mercoledì 11 marzo 2009

Repubblica 11.3.09
La promessa di Obama nel nome della scienza
di Umberto Veronesi


La promessa di Obama "non possiamo garantire che scopriremo i trattamenti e le cure che cerchiamo ma possiamo promettere che le cercheremo ", è la stessa promessa della scienza.
Per questo la scelta del neopresidente americano di abolire i limiti alle ricerche con le cellule embrionali va letta non solo come un´apertura alle staminali, ma come un´apertura alla libertà di ricerca scientifica, che, come ha commentato l´amico Renato Dulbecco su queste pagine, torna a vivere. Questo noi uomini di scienza chiediamo in tutto il mondo: la libertà di ricerca, che è sorella della libertà di pensiero. I freni che le ideologie - o meglio le loro esasperazioni - pongono al pensiero scientifico, sono un´anticamera pericolosa per il più importante dei diritti dell´uomo, e per questo ci inquietano.
Non pensiamo noi medici (e biologi, fisici e chimici, astronomi...) che nessun limite debba essere posto alle applicazioni dei nuovi risultati della nostra ricerca, ma chiediamo la possibilità di raggiungere questi risultati, perché la società ne disponga in base alle proprie necessità e i proprio valori, seguendo il principio che "Tutto è concesso all´uso della scienza per l´uomo; tutto è negato all´uso dell´uomo per la scienza". In questo momento la biomedicina mondiale crede moltissimo nei possibili risultati della ricerca sulle cellule staminali embrionali, che sono cellule che dispongono del massimo della capacità generativa e possiedono la caratteristica unica di potersi trasformare in qualunque altro tipo di cellula. A partire da poche decine se ne possono ottenere centinaia di milioni, con le stesse potenzialità iniziali. Per questo sono una grande promessa per la terapia di alcune delle più gravi patologie dell´uomo, in particolare di quelle degenerative come il morbo di Parkinson o l´Alzheimer, o per la sclerosi multipla e la distrofia muscolare. Il loro l´utilizzo in ricerca è tuttavia oggetto di molte limitazioni e di grande dibattito nel mondo perché tocca da vicino il problema dell´inizio della vita ed è del tutto comprensibile l´affanno delle religioni, che considerano la vita un dono e una proprietà di Dio, di voler spostare sempre più indietro e sempre più in là i confini. Esiste però anche una realtà biologica che va considerata e a molti sembra eccessivo decretare che l´uovo femminile fecondato è persona. Un´ipotesi è quella di ritornare alla concezione di Tommaso d´Aquino che identifica l´inizio della vita con l´inizio del pensiero e dunque con il primo abbozzo di sistema nervoso.
In attesa di una posizione che possa conciliare la varie visioni, è legittimo però fermare la ricerca che può portare una speranza di vita in più a tutti, di qualsiasi fede, o di nessuna fede? Va chiarito che il problema si è posto da pochi decenni al nostro pensiero, a seguito delle tecniche di lotta all´infertilità, che prevedono la fecondazione in vitro di più ovuli. Alcuni di essi vengono impiantati nell´utero, gli altri in sovrannumero vengono congelati. Il dilemma che molti credenti si pongono è se le poche cellule (visibili solo al microscopio) che formano l´embrione possano essere utilizzate per la ricerca biomedica. Va chiarito che tutti, credenti e non credenti, pensiamo che l´embrione debba essere utilizzato per far nascere bambini. E va anche precisato che nessuno mai ha pensato di "produrre" embrioni per la ricerca scientifica. Tuttavia gli embrioni sovrannumerari, detti anche embrioni "orfani", che come si è detto non sono utilizzati a scopo procreativo e vengono mantenuti congelati, potrebbero essere ragionevolmente utilizzati per creare cellule staminali che potrebbero alleviare le sofferenze di molti malati e in futuro giungere anche a guarire le malattie cronico-degenerative. Quindi ciò che noi medici ricercatori chiediamo è che siano utilizzati per la ricerca proprio le migliaia di embrioni congelati che giacciono nei frigoriferi dei centri per la fecondazione assistita e che sono destinati comunque a morire.
Nel nostro Paese, poi, la situazione è ancora più difficile da capire. Si può accettare il divieto di utilizzare a scopi di ricerca gli embrioni destinati alla procreazione; ma la legge italiana vieta anche l´utilizzo di quegli ovuli fecondati umani (si stima siano circa 20.000) che non saranno mai impiantati. Tutti sappiamo che con il passare degli anni sono destinati a perdere la capacità di evolversi in un feto e poi in un neonato. In Gran Bretagna, ad esempio, vengono eliminati dopo cinque anni. D´altronde quale donna accetterebbe di ospitare nel proprio utero un embrione che è rimasto anni e anni congelato, sapendo che tentare una gravidanza sarebbe rischioso per la sua salute e quella del nascituro? Se un embrione perde la capacità di creare un essere vivente, che è il suo fine biologico, non ha più scopo di esistere. Così avviene in natura per milioni di embrioni ogni anno, che non avendo avuto la possibilità di impiantarsi nell´utero, vengono persi con il primo ciclo mestruale. Il suggerimento logico è quello di dirottare l´embrione verso la creazione di cellule staminali, dandogli quindi uno scopo sempre nobile e di alto valore, che è quello di curare quell´infinito esercito di pazienti affetti da malattie degenerative cerebrali, epatiche, cardiache. E resta inoltre "congelata" insieme agli embrioni anche la speranza di vedere sconfitte nelle generazioni dei nostri figli, quelle malattie degenerative che oggi non riusciamo a guarire.

l’Unità 11.3.09
Biotestamento
Il Pd vota in ordine sparso sull’articolo 1
di Jolanda Bufalini


Sei contrari e tre astensioni nel primo voto di merito sul testamento biologico. L’orientamento prevalente: «Passi avanti ma il testo è ancora inaccettabile». Oggi la discussione su idratazione e nutrizione.

Sei voti contro, tre astenuti nel gruppo Pd, astensione anche del commissario Idv, Astore: l’articolo 1 del ddl Calabrò è passato ieri sera a larga maggioranza ma, nonostante il lavoro bipartisan che ha portato alla riformulazione del testo, senza il voto del Pd (l’astensione vale in Senato come voto contrario anche se è evidente che segnala una diversa valutazione da parte dei tre Pd che si sono differenziati). È il primo voto espresso sul merito di un testo intorno al quale, poco più di un mese fa, si è acceso - mentre a Udine si concludeva l’esistenza di Eluana Englaro - lo scontro in Parlamento. Dal muro contro muro si è passati al confronto, anche perché nello stesso Pdl il testo originario, palesemente incostituzionale, creava problemi, come quelli espressi dal senatore Giuseppe Ferruccio Saro che, ieri a Udine, ha salutato la nascita della associazione dedicata a Eluana Englaro: «Lo scossone etico sul biotestamento è nato dal Friuli, la sfida sul biotestamento deve essere in grado di equilibrare i difensori della dimensione pro life tanto quanto i difensori del concetto di disponibilità della vita».
Ancora inaccettabile
Il Pdl ha accettato di modificare il primo comma. Il risultato ottenuto fa sì che nel gruppo Pd non ci si stracci le vesti per la differenziazione nel voto. Sottolinea il senatore Marino: «Il Pd non si è spaccato, ma ha portato avanti la linea prevalente». Ma, insiste, è stato approvato un articolo di una legge «che continuiamo a considerare contro la Costituzione, perchè lede la libertà di scelta della persona rispetto alle terapie». Dice il senatore Lionello Cosentino «abbiamo raggiunto un risultato di principio su una legge che è partita malissimo e che è ancora, allo stato, per noi inaccettabile. Però non perdo la speranza che il testo possa essere ancora migliorato, in commissione e in Aula». Nella nuova formulazione la legge «garantisce che gli atti medici non possono prescindere dall'espressione del consenso informato nei termini di cui all'articolo 4 della presente legge, fermo il principio per cui la salute deve essere tutelata come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività e che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge e con i limiti imposti dal rispetto della persona umana», praticamente una riscrittura dell’articolo 32 della Costituzione. L'intesa si è trovata con una formulazione bipartisan, che vede tra i firmatari la stessa Finocchiaro, ma anche il presidente della Commissione Sanità di Palazzo Madama Antonio Tomassini. Una riscrittura che non è piaciuta alla componente radicale che, ieri mattina, ha convocato una conferenza stampa per annunciare il proprio «ostruzionismo costruttivo», ovvero la determinazione a discutere nel merito - non leggendo foglietti a vanvera, ha detto Donatella Porretti - tutti i sub-emendamenti presentati al testo Calabrò. Al contrario per il senatore cattolico Bosone «il bicchiere mezzo pieno» vale il segnale di attenzione che si esprime con l’astensione. E mezzo pieno il bicchiere è anche per gli altri esponenti “margheritini” del Partito democratico, che avrebbero dovuto incontrarsi ieri con Franco Marini. Riunione poi rinviata perché, in seduta notturna, si è passati all’esame dell’articolo 4 (ora 2) del testo Calabrò.
L’incognita nutrizione
Nel voto contrario «prevalente» del Pd si riflettono due ordini di motivi. Nel merito dell’articolo 1, Ignazio Marino sottolinea: «avevo proposto anche di modificare la parte che parla di “partecipazione del paziente all'identificazione delle cure mediche”, perchè questa formulazione non è il consenso informato». Secondo il senatore pd, «il paziente deve dire sì o no a una terapia altrimenti si aprirebbe la strada a una serie infinita di contenziosi».
Ma pesa ancora di più l’incognita dell’atteggiamento della maggioranza sulle altre questioni controverse, particolarmente sul problema della nutrizione e idratazione artificiale: terapia e quindi soggetta alla libera scelta del paziente per i laici, sostentamento vitale per i “pro life”. Calabrò ha annunciato che esprimerà il suo parere sui sub-emendamenti dell’opposizione articolo per articolo. Evidentemente non vi sono ancora le basi di un confronto. E, infatti, è Calabrò, dopo l’esito del voto a prendersela con «l’atteggiamento troppo rigido di una parte del Pd». Diverso il commento del presidente Tomassini: «Non sono deluso», «è stato un passaggio molto importante ed è evidente una certa diffidenza a dare un parere favorevole finchè non è conclusa le legge». E il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, in predicato come coordinatore del Pdl: «Dobbiamo ascoltare le ragioni del papà di Eluana e dobbiamo dar segno di ascoltare le ragioni di chi ha sofferto».

