democrazie moderne.
Così, mentre crescono l’insicurezza, i sentimenti di paura e di chiusura, le spinte anti-immigranti o le velleità protezionistiche, una parte grande degli italiani sembra stringersi intorno ad una leadership protettiva. Anche se si tratta più del simbolo di una decadenza dell’Italia che non di una speranza di rinascita.
Ma sarebbe un errore considerare l’Italia un Paese «berlusconizzato». La società lo è molto meno dei giornali e dei telegiornali. E non solo perché all’apice della sua glorificazione il centrodestra italiano arriva forse alla metà dei voti validi espressi, mentre un’altra metà del paese resta diffidente e ostile. Ma anche perché l’Italia non si riassume nella quotidiana fiction del capo del governo o nelle cupe o sgangherate ronde contro gli immigrati. C’è una vitalità di una parte del mondo della ricerca, della cultura, del lavoro e dell’impresa che sfida senza timori e con successo le prove della globalizzazione. C’è una società che in parte, purtroppo guarda con sfiducia, distacco e insofferenza alla politica e non si sente più rappresentata. Un’Italia che non si riconosce nella leadership attuale, ma che non vede in campo un’alternativa credibile e forte per il governo del Paese. Qui pesano certo gli errori del centrosinistra, ma anche l’opera irresponsabile di autodemolizione, l’aspettativa di improbabili palingenesi generazionali, l’attesa messianica di nuovi «ragazzi» della provvidenza. Occorre invece più semplicemente, con maggiore umiltà, ma con l’orgoglio della nostra storia ripartire dalle forze in campo. Anche una nuova classe dirigente non nascerà senza un partito funzionante e radicato nella società in grado di selezionarla, di formarla e di metterla alla prova.
Da questa consapevolezza deve muovere il suo non facile cammino il Partito Democratico. D’altro canto non è stato agevole l’avvio di una esperienza segnata dalla sconfitta elettorale e dalla faticosa ricerca di una strada nella stretta fra il preponderante populismo berlusconiano e il minoritarismo giustizialista alla maniera di Di Pietro e del suo partito personale. Ciò che è risultato incerto in questo primo anno di vita è il fondamento del nuovo partito: l’insieme dei valori e dei principi che ne costituiscono l’identità condivisa. Ed è proprio questa incertezza che ha reso più difficile la convivenza all’interno del Pd di diverse anime che hanno teso più ad irrigidire ciascuno la propria identità nel timore di una prevaricazione, che non a ricercare una sintesi capace di guardare in avanti.
Ma il progetto del Pd resta essenziale per aprire una prospettiva nuova per l’Italia. Questo libro vuole anche essere un contributo al Partito Democratico. Un contributo in termini di cultura politica, in particolare per ciò che riguarda la visione del ruolo dell’Europa e dell’Italia nel mondo, ma anche un invito ad una riflessione più profonda sui caratteri e sui limiti del bipolarismo italiano; sulla necessità di una visione della evoluzione democratica del Paese che sia effettivamente alternativa al plebiscitarismo e alla semplificazione personalistica del confronto politico. Un nuovo centrosinistra deve lasciarsi alle spalle la precarietà e la confusione dell’Unione, così come ogni pretesa di autosufficienza del Partito Democratico. Un nuovo centrosinistra deve essere capace di unire progressisti e moderati (come è stato scritto) perché la società italiana è più complessa e le linee di confronto sono più articolate e non si riducono alla frattura destra-sinistra. Ma questo non significa che i partiti debbano essere la nomenclatura delle diverse propensioni presenti nella società o degli interessi frantumati di una realtà così complessa. Può certamente esistere un grande partito come il Pd che abbia l’ambizione di unire nel suo seno - se pure senza alcuna pretesa di esclusività - progressisti e moderati intorno ad un coraggioso progetto di riforma per l’Italia.
Di questo progetto è parte integrante quell’idea dell’Italia impegnata per la difesa dei diritti umani nei Balcani, anche con la sofferenza di scelte difficili; un’Italia in prima fila con l’Onu per affermare e proteggere la pace fra Israele e Libano e sostenere nuove speranze in Medio Oriente; un’Italia protagonista nell’Assemblea delle Nazioni Unite nella battaglia di civiltà contro la pena di morte. Questa è stata ed è l’Italia dell’Ulivo e del centrosinistra, di cui dovrebbero rivendicare, forse, con maggiore consapevolezza i risultati e il ruolo. È l’Italia che, non solo nel passato lontano, ma anche in questi anni con Prodi, Ciampi e Napolitano è stata portatrice della visione ambiziosa di un’Europa unita, federale e democratica che non si riduca alla ricerca di un equilibrio e di una mediazione fra i governi. L’Europa di cui ci sarebbe oggi più che mai bisogno di fronte allo sconvolgimento politico ed economico del mondo globale.
Spero che da queste riflessioni venga una spinta affinché il centrosinistra riprenda coscienza delle sue ragioni e torni ad esercitare pienamente la sua funzione per il futuro dell’Italia.

sabato 16 maggio 2009

Terra 16.5.09
Il padre padrone della psicoanalisi in 55 ore
Livia Profeti intervista Anna Homberg

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Terra 16.5.09

Nuove luci sul Macro
di Simona Maggiorelli
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il Riformista 16.5.09
D'Alema ignora il Pd e lancia l'asse con il «laico» Fini
«Il dibattito nel Pd non mi interessa»
di Tommaso Labate


Statista. L'ex premier stronca il dibattito sui respingimenti: «Non ragiono da uomo di partito ma da uomo di Stato e ministro degli Esteri». Punzecchia Putin e loda Gheddafi. Se prendesse la Roma? «Ben venga. A patto che non ci chieda di far giocare suo figlio».

«A me, onestamente, del dibattito del Pd sui respingimenti non interessa pressoché nulla. Lo dico con estrema sincerità. Parlo come uomo di Stato e ministro degli Esteri». La firma in calce alla dichiarazione è quella di Massimo D'Alema, che queste parole le ha pronunciate due sere fa, a Lecce, nel corso di un dibattito al Festival dell'Energia.D'Alema non si è appassionato all'ennesima disputa interna al suo partito. E così l'altra sera, quando Dario Di Vico del Corriere della Sera gli ha chiesto cosa pensasse della posizione ufficiale del partito e dei distinguo di Piero Fassino e Sergio Chiamparino, l'ex premier prima ha tolto di mezzo il Pd («A me, onestamente, del dibattito del Pd non interessa pressoché nulla. Lo dico con estrema sincerità») poi ha spiegato il perché: «I respingimenti collettivi sono proibiti dal diritto internazionale. Questa, dunque, non può essere materia di dibattito in un partito che si chiama Partito democratico».
La posizione espressa da D'Alema, non sovrapponibile a quella di Franceschini ma nettamente diversa da quella di Fassino&Chiamparino, è chiara: «Rimpatriare l'immigrato illegale è legittimo. Quando eravamo al governo (la citazione risale alla fine degli anni Novanta, ndr) attuammo una collaborazione con l'Albania, che era la Libia dell'epoca. Come risolvemmo il problema nel canale di Otranto? Semplice, con i rimpatri», distinguendo «gli immigrati clandestini dai rifugiati politici e dai richiedenti asilo».
Esaurito il flashback, D'Alema è partito all'attacco del Governo. «Sono indignato dalla legge appena approvata dal Parlamento e, soprattutto, dal dibattito mistificato che la maggioranza porta avanti», ha scandito cifre alla mano il presidente di ItalianiEuropei. «Il centrodestra ha fatto la più grande regolarizzazione di clandestini mai fatta in Europa. La prova? Nel 2005 gli sbarchi di clandestini erano di 22mila unità. Coi due anni di governo del centrosinistra erano scesi a 20mila. Poi è tornato Berlusconi e questa cifra è balzata a quota 38mila». Morale? «Noi abbiamo combattuto l'immigrazione clandestina nel rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale», ha sintetizzato D'Alema che - tornando con la mente alla domanda sul Pd - ha ribadito che «questa, onestamente, non è materia di dibattito». E, comunque sia, «io do il mio parere su quello che penso io». Punto e a capo.
Sul dossier immigrazione, D'Alema ha intenzione di dare il suo contributo. In tandem con Gianfranco Fini. «Tra le fondazioni ItalianiEuropei e FareFuturo c'è collaborazione, non un "patto di potere" come ho letto da qualche parte. Anche perché non ce l'abbiamo, il potere», ha ironizzato l'ex premier prima di correggere leggermente il tiro («Io non ne ho per nulla. Fini, invece, da presidente della Camera...»). Quindi, ha rivelato che le due fondazioni hanno in cantiere l'organizzazione di «un seminario sui temi dell'immigrazione che sarà di grande rilievo».
Torna l'asse D'Alema-Fini già testato sul terreno del federalismo? «Fini - ha risposto l'ex premier alla domanda sui suoi rapporti col presidente della Camera - è un intransigente difensore della laicità dello Stato dagli attacchi del centrodestra, trova sbagliata la legge sulla fecondazione fatta dal centrodestra, vuol tutelare i diritti di immigrati e omosessuali dalle idee del centrodestra». Certo, ha ammesso D'Alema, «oggi Fini è abbastanza isolato in un destra dominata dal mito di Berlusconi». Ma, e gli va riconosciuto, «pensa a una destra moderata per il futuro del Paese». Un tema, questo, a cui il Pd - sottolinea il lider maximo - non può essere indifferente.
Nella serata leccese D'Alema ha risposto alle domande sulla Russia di Putin («Quella è una democrazia particolare, governata dall'alto, come dimostrano il controllo politico dei mezzi d'informazione e la vicenda cecena») e sulla Libia di Gheddafi, che a breve arriverà in Italia. «Lo incontrerò, la sua è una visita importante. Gheddafi - è il ragionamento dalemiano - ha tolto la Libia dall'isolamento internazionale». La democrazia di Tripoli? «Gheddafi - racconta l'ex premier sorridendo - mi disse che la democrazia per i libici è talmente importante che non la vogliono delegare a nessuno. Per questo, anziché fare le elezioni, fanno le assemblee popolari. Anche se da noi non sarebbe praticabile, è un sistema che dovremmo studiare meglio». D'Alema dice di apprezzare il modo in cui i libici hanno interpretato il ruolo di "investitori" nelle principali aziende italiane. «E se comprassero la Roma?», gli chiede Di Vico. Risposta: «Lei mi fa trepidare... Se qualche investitore straniero volesse puntare sulla Roma, penso che sia il benvenuto». Certo, a patto che Gheddafi non finisca per imporre il figlio calciatore Saadi (ex Perugia e Udinese) nella prima squadra giallorossa. «Questo no», dice D'Alema. «È una carissima persona ma non è proprio il genere di talento di cui la Roma ha bisogno».

Liberazione 16.5.09
Le domande inevase
di Imma Barbarossa


Durante la trasmissione di Santoro sulla vicenda Lario-Berlusconi la più disgustosa performance era quella dell'avvocato onorevole Ghedini con l'accusa a Emma Bonino di essere "parruccona". La tesi dell'onorevole difensore era la seguente: Berlusconi è amico del padre di Noemi, e in tale veste va a trovare la famiglia della figlioccia. Ma come, un messo comunale chiama il Presidente e il Presidente risponde, quando invece fa piangere lacrime di vana attesa a Mike Bongiorno, forse futuro senatore a vita? Beh, fa Ghedini, che volete? Al Presidente piacciono le amicizie umili, gli va di mescolarsi con il popolo, che lo ripaga di un così grande successo. E gira sempre con dei regalini in tasca, come il re di Napoli Franceschiello gettava monetine dalla carrozza alle plebi meridionali? Beh, più o meno. Ma le monetine diventano collier di diamanti? Beh, in confronto a Berlusconi il re Borbone era un pezzente e un tirchio. E tutte le bugie? Beh, non siamo negli Stati Uniti, siamo al sud.
In realtà l'onorevole Ghedini non è scemo, fa semplicemente parte di quella schiera di professionisti pagati per fare da scudo all'imperatore e imbrogliare le carte. L'ultima, scandalosa trovata è la reazione alle domande, normalmente "anglosassoni" di Repubblica; questa volta non la performance di Niccolò Ghedini né la canea dei giornali del padrone contro la signora Lario. Nemmeno il comizio a Porta a Porta, in presenza dell' officiante Bruno Vespa e dei più o meno proni De Bortoli e Sansonetti. No, questa volta l'indignazione contro Repubblica è affidata nientemeno che a una nota di Palazzo Chigi, che insulta l'informazione, rea di non essere serva. Onorevole Franceschini, è ancora una questione privata? Questo accade nel mentre uomini e donne migranti vengono respinti verso luoghi infernali da cui sono fuggiti, nel mentre le nostre città (nordiche) saranno piene di ronde di volontari che vanno a caccia. La Lega ha vinto: non sarà che in cambio il vecchio Bossi chiude un occhio sulle scappatelle di Silvio e sulla sua esuberanza?

venerdì 15 maggio 2009

Terra 15.3.09
Vivere oggi a Gaza
tra check point e letteratura

di Simona Maggiorelli


Tra il Duemila e il 2007, 854 i bambini palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Questi i casi accertati, quelli effettivi potrebbero, purtroppo, essere molti di più. Secondo l’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale oltre il 90 per cento dei bambini palestinesi vivono nella paura. Il 48 per cento di questi ragazzini hanno sperimentato direttamente la violenza dell’esercito d’Israele. Il 21 per cento dei più piccoli sono sfollati a causa della politica israeliana. Il 52 per cento dei minori palestinesi sentono che i propri genitori non possono proteggerli. A fronte di tutto questo, il 96 per cento dei ragazzi palestinesi considerano l’istruzione necessaria per la propria crescita personale, ma le aule palestinesi chiuse durante i coprifuoco toccano la quasi totalità, mentre il numero degli attacchi israeliani alle scuole palestinesi, fra il 2003 e 2005, è pari a 180. E ancora, dando uno sguardo alle cifre che riguardano i ragazzi più grandi, si scopre che il 75 per cento dei ventenni di Gaza si vede negato il diritto all’istruzione universitaria. Queste cifre anonime dietro le quali ci sono persone, storie, troppo spesso tragedie, sono di fatto solo una piccola parte di quelle squadernate nella serrata indagine che lo scrittore libanese Saree Makdisi presenta in Palestina borderline, storie da un’occupazione quotidiana, appena uscito in Italia per i tipi della casa editrice milanese Isbn: a nostro avviso, uno dei titoli politicamente più importanti fra la miriade di nuove proposte che la Fiera propone dal 14 al 18 maggio. Un libro che non si limita a una disamina scientifica della realtà, che potrebbe anche risultare fredda, ma presenta storie, racconti, spaccati di vita quotidiana, vicende che talvolta “ potrebbero anche sembrare normali – come scrive Makdisi, se non dovessero fare i conti con check point, guardie armate, perquisizioni indiscriminate”.
L’anno scorso il Paese ospite scelto dalla Fiera del libro di Torino , come è noto, fu Israele . E molte autorevoli voci del panorama letterario internazionale declinarono l’invito. Fra questi il poeta siriano Adonis che, su invito del Pen e di Donzelli quest’anno invece terrà una lectio magistralis. Ma a Torino ci sarà anche il giovane scrittore palestinese Seyed Kashua, autore de Gli arabi danzanti (Guanda), un romanzo autobiografico ambientato all”epoca della strage di Sabra e Shatlila, il compo profughi che fu devastato dai carri armati israeliani. Kashua è riconosciuto oggi come uno degli scrittori più promettenti dell’area del Medio Oriente. Nel frattempo la casa editrice Epoché presenta a Torino il libro del poeta palesinese Mahmud Darwish, Il letto della straniera, ricordando una delle voci più intense di quella terra, prematuramente scomparsa l’estate scorsa. Ma da non perdere di vista è anche l’appuntamento in Fiera con un israeliano che si è battuto contro l’occupazione della striscia di Gaza come lo storico Ilan Pappe. Domenica 17 maggio, l’autore de La pulizia etnica della Palestina discute della situazione palestinese con la studiosa Paola Caridi e Khaled Fouad Allam. Nel libro lo storico israelianoPappe ricostruisce le vicende che nel 1948 portarono alla nascita dello Stato di Israele. In quell’anno ebbe luogo anche la Nakba (la catastrofe), ovvero la cacciata di circa 250.000 palestinesi dalla loro terra.