Corriere della Sera 11.3.09
Testamento biologico
Voto in commissione, la Bianchi tra gli «aperturisti»
«Fine vita», sì al consenso informato
E il Pd si spacca: 3 su 9 si astengono
Tra i contrari Ignazio Marino: sono sbigottito, si rischia di aumentare la conflittualità tra medico e paziente
di Alessandro Trocino


ROMA — Il senatore del Pdl Enzo Ghigo, uscendo dalla commissione Sanità, lo dice chiaramente: «Abbiamo fatto un passo avanti. Ora si può discutere anche sul divieto di idratazione e alimentazione, insieme ai cattolici del Pd più sensibili». Il passo avanti è l'inserimento esplicito del consenso informato nel testo sul testamento biologico presentato dal governo e votato a grande maggioranza. Un successo del Pd, che lo chiedeva da giorni come punto irrinunciabile. Ma paradossalmente anche un successo per il Pdl, perché con questa mossa strategica riesce ad aprire una spaccatura tra i democratici: della pattuglia di nove senatori, sei votano contro, ma tre fanno un'apertura di credito e si astengono. Oggi pomeriggio si vota sul punto più delicato della legge, quello su alimentazione e idratazione artificiale. Qui la spaccatura tra i poli è più forte: difficile un tentativo mediazione, più probabilmente rimandato all'Aula.
I tre astenuti del Pd sono Dorina Bianchi, capogruppo in Commissione. Daniele Bosone, uno dei pontieri più abili e apprezzati finora. E Claudio Gustavino, senatore vicino a Rutelli. «Incredibile — commenta la radicale Donatella Poretti — Gustavino si è astenuto anche sul consenso informato, una citazione letterale dell'articolo 32 della Costituzione». La Poretti giudica però «dignitoso» il comportamento del Pd e spiega il perché del voto contrario, nonostante il successo sul consenso informato: «Resta l'obbrobrio di definire la vita umana un diritto indisponibile. Tra l'altro, formulata così, la norma è in contrasto con la legge 194, sull'aborto». I radicali ieri hanno anche lanciato l'«ostruzionismo partecipativo»: si può diventare «senatori per due ore», proponendo emendamenti al ddl sul sito www.lucacoscioni. it.
Tra i contrari all'articolo 1 c'è Ignazio Marino, che contesta l'atteggiamento della maggioranza: «Con questo articolo si rischia un aumento della conflittualità tra medico e paziente. Sono sbigottito: non capisco perché non ci sia nessuna disponibilità ad accogliere emendamenti, che non cambiano la filosofia, ma che almeno aiutano a migliorare il testo».
Parere diverso da quello di Bosone. Che è soddisfatto delle aperture: «Il Pd deve rivendicare di aver fatto cambiare volto all'articolo 1, rendendolo meno ideologico. Ma è questione di sensibilità: c'è chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi lo vede mezzo vuoto». Sono le «due anime del Pd», come le chiama il relatore Raffaele Calabrò, del Pdl. Anch'esso diviso: ieri Sandro Bondi ha invitato «ad ascoltare anche le ragioni di papà Englaro ». Questa mattina alle 9.30 il Pd riunisce il gruppo. A seguire si incontrano gli ex popolari, convocati da Franco Marini.

l’Unità 11.3.09
L’appello: ora si discuta di eutanasia e suicidio assistito


È arrivato il momento di parlare apertamente di eutanasia. Una pubblica dichiarazione - tra i primi firmatari Maurizio Mori, Mario Riccio, Carlo Flamigni, Carlo Augusto Viano, Sergio Bartolommei... - lo rivendica, dopo la conclusione del caso Englaro. Eutanasia e suicidio assistito sono vietati dal codice penale, ragionano i firmatari del testo (che pubblichiamo integralmente sul nostro sito: www.unita.it) ora è giunto il momento di iniziare a discuterne le modifiche, stabilendo comunque che suicidio assistito e eutanasia vanno consentiti solo in condizioni «rigorosamente definite e con tutte le opportune garanzie per tutti».
«L’avvio di discussione in Parlamento sul testamento biologico - dice il documento - senza dubbio precipitato dal caso (ed anzi reso possibile da esso, se è vero che fino a pochi mesi fa la linea del movimento e della Chiesa cattolica stessa era contraria ad una legge ad hoc), mostra come questo risentimento si esprima nel tentativo di approvare una legge-manifesto farraginosa, ideologica, di difficile applicazione e tale da far arretrare di molto le attuali garanzie giuridiche – se non essere contraria alla Costituzione. È vero infatti che non esiste oggi in Italia una specifica legge in proposito, ma vi sono precisi riferimenti normativi (Costituzione, Convenzione di Oviedo, Codice deontologico dell’Ordine dei medici, ecc.) che impongono il consenso informato e di fatto consentono già oggi una prassi di rispetto delle dichiarazioni anticipate di volontà».
Sì a una buona legge sul testamento biologico e allo sviluppo delle cure palliative, «passaggi essenziali per raggiungere l’obiettivo della buona morte». Non esiste inconciliabilità «fra cure palliative ed eutanasia e/o suicidio assistito. Crediamo anzi che i due approcci - palliazione e autodeterminazione - non solo possano integrarsi ma siano complementari nel rispetto della volontà dell’individuo».

l’Unità 11.3.09
Dopo la decisione di conferire a Beppino Englaro la cittadinanza onoraria
Firenze scomunicata
di Tommaso Galgani


Il giorno dopo il riconoscimento del Consiglio comunale al padre di Eluana, proposto dal socialista Alessandro Falciani, ancora polemiche. Da sinistra attacchi alla Diocesi, da destra indignazione per l’onorificenza.

Il giorno dopo la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro, conferita dal consiglio comunale, l’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori lancia altri strali contro l’onoreficenza: se l’aveva definita un «atto offensivo e nefasto», ora ne parla anche come «un affronto». Parole che alzano uno steccato tra i laici e il fronte cattolico-militante: per il candidato del Pd alla presidenza della provincia, Andrea Barducci, «la Curia è offensiva, non rispetta la massima istituzione cittadina». Anche da sinistra arrivano critiche alle posizioni dell’arcivescovo. Per reazione, invece, si compattano i cattolici dell’associazionismo (come Misericordie e Acli) e della politica (Udc e Forza Italia) per difendere Betori e attaccare l’onoreficenza varata dal consiglio comunale (come fanno anche 16 deputati del Pd). Intanto, in consiglio regionale passa la mozione del Pd sul testamento biologico. La Sinistra attacca: «Democratici laici a fase alterne». Nel Pdl tante assenze in aula.

Beppino Englaro cittadino onorario di Firenze, la questione continua a dividere. Betori, innanzitutto, raddoppia. All’indomani del conferimento della cittadinanza onoraria al padre di Eluana da parte del consiglio comunale (atto dalla Diocesi definito «nefasto, offensivo e distruttivo»), l’arcivescovo fiorentino torna alla carica durante l’omelia della messa celebrata per l’inaugurazione del nuovo ospedale San Giovanni di Dio di Torregalli.
E parla di «affronto»: «Questo allontanamento da Dio può spiegare come una città come la nostra, da sempre attestata sui fronti dell'assistenza e del farsi carico della persona umana, abbia potuto ieri subire un affronto che ne vorrebbe smentire la natura», dice. Anche alcuni deputati cattolici del Pd criticano la scelta di Firenze: «È una provocazione, una scelta che divide». Sono gli onorevoli Bobba, Binetti, Baretta, Calgaro, Carra, Di Pasquale, Farinone, Lusetti, Mantini, Merlo, Mosca, Mosella, Sarubbi, Servodio, Strizzolo, Viola.
I LAICI CHE BATTONO UN COLPO
Se Beppino Englaro si dice «orgoglioso» dell’onoreficenza ricevuta, Andrea Barducci del Pd, candidato del centrosinistra alla presidenza della Provincia di Firenze, stigmatizza le parole dell’arvivescovo. «Con tutto il rispetto, offensivo non è il pronunciamento del consiglio comunale ma il giudizio della Curia. Che ha diritto di esprimere la sua opinione, ma senza mancare di rispetto all’istituzione che rappresenta Firenze», spiega Barducci. Che invita al rispetto di tutte le opinioni: «Sulla cittadinanza onoraria a Beppino Englaro è legittimo avere idee diverse, ma è inaccettabile parlare di atto nefasto e offensivo».
Duro anche il commento di Tommaso Ciuffoletti, segretario provinciale del Partito Socialista: «Prima di puntare il dito contro il laicismo altrui, varrebbe forse la pena interrogarsi sui modi e sulle ragioni di gerarchie ecclesiastiche che si esprimono con tanta veemenza politica». La capogruppo del Pd in consiglio comunale Rosa Maria Di Giorgi, cattolica ed ex Dl, contraria alla proposta di cittadinanza onoraria a Beppino Englaro (avrebbe preferito trovare altri modi per manifestargli vicinanza), risponde così alla Diocesi: «No a giudizi liquidatori del voto in consiglio comunale». E anche la Sinistra di Palazzo Vecchio insorge: «La posizione di Betori conferma che la laicità dello stato è a rischio». C’è anche chi vede quanto successo in aula lunedì come occasione di nascita di una nuova coalizione di sinistra: «Meritano un candidato a sindaco le idee di libertà e laicità espresse nella seduta», spiega il consigliere dei Verdi Giovanni Varrasi. Critica con Betori anche Prc. Mentre Bobo Craxi, dirigente nazionale del Ps, plaude alla «civiltà di Firenze». Drastica Sabina Guzzanti, a Firenze per il suo spettacolo di satira: ««Chi se ne frega di quello che dice l'arcivescovo di Firenze. Il consiglio comunale ha fatto bene, Beppino si merita questo riconoscimento», dice davanti agli studenti che l’hanno invitata ad un dibattito.
IL FRONTE «DEVOTO» SI INDIGNA
Affrontare questi temi non costituisce da parte nostra una invasione di campo nello spazio propriamente politico, ma è difendere qui, come in tutti gli spazi della vita, valori fondamentali come la dignità della persona umana, il bene comune, la concordia e l’unità di una città», precisa Betori. Dal mondo cattolico è lunga la lista di chi critica aspramente la scelta del consiglio comunale, dall’Unitalsi a Mcl, da Acli a Apicolf, fino a Fism, Coldiretti e Ucid. Secondo Marcello Masotti, presidente di “Scienza e Vita” di Firenze, «sarebbero piuttosto le suore Misericordine di Lecco, che hanno accudito Eluana, moralmente degne della cittadinanza onoraria». Le Misericordie toscane si dichiarano «allibite» dalla cittadinanza onoraria a Beppino Englaro. Critiche in tal senso anche le posizioni di esponenti locali e nazionali dell’Udc.
Ma anche il Pdl si fa sentire in questa direzione: «È indecente aver dato questa onoreficenza al padre di Eluana», dice Stefania Fuscagni, consigliera regionale di Forza Italia. Mentre in Palazzo Vecchio il consigliere comunale (nonché parlamentare) di Forza Italia Gabriele Toccafondi replica al consigliere del Pd Dario Nardella, che aveva accusato il Pdl di «irresponsabilità» per non aver votato «sì» in aula alla proposta del sindaco Leonardo Domenici di rimandare il voto sulla cittadinaza onoraria a Beppino: «In tutta la vicenda l'unica offesa è l'uso politico, di parte, di questa importante onorificenza. Se il Pd deve scandalizzarsi con qualcuno, lanciare accuse e dirsi offeso, si rivolga allo specchio». Di Giorgi non ci sta: «Allora perché non hanno votato il rinvio?».

Repubblica 11.3.09
La bambina incinta e i medici scomunicati
risponde Corrado Augias


Gentilissimo Dott. Augias, due parole sulla scomunica che ha colpito i medici rei di aver fatto abortire la bambina brasiliana di 9 anni stuprata dal patrigno. Scomunicati i medici e la madre, non però il mostro stupratore. Per questi individui c'è forse spazio nella comunità dei fedeli? L'imbarazzata difesa della scomunica da parte del Vaticano mi ha fatto ricordare due versetti del Vangelo di Matteo: «Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità». Dio a chi direbbe di allontanarsi, ai medici o ai preti?
Valerio Buzzone valebruz@yahoo.it

Gentile Dott. Augias, il presidente Napolitano ha sottolineato che "Lo stupro è un'infamia". Anche se c'è chi fa finta che non sia così. Mi riferisco al Vaticano, per il quale l'infamia non è compiuta da chi commette la violenza, ma da chi cerca di restituire un po' di serenità alla indifesa vittima della violenza.
Fabrizio Virgili fabervi@libero.it

Il caso ha voluto che quest'anno l'8 marzo coincidesse con l'agghiacciante notizia della bambina brasiliana: 9 anni, altezza 136 centimetri, peso 33 Kg. Piccola, denutrita, incinta di due gemelli, in pericolo di vita al momento del parto. Un implacabile arcivescovo ha scomunicato la madre e i medici che l'hanno salvata. Se n'è parlato nel mondo, con raccapriccio. Meno s'è parlato delle reazioni. Vale la pena di leggerle, o rileggerle. Padre Gianfranco Greco, responsabile del Pontificio Consiglio per la Famiglia: «Il tema è delicato ma la Chiesa non può tradire il suo annuncio che è difendere la vita dal concepimento al termine naturale». Il vescovo di Recife alla domanda se anche lo stupratore sarebbe stato scomunicato: «Si tratta di un reato e di un peccato enormi, ma la Chiesa non c'entra. Ci penserà la Giustizia. Non c'è crimine peggiore dell'aborto». Giuseppe Fioroni, ex ministro della Pubblica Istruzione: «Siamo in presenza di un dramma ma per un credente ad una violenza non si risponde con un'altra violenza». Renzo Lusetti: «La coscienza non trova pace ma resto contrario all'aborto anche in un caso come questo». Paola Binetti: «Un giudizio sull'episodio sarebbe sbagliato, daremmo una falsa risposta a un dramma terribile». Chissà quale sarebbe la risposta non sbagliata.

l’Unità Lettere 11.3.09
Fatelo anche a me!
La scomunica è un atto legale della Chiesa che implica due gradi di esclusione: i “tollerati” che vengono esclusi dai soli sacramenti e i “vitandi” che devono essere proprio allontanati. Mi chiedevo quale infrazione alla dottrina cattolica dovrei commettere per venire escluso da questa religione. Ringrazio anticipatamente quanti vorranno suggerirmi (indirizzo e-mail: marco.bertinatti@poste.it) un’infrazione sufficientemente grave per la Legge dello Stato del Vaticano ma che al contempo non lo sia ancora per la Legge del nostro Stato.
Marco Bertinatti

Liberazione Lettere, 11 marzo 2009
Una scomunica, con tanto di ceralacca
Caro Dino, ho ricevuto la scomunica "latae sententiae" il 12 dicembre dell'anno scorso da parte di Simone Giusti, vescovo di Livorno, come conseguenza di ordine "giuridico" (legge di dio, can 1364, 1) per aver richiesto il cosiddetto "sbattezzo"; inoltre leggendo "Liberazione" incorro in un'ulteriore scomunica "latae sententiae" ai sensi dell'Art. 3 del "Decretum" del 1 luglio 1949 (leggere la stampa comunista). Ma nonostante ciò mi associo alla lettera di Paolo Izzo, e resto con lui e con tutti voi in attesa di qualcosa di più corposo e appagante di un banale e inutile automatismo paralegislativo: una bella scomunica "ferendae sententiae" con tanto di nome, cognome, ceralacca e cornice dorata che attesti che io non sono cattolico.
Roberto Martina via e-mail

Corriere della Sera 11.3.09
«Pane e libertà» su Raiuno. Epifani e Vendola tra gli spettatori
Alla Camera la fiction su Di Vittorio. Fini elogia il «grande sindacalista»
di A. Gar.


ROMA — Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha ricevuto il dvd di Pane e libertà quindici giorni fa, dal produttore Carlo Degli Esposti. Dodici ore più tardi ha deciso: presentazione della fiction (in onda su Raiuno domenica e lunedì) alla Camera dei deputati, con grandi onori. Nonostante si tratti della vita del sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio, uomo che poco ha in comune con la storia dell'ex segretario del Movimento sociale. Così, ieri la Sala della Regina della Camera si è riempita di sindacalisti e politici di centro sinistra, Epifani, Marini, D'Antoni, Cofferati, Vendola. Più Renata Polverini, segretaria Ugl.
Fini ha detto che «l'Italia di oggi ha bisogno di recuperare lo spirito di uno sforzo comune in nome del comune destino nazionale che fu della generazione del grande sindacalista e della sua controparte imprenditoriale ». E poi: «Di Vittorio seppe interpretare gli ideali della sinistra con autonomia e libertà, come quando non esitò a condannare l'aggressione sovietica all'Ungheria del 1956 e sostenne un duro scontro con il suo partito, il Pci». Questo ultimo passaggio è stato notato con grande favore da Guglielmo Epifani, attuale segretario Cgil: «Trovo molto importanti le cose dette da Fini sull'autonomia dei sindacati dai partiti».
Il film (coproduzione Rai Fiction- Palomar Endemol) racconta Di Vittorio (interpretato da Pierfrancesco Favino) bracciante bambino in Puglia, protagonista della lotta antifascista, promotore dell'unità sindacale. «L'iniziativa di Fini — ha detto Nichi Vendola, governatore pugliese — appartiene al suo stile istituzionale, che ha già incluso antifascismo e laicità. Ma è anche nel solco dell'operazione culturale che avviò in Puglia Pino Tatarella, dirigente di An, per creare una destra costituzionale senza compromissioni con fascismo, razzismo e xenofobia».

l’Unità 11.3.09
Forum on line, per la Cassazione la libertà di stampa è garantita meno


La Cassazione avverte i siti on-line nei quali si svolgono i Forum di discussione che per questo nuovo mezzo di espressione del pensiero non valgono le stesse tutele riservate a garanzia della libertà di stampa. Per questa ragione la Suprema Corte (sentenza n. 10535) ha confermato la legittimità del sequestro di alcune pagine web del sito dell'Associazione per i diritti degli utenti e consumatori (Aduc) nel quale erano contenuti messaggi dei partecipanti a un forum di discussione sulla religione cattolica che la magistratura di Catania aveva ritenuto offensivi verso il comune sentimento religioso per il loro contenuti sullo scandalo dei preti pedofili. Senza successo, in Cassazione, il legale dell'Aduc ha sostenuto che ai nuovi mezzi di espressione del pensiero (news letter, blog, forum, news group, mainling list, chat, messaggi istantanei e così via) debbano essere riconosciute le stesse «guarentigie» riservate alle testate giornalistiche. Ma la Suprema Corte non ha condiviso questa tesi e ha replicato che questi nuovi mezzi di espressione del pensiero «non possono essere qualificati come un prodotto editoriale, o come un giornale on-line, o come una testata giornalistica informatica». I forum on-line - spiega la Cassazione - «sono una semplice area di discussione dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole e agli obblighi cui è soggetta la stampa o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro che la Costituzione riserva solo alla stampa».