Terra 15.3.09
L'immagine delle amazzoni futuriste
di Simona Maggiorelli


Per Marinetti e co. la guerra era “l'igiene del mondo”. E l'enfasi sulla violenza, così come l'adorazione della macchina (“Un automobile da corsa è più bella della Venere di Samatrocia”) lasciava intendere un universo tutto al maschile. Del resto il Manifesto del Futurismo pubblicato nel 1909 su Le Figaro è esplicito: “il disprezzo della donna” era uno dei punti cardine dei futuristi – pittori, scultori, teatranti, paroliberisti e aeropittori- che ben presto sarebbero finiti sotto lo stivale di Mussolini. L'avversione al femminismo delle prime suffragette, ree di trascurare le faccende di casa, come il disprezzo per la femme fatale decadentista, sensuale sciupa-famiglie, ne sono una traccia concretissima. E se nel 1912 Boccioni e Marinetti sfilano a Londra “sottobraccio alle pochissime suffragette carine”, in quello stesso anno, nel Manifesto Tecnico Marinetti scrive: “il calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante per noi del sorriso e delle lagrime di una donna”. Come documenta Giancarlo Carpi nel suo Futuriste, letteratura, arte e vita (Castelvecchi) “Linferiorità assoluta della donna” è teorizzata da Marinetti in più occasioni. Tanto che una voce di donna gli risponderà in Francia, quella di Valentine de Saint-Point, autrice del Manifesto della donna futurista, in cui - ahinoi- rivendica un ruolo di donna amazzone e guerriera. Nel centenario futurista, con il suo documentatissimo lavoro Carpi ci invita a leggere libri futuristi come L'uomo senza sesso di Fillìa accanto a quelli di Bruno Corra e del prode Marinetti. Testi che presentano una costante: “l'eroe- scrive Carpi- è avversato da donne sentimentali e portatrici di eros debilitante...”, che ostacolerebbero l'uomo proteso verso il futuro tecnologico. Ovvia conseguenza di tutto ciò, una ridda di rappresentazioni deformanti, grottesche della donna, nella pittura futurista come negli scritti. Ma il fatto tragico che Carpi racconta è l'adesione cieca che artiste oggi sconosciute ai più - come la pittrice Regina, come la danzatrice Censi e molte altre – manifestarono, facendo propria la violenza di queste immagini, assumendole come modelli.

giovedì 14 maggio 2009

Terra 15.5.09

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l’Unità 15.5.09
Napolitano: in Italia rischio xenofobia
di Marcella Ciarnelli


Nei paesi dove «le differenze di origini etniche, religiose e culturali sono aumentate» c’è il rischio «del diffondersi di una retorica pubblica xenofoba». Giorgio Napolitano scende in campo in difesa degli «esclusi».

L’allarme del presidente della Repubblica è di quelli che non ammette interpretazioni. Anche in Italia come in altri Paesi «si va diffondendo una retorica pubblica che non esita ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia» ha detto il Capo dello Stato nel “cuore” del suo intervento alla Conferenza annuale delle Fondazioni europee. È un argomento ricorrente nei discorsi di Napolitano l’allarme per una deriva disumana che emargina i più deboli. Anche nei giorni scorsi, nel messaggio per l’anniversario della fondazione della Polizia di Stato, aveva parlato del rischio di «ingenerare una diffusa percezione di insicurezza e preoccupanti fenomeni di intolleranza»
Una società migliore
I presenti hanno applaudito in modo convinto e partecipe le parole di Giorgio Napolitano che ha lanciato il suo monito proprio mentre in altri Palazzi si prendevano decisioni di altro tenore. Ma non è la prima volta che dal Colle arriva l’indicazione a lavorare per una società migliore, che garantisca tutti, e non faccia sentire nessuno espulso. Sia esso nato in Italia, sia arrivato nel nostro Paese alla ricerca di una vita migliore contribuendo «a differenze in termini di origini etniche, religiose e culturali» ormai «aumentate» e che debbono essere considerate una ricchezza e non tradursi «in un fattore di esclusione».
Gli applausi
E gli applausi non sono mancati anche quando il Presidente ha parlato della necessità di «dare un nuovo impulso al contrasto delle vecchie e delle nuove povertà all’interno dei nostri Paesi che, non possiamo permetterci di dimenticarlo, sono la parte ricca di questo pianeta». Per fare fronte «alle sfide che provengono dalla povertà vecchia e nuova, dalle diseguaglianze inaccettabili fra e all’interno delle nazioni non possiamo certo rispondere con la mera conservazione e la difesa degli interessi nazionali» ha detto il presidente che ha fatto, dunque, un discorso in difesa di coloro che rischiano di essere esclusi e per ricordare i propri doveri a chi deve far sì che nessuno lo sia.
Gli aiuti
A coloro che governano i fenomeni globali, sia economici che politici, a coloro che approvano le leggi, ma anche alle Fondazioni quanto mai utili per elaborare strategie innovative, Napolitano ha voluto ricordare la necessità «di un flusso costante di aiuti, ma ancor più di idee nuove e nuovi stili di intervento, nuovi strumenti di governo a livello globale, una reale volontà di cooperare su un piano di parità». La necessità di innescare «un nuovo ciclo di sviluppo che non intacchi i livelli di equità e di coesione sociale raggiunti ma, anzi, li migliori»
La crisi economica che attanaglia il mondo intero è un ulteriore handicap per chi ha meno possibilità e meno potere. «Nella attuale situazione non solo non potremmo riuscire a recuperare coloro che si trovano al di sotto della soglia di povertà ma rischiamo di vedere tanti altri cadere oltre tale soglia». E allora è necessario riportare in primo piano «la povertà e l’impoverimento» che poco spazio hanno avuto nell’agenda politica degli ultimi dieci anni.

l’Unità 15.5.09
Doveva essere «di parte». Ora è il più amato
Il presidente della Repubblica ha un consenso altissimo, l’83%
Apprezzata la difesa della Costituzione e i suoi interventi, come nel caso Englaro
di Marcella Ciarnelli


Tre anni fa, era un lunedì, Giorgio Napolitano giurò e si insediò al Quirinale. Ci arrivò con i voti della sua parte. Ora, a tre anni di distanza, è diventato davvero nella percezione degli italiani «il presidente super partes» che lui, fin dal suo discorso di insediamento, aveva garantito sarebbe stato. Sono bastati trentasei mesi perchè qualunque diffidenza sul primo comunista al Colle venisse superata dal comune convincimento che ormai ha raggiunto la soglia dell’«83 per cento» conferma l’uomo dei sondaggi, Nando Pagnoncelli, che il Quirinale lo tiene sotto stretta osservazione. Napolitano ha «sfondato» anche tra coloro che non hanno alcuna simpatia per il centrosinistra.
La popolarità è aumentata negli ultimi mesi «dal discorso di fine anno in poi». Hanno parlato alla gente i suoi interventi su Eluana Englaro, in difesa della sicurezza sul lavoro, della Costituzione, del ruolo del Parlamento. Ma la diffidenza era già stata cancellata con la gestione della crisi del governo Prodi e con l’effettiva e percepita equidistanza in difesa, però, dell’interesse generale come deve fare un uomo chiamato a svolgere un ruolo da «autentico garante del Paese». L’immagine del presidente viene percepita positivamente «dall’89 per cento» degli italiani, stando ad un sondaggio dell’istituto di Renato Mannheimer che conferma come quasi il 70 per cento avverte Napolitano come un presidente «non di parte» che interviene «nella giusta misura».
Non sono state assolutamente vissuti dagli italiani come un’ingerenza gli interventi che in più occasioni il Presidente ha fatto in questi mesi. Dal 25 aprile vissuto come «festa di tutti» alla necessità di un rilancio della partecipazione, alla Resistenza come fenomeno collettivo, di partigiani, di militari, di popolo. Difendere la Costituzione che gli viene riconosciuto dalla quasi totalità quasi come un obbligo. Apprezzati e condivisi sono stati anche i suoi interventi sugli incidenti sul lavoro e le morti bianche, e poi l’immigrazione e la sicurezza, la situazione politica italiana, le realazioni internazionali e l’Europa, fino alla scuola e la trasformazione dei partiti.
Lo stesso Napolitano, in questi giorni, dal discorso del 22 aprile sulla Costituzione fino a quello di ieri sulla xenofobia, passando per quelli del Primo maggio e del Giorno della memoria senza tralasciare quell’«esame di coscienza sulle reponsabilità» sollecitato davanti alle rovine del terremoto in Abruzzo (poi condiviso dal Papa) ha di fatto riassunto gli impegni che hanno caratterizzato fin qui gli anni di presidenza segnati dall’assillo di una funzione pedagogica tale da rendere consapevole il Paese di quello che fin qui è riuscito a fare, pur tra contraddizioni e lacune, e prepararsi alle prove del futuro. Il futuro, appunto. Ci sono le europee, ci sarà il referendum. Poi le altre scadenze e, tra quattro anni, le politiche a fine mandato. Ci sono da fare i conti con l’intenzione ripetuta di modifica a maggioranza della Costituzione e, quindi, di un cambio di scena tale da imporre un’accelerazione. Questo è il futuribile. Oggi comincia il quarto anno di Napolitano al Colle. Questa è la certezza.

l’Unità 15.5.09
«Medici e presidi obbligo di denuncia»
Il penalista: sono pubblici ufficiali e dunque tenuti a segnalare i clandestini. La norma è palesemente incostituzionale e dovrà essere abolita prima che sia tardi
Intervista a Guido Calvi di Massimo Solani


Le sigle sindacali dei medici, come anche quelle degli insegnanti, non credono alle rassicurazioni e alle alzate di spalle del ministro dell’Interno Maroni. Per loro la situazione è chiara: entrato in vigore il nuovo reato di clandestinità saranno obbligati a denunciare gli extracomunitari irregolari. Una analisi che è condivisa anche da Guido Calvi, penalista ed ex senatore diessino.
Presidi, insegnanti e medici ospedalieri temono di essere costretti a fare la spia. Cosa ne pensa?
«Che sono preoccupazioni fondate, codice penale alla mano. Prendiamo l’articolo 361 che recita: “il pubblico ufficiale, il quale omette o ritarda di denunciare all’autorità giudiziaria, o ad un’altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da euro 30 a euro 516”. L’articolo 362 prevede la stessa cosa per “l’incaricato di pubblico servizio”».
E presidi e medici sono pubblici ufficiali?
«Certamente. Nell’esercizio delle proprie funzioni sono pubblici ufficiali. Non ci piove. Facciamo l’esempio di un medico ospedaliero: se è in servizio e accerta che il papà di un bambino è un clandestino è obbligato a farne denuncia, altrimenti commette una omissione penalmente rilevante. Anche se, secondo la mia opinione, si tratterebbe dell’omessa denuncia di un reato che non è configurabile».
Che cosa intende?
«Il reato di immigrazione clandestina può essere un reato costituzionalmente corretto? Per quanto mi riguarda, e per l’opinione piuttosto diffusa, non è così. Mi spiego: credo che la clandestinità sia un reato non configurabile in quanto attiene allo status e non ad una condotta. In questo caso non ci sono condotte penalmente rilevanti, perché non c’è qualcuno che compie un’azione vietata. È come se si dicesse se tu sei donna, se tu sei più alto di 2 metri o se sei una persona di colore commetti un reato e quindi sei imputabile ed io, in quanto pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, ho l’obbligo di denunciarti. Ma trattandosi di uno status, quello di immigrato, a mio avviso il reato non è configurabile e pertanto è incostituzionale. Quindi se il reato non può sussistere cade anche l’omessa denuncia a carico del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio».
Ma ammettiamo che il decreto sicurezza diventi legge e sia pubblicato in Gazzetta Ufficiale. A quel punto se la norma, in questo aspetto, è o meno incostituzionale lo deve stabilire la Consulta una volta investita dell’eccezione da un tribunale o da un magistrato. Quindi passeranno mesi nel corso dei quali l’obbligo di denuncia degli immigrati clandestini esiste ed è in vigore. Sbaglio?
«No, affatto. È un rischio ben presente stando a quello che è previsto dal codice penale».

l’Unità 14.5.09
L’immigrazione e il mito del ventre molle
di Roberto Gualtieri


La discussione sulla scelta del governo di respingere le imbarcazioni di immigrati intercettate nel canale di Sicilia ha finora trascurato un dato che dovrebbe indurre a esprimere valutazioni meno affrettate. Nonostante la diffusa tendenza a dipingere il Mediterraneo come il “ventre molle” dell’Europa, il quadro che risulta dai dati disponibili è infatti assai differente. Come ricorda Ferruccio Pastore (uno dei massimi esperti in materia) in un recente rapporto di Italianieuropei e dalla Feps (la Fondazione del Pse), in Italia la quota degli immigrati irregolari provenienti dal mare sul totale dei cosiddetti “clandestini” è appena del 13%, mentre a livello europeo questa percentuale scende addirittura sotto il 10%. Anche nel nostro Paese dunque, come nel resto dell’Ue, gli immigrati irregolari sono in larghissima parte persone entrate con un regolare visto e poi trattenutesi dopo la sua scadenza (nel 2006 il 64% del totale), mentre la frontiera di gran lunga più permeabile dell'Europa è quella orientale e non il Mediterraneo.
Siamo quindi di fronte a un vero e proprio mito, alimentato artificiosamente (non solo in Italia ma in tutt’Europa) da gran parte dei media, e sul quale si innestano l’allarmismo e la retorica del centrodestra. Un mito che favorisce la diffusione nell’opinione pubblica di una visione impropria dell’immigrazione irregolare delle sue rotte, e che è strettamente collegato a un atteggiamento asimmetrico dell’Europa verso i suoi due principali confini. Il poderoso investimento economico e politico che in questi anni ha portato ad erigere un vero e proprio “muro” nei confronti del continente africano (che si è tradotto anche nel drammatico aumento del numero dei morti nel canale di Sicilia: dai 200 nel 2004 ai 642 nel 2008, fino ai 339 nei primi 4 mesi del 2009) è infatti innanzitutto il riflesso della scelta europea di privilegiare la direttrice orientale rispetto a quella mediterranea. Per questo, la decisione del governo di contravvenire al diritto internazionale in materia di asilo e alla regola del “più vicino porto sicuro” va contrastata non solo perché è illegittima ed esprime una concezione inaccettabile e assai poco liberale dei diritti individuali (che per Berlusconi sarebbero sacrificabili in nome del fatto che “statisticamente” nelle navi respinte coloro i quali possono chiedere asilo sono solo una minoranza). Ma anche perché essa è il frutto di un'idea di Europa miope e subalterna, che non comprende come la costruzione di una vera partnership euro-mediterranea, fondata sul dialogo e sull’apertura e non sull’erezione di barriere politiche e culturali, sia essenziale per il futuro del nostro continente e per gli interessi dell’Italia.
vicedirettore Istituto Gramsci

l’Unità 14.5.09
Quanto dura un’ora di religione?
di Sergio Bartolomei e Maurizio Mori