Repubblica 11.3.09
Le tesi provocatorie di Sylvain Gouguenheim in un libro
Aristotele e l’islamofobia
di Franco Volpi


Alla sua uscita in Francia il libro di Sylvain Gouguenheim appena tradotto con il titolo Aristotele contro Averroè (Rizzoli, pagg. 195, euro 16) ha sollevato un polverone. Non solo stroncature, ma addirittura due petizioni: una pubblicata da Libération, che raduna le firme di storici e intellettuali illustri, tra cui Carlo Ginzburg; un´altra sottoscritta da circa duecento docenti e studenti dell´École Normale Supérieure di Lione, dove l´autore insegna Storia medievale. Nel frattempo, sull´«affaire Aristote» c´è un´intera sitografia.
La ragione dello scandalo sta nella provocatoria tesi che Gouguenheim avanza circa una vexata quaestio: chi trasmise alla cristianità latina il patrimonio della filosofia e della scienza greco-antica? La storiografia tradizionale non ha dubbi: il merito va ascritto agli arabi, che svolsero una preziosa opera di mediazione diffondendo in Occidente gran parte del sapere antico, in particolare il corpus degli scritti di Aristotele, che fu tradotto dal greco al siriaco, dal siriaco all´arabo e dall´arabo al latino. Una tradizione araba racconta addirittura che il «maestro primo» � diventato in Dante il «maestro di color che sanno» � apparve in sogno al califfo al-Ma´mûn, che nell´830 fondò a Bagdad la «Casa della sapienza», uno dei centri più importanti per la traduzione dei testi greci.
Gouguenheim contrappone una diversa ricostruzione. Egli sostiene che il contatto con la filosofia e la scienza greche fu ristabilito ben prima dell´arrivo degli arabi ad opera di eruditi cristiani, latini, siriani e greco-bizantini. In particolare, assegna un ruolo decisivo ai monaci dell´abbazia di Mont-Saint-Michel, capeggiati da Giovanni Veneto, che già agli inizi del XII secolo, dunque circa mezzo secolo prima degli arabi, tradussero quasi tutto Aristotele.
Dietro un´erudizione apparentemente innocua, si nasconde un «negazionismo» pesante, cioè la tesi che l´Occidente cristiano non dovrebbe nulla agli arabi. In certi passaggi Gouguenheim lascia addirittura intendere che la filosofia e la scienza parlano in greco e in latino, mentre la cultura araba, già per ragioni linguistiche, risulterebbe «handicappata». Se si aggiungono i ringraziamenti che egli rivolge a intellettuali di destra, come René Marchand, non è difficile capire perché i firmatari lo hanno attaccato con veemenza. L´accusa è che le sue tesi fomentano lo scontro di civiltà, se non addirittura l´islamofobia.

Corriere della Sera 11.3.09
Il caso «Katyn»
La Storia boicottata
Wajda: «Triste che il mio film in Italia sia sparito Ancora più grave che Putin rinneghi le colpe russe»
di Valerio Cappelli


Il grande regista polacco che ha ricostruito la strage stalinista in cui fu ucciso anche suo padre parla delle difficoltà incontrate dalla pellicola da noi e lancia una grave accusa contro Mosca

ROMA — «Mi hanno detto che il mio film in Italia non è stato visto quasi da nessuno, che circola in maniera pressoché clandestina. Mi fa paura che in un Paese democratico, che per noi polacchi è un simbolo di storia e civiltà, possa ritornare la censura. È una nuova sofferenza per questo lavoro così difficile. Mi dispiace molto».
Adesso parla lui, Andrzej Wajda, il grande vecchio del cinema polacco. È da giorni che si parla del suo film, Katyn, sul crimine rimosso e mai raccontato, l'eccidio di 4500 ufficiali e civili polacchi voluto da Stalin e negato, spedendo la responsabilità al mittente nazista. Solo nel 1990 Gorbaciov ha ammesso la responsabilità: per una volta, Hitler non c'entrava nulla. Il quotidiano cattolico Avvenire ha denunciato il caso domenica con un editoriale: «Solo pochi fortunati sono riusciti a vedere il film». Le copie ci sono, ma restano in magazzino. Ne circolano 10 in tutta Italia, ne sono disponibili 40. Il presidente dei deputati del Pdl Fabrizio Cicchitto ha parlato di «scandalo» e pensa a una proiezione straordinaria «per aprire un dibattito ».
Il distributore italiano Mario Mazzarotto al Corriere ha parlato di due boicottaggi: «commerciale e storico-culturale». «Avevo già faticato per riuscire a portare il film...». Ora aggiunge che c'è la fila nei pochi cinema che lo ospitano. Torna all'idea della miopia di un mercato strozzato: «Lo si ritiene scomodo, gli esercenti pensano che non sia appetibile come un cinepanettone. Ma, a parte il suo contenuto, è anche spettacolare, in Polonia è stato visto da 3 milioni e 600 mila spettatori».
Wajda, classe 1926, accetta di parlare da Varsavia per la prima volta del suo ultimo lavoro divenuto un caso internazionale.
Non è sorpreso. Perché il suo film stenta ad affermarsi?
«La prima colpa è la mancanza di una competenza professionale nella distribuzione cinematografica da parte del proprietario dei diritti mondiali della pellicola, e cioè la televisione pubblica polacca TVP, che ha venduto il film senza nessuna conoscenza del mercato. Ci sono poi tutte quelle azioni intraprese per rendere più difficile la distribuzione per il soggetto scomodo, e anche qui la tv polacca non è senza colpe. Infine sugli schermi italiani i film stranieri vengono doppiati, la versione con i sottotitoli toglie al mio film la possibilità di una distribuzione più vasta perché non ci sono i mezzi finanziari adeguati. Forse non è il motivo più importante, ma è sufficiente perché Katyn non appaia sugli schermi italiani. Voglio ringraziare il Corriere, l'articolo di lunedì scorso sul boicottaggio in Italia ha avuto ampia eco sui giornali polacchi, siamo molto sensibili alla parola "censura". In Russia c'è stato un boicottaggio più grave: politico. Il film viene comprato da chi in realtà ha interesse a farlo sparire, sia in Russia che negli Usa. Nel contratto hanno scritto che si poteva fallire per ragioni politiche. Dopo l'ammissione di Gorbaciov, non è un mistero che Putin stia ritrattando il crimine di Stalin, tuttora venerato, al primo posto tra gli eroi nazionali».
Tra gli ufficiali trucidati con un colpo alla nuca nel bosco della Bielorussia c'era anche suo padre...«Sì, Jacob Wajda, capitano del 72˚reggimento fanteria. Sono stato a Mosca, il procuratore generale mi ha risposto che non esiste una sola carta. In Polonia c'è stato un risveglio di orgoglio nazionale per questa ferita che rimane aperta. Nei tribunali di Mosca stagnano molte cause dei discendenti delle vittime che cercano delle risposte. Mosca o non risponde o dice che non esistono prove. Al centro del mio film non ci sono gli ufficiali assassinati ma le donne che hanno aspettato il loro ritorno: ogni giorno, ogni ora». L'Occidente come si è comportato? «Non aveva interesse a irritare Mosca, non era interessato a smascherare il crimine di Katyn per non alterare gli equilibri internazionali. Non c'è stata possibilità di realizzare questo film fino al 1989, con la caduta del Muro di Berlino. Ma non voglio che quegli ufficiali muoiano per la seconda volta. Nella capitale russa hanno fatto sparire perfino le copie pirata su dvd. Ho capito l'importanza del mio film nell'unica proiezione a Mosca, 1000 cittadini russi invitati all'ambasciata polacca. Alla fine, dopo un lungo silenzio, si sono alzati in piedi e hanno applaudito. Per favore lo scriva, fatelo sapere in Italia. Questo film non è uno strumento politico ma un obbligo morale verso i miei genitori».

Corriere della Sera 11.3.09
I critici dei giornali della sinistra
«Sarebbe un dovere morale vederlo ma esiste davvero una censura di mercato»


ROMA — Che ne pensano i critici dei quotidiani di sinistra? Roberto Silvestri del Manifesto: «La falsificazione storica è ributtante, però le fosse comuni di Katyn sono conosciute nell'Est europeo, non da oggi. È sempre esistito un comunismo eretico che ne ha parlato tranquillamente, con la destalinizzazione nell'ex Jugoslavia la nuova sinistra realizzò documentari straordinari. Solo in Italia arriviamo tardi ed è un po' colpa degli anni di piombo: il piombo non era nelle rivoltelle ma nei cervelli dei poteri dominanti». Alberto Crespi dell'Unità: «Chiunque abbia partecipato alla storia del comunismo ha il dovere morale di vedere questo film. Quando il distributore parla di boicottaggio culturale non so a chi si riferisca, ma boicottaggio commerciale e una censura di mercato c'è eccome. Il sistema è bloccato su pochi titoli». (v. ca.)

l’Unità 11.3.09
Potere all’altra metà del cielo?
L’Italia è il fanalino di coda
di Rossella Battisti


«Donne e potere», il documentario di Olla, passa in rassegna un secolo di conquiste e difficoltà che le donne hanno avuto per accedere al comando. Presentato alla Casa della Memoria con commento di Anna Rossi-Doria.