Del Papa si parla sempre molto, soprattutto in questi giorni di viaggio in Terra Santa. Poco rilievo, tuttavia, è stato dato dalla stampa al discorso con cui, una decina di giorni fa, il Papa stesso ha ribadito che l’insegnamento della religione cattolica (Irc), lungi dal costituire «un’interferenza o una limitazione della libertà, è un valido esempio di quello spirito positivo di laicità che permette di promuovere una convivenza civile costruttiva».
A prima vista la tesi dell’insegnamento di una religione come modello di autentica laicità è tanto paradossale da essere subito scartata. Ma forse è opportuno continuare a riflettere sulle parole papali, almeno per consentirci di mettere in luce alcuni assunti dell’attuale orientamento vaticano. Eccole.
Con gli altri insegnanti, il docente di religione cattolica deve «porre al centro l’uomo creato a immagine di Dio», sollecitando ad «allargare gli spazi della nostra razionalità». Lo scopo deve essere far capire che «la dimensione religiosa è intrinseca al fatto culturale» e permette di «trasformare la conoscenza in saggezza di vita» dando «un’anima alla scuola». La religione è infatti «parte integrante della persona» e condizione del «vivere umano completo»; in breve, «rende l’uomo più uomo».
Il rilievo del discorso papale emerge quando se ne indichino le implicazioni negative. L’idea che la religione è intrinseca alla cultura implica che senza la religione non c’è cultura o quella che c’è è insufficiente (lo dimostra la cultura scientifica che non attinge il mistero e non allarga la razionalità...). Se la religione è parte integrante della persona, chi non la coltiva è persona meno integra. Se rende l’uomo più uomo, chi non la fa propria è meno uomo, più grezzo o incompleto. E infine se la religione dà un’anima alla scuola, una scuola senza religione è arida o più povera, ecc. ecc.
Quattro secoli fa Pierre Bayle, in polemica coi devoti del suo tempo che negavano potesse esistere una comunità umana priva di religione, riconosceva come del tutto concepibile una società di “atei virtuosi”, persone cioè con solidi valori morali indipendenti dalla religione. Oggi il Papa rivendica il primato morale della religione per l’educazione quasi riecheggiando le parole dei programmi scolastici ministeriali del 1955 che vedevano nella religione «il completamento e il coronamento dell’insegnamento». L’idea di individui pensanti non religiosi è oggi per il Magistero altrettanto improbabile di quella di ateo virtuoso per gli avversari di Bayle. È in fondo l’ammissione indiretta che l’unico “laico virtuoso”, per la Chiesa, è il laico morto, rassegnato al precetto “fuori della chiesa, nessuna salvezza”.
Consulta di Bioetica

Repubblica 15.5.09
Spagna, nuova legge sull’aborto Zapatero lancia la sfida ai vescovi
di Cristina Nadotti


Le manifestazioni di piazza, gli anatemi dei vescovi e le immagini forti usate dall´opposizione, che ha parlato di «bambini al settimo mese di gestazione finiti nel tritacarne», non hanno fermato il governo Zapatero. Ieri il Consiglio dei ministri spagnolo ha mosso un altro passo sulla strada dell´acquisizione dei diritti civili e ha approvato la nuova legge sull´aborto. Con la norma che la stampa locale ha definito «un mutamento storico», l´interruzione di gravidanza diventa ora il diritto a scegliere liberamente la maternità e non una concessione fatta alla donna da medici o giudici, come stabilito dalla legge in vigore varata nel 1985. E basterà aver compiuto 16 anni per poter decidere da sole, entro le 14 settimane di gestazione, di non volere aver un figlio.
L´approvazione del progetto da parte del Parlamento non è in discussione, visto che la maggioranza relativa ha consentito a Zapatero di governare con tranquillità e anche una parte dei cattolici, tra i quali il leader del Partito Popolare Mariano Rajoy, ha dichiarato in passato di non opporsi alla nuova legge, salvo tuonare ora contro la concessione dell´aborto alle ragazze di 16 anni. Ma in questo la norma sull´interruzione di gravidanza non fa che adeguarsi alla "Legge sull´autonomia del paziente", per la quale in Spagna i maggiori di 16 anni possono decidere da soli di tutte le terapie mediche alle quali devono sottoporsi.
L´unico requisito chiesto prima di procedere all´aborto è che il centro pubblico o privato a cui le donne si rivolgeranno fornisca informazioni scritte sui programmi sociali di aiuti alle madri, sui diritti di cui godono le lavoratrici in caso di maternità e sulle terapie anticoncezionali. Fatto ciò, la donna avrà tre giorni per riflettere, scaduti i quali nessuno le potrà negare l´intervento. L´aborto sarà consentito anche fino alla ventiduesima settimana in caso di grave rischio fisico o psichico per la salute dalla donna o di malformazione del feto, se constatate dai medici. E ancora, sarà possibile interrompere la gravidanza in qualunque momento in caso di «anomalia incompatibile con la vita» o di «malattia incurabile del feto», ma allora la decisione finale spetterà ad una commissione medica. La nuova legge obbligherà gli enti pubblici ad adeguamenti dispendiosi, poiché al momento solo il tre per cento degli aborti si svolge in strutture pubbliche e la sanità spagnola è impreparata a garantire il diritto all´aborto cui fa riferimento la nuova legge.
María Teresa Fernádez de la Vega, vicepresidente del consiglio, ha detto che «termini quali "diritti", "garanzie", "sicurezza" e "rispetto" caratterizzano il testo di legge, con il fine ultimo di salvaguardare la dignità della donna». Ma queste rassicurazioni non fermeranno la campagna a tappeto lanciata nelle scorse settimane dai vescovi, i quali hanno sostenuto che «in Spagna gli embrioni delle linci sono più tutelati di quelli umani», un riferimento ai finanziamenti e alla ricerca per la salvaguardia della lince iberica.

l’Unità 15.5.09
Delusione Le organizzazioni per i diritti umani: così si comporta come Bush
Nuova grana Usare o meno i tribunali speciali militari creati dal suo predecessore
Torture, Obama nella bufera
Cheney esulta: censura giusta
di Umberto De Giovannangeli


Contrordine: le foto delle torture Cia, raccontate in anticipo da l’Unità. non saranno rese pubbliche: Obama fa marcia indietro. Critiche le organizzazioni per i diritti umani: il presidente sbaglia. Grave arretramento.

Bufera su Barack Obama per i segreti di Stato. Dopo avere promesso la massima trasparenza, sia in campagna elettorale che al suo arrivo alla Casa Bianca, il presidente Usa ha dovuto prendere nelle ultime settimane una serie di decisioni che hanno messo in discussione il suo precedente impegno e provocato alcune imbarazzanti inversioni di rotta.
I REPUBBLICANI
A esultare sono i repubblicani e in particolare l’ex vicepresidente Dick Cheney che nelle ultime settimane aveva più volte ammonito Obama: le promesse iniziali di trasparenza potevano mettere a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti. La decisione di Obama di rimangiarsi il suo assenso alla pubblicazione delle foto delle sevizie inflitte dai militari americani ai detenuti nelle carceri in Iraq e Afghanistan «per motivi di sicurezza» - esattamente la tesi di Cheney - ha fatto cadere le braccia alle organizzazioni che si battono per la difesa dei diritti umani. Esultante invece Liz Cheney, figlia dell'ex vicepresidente. «Ve l'avevamo detto che certe decisioni possono essere prese solo dopo una analisi approfondita e, possibilmente, un dibattito pubblico», ha detto. Una patata altrettanto bollente si sta rivelando per Obama la decisione se usare o meno i tribunali speciali militari creati dalla amministrazione Bush per processare i detenuti di Guantanamo. Dopo averli criticati da candidato, e dopo avere ordinato al suo arrivo alla Casa Bianca la chiusura della prigione di Guantanamo «entro un anno», Obama ha scoperto che per risolvere il complesso problema di cosa fare dei sospetti terroristi detenuti nella base militare Usa a Cuba i tribunali speciali sono forse il male minore. Gran parte delle prove raccolte contro i detenuti sono frutto infatti di interrogatori da parte dei militari Usa che non potrebbero essere usate in tribunali normali, vincolati a tutelare anche i diritti dell'imputato. Anche la decisione più trasparente presa finora da Obama, quella di rendere pubblici i memorandum dei legali della amministrazione Bush che autorizzavano di fatto la tortura, si è trasformata in un boomerang per il nuovo presidente per la incertezza mostrata sulla incriminabilità o meno degli autori dei documenti, e sulla opportunità o meno di una commissione d'inchiesta.
LIBERAL DELUSI
La decisione di Obama è stata criticata da Amnesty International. Il direttore esecutivo per gli Usa, Larry Cox, accusa il governo di Washington di non rispettare gli obblighi imposti dal giudice di pubblicare i documenti come aveva chiesto in un ricorso giudiziario l'American Civil Liberties Union. «Esseri umani hanno subito torture e hanno visto negati i loro diritti: si è mentito al popolo statunitense e i funzionari del governo che autorizzarono e giustificarono gli abusi hanno ricevuto carta bianca». «Ora il governo Obama rinnega l’obbligo giuridico di consentire la pubblicazione di queste foto di torture, che avrebbero aiutato i cittadini statunitensi a comprendere l'ampiezza degli abusi commessi nel loro nome». Secondo Cox, «questa decisione non fa che confermare la necessità urgente di un'inchiesta che metta in luce e persegua da una punto di vista giudiziario le torture commesse e così poter finalmente voltar pagina».

l’Unità 15.5.09
Diario segreto di Zhao Ziyang. Tiananmen senza veli
Memorie registrate su nastro e inviate di nascosto a Hong Kong
«La democrazia occidentale superiore al modello politico cinese»
di Gabriel Bertinetto


Esce a Hong Kong il diario segreto di Zhao Ziyang, l’unico leader cinese che s’oppose al bagno di sangue sulla Tiananmen. Nel racconto dello scomparso ex-segretario comunista rivivono le ore tragiche del massacro.

«La notte del 3 giugno, mentre mi trovavo in cortile con la mia famiglia, ho sentito un’intensa sparatoria. Ho capito che non si era evitata una tragedia che era destinata a scioccare il mondo intero». Così scrive Zhao Ziyang rievocando le ore in cui fra il 3 ed il 4 giugno del 1989, la primavera democratica di Pechino sfiorì, e le speranze di libertà furono soffocate nel sangue.
SMITIZZATO DENG
Per anni, sino alla morte avvenuta nel 2005, l’ex-segretario del partito comunista cinese, ha scritto in solitudine memorie che nessuno in patria gli avrebbe mai permesso di divulgare. Da quando, pochi giorni prima della strage, venne rimosso dalla guida del partito, Zhao visse di fatto agli arresti domiciliari.
In quel periodo riuscì segretamente a registrare i suoi ricordi su nastri che, per evitarne la requisizione, nascondeva fra le cassette contenenti le favole e le canzoncine dei nipotini. Alcuni amici a poco a poco sono riusciti a portare lo scottante materiale clandestinamente fuori dalla Cina. Ed ora le autorità di Pechino temono che presto le pagine del libro entrino via internet nelle case dei connazionali.
Il diario contiene giudizi a posteriori sulla superiorità del sistema democratico di tipo occidentale rispetto alla dittatura monopartitica vigente tuttora nella Repubblica popolare. Viene smitizzata la figura di Deng Xiaoping, normalmente considerato il padre delle riforme e della modernizzazione cinesi. In realtà, Deng non solo si oppose all’introduzione del pluralismo e delle libertà politiche, ma non ebbe nemmeno un ruolo guida nel varo dei cambiamenti economici, il cui merito Zhao attribuisce innanzitutto a se stesso.
Deng, secondo Zhao, era in realtà continuamente sballottato fra gli innovatori e i conservatori. La sua personalità era talmente poco solida che, afferma ancora Zhao, si lasciava influenzare ora dagli uni ora dagli altri, e finiva con il dare ragione a chi riuscisse a illustragli per primo il suo punto di vista.
SVOLTA FATALE
E tuttavia fu proprio Deng ad imprimere la svolta fatale agli eventi del 1989, ospitando a casa sua la riunione in cui il 19 maggio l’ufficio politico del partito comunista decise di imporre la legge marziale e stroncare il movimento per la democrazia.
Zhao fu l’unico a votare contro. «Dissi a me stesso -si legge nel diario- che, qualunque cosa accadesse, avrei rifiutato di passare alla storia come il segretario comunista che aveva mobilitato l’esercito per attaccare gli studenti». Poche ore dopo raggiunse i manifestanti in piazza e con le lacrime agli occhi li implorò di smobilitare, invano cercando di fare loro capire che la causa era perduta e restando sul posto rischiavano di perdere anche la vita.

Corriere della Sera 15.5.09
Convivere, nuovo fidanzamento italiano
di M.Antonietta Calabrò


La tendenza. L’Istat dice che il 5% delle coppie non è coniugato, ma è solo la punta dell’iceberg
Le tipologie Ci sono i ragazzi che «provano» a stare insieme, ma anche le persone adulte che non hanno voglia di imbarcarsi in nuove nozzeLa Cei: al Nord 7 coppie su 10 si sposano dopo aver vissuto insieme Le ragazze prima vogliono diventare mamme e dopo (forse) mogli

Una volta in Italia c’era l’econo­mia sommersa, adesso è spro­fondata sott’acqua anche la de­mografia. I dati ufficiali sulla vita quoti­diana nel nostro Paese, relativi alle dina­miche sociali e agli stili di vita, forniti due mesi fa dall’Istat indicano che solo il 5 per cento delle coppie conviventi non sono coniugate. Un numero così esiguo (che interessa 637 mila persone su una popolazione che sfiora i 60 milio­ni), che rende difficile capire dal punto di vista qualitativo il fenomeno. Si sa so­lo che la cifra è comunque in deciso au­mento dal 2001 al 2007 (dal 3,1 al 4,6 del totale delle coppie). E che la statisti­ca — come i polli di Trilussa — non ren­de ragione di una forte differenziazione territoriale visto che la cifra, modesta, del 2 per cento di coppie conviventi al Sud, abbattono la media nazionale. Mentre al Nord Est i dati Istat parlano già del 6,8 per cento delle coppie, del 4,8 per cento delle coppie al Centro. I numeri ufficiali «contano» infatti solo coloro che per un qualche motivo (la ri­chiesta di un certificato di convivenza, il pagamento di una tassa sui rifiuti, l’iscrizione di un ragazzino a scuola) hanno bisogno di interagire con l’am­ministrazione pubblica.
L’esperienza comune (chi di noi non conosce due giovani o due adulti che convivono?) dice che le convivenze so­no in realtà molte di più. E gli stessi da­ti (anch’essi ufficiali) sul dimezzamen­to in dieci anni (da quattrocentomila a 250 mila l’anno)del numero dei matri­moni sia civili che religiosi, combinati ad uno dei tassi di nati per donna tra i più bassi d’Europa, fanno ritenere che quel cinque per cento nazionale sia in realtà la punta di un iceberg, per sua na­tura stessa refrattario ad emergere.
Se l’attuale trend dovesse prosegui­re, nel 2015, infatti, in Italia, le convi­venze supereranno i matrimoni, come del resto già avviene nelle grandi città del Nord. Questo perché ormai vive in­sieme al partner senza alcuna formalità una donna su tre tra quelle nate alla fi­ne degli anni Settanta, e quando avran­no diciotto anni le bambine nate negli anni Novanta, la percentuale potrebbe quasi raddoppiare.
Demografi e sociologi distinguono quattro tipi diversi di convivenze, ognu­na delle quali è in aumento per varie cause. Ci sono innanzitutto le conviven­ze prematrimoniali sostitutive del peri­odo di fidanzamento (di giovani adulti che normalmente valutano di sposarsi in futuro, per mettere al mondo dei fi­gli e che se solo la «prova» va male non contrae matrimonio, tempo medio del­la convivenza tra i due e i cinque anni).
Ci sono poi le coppie di fatto dovute a impossibilità a contrarre matrimonio: a)adulti già sposati e non ancora divor­ziati; b) persone di mezza età (se non anziani) che non vogliono perdere con un nuovo matrimonio vantaggi pensio­nistici, fiscali o patrimoniali; c) coppie omosessuali (che per legge in Italia non possono sposarsi).
Al terzo posto le cosiddette unioni li­bere, dovute alla scelta di un particola­re stile di vita. E, infine, c’è chi vuole vivere in base a patti di solidarietà alter­nativi al matrimonio secondo una ten­denza descritta in Francia già quindici anni fa dalla sociologa del diritto, diret­trice della ricerca della Scuola di alti stu­di sociali (Ehess) di Marsiglia Irène Théry nel volume «Demariage» (unioni civili che prevedono meno diritti, me­no doveri).
Si può quantificare, sia pure a grandi linee, quanto questi quattro gruppi «pe­sano » sul numero complessivo delle convivenze reali in atto nel Paese? Il fon­datore del Censis, Giuseppe De Rita, che per primo riuscì a leggere il fenome­no dell’economia sommersa parla di un «quaranta per cento di convivenze pre­matrimoniali » sul totale delle conviven­ze.
In questi casi, secondo un’analisi qualitativa (2008) svolta su 120 coppie conviventi in sei regioni italiane dal Ci­sf, «la scelta della convivenza è spesso dettata da fattori decisivi quali il deside­rio di sperimentare una vita autonoma e indipendente dai genitori, unito alla 'voglia di stare insieme', ma il matri­monio resta però quasi sempre la meta del percorso di coppia».
Monsignor Sergio Nicolli, direttore dell’Ufficio per la pastorale familiare della Cei, conferma che nel Nord Italia «ci sono punte del 70 per cento di cop­pie che chiedono il matrimonio in Chie­sa e che sono già conviventi». La media nazionale rimane «un po’ sotto il 50 per cento». «Noi accompagniamo queste coppie nella preparazione al matrimo­nio cristiano, con la massima disponibi­lità ed accoglienza». Quello che preoc­cupa di più la Chiesa è semmai «il feno­meno culturale sottostante, perché non è normale la paura del futuro che è con­naturata a queste scelte, è questo che ci pone i maggiori interrogativi sulla for­mazione degli adolescenti».
La convivenza diventa un fenomeno che Sante Orsini, capo servizio «Struttu­ra e dinamica sociale» dell’Istat, descri­ve come «un vaso comunicante» con scambi frequenti con altri «stati demo­grafici » anche perché «ancora oggi la natalità fuori del matrimonio non è un fenomeno così importante in Italia, co­me avviene invece in altri Paesi».
La maggioranza delle convivenze per il Censis sono però costituite «da chi non vuole dare nessun tipo di regolari­tà alla propria vita» (20%) e (40%)da chi «non intende stabilizzare l’unione per motivi pratici che hanno a che fare con il fisco, con il patrimonio e con la sistemazione futura dell’eredità o per non perdere l’assegno di mantenimen­to proveniente da un precedente matri­monio ». «È per questo che, a differenza di quanto è avvenuto per l’aborto, e per il divorzio — sostiene De Rita — non c’è pressione sociale per una regolazio­ne delle convivenze e il dibattito su Di­co e dintorni si è arenato: lo dico a co­sto di far arrabbiare Rosi Bindi e Marco Pannella».
In ogni caso, da tempo molti comuni e molte regioni hanno stabilito pubbli­ci registri di convivenza. Pisa il registro ce l’ha dal 1996. Dal 1998 a ieri, quindi nell’arco di 11 anni, sono state registra­te 40 unioni di cui 7 tra persone dello stesso sesso (quattro tra uomini e tre tra donne). E ci sono state tre cancella­zioni. L’elenco completo è pubblicato nel sito dell’Arcigay, perché questi regi­stri sono attualmente il solo modo di uf­ficializzare una convivenza tra persone dello stesso sesso. A fine gennaio l’Euri­spes ha diffuso un sondaggio secondo il quale il 58,9% degli italiani è per il ri­conoscimento delle unioni civili dei gay, il 40,4% è favorevole al loro diritto di sposarsi. Il 18,5 è invece contrario al matrimonio gay (il 41,7 nel 2003). Ma c’è una quota consistente, il 35,9, che è contrario a qualsiasi forma di riconosci­mento.
Il futuro Oggi una donna su tre fra quelle nate alle fine degli anni ’70 vive senza legami. La percentuale raddoppierà quando cresceranno le ragazzine degli anni ’90

Corriere della Sera 14.5.09
Il falso mito del talento naturale
Il genio nasce dall’allenamento Anche Mozart ha dovuto studiare
di David Brooks


La gente nutre ancora idee romanti­che a proposito del genio: crede che sia il prodotto di una scintilla divina. Molti sono convinti che nel corso dei secoli siano esistiti cam­pioni di eccellenza — come Dante, Mozart, Einstein — il cui talento andava ben al di là dell’umana comprensione e sfiorava addirittu­ra la verità suprema. Fortunatamente noi vivia­mo nell’era della scienza e la ricerca moderna sa sfatare i falsi miti.
Ai nostri giorni, predomina l’opinione che persino le speciali e precoci doti di un Mozart non fossero affatto conseguenza di qualche dono spirituale innato. Le sue prime composi­zioni non presentano meriti particolari, appa­iono piuttosto rimaneggiamenti di opere al­trui. Sin dalla più tenera età, Mozart fu un buon musicista, ma in nessun modo si sareb­be distinto dai nostri bimbi prodigio. Quello che contraddistingue Mozart, e questo lo ab­biamo capito oggi, è un tratto in comune con Tiger Woods, ovvero un’ottima capacità di concentrazione e un papà deciso a coltivare il talento del figliolo. Fin da bambino, Mozart si esercitava costantemente al pianoforte e ben presto raggiunse le 10 mila ore di pratica, sul­le quali avrebbe costruito in seguito la sua car­riera.
Le più recenti indagini suggeriscono una vi­sione del mondo assai più prosaica e democra­tica, se non addirittura puritana. Il fattore chiave che separa il genio dall’eccellenza non è affatto la scintilla divina. E non è nemmeno il quoziente di intelligenza, solitamente un in­dicatore inaffidabile del futuro successo, per­sino in un campo come gli scacchi. Il segreto sta nella pratica, svolta con metodo e convin­zione. Coloro che eccellono, in qualunque campo, trascorrono moltissime ore a esercita­re rigorosamente il loro mestiere. Le ultime ricerche sono state condotte da studiosi come K. Anders Ericsson, lo scomparso Benjamin Bloom e altri, e riassunte in due godibilissimi nuovi libri: «The Talent Code», di Daniel Coy­le, e «Talent Is Overrated», di Geoff Colvin.
Se volete capire come si sviluppa un tipico genio, prendete una ragazzina con capacità verbali appena al di sopra della media. Non occorre un grande talento, solo quanto basta per darle un senso di distinzione. Poi fatele conoscere, diciamo, uno scrittore, che di pre­ferenza condivide con lei alcuni dettagli bio­grafici. Forse è nato nella stessa città, ha le me­desime radici etniche oppure lo stesso com­pleanno, qualunque cosa possa creare un sen­so di affinità. Questo contatto potrebbe offri­re alla ragazzina un’idea del suo potenziale fu­turo. Potrebbe farle scorgere, Coyle ci tiene a ribadire, quello spiraglio di un cerchio incan­tato nel quale entrare in futuro. A questo pun­to, se uno dei genitori dovesse per caso venire a mancare verso i suoi 12 anni, una perdita si­mile genererebbe purtroppo un profondo sen­so di insicurezza ma anche una fame dispera­ta di successo. Armata di ambizioni, la ragazzi­na allora leggerebbe romanzi e biografie lette­rarie a non finire, accumulando le conoscen­ze di base del suo settore: da una parte i ro­manzi vittoriani, da un’altra gli esponenti del realismo magico e ancora in un altro scompar­to i poeti rinascimentali. Questa capacità di suddividere le informazioni in campi, o secon­do modelli precisi, affina notevolmente la me­moria. La nostra ragazza saprebbe indagare più a fondo i nuovi testi e afferrarne rapida­mente i meccanismi interni.
Poi si metterebbe a scrivere, una pratica len­ta, laboriosa e spietata. Racconta Colvin che Ben Franklin prendeva i saggi pubblicati nella rivista The Spectator e li metteva in versi. Poi trasformava nuovamente i versi in prosa e stu­diava, frase per frase, tutti i punti in cui il suo saggio gli sembrava inferiore all’originale. Coyle descrive una scuola di tennis in Russia dove le partite si giocano senza pallina. Lo sco­po è quello di concentrarsi meticolosamente sulla tecnica (provate a rallentare il vostro swing di golf per eseguirlo in 90 secondi, e contate gli errori!). Nell’esercitarsi a questo modo, si rallenta il processo di automatizza­zione. La mente cerca sempre di trasformare abilità apprese consapevolmente di recente in azioni inconsapevoli e automatiche. Ma la mente è facilona, e si accontenta presto. Nel fare pratica lentamente, scomponendo i gesti in piccole parti e ripetendoli all’infinito, lo stu­dente assiduo costringe il cervello a interioriz­zare un modello superiore di esecuzione.
Torniamo alla nostra scrittrice in erba, che a questo punto si cercherà un maestro capace di esaminare il suo lavoro dall’esterno e di cor­reggere i più piccoli errori, incitandola ad af­frontare sfide sempre più impegnative. Ora la giovane si applica a risolvere alcuni problemi — come riunire tutti i personaggi in una stan­za — provando e riprovando decine di volte, e così facendo rafforza abitudini mentali alle quali potrà attingere per capire e superare fu­turi ostacoli. La caratteristica fondamentale della nostra ragazza non è una qualche miste­riosa forma di genio, bensì la capacità di svi­luppare procedure di esercitazione consape­voli, inflessibili e ripetitive. Coyle e Colvin de­scrivono decine di esperimenti a conferma di questo processo. La ricerca spoglia i grandi successi del loro alone di magia ma ribadisce un fatto che è spesso trascurato: il dibattito pubblico oggi è dominato dalla genetica e da ciò che saremmo «programmati» a fare, ed è vero che il nostro patrimonio genetico gesti­sce le nostre potenzialità. Ma non dimenti­chiamo che il cervello è anche straordinaria­mente plastico. Noi ci costruiamo attraverso il comportamento. Nelle parole di Coyle, non conta chi siamo, ma quello che facciamo.
traduzione di Rita Baldassarre © New York Times Syndicate

Repubblica 14.5.09
Il pubblico e il privato di Berlusconi
Le dieci domande mai poste al Cavaliere
di Giuseppe D’Avanzo


Repubblica ha chiesto, nei giorni scorsi, di rivolgere al presidente del Consiglio dieci domande sulle incoerenze e le omissioni di una storia che molti definiscono "di Veronica" o "di Noemi" e nessuno azzarda a definire per quel che è o appare: un "caso Berlusconi". Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, lunedì, ha chiesto due giorni per dare un risposta. Quella risposta non è arrivata. Per non dissimulare, come vuole il nuovo conformismo dell´informazione italiana, ciò che dovrebbe essere chiarito, pubblichiamo oggi le domande che avremmo voluto rivolgere al premier: nascono dalle contraddizioni che abbiamo creduto di riscontrare tra le sue dichiarazioni e quelle degli altri protagonisti della vicenda. Vediamole.
Silvio Berlusconi ha detto:
«Credo che chi è incaricato di una funzione pubblica, come il presidente del Consiglio, possa accettare la continuazione di un rapporto [con la sua consorte, Veronica Lario] soltanto se si chiarisce chi ha provocato questa situazione». (Porta a Porta, 5 maggio).
Repubblica concorda con Silvio Berlusconi. è evidente che, nonostante il frastuono mediatico di queste ore, non si discute di un divorzio o di una separazione, affare privato di due coniugi. Come ha chiaro il premier, la questione interroga i comportamenti di «un incaricato di una funzione pubblica».
In quanto tali, quei comportamenti sono sempre di pubblico interesse e non possono essere circoscritti a un ambito familiare. D´altronde, la signora Veronica Lario, nelle sue dichiarazioni del 29 aprile e del 3 maggio, offre all´attenzione dell´opinione pubblica due certezze personali e una domanda.
Le due certezze descrivono, tra il pubblico e il privato, i comportamenti del presidente del Consiglio:
«Mio marito frequenta minorenni»; «Mio marito non sta bene».
La domanda, posta dalla signora all´opinione pubblica e a chi in vario modo la rappresenta, è invece tutta politica e chiama in causa le pratiche del «potere», il suo modo di essere, che si degrada e si avvilisce pericolosamente quando a rappresentare la sovranità popolare vengono chiamate "veline" senza altro merito che un bell´aspetto e la prossimità al premier.
Ha detto la signora Lario:
«Quello che emerge oggi, attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile, è la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte le donne (...). Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell´imperatore. Condivido, quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore». (Ansa, 28 aprile, 22,31)