Donne e potere: una relazione pericolosa? Agli occhi degli uomini, sembra evidente, visto che hanno fatto (e molti continuano) di tutto per impedire una naturale ascesa ai ruoli del comando. E di certo, relazione avventurosa, per la quale occorrono ancora alle donne determinazione e sacrifici in misura maggiore rispetto all’altra metà del cielo. In Italia più che altrove. Oggi più che mai.
È partito da questa considerazione Roberto Olla per il suo documentario «Donne e potere» - produzione Tg1 e in onda sulla rete ammiraglia della Rai ma nei soliti orari proibitivi. Il filmato è stato riproposto alla Casa della Memoria a Roma ieri, nell’ambito delle iniziative per l’8 marzo, e con l’occasione è stato spunto per alcune riflessioni di Anna Rossi-Doria, studiosa e docente di storia delle donne. «La spinta per questo documentario - spiega Olla - è nata proprio dalla reazione alla situazione italiana, una delle più arretrate al mondo. Siamo agli ultimi posti fra le nazioni democratiche per quello che riguarda l’inserimento nel mondo politico delle donne, e persino molto indietro rispetto a quelle cosiddette non democratiche». La Cina, per esempio, ha Jia Qingling tra i membri di spicco del governo, mentre in America latina sia il Cile con Michelle Bachelet e l’Argentina con Cristina Fernandez de Kirchner, ambedue alla presidenza, hanno dimostrato di saper voltare pagina senza pregiudizi sessisti.
Il documentario di Olla esplora in orizzontale e in verticale l’ingresso in politica delle donne, dagli albori dei diritti delle donne (primo fra tutti, il voto) reclamati dalle suffragiste di fine Ottocento agli esempi di «ferro» contemporanei, Margaret Thatcher e Condoleeza Rice, che a dispetto del nome (che doveva evocare il «con dolcezza» degli spartiti musicali) ha rivelato una natura inflessibile e capace di insinuarsi nei risvolti del potere americano, dove finanche la tosta Hillary Clinton ha dovuto cedere. «La sconfitta di Hillary - chiosa Anna Rossi-Doria - è stato un vero paradosso della storia in cui per la prima volta si presentano alle elezioni un candidato nero e una donna e il primo vince. Un’amara beffa visto che fin dall’Ottocento neri e donne sono stati fermi alleati gli uni delle altre proprio perché discriminati per una differenza incancellabile legata al corpo...».
La lunga marcia delle donne verso l’integrazione ai posti di comando potrebbe comunque far sperare progressi rapidi. «In fondo - commenta Olla - tutta la partita si è giocata nell’ultimo secolo, tra la fine dell’Ottocento e il Novecento». La Nuova Zelanda concesse già dal 1893 il voto alle donne, mentre in Europa lo scoppio della Grande Guerra di fatto arrestò la maturazione del diritto, ripreso solo dopo il secondo conflitto mondiale. Non solo: «in Italia - ricorda Rossi-Doria - il diritto di voto concesso nel 1945 non si estese, come era previsto, anche all’ingresso delle donne in magistratura, che avvenne solo nel ‘63». Era la paura degli uomini a essere giudicati da una donna, così come dietro alla denigrazione delle suffragiste, passate alla storia con il nomignolo derisorio di «suffragette», si celava «la paura del sovvertimento dei ruoli anche nel privato». Significativo, a questo riguardo, un filmetto del 1912 - di cui alcuni estratti compaiono nel doc - dove ci si fa beffe delle donne che vogliono riunirsi per discutere dei loro diritti, mollando i pargoli ai mariti, ma finiscono per prendersi per i capelli e per venire sbattute in guardina tra i girotondi esultanti dei loro consorti.
Di strada ce n’è ancora molta, ma per una Hillary che non ce l’ha fatta, sorride Michelle Bachelet - tre figli, separata e non cattolica -, che fra i primi atti del suo governo ha incentivato i partiti a presentare più donne, ma solo laddove hanno la possibilità di essere elette. Siamo in Cile. Rispetto all’Italia, dalla parte opposta del mondo. In tutti i sensi.

Repubblica 11.3.09
Si apre la prossima settimana a Roma il Festival della matematica
Otto nobel discutono su come la scienza può salvare il mondo
Lo studioso che ha ispirato "A beautiful mind" spiega il rapporto tra la sua disciplina e l’economia
"La colpa è di chi ha usato quei modelli in modo avido e irrazionale"
"Non sono i modelli aritmetici ad aver trascinato il mondo sull’orlo del baratro"
intervista di Massimo Novelli


PRINCETON (NEW JERSEY) Il computer di John Nash è aperto sulle quotazioni dell´oro, nelle altre finestre con cui è collegato su internet ci sono l´argento, il platino e gli indici di Wall Street. L´ottantenne matematico, famoso per aver vinto il premio Nobel per l´economia, per essere sprofondato per un quarto di secolo nella malattia mentale e per essere stato impersonato da Russell Crowe nel film premio Oscar A Beautiful Mind, scruta il video ogni giorno alla ricerca di una motivazione che spieghi «la più globale delle crisi». Non crede che basti solo lo scoppio della bolla immobiliare americana a spiegare una recessione mondiale e rifiuta di dare la colpa alla cosa che ama di più: «Non sono i modelli creati dai matematici per costruire strumenti finanziari sempre più complessi ad aver trascinato il mondo nel baratro, la responsabilità è di chi li ha usati in modo avido e irrazionale».
"Il fantasma di Fine Hall", come gli studenti di Princeton chiamavano quel genio che si era perso nei suoi calcoli e nelle manie di persecuzione, è un uomo gentile e riflessivo che parla a voce bassa. La malattia gli ha tolto l´arroganza e l´onnipotenza che erano il suo biglietto da visita giovanile, gli ha lasciato rimpianti ma anche la convinzione che nella vita ci sia sempre la possibilità di riprendersi, una convinzione che ora applica anche all´economia mondiale: «Si troverà un nuovo equilibrio, ma non più ai livelli di prima: bisogna essere capaci di vivere ad un livello più basso».
Lei è un professore di matematica appassionato di economia, quanto segue l´attuale crisi?
«Guardo ogni giorno in rete i prezzi delle materie prime, adesso ora l´oro e sceso e il platino sta salendo, e seguo gli indici dei mercati americani. Poi leggo il New York Times e seguo il sito web della Bbc, il mio preferito, perché mi dà una visione internazionale e non americana delle cose».
Qual è la sua opinione su questa recessione?
«Alla fine dell´estate quando è cominciato il crollo, un amico del dipartimento di economia mi ha regalato un vecchio libro sulla storia delle crisi finanziarie che mi ha fatto riflettere su quante ce ne siano state, di locali e di globali, ma questo è un uragano diverso, è una crisi più globale delle altre».
Quali sono le cause?
«Sono molte, tutto può essere cominciato con i mutui subprime ed essersi diffuso grazie agli strumenti finanziari in cui questi mutui erano stati impacchettati e venduti in tutto il mondo. Ma ora siamo in una spirale in cui ogni cosa trascina le altre. Penso anche che i ceti più ricchi e potenti dell´economia mondiale non siano molto entusiasti dell´elezione di Obama e delle sue ricette».
Lei cosa pensa del piano di stimolo dell´economia del presidente americano?
«C´è bisogno di rilanciare i consumi per cui ha usato due cose corrette dal punto di vista teorico: i sussidi di disoccupazione, anche se sarebbe meglio che questi strumenti funzionassero bene prima dell´inizio di una recessione, e i lavori pubblici. Questa non è certo un´idea nuova, probabilmente nasce con i Cesari, ma funziona. Si deve investire in educazione e sanità e poi i singoli Stati così sono incoraggiati a rifare le infrastrutture».
Il suo contributo alla "Teoria dei giochi", il famoso "Equilibrio di Nash", immagina situazioni di equilibrio quando tutti gli attori restano convinti della bontà della loro scelta anche se vengono a conoscenza delle mosse degli altri. In questo modo si può immaginare che si sia evitato il peggio e ci sia una sorta di armonia. Oggi invece viviamo il caos globale.
«Io ho immaginato che tutti possono guadagnare, ma tutti possono anche perdere se il gioco è meno favorevole e questo mi sembra il caso attuale. Oggi, come dice un vecchio detto inglese, "C´è un vento strano che non porta niente di buono", ma un nuovo equilibrio si troverà solo quando le cose si calmeranno e smetteranno di esserci cambiamenti così rapidi, ma aspettiamoci che sia un equilibrio ad un livello basso».
Lei a New York e a Roma parteciperà al Festival della Matematica, come se ne è innamorato?
«Mi sono innamorato prima di tutto dell´aritmetica. Ricordo che a scuola mi piaceva lavorare con numeri più grandi rispetto agli altri scolari e volevo provare a fare sempre di più. Mio padre era un ingegnere e questo ha avuto certamente un impatto su di me».
Cosa pensa della matematica?
«Be´ qui siamo nel palazzo della matematica. E stando qui, non vedi le cose nello stesso modo di chi sta fuori: guardare la terra dallo spazio è molto diverso che guardarla dalla finestra. Noi abbiamo un punto di vista particolare. La cosa che mi stupisce è che la matematica sembra essere tornata di moda: poco tempo fa ho visto una classifica delle cento professioni preferite dagli americani e il matematico era il più desiderabile. All´ultimo posto c´era il taglialegna».
A un certo punto si credeva che la matematica potesse creare strumenti finanziari talmente avanzati, futures e derivati, che eliminavano il fattore rischio, ma questa crisi finanziaria sembra essere cominciata proprio da lì.
«Si possono fare pacchetti di migliaia di mutui e si può fare un calcolo un po´ naif che certi mutui valgono più di altri, illudendosi di minimizzare i rischi, ma poi il trend si inverte e il mercato diventa negativo per tutti. Ci sono formule di riduzione del rischio, la più famosa è la teoria "Black-Scholes" messa a punto al Mit di Boston, che sono considerate così buone da aver vinto un Nobel, ma gli investitori le hanno usate in modi non previsti, forzando tutti i limiti. E se penso che due dei vincitori del Nobel, Robert Merton e Myron Scholes, crearono un fondo speculativo che ebbe risultati disastrosi e dovette essere salvato da un consorzio di banche, mi è chiaro che tra le teorie matematiche e la loro applicazione all´economia c´è ancora molto da fare».
Quest´anno lei compie 81 anni, dopo il Nobel è tornato ad insegnare e ha avuto quei riconoscimenti che non si aspettava più di ricevere, ma ha dei rimpianti?
«Ho raggiunto un età in cui il tempo è tutto alle spalle e certo avrei potuto avere fortuna migliore, aver fatto cose più grandi e sprecato meno tempo, ma non sono cose attraenti a cui pensare. La settimana scorsa ho incontrato George Soros e mi sono reso conto che abbiamo pressapoco la stessa età ma lui ha guadagnato molti più soldi di me ed è milionario».
John Nash apre le braccia, si guarda in giro nella stanza piena di cataste di posta mai aperta e di libri, poi mi mostra una foto del figlio: «Anche lui è schizofrenico, speriamo che guarisca, ma ha già cinquant´anni. Io ce l´ho fatta ad uscirne e la mia ultima speranza oggi è che anche lui trovi una strada».