Silvio Berlusconi ha replicato, a caldo, evocando un complotto «della sinistra e della sua stampa che non riescono ad accettare la mia popolarità al 75 per cento (…) Tutto falso, nato dalla trappola in cui anche mia moglie purtroppo è caduta. Le veline sono inesistenti. Un´assoluta falsità». (Porta a porta, 5 maggio)
E´ il primo ingombro che bisogna verificare. Questa storia è soltanto una trappola bene organizzata? E´ vero, se di complotto si tratta, che nasconde la mano della sinistra e della «sua stampa»?
Tre evidenze lo escludono.
Il primo quotidiano che dà conto della candidatura di una "velina" alle elezioni europee è il Giornale della famiglia Berlusconi. Il 31 marzo, a pagina 12, nella rubrica Indiscreto a Palazzo si legge che «Barbara Matera punta a un seggio europeo». «Soubrette, già "Letterata" del Chiambretti c´è, poi "Letteronza" della Gialappa´s, quindi annunciatrice Rai e attrice della fiction Carabinieri», la Matera, scrive il Giornale, «ha voluto smentire i luoghi comuni sui giovani che non si applicano e non si impegnano. "Dicono che i ragazzi perdino tempo. Non è vero: io per esempio studio molto"». «E si vede», commenta il giornale di casa Berlusconi.
Il secondo giornale che svela «la carta segreta che il Cavaliere è pronto a giocare» è Libero, il 22 aprile. Notizia e foto di prima pagina con «Angela Sozio, la rossa del Grande Fratello e le gemelle De Vivo dell´Isola dei famosi, possibili candidate alle elezioni europee». A pagina 12, le rilevazioni: «Gesto da Cavaliere. Le veline azzurre candidate in pectore» è il titolo. «Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl» è il sommario.
Per Libero le «showgirl», che dovranno superare un colloquio, sono ventuno (in lista i candidati a un seggio di Bruxelles, come si sa, sono settantadue). I nomi che si leggono nella cronaca sono: Angela Sozio, Elisa Alloro, Emanuela Romano, Rachele Restivo, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Barbara Matera, Ginevra Crescenzi, Antonia Ruggiero, Lara Comi, Adriana Verdirosi, Cristina Ravot, Giovanna Del Giudice, Chiara Sgarbossa, Silvia Travaini, Assunta Petron, Letizia Cioffi, Albertina Carraro. Eleonora e Imma De Vivo e «una misteriosa signorina» lituana, Giada Martirosianaite.
Difficile sostenere che Il Giornale e Libero siano fogli di sinistra. Come è arduo credere che la Fondazione farefuturo , presieduta da Gianfranco Fini, sia un pensatoio vicino al partito democratico. Il think tank, diretto dal professor Alessandro Campi, vuole «far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione» . Coerentemente critica l´uso di «uno stereotipo femminile mortificante» e con un´analisi della politologa Sofia Ventura avverte che «il "velinismo" non serve». Nell´articolo si legge : «Assistiamo a una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto da fare, allo scopo di proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento. Questo uso strumentale del corpo femminile, denota uno scarso rispetto per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima».
Quando la signora Lario prende (buonultima) la parola per censurare il "velinismo" - e «il ciarpame senza pudore» del potere - non si muove nel vuoto, ma su un terreno già smosso dalle rivelazioni dei giornali vicini al premier e dalle analisi critiche di intellettuali prossimi alla maggioranza di governo.
Questo "caso" non ha inizio con un intrigo, come protesta Berlusconi, ma trova la sua trasparente ragione nella preoccupazione di ambienti della destra per un «impoverimento della qualità democratica di un paese» (ancora la Ventura).
Rimosso il presunto «complotto», resta il "caso" politico, dunque. Un "caso" che diventa anche familiare, quando Veronica Lario scopre che Silvio Berlusconi ha partecipato a Napoli alla festa di compleanno di una diciottenne (Repubblica, 28 aprile). E ancora una volta politico quando la signora, annunciando la sua volontà di divorziare, denuncia pubblicamente i comportamenti di un marito che, «incaricato di una pubblica funzione», «frequenta minorenni», prigioniero com´è di un disagio che minaccia il suo equilibrio psicofisico.
Il presidente del Consiglio ha replicato ai rilievi della signora Lario con due interviste alla carta stampata (Corriere della Sera e la Stampa, 4 maggio) e con un lungo monologo a Porta a Porta.
In queste tre sortite pubbliche, la ricostruzione degli avvenimenti di cui si discute (la candidatura di giovani donne selezionate per la loro bellezza e amicizia con il premier; il suo affetto per Noemi Letizia, maggiorenne il 26 aprile; la partecipazione alla festa di compleanno; il lungo sodalizio amicale con la famiglia Letizia) ha avuto, da parte di Berlusconi, una parola definitiva, ma o contraddittoria o omissiva.
Berlusconi nega di aver mai avuto intenzione di candidare «soubrette».
«Non avevamo messo in lista nessuna "velina"»
(Corriere, 4 maggio)
Noemi lo chiama «papi». Perché? A chi glielo chiede, replica:
«E´ uno scherzo, mi volevano dare del nonno, meglio mi chiamino papi. Non crede?» (Corriere, 4 maggio).
Berlusconi è più preciso con la Stampa (4 maggio):
«Io frequenterei, come ha detto la signora [Lario], delle diciassettenni. E´ una cosa che non posso sopportare. Io sono amico del padre punto e basta. Lo giuro!»
E´ la stessa versione offerta a France2 .( 6 maggio)
Quando il presidente del Consiglio spiega le circostanze della frequentazione con Noemi Letizia - si tratta di un´antica amicizia di natura politica con il padre, dice - il giornalista lo interrompe per chiedere:
«…dunque [Noemi] non è una ragazza che lei conosceva personalmente?».
Berlusconi risponde:
«No, ho avuto l´occasione di conoscerla tramite i suoi genitori. Questo è tutto».
La versione di Berlusconi è contraddetta in tutti i suoi elementi dalle interviste che Noemi Letizia concede.
Noemi così ricostruisce il suo legame affettivo con il presidente del Consiglio:
«Mi vuole bene come a un figlia. E anch´io, noi tutti gli siamo molto legati». (Repubblica, 29 aprile)
Al Corriere del Mezzogiorno, il 28 aprile, consegna dettagli chiave.
«[Berlusconi, papi] mi ha allevata (…) E´ un amico di famiglia. Dei miei genitori (…) non mi ha fatto mai mancare le sue attenzioni. Un anno [per il mio compleanno], ricordo, mi ha regalato un diamantino. Un´altra volta, una collanina. Insomma, ogni volta mi riempie di attenzioni. (…) Lo adoro. Gli faccio compagnia. Lui mi chiama, mi dice che ha qualche momento libero e io lo raggiungo. Resto ad ascoltarlo. Ed è questo che desidera da me. Poi, cantiamo assieme. (…) Quando vado da lui ha sempre la scrivania sommersa dalle carte. Dice che vorrebbe mettersi su una barca e dedicarsi alla lettura. Talvolta è deluso dal fatto che viene giudicato male, gli spiego che chi lo giudica male non guarda al di là del proprio naso. Nessuno può immaginare quanto papi sia sensibile. Pensi che gli sono stata vicinissima quando è morta, di recente, la sorella Maria Antonietta. Gli dicevo che soltanto io potevo capire il suo dolore. (…) [Da grande vorrò fare] la showgirl. Mi interessa anche la politica. Sono pronto a cogliere qualunque opportunità. (…) Preferisco candidarmi alla Camera, al parlamento. Ci penserà papi Silvio».
Nel racconto di Noemi c´è la narrazione di un rapporto diretto, intenso con il presidente del Consiglio. Che le fa tre regali per il 16°, 17° e 18° compleanno. Quindi, si può concludere, Berlusconi ha conosciuto Noemi quindicenne. Nel loro rapporto non c´è alcun ruolo o presenza dei genitori. Noemi non vi fa alcun riferimento e non è corretta dalla madre, presente al colloquio con Angelo Agrippa del Corriere del Mezzogiorno. Berlusconi ha tentato di ridimensionare il legame con la minorenne: «Ho incontrato la ragazza due o tre volte, non ricordo, e sempre alla presenza dei genitori». I genitori non hanno ancora confermato le parole del premier.
Durante l´incontro con il giornalista, la signora Anna Palumbo - madre di Noemi - interviene soltanto per specificare le circostanze in cui Berlusconi ha conosciuto suo marito, Benedetto "Elio" Letizia. Dice:
«[Berlusconi] ha conosciuto mio marito ai tempi del partito socialista. Ma non possiamo dire di più».
Noemi non è così evasiva quando affronta una delle questioni decisive per questa storia. E´ addirittura esplicita. Ella ritiene di poter ottenere da Berlusconi l´opportunità di fare spettacolo o, in alternativa, di essere eletta in parlamento. Televisione o scranno a Montecitorio. Le aspettative di Noemi, sollecitate dalle attenzioni (o promesse) di Berlusconi, sono in linea con le riflessioni critiche di farefuturo, il think tank di Gianfranco Fini («Le donne non sono gingilli») e della signora Lario («Ciarpame senza pudore»).
Quando e dove e come si sono conosciuti Berlusconi ed Elio Letizia è un altro enigma di questa storia che raccoglie versioni successive e contraddittorie.
A Varsavia Berlusconi dice:
«[Elio] lo conosco da anni, è un vecchio socialista ed era l´autista di Craxi». (Ansa, 29 aprile, 16,34)
Quando la circostanza è subito negata da Bobo Craxi («Cado dalle nuvole. L´autista di mio padre si chiamava Nicola, era veneto, ed è morto da qualche anno»,( Ansa, 29 aprile, 16,57), deve intervenire Palazzo Chigi, con un imbarazzato ritardo di venti ore, per smentire a sua volta:
«Si rileva che il presidente Berlusconi non ha mai detto che il signor Letizia fosse autista dell´on, Bettino Craxi»
(Ansa, 30 aprile, 12,30).
Dal suo canto, Letizia non vuole ricordare in pubblico come e dove e quando ha conosciuto Berlusconi. Chi lo interroga raccoglie soltanto parole vuote.
«Volete sapere come ho conosciuto Berlusconi? Va bene, ve lo dico, però allora vi racconto anche come ho conosciuto tutte le persone che conosco…».
(Corriere, 10 maggio)
In qualche altra occasione, il rifiuto di Letizia a raccontare il primo incontro con il futuro premier è ancora più categorico:
«Non ho alcuna intenzione di farlo» (Oggi, 13 maggio)
Anche Noemi non ha voglia di offrire rievocazioni:
«Non ricordo i particolari [di come è nato il contatto familiare], queste cose ai miei genitori non le ho chieste. Non è che si siano incrociati sul lavoro: mio padre è un dipendente comunale... «. (Repubblica, 29 aprile)
Un ricordo vivo del primo incontro tra Berlusconi e Letizia sembra averlo Arcangelo Martino, un ex assessore socialista al comune di Napoli, oggi vicino al partito del presidente del Consiglio.
«Fra il 1987 e il 1993 sono stato grande amico di Bettino Craxi. Tutti i mercoledì andavo a trovarlo a Roma all´hotel Raphael, una consuetudine. Mi accompagnava sempre qualcuno del mio staff e quel qualcuno era quasi sempre Elio Letizia (…) Parecchie volte è capitato che al Raphael ci fosse Silvio Berlusconi. E´ lì che ho presentato i due che poi hanno fatto amicizia».
(Corriere, 10 maggio)
.Il ricordo di Arcangelo Martino è sconfessato con nettezza ancora una volta da Bobo Craxi.
«Escludo categoricamente che il signor Letizia fosse un habitué dell´hotel Raphael (…) Lo stesso Martino credo che sia passato qualche volta a salutare mio padre».
(Repubblica, 11 maggio)
Chiara anche la smentita di uomini che furono accanto al leader socialista: Gianni De Michelis («Mai sentito nominare Letizia»); Gennaro Acquaviva («Mai sentito nominare Letizia, neanche dai napoletani»); Giulio Di Donato («Questo signor Letizia, nel panorama napoletano e campano dei socialisti, non esisteva»).
(Repubblica, 11 maggio)
L´occasione dell´incontro tra Berlusconi e Letizia è ancora da chiarire. Come i tempi della decisione del presidente del Consiglio di partecipare alla festa di compleanno di Noemi
Al Corriere della sera, 4 maggio, così Berlusconi ha spiegato la sua presenza a Napoli.
«Racconto come è andata veramente. Quel giorno mi telefona il padre, un mio amico da tanti anni. E quando sa che in serata sarei stato a Napoli, per controllare lo stato di avanzamento del progetto per il termovalorizzatore, insiste perché passi almeno un attimo al compleanno della figlia. La casa è vicina all´aeroporto. Non molla. Io non so dir di no. Eravamo in anticipo di un´ora e ci sono andato. Nulla di strano, è accaduto altre volte per compleanni e matrimoni».
Berlusconi, dunque, partecipa alla festa per un atto di affetto nei confronti di Elio Letizia. Non si parla di Noemi né di altra necessità politica o urgenza di altra natura. Diversa la versione offerta, lo stesso giorno (4 maggio) alla Stampa:
«Suo padre, che conoscevo da tempo, mi ha telefonato per chiedermi se lasciavo fuori Martusciello (Flavio, consigliere regionale del PdL) dalle liste per le Europee, io gli ho spiegato che avrei cercato di mettere sia l´ex-questore Malvano (Franco, già candidato a sindaco di Napoli) sia Martusciello e che stavo per arrivando a Napoli per dare una spinta ai contratti per i nuovi termovalorizzatori che sono frenati dalla burocrazia. A quel punto lui mi ha interrotto e mi ha detto: "Stavi venendo a Napoli? Io stasera festeggio il diciottesimo compleanno di Noemi, perché non vieni per un brindisi, lo facciamo in un locale poco distante dall´aeroporto. Ti prego vieni sarebbe il più bel regalo della mia vita". Così ci sono andato…».
Berlusconi aggiunge qualche dettaglio in più nel solco di questa versione, il 5 maggio, durante Porta a Porta:
«Ero al salone del Mobile della Fiera di Rho, imbarazzato per i cori "Meno male che Silvio c´e", "Magico" e il capitano dell´elicottero mi ha detto che era in arrivo entro mezz´ora un temporale che ci avrebbe costretto ad andare in macchina a Linate. Per questo siamo partiti in anticipo e [visto il tempo a disposizione, prima di] una riunione politica che avevo in serata [con il ristorante a soli tre minuti dall´aeroporto] sono entrato…»
Anche questa ricostruzione trova delle evidenze che la contraddicono.
Berlusconi giunge a Napoli con un regalo per Noemi, «cerchi concentrici in oro rosa arricchiti da una cascata di diamanti bianchi montati su oro bianco, 6 mila euro, il ciondolo è anche nella collezione di Sophia Loren» (Gente, 19 maggio). Si è molto discusso di questa circostanza che, al contrario, non pare molto significativa: il presidente potrebbe aver a bordo del suo aereo dei cadeaux da distribuire secondo necessità.
Più interessante è che l´aereo di Berlusconi giunga a Napoli con un´ora di anticipo rispetto all´inizio della festa e il presidente attenda nell´aeromobile per un´ora prima di muoversi ed entrare «cinque minuti dopo l´arrivo in sala di Noemi» (Annozero, 7 maggio). Secondo la testimonianza di un fotografo, ingaggiato dal patron del ristorante "Villa Santa Chiara", si sapeva da sabato 25 aprile dell´arrivo del premier e, in ogni caso, la "bonifica" della sala da parte della polizia è stata predisposta già nella mattinata, «alla 15», per alcune fonti del Dipartimento di sicurezza. (Repubblica, 10 maggio).
Sembra di poter dire che non c´è stato alcun cambio di programma a Rho nel tardo pomeriggio di domenica 26 aprile. La partecipazione alla festa di Noemi era già nell´agenda del presidente da giorni, come dimostrano la "bonifica", l´attesa in aereo, l´arrivo nel ristorante subito quasi contestualmente all´ingresso della diciottenne come per un copione precedentemente preparato.
C´è un´ultima contraddizione da sciogliere.
La scelta o indicazione delle "veline" da candidare è stata opera di Berlusconi? A Porta a Porta, 5 maggio, il presidente del Consiglio sostiene di non aver messo becco nella candidature europee:
«Le candidature per le Europee non sono state gestite direttamente dal premier. Ad occuparsene sono stati i tre coordinatori del PdL Bondi, La Russa e Verdini che "da migliaia di segnalazioni sono giunti a 500 schede" per individuare i 72 candidati si sono orientati secondo le indicazioni del congresso, spazio ai giovani e alla donne. Tra questi candidati nessuna è qualificabile come velina» (resoconto delle parole del premier a Porta a porta, 5 maggio, tratto da Giornale, 6 maggio).
Berlusconi ammette però di avere discusso con Elio Letizia (non è un dirigente del PdL né, che si sappia, un iscritto al partito) le candidature di Malvano e Martusciello e per farlo lo raggiunge addirittura a Napoli alla festa di sua figlia. La circostanza appare contraddittoria e, senza altre spiegazioni, inverosimile.
Il rosario di incoerenze che si incardina sulla questione politica posta da farefuturo e dalla signora Lario (come Berlusconi seleziona le classi dirigenti) sollecita a rivolgere dieci domande al presidente del consiglio:
1. Quando e come Berlusconi ha conosciuto il padre di Noemi Letizia, Elio?
2.Nel corso di questa amicizia, che il premier dice «lunga», quante volte si sono incontrati e dove e in quale occasioni?
3. Ogni amicizia ha una sua ragione, che matura soprattutto nel tempo e in questo caso - come ammette anche Berlusconi - il tempo non è mancato. Come il capo del governo descriverebbe le ragioni della sua amicizia con Elio Letizia?
4. Naturalmente il presidente del consiglio discute le candidature del suo partito con chi vuole e quando vuole. Ma è stato lo stesso Berlusconi a dire che non si è occupato direttamente della selezione dei candidati, perché farlo allora con Letizia, peraltro non iscritto né militante né dirigente del suo partito né cittadino particolarmente influente nella società meridionale?
5. Quando Berlusconi ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia?
6. Quante volte Berlusconi ha avuto modo di incontrare Noemi e dove?
7. Berlusconi si occupa dell´istruzione, della vita e del futuro di Noemi? Sostiene finanziariamente la sua famiglia?
8. E´ vero, come sostiene Noemi, che Berlusconi ha promesso o le ha lasciato credere di poter favorire la sua carriera nello spettacolo o, in alternativa, l´accesso alla scena politica e questo «uso strumentale del corpo femminile», per il premier, non «impoverisce la qualità democratica di un paese» come gli rimproverano personalità e istituzioni culturali vicine al suo partito?
9. Veronica Lario ha detto che il marito «frequenta minorenni». Al di là di Noemi, ci sono altre minorenni che il premier incontra o «alleva», per usare senza ironia un´espressione della ragazza di Napoli?
10. Veronica Lario ha detto: «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. E´ stato tutto inutile». Geriatri (come il professor Gianfranco Salvioli, dell´Università di Modena) ritengono che i comportamenti ossessivi nei confronti del sesso, censurati da Veronica Lario, potrebbero essere l´esito di «una degenerazione psicopatologica di tratti narcisistici della personalità». Quali sono le condizioni di salute del presidente del consiglio?

l’Unità 14.5.09
Davanti all’improvvisa notorietà del dipendente comunale molto scetticismo
Di lunga data il rapporto con il premier. Ma al funerale del figlio morto non c’era
Elio Letizia. Omertà e misteri di un’amicizia
di Enrico Fierro


Fotografi, figuranti, strani consiglieri, specialisti nell’«aggiustare» le storie. Un grande Circo Barnum si muove a Napoli sull’affaire Noemi-Berlusconi. Ma sullo sfondo restano troppe domande senza risposte.

C’è un clima assai strano a Napoli. Tanta gente si agita attorno al caso Noemi-Berlusconi-Letizia. Vuoi una soffiata, un numero di telefono, vuoi sapere se...? Eccoti accontentato. Le notizie non mancano, le risposte alle domande neppure. Ma abbondano «certe» notizie e fioccano solo «certe» interessate risposte. Che anche sotto il Vesuvio non debba aver di nuovo ragione quel diavolaccio «emerito» di Cossiga quando consiglia al papà della Noemi di «tenere lontano i politici, non per loro, ma per quanto li “segue”»? Ogni riferimento non è affatto casuale. Su Noemi, sulle sue foto, sui suoi desideri di giovane aspirante starlette, sulle sue visite a Milano, a Roma e in Sardegna per accontentare «papi» si sa tutto. Finanche sul «valore» del concetto di «verginità» delle ragazzina cresciuta tra Secondigliano e Portici col mito di «Amici», abbiamo letto intere paginate. Se all’inizio della storia erano circolate notizie sullo stato non proprio idilliaco della famiglia Letizia, con mamma Anna Palumbo che vive a Portici e papà Benedetto-Elio che da anni (almeno dieci) preferisce ritirarsi altrove la sera, ora tutto è tornato in ordine. Tutto è stato «aggiustato». Papà e mamma sono felicemente conviventi, sui rotocalchi spicca una loro tenera foto abbracciati e sorridenti mentre ammirano Noemi mano nella mano col suo fidanzato. Domenico Cozzolino, pr nelle discoteche emiliane, un passato da «figurante» a «Uomini e donne» dove faceva il corteggiatore. «Ma chi è ? Chi l’ha mai visto? Da quello che so non esisteva fino a poco fa», dice irritato a «La Repubblica» il fotografo Gaetano Livigni, l’uomo che ha realizzato il primo «book» fotografico di Noemi.
I figuranti
Troppi figuranti a Napoli. Angelo Martino, oggi funzionario alla Regione Campania, ex socialista e da tempo in attesa che qualcuno dentro Forza Italia si ricordi di lui, ha riservato a sé il ruolo di quello che sa tutto sul punto più oscuro di questa storia: l’amicizia tra Silvio Berlusconi e Benedetto-Elio Letizia. Amicizia antica, suggellata dalle frequenti visite di Martino al Raphael ai tempi d’oro del craxismo. Il messo (comunale) e il Cavaliere si conobbero lì, e lì si piacquero subito. Inutile dire che anche i ricordi di Martino sono stati sepolti da una valanga di smentite di quelli che al Raphael ci andavano davvero. L’amicizia. Berlusconi è uomo del popolo e Partenope lo affascina. Elio Letizia ha il numero del suo cellulare privato, chiama quando vuole e Silvio risponde. Sempre. Quel 26 aprile chiamò per sponsorizzare due candidature alle europee, quelle di Franco Malvano e di Fulvio Martusciello. L’invito a Casoria, nel villone della festa di Noemi, arrivò un secondo dopo. Franco Malvano non ha voluto commentare. Ma all’ex questore di Napoli, dicono i suoi fedelissimi, la candidatura la dovevano dare per forza. Lo buttarono nella mischia contro la Iervolino sapendo che la partita era persa. Era senatore e alle scorse elezioni si dimenticarono di lui. «Lascio la politica, basta, faccio il prefetto», aveva confidato agli amici. Malvano aspettava la nomina a Prefetto di Salerno. Non è mai arrivata. La candidatura è un risarcimento. In quanto a Fulvio Martusciello, lui stesso ha dichiarato di non conoscere «questo signor Letizia». In campagna elettorale si vede tanta gente, si stringono mani...«I Martusciello (Fulvio è fratello di Antonio deputato ed ex sottosegretario, ndr) saranno pure in disgrazia dentro il partito, ma certo non hanno bisogno delle telefonate di Letizia», dicono stizziti quelli di Forza Italia. E ricordano la sconfitta della famiglia a vantaggio di Nicola Cosentino (sottosegretario all’Economia) e di Luigi Cesaro (candidato alla Provincia). Nomi sfiorati dal sospetto di «simpatie» camorristiche, casalesi e dintorni, ma vincenti. Ma Fulvio agli occhi del Cavaliere ha grandi meriti: è lui che gli presentò Mara Carfagna, ed è sempre lui che ha portato nelle file del partito Francesca Pascale, pasionaria del comitato «Silvio ci manchi». Due ragazze piene di fascino, due donne tostissime in politica.
Non c’è traccia dell’antica amicizia fra Silvio e Elio-Benedetto. Il papà di Noemi ha giurato che non rivelerà mai come e quando ha conosciuto il Cavaliere. «E’ un segreto che porto nel profondo del mio cuore». Un cuore, quello della sua famiglia, oggi rallegrato dai servizi sui rotocalchi, dal clamore tv e dal legame con Berlusconi. Ieri, 28 luglio 2001, stravolto dalla morte del figlio Yuri. Vent’anni, militare in un reparto dell’Aeronautica sul Terminillo. Una serata da passare in discoteca con l’amico Marcello Rizzo. Un masso sulla strada, la «Punto Gt» che si ribalta. I ragazzi muoiono sul colpo. Una dolore infinito che forse avrebbe imposto ad un amico di vecchia data di farsi vivo, di dire parole di conforto. Ma non vi è traccia di una visita di Berlusconi ai Letizia in quei giorni di lutto. Il Presidente aveva troppi impegni: le polemiche sul dopo G8 di Genova, i capricci della Lega, ma anche Boban che dal Milan vuole passare agli spagnoli del Celta. E le vacanze da organizzare: due settimane in Sardegna. Troppi impegni, proprio come quel 26 aprile. Il giorno della festa a Casoria per il diciottesimo di Noemi. Lì Silvio c’era.

Repubblica 15.5.09
Accuse a "Repubblica", l’opposizione: vuole abolire il diritto di critica
L’attacco di Berlusconi "Contro di me campagna d'invidia e odio"
Una risposta al premier
di Ezio Mauro


È molto facile rispondere alle parole di Silvio Berlusconi pronunciate ieri contro "Repubblica", che nell´inchiesta-documento di Giuseppe D´Avanzo gli aveva rivolto dieci domande per chiarire gli aspetti più controversi del caso politico nato attorno alle candidature delle veline nelle liste Pdl, alla denuncia di "ciarpame politico" di Veronica Lario, alla festa di compleanno della giovane Noemi alla presenza del Premier, nel ruolo indiscusso di "Papi". Molto più difficile, per il Cavaliere, rispondere alle domande del nostro giornale. Anzi, impossibile. Berlusconi non sa rispondere, davanti alla pubblica opinione, perché con ogni evidenza non può. Ciò che ha detto su questa storia, nei lunghi monologhi mai interrotti da una vera richiesta di chiarimento, cozza fragorosamente con ciò che hanno raccontato gli altri protagonisti, e soprattutto con quel che la moglie sa e ha denunciato. Meglio dunque tacere, rifiutare la verità, la trasparenza e il confronto, il che per un uomo pubblico equivale alla fuga. Una fuga accompagnata ovviamente da insulti per il nostro giornale, perché il rumore (domani amplificato dai manganelli di carta al suo servizio) copra il vuoto, la mancanza di coraggio e la scelta necessitata dell´ambiguità.
Ma l´uomo in fuga è il Presidente del Consiglio. Dunque questa incapacità o impossibilità di fare chiarezza, cercando la verità, è immediatamente un fatto politico, un handicap della leadership, una macchia istituzionale qualsiasi cosa nasconda, fosse anche soltanto l´incapacità di accettare un contraddittorio sui lati che restano poco chiari di una vicenda che ha fatto il giro dei giornali e dei siti di tutto il mondo. Una storia nella quale l´unica cosa che non c´entra proprio nulla è la privacy.
Berlusconi è infatti l´uomo che ha unito pubblico e privato fino a confonderli, con la sua biografia trasformata in programma elettorale per gli italiani e spedita nelle case di 50 milioni di elettori all´inizio della sua avventura politica: mentre oggi, quindici anni dopo, continua a vendere sul rotocalco di famiglia gli ex voto elettorali della sua infanzia aureolati nella patina reale del fotoromanzo, con l´immagine adolescente della Prima Comunione poche pagine prima del brindisi anziano di Casoria.
Le domande di "Repubblica" volevano appunto bucare questa nuvola nazional-popolare dove si sta cercando di trasportare nottetempo il caso Berlusconi, lontano dalla responsabilità istituzionale e politica di dire il vero agli italiani. Nascevano semplicemente, come abbiamo detto a Palazzo Chigi proponendo un confronto diretto col Premier, dalla constatazione che a due settimane dall´inizio della vicenda troppe cose rimanevano da spiegare, anche perché nessuna vera richiesta di chiarimento era stata rivolta al Cavaliere, e la sede televisiva del "rendiconto" ? quella del suo personale notaio a "Porta a Porta" ? si era in realtà rivelata la sede di un lungo monologo: per accusare la moglie ed esigerne le scuse, invece di rispondere alla sua denuncia (la politica che seleziona veline diventa «ciarpame senza pudore», «mio marito frequenta minorenni», «mio marito non sta bene, ho implorato coloro che gli stanno accanto di aiutarlo») rovesciando la realtà davanti agli italiani.
Questa mancanza di chiarezza e di confronto, con domande precise e risposte nette, ha ingarbugliato le cose. Tra il racconto del Premier e i racconti degli altri protagonisti di questa vicenda si sono allargate incongruenze evidenti, pubbliche, inseguite da spiegazioni postume che aprivano nuovi fronti controversi e dunque suscitavano altre domande. In tutto il mondo civile, dove esiste una pubblica opinione e la funzione autonoma della stampa, le contraddizioni del potere e la mancanza di chiarezza sono lo spazio naturale del giornalismo, del suo lavoro d´inchiesta, del suo sforzo documentale e infine delle sue domande. Questo abbiamo provato a fare, senza dare giudizi e senza una tesi finale da dimostrare. Ci interessa il percorso tra le contraddizioni di un uomo pubblico in una vicenda pubblica, mettendo a confronto versioni e racconti che vanno tra loro in dissonanza, per domandare infine al protagonista di spiegare perché, proponendo la sua verità dei fatti.
Oggi dobbiamo prendere atto che il Presidente del Consiglio, invece di rispondere alle domande, scappa dalle vere questioni aperte che chiamano in causa la sua credibilità, e lo fa insultando, cioè cercando di parlar d´altro. «Invidia e odio», a suo parere, sono i motivi della «campagna denigratoria che "Repubblica" e il suo editore stanno conducendo da giorni» contro il Presidente. Che c´entra l´editore con l´inchiesta di un giornale? Non esistono scelte autonome da parte di un quotidiano nella cultura proprietaria del Premier? Cosa bisogna dunque pensare delle domande che proprio ieri il "Giornale" berlusconiano rivolgeva in prima pagina a Di Pietro? E soprattutto, cosa c´entrano con un´inchiesta giornalistica i sentimenti dell´odio e dell´invidia? Può il Cavaliere concepire, per una volta, che si possa indagare sui suoi atti e persino criticarli senza odiarlo, ma semplicemente giudicandolo? Può rassegnarsi a pensare che esiste ancora qualcuno, persino in questo Paese, che non lo invidia affatto, né a Roma né ad Arcore né a Casoria? Può infine ammettere che dieci domande non costituiscono una denigrazione, soprattutto se le si può spazzare via dal tavolo con la semplice forza della verità?
Il Cavaliere denuncia infine che "attacchi di così basso livello" giungano in prossimità del voto europeo: ma i tempi e soprattutto il livello di questa vicenda non li abbiamo scelti noi, nemmeno la location di Casoria, le luci delle fotografie festose e i comprimari, i monili, la favola bella dei genitori che si baciano in esclusiva per "Chi", la ragazza incolpevole di tutto ma soprattutto sicura che approderà negli show televisivi o in Parlamento, l´uno o l´altro intercambiabili, l´importante è sapere che "deciderà Papi". Non abbiamo deciso noi che tutto questo valesse prima la critica della Fondazione "Farefuturo" di Fini e poi lo strappo di un divorzio pubblico come l´offesa ricevuta, dunque politico come tutto ciò che accade al Cavaliere: da parte di una moglie che il grande rotocalco con cui si impagina oggi l´Italia dipinge come incapace di autonomia, fragile e sola, dunque preda di suggeritori mediatici e politici, unica spiegazione che ripristini la sacralità mistica del carisma intaccato dall´interno, quando una donna ha deciso (prima e unica, in un quindicennio) di rompere il cerchio magico dell´intangibilità sciamanica del Capo.
Per il Cavaliere, chi lo critica non può avere autonomia. Per lui, l´adesione è amore e fede, dunque la critica è tradimento e follia, le domande - non essendo contemplate e per la verità neppure molto praticate, nel conformismo del 2009 - diventano «odio e follia», in un discorso pubblico fatto di vibrazioni, dove tutto è emotivo.
Che cosa concludere? La storia che ha fatto il giro del mondo resta tutta da chiarire, perché il Presidente del Consiglio sa solo minacciare, ma non può spiegare. Dunque continueremo a fare domande, come fossimo in un Paese normale, per quei cittadini che chiedono di sapere perché vogliono capire, rifiutando di entrare nel grande fotoromanzo italiano che sta ingoiando quel che resta della politica.

l’Unità 15.5.09
«Invidia e odio»
Nessuno lo può criticare
di Natalia Lombardo


Un altro attacco alla libertà di stampa: alle domande poste da Repubblica al premier sul caso Noemi, Palazzo Chigi parla di «campagna denigratoria» contro Berlusconi per «odio». Oggi risponde Ezio Mauro.