Il Giornale dell'arte, Marzo 2009
Baghdad riapre con polemiche
Chiuso dalla prima guerra del Golfo, saccheggiato nel 2003, si inaugura il Museo nazionale restaurato anche grazie all’Italia
di Martin Bailey


Baghdad (Iraq). A sei anni dalla sua chiusura, in seguito alla guerra che ha portato alla caduta di Saddam Hussein, riapre il Museo nazionale dell’Iraq con il nuovo allestimento della Galleria Assira e delle Sale Islamiche (grazie anche al contributo del Governo italiano). Il museo era di fatto chiuso addirittura dalla prima guerra del Golfo del 1991, mentre risalgono al 2003 i gravi e ben noti atti di saccheggio. Donny George, ex direttore del Ministero delle Antichità irachene, si è appellato al primo ministro Nouri al Maliki perché non riapra il Museo di Baghdad. Alla decisione, presa dal ministro del Turismo e delle Antichità Qahtan al Jibouri, si è opposto anche il ministro delle Antichità Amira Edan, che ha così dovuto rassegnare le dimissioni. Alcuni rapporti da Baghdad lasciano intendere che il museo, inizialmente aperto agli studiosi il 23 febbraio, potrebbe in seguito accogliere il resto del pubblico. «Il progetto di riaprire uno dei musei più importanti del mondo per un periodo di due settimane denota un’assoluta inconsapevolezza di chi si occupa della gestione del patrimonio iracheno», sottolinea la lettera di George, datata 11 febbraio, aggiungendo che «per aprire un museo non basta aprire la porta» e che «preparare la collezione di un museo per essere esposta al pubblico richiede almeno un anno di meticoloso lavoro, persino nelle circostanze migliori». 

L’articolo integrale è disponibile nel numero de Il Giornale dell’Arte nelle edicole e nelle librerie

Il Giornale dell'arte, Marzo 2009
I templi dei re festaioli

La missione dell’Università di Roma diretta da Paolo Matthiae ha scoperto i maggiori luoghi sacri dell’età degli Archivi Reali, citati nelle tre versioni del Rituale della regalità
di Paolo Matthiae


Ebla (Siria). È raro per i centri urbani arcaici delle prime civiltà dell’Oriente antico, con l’eccezione di alcune importanti città d’Egitto e di Mesopotamia, che gli scavi riescano a identificare e riportare alla luce anche i templi citati nei testi antichi. Ciò è avvenuto ad opera della Missione dell’Università La Sapienza nelle ultime campagne a Ebla, la metropoli della Siria interna, 60 km a sud di Aleppo, sede di un potere protoimperiale che attorno al 2300 a.C. fece della sua fioritura economica, dovuta a un’abile integrazione di agricoltura estensiva, pastorizia transumante e controllo di preziose materie prime, il fondamento di un’ambiziosa politica di conquiste culminata nello scontro con i maggiori potentati dell’epoca, da Mari ad Akkad.
Nell’età dei celebri Archivi Reali, scoperti dalla Missione italiana nel 1975, la prima Ebla dell’età Protosiriana matura era al centro di un’estesa rete commerciale che andava dall’Afghanistan, alla Mesopotamia, al Levante e all’Egitto dei grandi faraoni dell’Antico Regno, che ripetutamente inviarono doni ai signori di Ebla. In quegli anni, i re di Ebla citati negli Archivi, Igrish-Khalab, Irkab-Damu e Ishar-Damu, furono i protagonisti di cerimonie di rinnovamento della regalità, che si protraevano per tre settimane e avevano la finalità di rigenerare il potere regale, soprattutto attraverso uno stretto rapporto con i sepolcri degli antenati regali divinizzati.


L’articolo integrale è disponibile nel numero de Il Giornale dell’Arte nelle edicole e nelle librerie

l’Unità 11.3.09
Il celebre affresco «regalato» dal Comune alla Diocesi verrà spostato in un convento
Il progetto Nel futuro dello stabile la trasformazione in un «resort molto spartano»
La «Madonna del parto» finirà nella hall di un albergo
di Gianni Caverni


Non c’è pace per la «Madonna del parto» di Piero della Francesca. Trasferita nel ’92 dalla cappella del cimiteri in una ex scuola, sarà spostata in un convento di Monterchi. La decisione è stata presa lunedì sera dal Comune.

Si tratterà di attraversare la strada. Ma lo dovrà fare una delle opere d’arte più importanti del mondo, la Madonna del parto che Piero della Francesca dipinse secondo il Vasari nel 1459 e che rischia di trovarsi inglobata in un albergo. Un capolavoro che attrae a Monterchi (Ar) ogni anno 50.000 visitatori non poteva che suscitare polemiche, a partire dall’apertura di un contenzioso legale sulla proprietà dell’opera che la Curia ha rivendicato dal 2002. È stato il Consiglio comunale che lunedì scorso, in seduta notturna, ha approvato con 8 voti a favore e 4 contrari la proposta del sindaco Massimo Boncompagni, Udc, eletto in una lista civica di centrodestra: «È un accordo di transazione con la Diocesi - spiega -: la chiesa del Monastero delle Benedettine diventa di proprietà del Comune in cambio di una parte del monastero stesso che passa alla Diocesi. E nella Chiesa collocheremo definitivamente la Madonna del parto».
VIA DALLA SCUOLA
Tutto questo nonostante le proteste e le iniziative del comitato per «la Madonna dei monterchiesi» che fin dal 2005 si batte per una collocazione più degna all’interno della cinta muraria cittadina. Attualmente l’affresco di Piero si trova nell’ex scuola della Reglia dove fu collocato, come sede provvisoria, nell’ormai lontano 1992. Fino al terremoto del 1785 l’affresco decorava la chiesa di Santa Maria di Momentana, poi la cappella accanto al cimitero dove, dopo un altro terremoto e la ristrutturazione dell’edificio del 1956, rimase fino al restauro del 1992. «Così facendo - sottolinea Lina Guadagni, portavoce del comitato - questa giunta il cui mandato scade fra soli 2 mesi lascia una pesante eredità a chi vincerà le elezioni comunali, chiunque sia». Ma la vera pietra dello scandalo sta nel futuro del complesso monacale che la Diocesi, ormai proprietaria unica dell’edificio, ha intenzione di vendere. «Si capisce bene che la presenza di un tale capolavoro - continua Guadagni - aumenterà in maniera straordinaria il prezzo della vendita. A questo c’è da aggiungere che è interessato all’acquisto un gruppo di grandi imprenditori intenzionati a realizzare nel Monastero, che ingloba la chiesa, una struttura alberghiera. Insomma una sorta di albergo con vista, e che vista!». Il sindaco Boncompagni nega, ma non troppo convinto visto che dichiara che non si tratterebbe comunque di un albergo di lusso ma al massimo di «un resort piuttosto spartano». E aggiunge che quattro erano le condizioni e sono state raggiunte: «Che la proprietà dell’edificio fosse del Comune, che fosse nel centro storico (interpretazione estensiva visto che è ai margini del paese, ndr), che la gestione sia esclusivamente comunale e che la chiesa, da ora oratorio, potesse almeno tre volte l’anno essere riaperta al culto». Il progetto di sistemazione dovrà avere l’approvazione della Soprintendenza e della Direzione Regionale. Guadagni annuncia, oltre all’appello al mondo della cultura, «tutti i passi legali che potremo fare per impedire questo pasticcio».

l’Unità 11.3.09
«Una contadina che porta Cristo nella sua pancia»
Intervista ad Antonio Paolucci di Stefano Miliani


La Madonna del Parto è una sublime metafora: Piero rappresenta con naturalismo una contadina della Valtiberina come se ne possono incontrare oggi. Ma è il tabernacolo del corpo di Cristo, è il Verbo incarnato che sta nella pancia di una ragazza di Monterchi». Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, già soprintendente e ministro dei beni culturali, è uno dei maggiori storici dell’arte e ha studiato a fondo Piero della Francesca.
Il dipinto di Monterchi è una delle raffigurazioni più importanti della maternità nell’arte occidentale. Cosa significa, in termini religiosi?
«Raffigura la Madonna incinta e orgogliosa della gravidanza che ci guarda con la mano su un fianco e di tre quarti perché si veda il ventre gonfio dalla presenza del bambino. I due angeli ai lati lo sanno e aprono la tenda così come si mostra l’ostensorio. Qui sta la grandezza di Piero».
Qui dove?
«Nel coniugare attraverso un’immagine popolarissima il massimo della sublimazione concettuale».
A quando risale il dipinto?
«Intorno al 1455-60, il periodo in cui l’artista lavora ad Arezzo. In un giorno d’estate in quegli anni qualcuno lo invitò a Monterchi, lui prese il cavallo, ci andò e in cinque giorni, cinque perché questo dimostrano le “giornate” di esecuzione dell’affresco, dipinse questo suo capolavoro»
Come valuta la decisione del Comune di trasferirlo in un monastero?
«A suo tempo ho polemizzato molto: portarono la Madonna del Parto nel pseudo-museo ricavato in una tristissima e desolante scuolina, per di più dismessa perché a Monterchi non nascono bambini e collocare proprio lì una Madonna del Parto... Avrei invece voluto che rimasse a casa sua, nella cappellina restaurata, messa in sicurezza, vicino al cimitero. Quanto alla soluzione scelta ora, l’oratorio è uno spazio sacro, però vedremo come la sistemano, al momento non posso pronunciarmi».
Il fatto che un paesino come Monterchi abbia un’opera d’arte così importante ci dice qualcosa sul patrimonio artistico italiano, vero?
«Certamente. Dimostra che in Italia i capolavori sono dappertutto, non solo nelle capitali dell’arte. Montepulciano, per esempio, ha il santuario della Consolazione del San Gallo. Piuttosto: quando qualcuno dice che il nostro paese possiede il 50% o il 40% o il 60% dei beni culturali del mondo dice un’idiozia, non sappiamo quanti ne abbiamo noi, nessuno sa quanti ce ne sono nel mondo, per cui non ha alcun senso mettere a confronto due quantità incognite. La vera cosa dimostrabile scientificamente invece è che l’Italia, per ragioni storiche, perché ha avuto a lungo un sistema feudale e clericale, ha conservato beni culturali più di altri paesi della vecchia Europa e in modo diffuso: è il carattere identitario del Paese».
Infatti le soprintendenze sono ovunque: lei le conosce bene ma oggi la tendenza pare quella di lasciarle deperire e, chissà, morire. Sarebbe un’idiozia gigantesca.
«Le soprintendenze sono l’unicità dell’Italia di cui dovremmo essere orgogliosi. Rispondono al concetto, nato nella Roma dei papi, che il patrimonio culturale va custodito e governato indipendentemente da chi lo possiede: se ha rilevanza lo Stato ha il diritto, e il dovere, di tutelarlo».