Presidente, possiamo fare qualche domanda? No. Perché si è mossi da «invidia e odio» verso chi avrebbe «il massimo storico della fiducia dei cittadini». No, perché la stampa segue «una strategia mediatica diffamatoria tesa a strumentalizzare vicende esclusivamente private ai fini di lotta politica». Puntuale, il diktat elettorale contro la libertà di stampa arriva sotto forma di comunicato da Palazzo Chigi, come tutta risposta alle «dieci domande» poste a Silvio Berlusconi ieri da Repubblica sul caso Noemi e Veronica.
Oggi la replica del direttore, Ezio Mauro, sarà sul quotidiano. Sulle cui pagine Giuseppe D’Avanzo ricostruisce punto per punto il «Caso Berlusconi», evidenziando le contraddizioni tra le dichiarazioni pubbliche del premier e quelle della ragazza, di suo padre e di altri. Alla fine elenca le «dieci domande mai poste» a Berlusconi sulle «incoerenze e le omissioni». Domande all’americana: sull’amicizia con Letizia padre e con Noemi, sulle promesse di carriera (in Parlamento o in tv fa lo stesso) alla ragazza, sugli incontri e il sostegno finanziario; sulle contraddizioni riguardo veline e candidati. Infine sulle denunce più dure di Veronica: frequenta minorenni? e, ultima (forse quella che ha fatto imbufalire l’infallibile premier): «Quali sono le condizioni di salute del presidente del Consiglio?» dato che un geriatra definisce l’ossessione per il sesso una «degenerazione psicopatologica» del narcisismo. Domande che giorni fa Repubblica aveva chiesto di poter porre al premier, senza ottenere risposta da Gianni Letta, che aveva preso tempo. Ieri alla mezza, quando Berlusconi è arrivato alla Camera giusto per il voto finale sulla sicurezza, Palazzo Chigi attacca: «campagna denigratoria che La Repubblica e il suo editore stanno conducendo da giorni» contro Berlusconi». E ancora, «attacchi di così basso livello, in vista delle prossime elezioni» in sintonia con «la sua parte politica». Non è annunciata querela, assicura anche l’avvocato-deputato Ghedini: «Ora è solo una vicenda familiare» e sospetta una «decisione» da parte del giornale. Ma Berlusconi e i suoi legano le inchieste e le cronache del quotidiano come un unico filo da «ghostwriters» dell’opposizione.
Le reazioni
Il comitato di redazione di Repubblica rivendica «il diritto/dovere di porre domande», alle quali di può rispondere o no, ma sono «inammissibili» insulti e minacce tanto più da una figura istituzionale: «Non ci faremo intimorire». Il centrosinistra ha fatto muro. Dal Pd Gentiloni avverte: «Non minacci la stampa», un diritto garantito dalla Costituzione; Latorre parla di «elementi tossici nella nostra democrazia». Vita e Salubi chiedono un’interrogazione parlamentare sull’uso dei magazine Mondadori, Rosy Bindi: il premier risponda anziché «accusare un giornale che mette insieme i fatti»; il portavoce del Pd, Orlando, parla di «intimidazioni»; Zanda ricorda che «i governi vivono in una casa di vetro». La Federazione della Stampa condanna gli «insulti»: «Chi ha cariche di responsabilità è chiamato a rispondere» a domande scomode.

l’Unità 15.5.09
Quelle che il book...
L’album fotografico è il nuovo curriculum Nell’epoca di facebook è diventato il biglietto da visita per entrare nel mondo delle celebrità, ma anche solo per sentirsi «a posto». E da Rho a Campo Calabro si scatena la giungla delle agenzie: tra scatti, avances, truffe e l’immancabile «pizzo»
di Federica Fantozzi


Serve per fare la «ragazza griglia» all’autodromo di Adria, la «presenza a una cena», la cubista, la standista, l’indossatrice di trasparenze, la testimonial del Soratte Outlet Shopping, la selezione di Miss Maglietta Bagnata, il casting del Grande Fratello. Un pubblicitario direbbe: ma dove vai se il book non ce l’hai? I ragazzi di oggi rispondono: da nessuna parte. Il mondo delle lolite acqua e sapone non si ferma a Noemi Letizia né a Casoria. Da Rho a Campo Calabro, per tutte l’uomo dei sogni ha le chiavi per far sfolgorare la loro bellezza e (chissà) aprire le porte della celebrità. Il book fotografico è il nuovo curriculum vitae, il biglietto da visita dell’era Facebook, il regalo «mozzafiato» per il fidanzatino, l’autogratificazione per la 30enne single.
Gianluca Mosti, fotografo di moda, ha cominciato 18 anni fa: «Il fenomeno è quantitativamente uguale, ma è cambiato il target. Non lo fanno solo aspiranti attrici o modelle, bensì ragazze qualsiasi. Le 15enni per figheggiare con le amiche o mettere le pose sui siti di social network. Le madri portano le figlie. Le liceali si passano parola». Tutte belle? «Più o meno. Carine. Un tipo». I prezzi variano: da 150 a 500 euro per 2-3 ore di lavoro, un centinaio di scatti, 20 foto, trucco e acconciatura. «Ma attenti al dozzinale - avverte Mosti - Io chiedo almeno 350 euro, ma sempre poco: con un servizio per Chi ne guadagno 3mila. Il book è un lavoro umile ma facile, veloce, sicuro. Ne faccio 4 al mese, una cinquantina l’anno». Il tocco del maestro è il ritocco: «Chiamiamolo post-produzione. Alleggerire la rughetta, cancellare il neo, schiarire lentiggini. Lo vogliono tutte. Io sconsiglio, ma anche le 18enni chiedono la gamba più sfinata». Sconsigliano anche nei forum: «Sennò quando vi vedono chiedono se siete voi o un’amica». Il mercato, che in larga parte funziona via Internet, è una giungla. Migliaia le agenzie, soprattutto in provincia; pochissimi i colossi concentrati a Milano. «Il problema è che quando entri in un’agenzia con il tuo book - si lamenta Sara, attrice romana 23enne - Te lo fanno rifare con il loro fotografo. E guarda caso costa molto di più». Conferma Adry: «Un fotografo chiede 250 euro, poi le agenzie rivendono a 2mila. È una truffa». Mosti concorda: «Se ti chiedono più di mille euro c’è la fregatura. E se un’agenzia ti fa rifare il book sospetta: prende il pizzo dal fotografo».
Molte società domandano la disponibilità a trasferte non rimborsate. Auspicano libertà personale e di spostamento, assenza da vincoli, spigliatezza. Chiedono foto «senza inibizioni per vedere come sei di fisico davanti e dietro. Non foto artistiche ma disinvolte». La Fashion Up stila un elenco di consigli: cattivo segno ricevere candidature “per conto di” a meno che lo sponsor sia «un personaggio noto». La Best Models fa un questionario online: «Disponibili a servizi trasparenze? Intimo? Topless? Nudo soft o erotico? Videoclip genere nudo?». Arianna, Federica, Gioia, ventenni, dicono di no. Per 330 euro hanno diritto a cento scatti, due foto ritoccate, copertina rigida e composit digitale. La Top Model Management propone un mini-calendario a 470 euro.
Prezzi abbordabili, ma non per tutti. Sylvietta, hostess di 24 anni, pensa al secondo book «ma devo racimolare i soldini». Intorno ruota il mondo dei “privati”: semi-professionisti, fotoamatori, artisti in cerca di nuove modelle per uno scambio alla pari: scatti contro pose gratis. Gattina si ritrova una miriade di immagini grazie a fotografi desiderosi di aggiornare il loro portfolio. Liv, 21enne, realizza book «in stile dark gotico» a 95 euro fornendo scarpe e abiti, sconto del 10% a chi porta un’amica. Su un forum di studenti Cetra si rivolge «a quelle che hanno fatto il book in agenzia pagando caro. Poi avete lavorato o siete rimaste fregate?». È la domanda del secolo: non c’è nessuna garanzia. Marcella, 30 anni, è modella per soldi e cantante per vocazione, ballerina di hip hop («Mica cubista, un corpo di ballo che suda quattro asciugamani»), impiegata part time al desk di una palestra. È bellissima e ha fatto il primo book a 14 anni per 300mila lire: «Senza non fai casting né sfilate. Poi ti muovi da sola, ma all’inizio devi passare per un’agenzia. Ce ne sono di serie e truffaldine. Lo scopri con il passaparola». C’è chi si è ritrovata la foto del sopracciglio pubblicata senza permesso: «Gli assomiglia, cara, ma non è il tuo». Ci sono agenti che spariscono a metà del tour di abiti da sposa senza pagare il cachet. C’è anche di peggio. Marcella l’ha sfiorato nell’ufficio di un sedicente promoter: «Ha chiuso la porta a chiave. Ha detto “vieni qui” dandosi una pacca sulla coscia. Mentre mi accarezzava i capelli cercavo di stare calma, ma aveva la faccia da pazzo. Mi ha salvato un’amica. Avevo 18 anni». Cineretta chiede consiglio alla web community: deve pagarsi l’università, un agente le dà appuntamento in un hotel milanese, le promette che lavorerà per Armani e che dopo le foto (a spese di lei) la porterà a cena fuori in minigonna e tacchi. Lei sospetta: «Sarò paranoica, ditemi la vostra opinione». Risposte univoche: «Chiama Striscia per questo squallido adescatore», «È un maniaco, i colloqui mica si fanno negli alberghi di lusso», «Bella, nessuno ti offre Armani».
Stefano Strano è titolare a Genova dell’omonima agenzia di consulenza immagine: «Ormai lavoriamo quasi solo con i ragazzi. Le ragazze riescono ad avere i book gratis: i maschi pagano». Prezzi da 260 a 390 euro. Gestiscono le preselezioni liguri per Ciao Darwin e concorsi come Miss Muretto. Il business va bene? «Risentiamo della crisi e della concorrenza amatoriale. Le aziende chiamano l’amica dell’amica per 50 euro in nero. È il solito discorso all’italiana». Loro sono gente seria: «Non faccio il lepego (traduzione: muschio scivoloso e unto, ndr) con le ragazze. Da noi non c’è la mano morta». Il controcanto arriva da Fabio Lovino, tra i più affermati fotografi di celebrities: «C’è chi vive di quello, io a 25 anni ho smesso con i book. È un lavoro piatto e banale che ti segna: da uno standard così basso non torni indietro». A un giovane talentuoso assistente venuto da un paesino dell’Irpinia, Lovino consiglia lo stesso percorso: «La qualità. Non vi rovinate. Per avere una voce forte ci vuole tempo ma poi ti ascoltano». Discorso che il fotografo applica anche alle ragazze: «Nella società dell’apparire, a vent’anni la velina è un mito. A 40, se non hai sfondato, non hai niente in mano».

l’Unità 15.5.09
Tredici anni e già modelle
Le coetanee: «Magari noi...»
di F. Fan.


Vogliono tutto e subito, senza divieti né moralismi. Soprattutto se appare a portata di mano. Sul sito Girl Power si dibatte intorno alla foto di una splendida ragazza con lunghe gambe nude, capelli sciolti, labbra imbronciate. Una modella come tante? No: Jane Foret, belga, ha 13 anni. Scabroso o normale? La ragazzina piange perché non si riconosce nelle foto: cosa ne pensano i genitori? Chi le ridarà l’infanzia?
Le coetanee italiane di Jane non hanno dubbi. «Ho 13 anni e secondo me non c’è un’età per sfilare se hai le potenzialità - scrive Cate - Quanto vorrei essere al suo posto». Ragiona Vale: «Ho 13 anni e penso che vada bene fare le modelle, tanto se una ha un bel fisico lo farà due anni dopo. Io sono alta e carina ma mi hanno risposto che sono troppo piccola. Non capisco ‘sti stronzi. Comunque lo farò da grande». Diana: «Io al suo posto farei lo stesso. Forse 13 anni è un po’ poco, ma se fossi alta 1,80 non ci penserei due volte». E poi: «Sono alta 1,68, secondo voi ce la faccio? Penso di farmi prescrivere le vitamine per guadagnare qualche centimetro». Alex (incerto il sesso) è tranchant: «Non fa niente di male. Piuttosto che atteggiarsi a tr... gratis meglio sfilare in passerella».
Daphne si indigna: «Ma che stupidaggini dire che è un mondo pericoloso e si mangia solo ananas! Io ho cominciato a 13 anni, ne ho 17 e non mi pento. Ho viaggiato e mi sono divertita». L’accusa di Stella è spietata: «Ho 13 anni e potrei fare la modella, ho gambe perfette e un bel fisico. Siamo cresciute in una società dove il corpo delle donne è sempre esposto, in tv come nei cartelloni per strada. Ci hanno messo in testa che vale solo il nostro corpo e il resto è da buttare. Paghino vedendo sbattute in prima pagina le proprie figlie quei padri che prima con quelle degli altri si eccitavano».
F.FAN.

l’Unità 15.5.09
Politica, tv e cerone: l’Italia malata e la sindrome di Arcore
L’ossessione per l’apparenza come «regola» anche nei rapporti istituzionali, il «corpo» come oggetto stesso dell’azione. E l’esercito dei teledipendenti prigionieri e innamorati del loro carceriere mediatico
di Giovanni Valentini


Sulle note di una vecchia canzone di Lucio Dalla, si potrebbe sostituire la parola «lupo» con il termine «look» e nel caso di Berlusconi il risultato non cambierebbe granché. Il ritornello funziona ugualmente. Di fronte all’illusionismo catodico del Cavaliere, bisogna proprio stare attenti al «look» per non cadere nelle maglie del suo istrionismo mediatico. L’icona pubblica di Berlusconi è fondata sulla religione dell’apparenza e sulla fede incrollabile nell’immagine. Come un vero pubblicitario di professione, Berlusconi appartiene alla specie di coloro che devono esibire l’orologio di marca, la penna griffata, il kit completo di cartella, portafoglio e portadocumenti o carte di credito, per accrescere la propria autostima e presentarsi all’interlocutore con la sicurezza dell’uomo d’affari e di successo. Ma bisogna riconoscere che anche qui è stato indubbiamente un capostipite. Ha creato, o perlomeno importato in Italia, un archetipo, un modello, uno stile, clonando a sua immagine e somiglianza una stirpe di epigoni con il marchio di fabbrica.
Il premier-tycoon ha sempre avuto una cura maniacale per la forma e per l’aspetto fisico. Agli esordi, non esitava a farsi riprendere impudicamente in maglietta e calzoncini corti, mentre praticava (o fingeva di praticare) il jogging, seguito da un codazzo di fidati e fedeli accompagnatori. In confronto a una vecchia classe politica tendenzialmente sedentaria e incline all’obesità, anche quello è stato in qualche modo un segnale di cambiamento e di novità. Un giovanilismo di maniera, ricercato ed esibito, ma comunque funzionale a interrompere una polverosa galleria di politici per lo più bolsi e parrucconi. E, dobbiamo aggiungere, anche a differenziarsi da una tradizione di sinistra che per molto tempo aveva considerato l’attività fisica un’espressione di «machismo», colpevolizzando la cultura del corpo come un surrogato della violenza o addirittura come una manifestazione tipica della destra. Per il magnate di Arcore, questa è invece una filosofia di vita che in nome dell’appeal coniuga efficienza e credibilità. Ecco perchè in fin dei conti risulta sproporzionata la reazione che – ovviamente – è più che legittima e giustificata, contro l’infelice sortita di Berlusconi sul nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, da lui definito senza alcun imbarazzo «alto, bello e abbronzato». Al fondo, c’è certamente un pregiudizio ancestrale, d’istinto e di pelle se non precisamente razzista. Ma forse c’è anche una punta inconfessata d’invidia: probabilmente al Cavaliere piacerebbe proprio essere alto e bello come Obama. E magari, sempre «abbronzato» come lui. In effetti l’espressione è tanto inopportuna quanto rivelatrice. Non solo perchè dimostra una volta di più che Berlusconi, da politico antipolitico, non pratica lo stile politically correct e anche per questo ottiene il gradimento di una larga parte dell’opinione pubblica, della gente comune che pensa e parla come lui. Ma soprattutto perchè l’uso del termine «abbronzato» denota che, al cospetto di un tale personaggio e di un evento epocale, il nostro presidente del Consiglio non è colpito dalle idee, dall’eloquenza o dalla carica innovativa di Obama, da quello che pensa e che dice, bensì innanzitutto dalla sua immagine esterna che pure ha certamente avuto – e forse avrà anche in futuro – un peso determinante nel successo del neopresidente americano. Allo stesso modo, il leader del centrodestra esorta i suoi a non sottovalutare il segretario reggente del Pd, Dario Franceschini, avvertendo subito che «con quella faccia da bravo ragazzo in tv funziona». Quando Berlusconi partecipa ai summit, del resto, notoriamente fa di tutto per comparire in prima fila nelle foto ufficiali. E se proprio il protocollo non lo consente, allora sale sul gradino più alto per sovrastare gli altri Grandi della Terra. Senza alcun complesso d’inferiorità, la sua è in primo luogo un’esercitazione narcisistica, una proiezione esterna del proprio ego. È per questo che non riesce a resistere alla tentazione goliardica di fare il gesto delle corna neppure in un vertice ufficiale, come quello europeo di Caceres, in Spagna, nel 2002. E al G20 di Londra il nostro premier è tanto rumoroso da meritarsi addirittura un rimprovero della regina Elisabetta. Da parvenu della politica qual era al momento della sua «discesa in campo», all’inizio il Cavaliere ha sentito il bisogno di presentarsi in doppiopetto, con cravatta blu d’ordinanza a pois bianchi, come per rassicurare gli elettori e offrire di sè un’immagine affidabile, composta, perbenista. Poi, nel corso degli anni, è passato gradatamente a un abbigliamento più sportivo e più casual: camicia aperta sul petto, maglione blu, tuta e scarpe da ginnastica. Fino all’ultima versione, quella francamente più discutibile e inquietante, del maglione o maglietta girocollo sotto la giacca.
È più che naturale, dunque, che un uomo come lui ricorra a qualche accorgimento, tutto sommato innocente, per apparire più alto, più giovane e bello. Non è certamente il primo, e non sarà neppure l’ultimo, a usare il tacco o il rialzo nelle scarpe, anche se questo non gli basta certo per guardare Obama dritto negli occhi. E beato lui che ha il tempo, la voglia e il denaro per permettersi un lifting estetico, in modo da ringiovanire il viso, o un autotrapianto per rinfoltire un po’ i capelli: la celebre bandana, esibita spavaldamente in quell’occasione, era un simbolo di forza e di sicurezza, piuttosto che un maldestro tentativo di occultare una debolezza. Raccontano che quando salì la prima volta al Colle per ricevere da Oscar Luigi Scalfaro il mandato di formare il nuovo governo, Berlusconi uscì dallo studio del presidente della Repubblica e prima di presentarsi davanti ai giornalisti, ai fotografi e ai cameramen per la rituale dichiarazione, chiese di andare in bagno. Si assentò per un quarto d’ora e, quando ormai i funzionari del Quirinale cominciavano a temere che si sentisse male, riapparve sorridente e giulivo, pronto per affrontare la stampa. Poi, finita la cerimonia, gli addetti alle pulizie riordinarono la «Galleria della vetrata » e naturalmente anche la toilette attigua, dove – secondo il gossip di Palazzo – trovarono un piccolo beauty-case, completo di cipria e pennello per rifarsi il trucco. Questa è, del resto, la legge fondamentale della tv: apparire belli, pettinati, coloriti, sempre in ordine e in perfetta forma.
Non ha mai fatto mistero della sua vanità. Come tutte le personalità spiccatamente egocentriche, è un inguaribile narciso che si specchia nel successo popolare per trarne energia e vitalità. Ma è anche un uomo fortemente determinato, decisionista e perfezionista; un padrone abituato a comandare e a ottenere ciò che vuole; un social climber ispirato da un’irreversibile frenesia di raggiungere il risultato e vincere a tutti i costi. Berlusconi ha l’animo e l’istinto del rapace, del predatore, abituato a imporre la legge del più forte: il Caimano celebrato nel film di Nanni Moretti, appunto. Quando avvista la preda, non c’è niente che possa fermarlo o fargli cambiare obiettivo. Nè limite, legge, regola o regolamento che valga la pena di rispettare. Quello che è dato ai suoi concorrenti, antagonisti o rivali, si chiamino pure De Benedetti, Moratti o Murdoch, è tolto a lui, alla sua azienda, ai suoi interessi: negli affari, nel calcio, nella televisione e quindi anche in politica.
Sia detto senza offesa: Berlusconi è un vero animale da combattimento. E come il lupo del proverbio e della canzone, può perdere il pelo, ma non il vizio.

Il Tempo 14.5.09
Dalla Sarfatti a Racheletutte le donne del Duce


Il film di Bellocchio a Cannes squarcia la storia di Ida e del piccolo BenitoMa ne ebbe tante. Della socialista Balabanoff si diceva fosse la madre di Edda
Donne, tante, belle, misteriose, carnali, fortunate, disgraziate, sempre avvinte dal fascino dell’uomo di potere disposto a concedere loro ogni cosa in cambio di frettolosi istanti di godimento. Così le vite dei protagonisti della storia sono intessute di amori memorabili: Antonio e Cleopatra, Enrico VIII e Anna Bolena, Luigi XV e Madame de Pompadour, Napoleone e Giuseppina. Anche Benito Mussolini ebbe una sua nutrita lista fra presunte mogli, focose amanti, semplici concubine: una sessantina per la storia, seimila per il mito. Insomma al socialista, al fascista e al dittatore non mancarono mai gonnelle da sollevare e labbra da assaggiare. In un’untuosa autobiografia del 1911 raccontava della sua «prima volta», a 16 anni, con una prostituta: ne ricavò «un’improvvisa rivelazione del godimento sessuale». E più orgogliosamente aggiungeva: «Svestivo con gli occhi le fanciulle che incontravo, le concupivo violentemente con il pensiero». Ai suoi
piedi dovevano cadere la colta Margherita Sarfatti, la scrittrice Leda Rafanelli, la giornalista Magda Fontanges e persino una pianista, Marie Anne Brard. Nomi e volti tuttavia evanescenti perché altre donne dovevano segnare l’esistenza dell’uomo di Predappio. Tra le prime Angelica Balabanoff, una socialista di origini ucraine che conobbe Mussolini in Svizzera iniziandolo al più severo marxismo. Per alcuni la bella sovietica era persino la madre naturale di Edda - ufficialmente - la figlia di Benito e di Rachele Guidi, la forlivese con cui Mussolini conviveva fin dal 1910. Comunque sia Angelica finì per preferirgli Lenin e il Partito bolscevico. Fu in una Milano vivacemente futurista che l’ancora anarco- socialista Benito faceva intima conoscenza della triestina Ida Irene Dalser, un diploma a Parigi e un salone di bellezza nel cuore della città meneghina. Sembra che i due contrassero persino un matrimonio religioso presto arricchito dalla
nascita di un bimbo, Benito Albino. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale l’ormai interventista Mussolini si arruolava nel Regio Esercito di Vittorio Emanuele III e contestualmente impalmava Rachele Guidi con un regolare matrimonio civile nel dicembre del 1915. Seguivano anni tumultuosi e infine la Marcia su Roma, l’ascesa a Capo del Governo e a Dittatore mentre la Guidi diventava «Donna Rachele». A quel punto l’osannato Mussolini si sbarazzava dell’ingombrante Ida Dalser internandola nel manicomio di Pergine Valsugana e poi di San Clemente a Venezia. Un epilogo non meno amaro toccava al figlio della colpa, Benito Albino, che avrebbe finito i suoi giorni nell’ospedale psichiatrico di Milano Mombello morendovi un anno primo della caduta del fascio paterno. Tutto lasciava supporre che «Donna Rachele», innamorata di Benito fin da quando l’aveva incontrato per la prima volta nelle vesti di maestro elementare, dovesse porre fine alle
smanie amorose del cinquantenne consorte. Un errore. Palazzo Venezia, il cuore pulsante del Fascismo, diventava l’ambita alcova di infiniti quanto rapidi incontri erotici, anche più di uno al giorno. E per ricambiare la generosità delle italiane Mussolini creava l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, un istituto che doveva tutelare e riscattare l’allora «sesso debole» ponendolo al centro della famiglia e della società. Una bella trovata se a Villa Torlonia egli non avesse continuato a razzolare male non stancandosi mai di ripetere: «Le donne devono solo badare alla casa, mettere al mondo dei figli e portare le corna». Rachele obbediva, con devozione, e sopportava il peso di tante «corna» e non ultime quelle di una sfacciata ragazzina della media borghesia romana, la ventenne Clara Petacci. Claretta aveva ammaliato il Duce e scandalizzato i colonnelli del Partito Fascista che in quella relazione ravvisavano un serio pericolo per la
reputazione del Regime. La osservavano, impotenti, mentre si atteggiava a prima donna di Palazzo Venezia, la sola a cui era permesso di chiamare il Duce - seppure in privato - con il diminutivo di «Ben». Sarebbe stata lei a dominare la pur desolante parabola discendente del dittatore italiano e a condividere con lui un destino di morte consumatosi fra le pallottole di Dongo - il 28 aprile del 1945 - e i cappi di Piazzale Loreto a Milano. Rachele restava la moglie ossequiosa e fedele e nelle ore tragiche dell’agonia fascista metteva in salvo quanto restava di buono di un ombroso matrimonio, i figli. A lei sola la storia ha riservato di diritto il posto che aveva saputo meritarsi: riposa con Mussolini e i figli nella cripta di Predappio.

Il Tempo 14.5.09
La Dalser «squilibrata» prima di conoscerlo

di Carmine Mastroianni
Ida Dalser, presunta moglie segreta di Mussolini era definita «squilibrata» ancheprima della persecuzione del Duce. Il settimanale «Oggi» pubblica documenti inediti del 1918, oltre a un certificato medico, nel quale il piccolo viene diagnosticato affetto da «probabile sifilide ereditaria », malattia che a soli tre anni gli provocava la paresi della gamba destra. Vengono anche riportati i rapporti del prefetto di Napoli al ministro dell'Interno, nei quali si descrive lo stato di costante alterazione mentale della Dalser, tenuta d'occhio come «disfattista» (cioè pacifista), allora ospite di un campo profughi in provincia di Caserta, in quanto sfollata dal Trentino dopo Caporetto.

Adnkronos 15.5.09
Fiera del Libro: Sarà presentato domani “Fantasia di sparizione” di Massimo Fagioli

Torino, 15 mag. (Adnkronos) - Con la scultura di Amore e Psiche del Canova, e il logo della nuova casa editrice L'Asino D'oro, sulla copertina rossa, «Fantasia di sparizione», ottavo libro di Massimo Fagioli, lo psichiatra della Teoria della Nascita e dell'Analisi Collettiva, approda al Salone Internazionale del Libro di Torino. Dopo l'exploit di oltre tremila copie vendute in pochi giorni, all'uscita in tutte le librerie d'Italia, il volume verrà presentato sabato 16 maggio (ore 12,30) al Salone del Libro (spazio autori B, pad. 1) in un incontro con il filosofo Giacomo Marramao.
Pubblicato dalla nuova casa editrice L'Asino d'Oro, dal racconto di Apuleio, fondata da Matteo Fago e Lorenzo Fagioli, per la prima volta quest'anno presente al Lingotto, «Fantasia di sparizione» contiene le lezioni che Fagioli ha tenuto nel 2007 all'Università degli Studi «Gabriele d'Annunzio» di Chieti-Pescara, dove dal 2002 tiene alcuni corsi alla facoltà di Scienze della formazione. Il libro ripercorre momenti fondamentali dell'attività dello psichiatra e si sofferma in particolare sulla scoperta della nascita umana, ovvero di come la mente si attivi per reazione allo stimolo luminoso, definendo la differenza tra fantasia di sparizione e pulsione di annullamento.
A parlare del nuovo libro, al fianco di Fagioli e di Marramao, ci saranno Marco Pettini, fisico teorico, docente dell'Università Aix Marseille II, David Armando, storico del Cnr, e gli editori de L'Asino d'Oro (Pad 1. Stand C88) Lorenzo Fagioli e Matteo Fago, giovani imprenditori romani. Fago, 40 anni, è stato uno dei fondatori di Venere.com, la principale società indipendente europea di prenotazioni alberghiere online, di recente acquistata da Expedia Inc., il più grande operatore del turismo online del mondo.