Corriere della Sera 11.3.09
Una mostra a Cà Foscari
I legami Già nel '400 la Serenissima aveva rapporti con il Corno d'Africa
L'influenza Uno sviluppo artistico segnato dai pittori inviati dai Dogi
Il tesoro d'Etiopia
Venezia riscopre l'Impero del Leone con l'arte della Chiesa delle Origini
di Martina Zambon


Esistono mostre atipiche. Come questa che sceglie un versetto del Cantico dei Cantici come titolo, «Nigra sum sed formosa» per invocare la maestosa figura della Regina di Saba, mostra nata e cresciuta all'interno di un ateneo con la collaborazione, però, di una banca. Un tema «di nicchia», l'arte sacra della cristiana Etiopia, presentato da un ologramma come guida, un iPod touch per orientarsi fra manoscritti, reportage filmati, antichi oggetti liturgici. Un viaggio possibile, forse, solo a Venezia, porta misteriosa fra Occidente e Oriente, fra Europa e Africa. Cinque secoli prima che Picasso «scoprisse» lo spigoloso carisma dell'arte africana dipingendo le sue «Demoiselles d'Avignon», il sodalizio commerciale e culturale fra Venezia e l'Etiopia scintillante di icone e croci astili era già consolidato. Ed ecco la prima grande mostra italiana dedicata all'arte millenaria dell'Etiopia. La scelta di ospitarla a Venezia è sembrata naturale, già nel '400 la Serenissima instaurò un rapporto molto solido con il regno che dominava il Corno d'Africa. Tanto da inviare laggiù i suoi pittori che avrebbero impresso un'impronta indelebile allo sviluppo artistico etiope.
L'Etiopia, in cui ancora oggi sussiste una sorta di chiesa delle Origini, degli Apostoli, costituisce un unicum visto che, rapidamente, l'impero del Leone si trovò circondato da popoli islamici. L'esposizione racconta questa storia affascinante a partire dai suoi protagonisti: la Regina di Saba; il re Lalibela (sec. XII-XIII), da cui prende nome la città santa costruita sulle montagne del Lasta, la «Nuova Gerusalemme». E poi ancora, il re Zar'a Yâ'qob che, nel XV secolo, aprì decisamente alle presenze occidentali; il pittore veneziano Nicolò Brancaleon, detto Marqorêwos (Mercurio), documentato alla corte dei re Eskender e Lebna Dengel fra XV e XVI secolo.
Ad accompagnare i visitatori nella mostra allestita a Ca' Foscari sarà il professor Stanislaw Chojnacki, patriarca degli studi moderni sull'arte etiopica, o meglio, sarà il suo ologramma a grandezza naturale. Il filo narrativo parte dal piano terra che avviluppa il visitatore con fotografie, filmati e colonna sonora per arrivare alle acqueforti di Lino Bianchi Barriviera sulle chiese rupestri fatte erigere dal re Lâlibalâ. Scorci e decorazioni di questi edifici sono proiettati sulle pareti delle sale adiacenti al salone d'ingresso, sul cui soffitto, invece, viene proiettato una sorta di rotolo magico. Nella sala di collegamento al piano superiore si incontrano le vetrine con croci astili di squisita fattura. Protagonista indiscusso del secondo salone è il Mappamondo di Fra Mauro, capolavoro cartografico della Biblioteca Marciana, concesso, per la prima volta in prestito esterno.
Dalla cartografia ai libri, il secondo salone si impreziosisce con codici miniati e rotoli magici. Quattro sale contigue allineano decine di icone, per lo più inedite, dal XV al XIX secolo. Un'intera sala è, invece, dedicata a Nikolaus Brancaleon, il pittore veneziano inviato dal doge in Etiopia nell'ultimo scorcio del '400. In mostra il bellissimo dittico del Museo etnologico di Zurigo attribuito alla sua bottega.
Prestiti internazionali prestigiosi resi possibili dalla curatela dei professori Giuseppe Barbieri dell'Università Ca' Foscari di Venezia, Gianfranco Fiaccadori della Statale di Milano, dell'architetto Mario Di Salvo, direttore della Fondazione Montandon di Sierre (Canton Vallese) per una mostra promossa da Università Ca' Foscari di Venezia, Regione Veneto e Banca Popolare FriulAdria-Crédit Agricole che, dopo eventi come Pordenonelegge e altre esposizioni d'arte, si propone come partner continuativo per la fruizione dell'arte secondo un taglio innovativo, quello della multimedialità d'avanguardia.

Corriere della Sera 11.3.09
La religiosità. I culti ortodossi da Addis Abeba ai villaggi nel Nord del Paese
Axum, riti come duemila anni fa. Sfila coperta l'Arca dell'Alleanza
Nel giorno del Timkat, l'orgoglio di una nazione attorniata dall'Islam
di Massimo Alberizzi


Il giorno del Timkat — l'epifania ortodossa, la più importante festa dell'Etiopia, che cade il 19 gennaio — Lalibela, la città santa, è attraversata da processioni sacre. Una folla imponente si concentra per le strade e le piazze e si ammassa attorno alle 13 chiese scavate nella roccia, l'ottava meraviglia del mondo. Nelle intenzioni di chi l'ha fondata, Lalibela era la Nuova Gerusalemme, costruita per rispondere alla conquista della Terra Santa da parte dei musulmani nel 1187. I cortei guidati dai sacerdoti con tonache, copricapi e ombrelli parasole multicolori, si snodano tra canti e balli religiosi, nuvole di incenso aspro e pungente.
Il rito è emozionante e i partecipanti sono colti da una sorta di ispirazione divina. I movimenti sono lenti e sembrano studiati, come prevede una liturgia millenaria costruita per arrivare al cuore dei fedeli.
Gli uomini sfilano in gruppi diversi da quelli delle donne, che si muovono nei tradizionali vestiti bianchi parlando e cantando in quello che forse è l'unico vero giorno di libertà ogni anno.
Il culmine arriva nel momento in cui una copia dell'Arca dell'Alleanza portata a braccia in giro per la città, ritorna al suo posto in una delle chiese e centinaia di persone si immergono nelle vasche piene d'acqua a simbolizzare un nuovo battesimo. Le chiese monolitiche di Lâlibalâ sono scavate nella roccia e sono state costruite tra il 12˚ e il 13˚ secolo da centinaia di operai (o forse schiavi) armati di scalpello . L'interno è un sfavillio di affreschi, sculture e icone nel tipico stile ortodosso etiopico. La più grande è Bete Medhane Alem e la più antica Bete Maryam.
Grande sacralità si respira anche ad Axum, la capitale dell'antico regno della mitica regina di Saba. Il complesso della cattedrale di Santa Maria di Sion contiene una speciale cappella dove è conservata l'Arca dell'Alleanza uno dei grandi misteri dell'antichità. Costruita da Mosè su ordine diretto di Dio in legno d'acacia e laminata dentro e fuori d'oro, conteneva le tavole dei comandamenti. Ma era anche un'arma potentissima che re Salomone regalò alla regina di Saba nel viaggio di ritorno dalla Palestina ad Axum. Chi la toccava rimaneva fulminato. Quando nel 331 dopo Cristo l'ebraico regno axumita si convertì al cristianesimo, l'Arca divenne il simbolo più importante per la gerarchia religiosa ortodossa. Nessuno l'ha mai vista tranne un sacerdote che fa la guardia all'edificio dove è depositata. Viene portata in processione una volta l'anno ma diligentemente avvolta in una coperta che la nasconde agli occhi della folla enorme che accorre da ogni parte del Paese per onorarla.

Corriere della Sera 11.3.09
La leggenda. Una storia affascinante di religioni e migrazioni nel personaggio biblico alla base della fondazione del regno
Bruna e sensuale, la regina di Saba stregò anche Stalin
di Armando Torno


Una e trina. Si definisce «nigra» nel Cantico dei Cantici. Ma per gli studiosi le donne evocate dal testo sono tre: la sposa, la femmina libera e la prostituta

Che relazione c'è tra la Regina di Saba e l'Etiopia? E quale rapporto ci fu tra questa donna che ha suscitato meraviglia nei secoli — anche Händel ne fu magato — e quella che corre in cerca d'amore nel Cantico dei Cantici? Ogni risposta deve cominciare da un semplice passo del piccolo libro sapienziale.
Diremo innanzitutto che Gerolamo, nella sua versione latina della Bibbia, la celebre Vulgata, rende il versetto 1,5 del Cantico con queste parole: «Nigra sum sed formosa/ filiae Ierusalem/ sicut tabernacula Cedar/ sicut pelles Salma». L'attuale traduzione italiana utilizzata dalla Chiesa Cattolica (Cei, 2008) è la seguente: «Bruna sono ma bella/ o figlie di Gerusalemme/ come le tende di Kedar / come le cortine di Salomone».
Il latino nigra, l'attuale bruna, equivale all'ebraico šehôrâ, ovvero nera (femminile di šahor). Apparentemente è un termine facile, in realtà cela significati a cominciare dalle sequenza consonantica šhr: in essa si possono trovare le ragioni del «desiderare ardentemente», del «ricercare», o di «essere nero». L'esegesi spiega il passo ricordando che la carnagione scura — l'aveva anche la sposa egiziana del Salomone storico — è tuttavia tipica di una ragazza abbronzata a causa dei lavori agricoli. Del resto, non pochi antichi poeti arabi amano opporre il colore chiaro delle giovani nobili (nel Cantico sono le Figlie di Gerusalemme) a quello di schiave e serve che svolgono lavori al sole. Ma c'è qualcosa da aggiungere: la radice šhr diventa in taluni passi del piccolo libro biblico — per esempio in 3,1 e 5,6: «L'ho cercato, ma non l'ho trovato» — un sinonimo intensivo di un'altra sequenza consonantica, bqš, che nel Cantico appare e scompare indicando l'inquietudine d'amore della donna. Gerolamo, sempre meraviglioso nelle sue soluzioni, sceglie «formosa», placando la sete di sensualità imprigionata nel soffio impronunciabile. Fermiamoci qui, ché si potrebbe continuare all'infinito, per sottolineare che le donne del breve poemetto non sono una ma tre (è la tesi di Giovanni Garbini: Cantico dei Cantici, Paideia 1992). Si vedono e si nascondono nella corsa d'amore la sposa, la donna libera e la prostituta. Per questo nel rincorrersi dei giochi tra sillabe e sentimenti è lecito evocare la Regina di Saba che giunge a Gerusalemme per mettere alla prova la saggezza di Salomone e rimane incantata dalla sua sapienza. È una visita attuata senza badare a spese. Si legge nel Primo libro dei Re: «Ella diede al monarca centoventi talenti d'oro, aromi in gran quantità e pietre preziose» (10,10). La regina senza nome — la leggenda musulmana la chiama Balkis e quella etiope Makeda; Saba non è una località ma una popolazione: la parola è la trascrizione greca di Sheba — intraprende il suo viaggio per stipulare un accordo commerciale, giacché il re controllava le vie di comunicazione e quindi poteva danneggiare gli affari dei Sabei che, tra l'altro, riscuotevano gabelle dalle carovane di passaggio.
Il regno di Saba si estendeva nell'Arabia meridionale, in coincidenza con l'attuale Yemen. Ha una storia fascinosa, della quale fanno parte anche migrazioni in Etiopia (le vicende, con ricca iconografia, sono ricostruite da Giovanni Garbini e Bruno Chiesa nel volume I primi Arabi, Jaca Book 2007). Del resto, il Paese che sorge sull'altra riva del mar Rosso, proprio l'Etiopia, rivendica il figlio nato dal leggendario amore che si accese tra la regina e Salomone. Lo chiamarono Menelik ed è l'antenato degli imperatori etiopi. Il monarca di questa terra vanta tra i suoi titoli «Leone vittorioso della tribù di Giuda». Non a caso il suo emblema è una stella a sei punte che evoca quella di Davide. La Regina di Saba diventò un'icona per le onorificenze dell'Etiopia: nella tesoreria del Museo Statale di Storia, che si affaccia sulla piazza Rossa a Mosca, è conservata una grande medaglia che il Negus mise sul petto a Stalin (l'onore toccò anche ad Eisenhower).
Morale del racconto. La donna — le rappresenta tutte — del Cantico è scura, come la Regina di Saba, come le etiopi. È sensuale, come prova la radice ebraica accennata. Senz'altro volle conoscere la carne, oltre alla sapienza di Salomone, e se ciò accadde nessuno ci impedisce di credere che il continuo amplesso evocato dal poemetto sia metafora del viaggio d'amore della Regina. Difficile dire se Stalin pensasse a lei, dopo aver ricevuto la medaglia, ma in nessuna foto la mostra. Aveva letto troppo attentamente Machiavelli per concedersi questo lusso biblico.
Ma la sacralità nell'Etiopia settentrionale si respira in ogni villaggio. Nonostante sia praticamente circondato da Paesi musulmani l'antica Abissinia ha mantenuto una cristianità profonda, fatta di riti antichissimi. L'influenza islamica però si sente, ad esempio, nel dover togliersi le scarpe quando si entra in una chiesa, esattamente come si fa per le moschee.
Molti dei monasteri ortodossi sono vietati alle donne, come quello di Debre Damo il più antico dell'Etiopia. Situato sul cucuzzolo di una montagna, si raggiunge infilandosi in una cesta che viene tirata su dai sacerdoti con una fune. Si sale gratis, ma se poi non si dà una consistente mancia i santi signori non ti fanno più scendere. Il monastero contiene un'incredibile collezione di più di mille testi sacri scritti e decorati a mano e frammenti di antichi manoscritti.
Decine e decine di chiese e monasteri, alcuni dei quali edificati nel 13˚ secolo ma quasi tutti vietati alle donne, si nascondono nelle 37 isole e sulle rive del lago Tana. Forse il luogo di culto più spettacolare è quello di Ura Kidane Mehret.
Ad Addis Abeba, la capitale dell'Etiopia, si può ammirare un piccolo gioiello, la cattedrale di San Giorgio, curiosa per la sua forma ottagonale. È molto più giovane di tutti i tesori del Paese, costruita dopo la battaglia di Adua del 1896 dai prigionieri di guerra italiani. Spettacolari le vetrate con immagini sacre. Qui furono incoronati gli imperatori Zewditu nel 1917 e Hailè Selassie nel 1930. Anche loro con un rito sacro.

Liberazione 11.3.09
A 85 anni dalla nascita dell'uomo che rivoluzionò la psichiatria, "44 matti" tornano a Bruxelles: per un'Europa senza manicomi
Basaglia ricordiamolo costruendo salute
di Luigi Attenasio, Angelo Di Gennaro



Ottantacinque anni fa esatti, l'11 marzo del 1924, nasceva a Venezia Franco Basaglia, il cui nome è legato a quella legge, la 180, che ha chiuso i manicomi in Italia. Non segnaliamo sbrigativamente "la vita e le opere" e nemmeno lo celebriamo; piuttosto, provocatoriamente ricordiamo come, "colpevolmente", il suo pensiero sia poco e male conosciuto. Benedetto Saraceno, responsabile Oms per la salute mentale, chiama vere e proprie distorsioni quelle "scovate" nella letteratura psichiatrica internazionale soprattutto anglosassone: Basaglia antipsichiatra, ideologo, filantropo. 
Basaglia antipsichiatra: ricordo che lo stesso Franco rispose in modo chiarissimo a chi lo annoverava tra gli antipsichiatri come Laing e Cooper; questo problema, disse, riguardava loro, non lui, che si sentiva psichiatra a tutti gli effetti. Ed è vero: le imprese non comuni e sicuramente molto utili di Laing e Cooper (formidabili le loro pagine su delicatissimi meccanismi psicopatologici in libri come L'io diviso e La morte della famiglia ) sono espressione di avventure, affascinanti ma troppo individuali, finite molto male, come si sa, perché del tutto scollegate da ciò che invece caratterizzò, e ne fu il vero merito, l'opera di Basaglia: avere determinato una trasformazione che toccò le più alte istanze istituzionali, il parlamento innanzitutto, con la 180. 
Basaglia ideologo, cioè non scientifico: anche questa è una accusa miope perché non riconosce quanto invece fosse scientifica la sfida di non accettare risposte preformate e giocare la contraddizione del "veramente" scientifico sulla assenza di sistematicità di quello che si andava costruendo giorno per giorno e che avremmo poi chiamato sapere pratico. In Basaglia il discorso quando non si affianca a una trasformazione instancabile della realtà ma si cristallizza in un modello operativo di semplice ingegneria istituzionale, perde ogni senso. 
Basaglia filantropo, morte del manicomio come iniziativa umanitaria, Basaglia ormai diventato un "santino", il "povero Basaglia" abbiamo spesso sentito dire da persone per le quali il rapportarsi con la sua figura dovrebbe essere simile a quello tra il diavolo e l'acqua santa! E qui la responsabilità è degli psichiatri soprattutto: della 180 vedono solo l'immagine fisica della chiusura dei manicomi e dell'abbattimento dei muri di cinta (non sarebbe comunque poco) e non accettano che la questione posta da Franco non ha al centro il manicomio e basta ma la stessa ideologia e cultura psichiatrica. Nessuna neuroscienza - nonostante le pur importanti recenti scoperte - potrà prendere il posto dell'etica dei rapporti, del relazionarsi tra persone, della complicità affettiva. 
La 180, per alcuni una delle tante forme di "impazzimento" della società italiana di un'epoca ormai defunta, per altri soltanto una modernizzazione dell'assistenza ai malati di mente, per noi deve ancora mostrare tutte le sue potenzialità più profonde e dare il meglio di sé in termini di civiltà, pace, democrazia e dignità umana. Che è esattamente il senso che le dava il Basaglia "europeo" già subito dopo la sua approvazione, quando, in un importante convegno del Cnr, poneva in risalto la crisi delle legislazioni europee psichiatriche, prefigurando una "seconda utopia": una Europa senza manicomi, l'unica possibile (non esageriamo, basta andare a vedere un manicomio dell'Est o della civilissima Olanda) se vuole avere una identità che non sia solo quella economica voluta dai grand-commis finanziari di turno. 
Con questo ideale nel cuore e nel cervello, di nuovo in "44 matti", dopo lo storico viaggio organizzato nel 2005 da Psichiatria democratica, siamo tornati a Bruxelles al Parlamento Europeo. Siamo partiti in pullman, "torpedone della libertà", il 15 febbraio scorso e tornati all'alba del 19. Circa la metà dei viaggiatori, conviene ripeterlo data l'eccezionalità del fatto, erano utenti dei nostri Servizi di salute mentale che un tempo sarebbero stati "accantonati" in manicomio, e anche familiari che, come si sa, hanno assunto ruoli "politici" grazie al loro protagonismo sociale e civile rispetto alle questioni relative alla salute mentale. 
Nel 2005 furono proprio gli utenti che, informati della sopravvivenza dei manicomi in Europa e solidali con i "colleghi" europei ancora rinchiusi, ci spinsero a Strasburgo a incontrare l'allora presidente Josip Borrel e a regalargli un quadro con Basaglia e Marco Cavallo, simbolo di liberazione dal giogo manicomiale. Nel 2006 Strasburgo adotta una risoluzione sul "miglioramento della salute mentale nell'Unione europea" e nel 2008 a Bruxelles viene approvato il Patto europeo per la salute mentale. Di recente una proposta di risoluzione convalida la necessità di un "Piano di azione europeo per la salute mentale e il benessere dei cittadini". C'è del nuovo dunque in Europa…
Per raccontare il viaggio, cui abbiamo attribuito anche il valore più attuale e più "nostro" di argine alla deriva, culturale, tecnica, politica e professionale di cui il nostro Paese sembra ormai preda (vedi proposte anti180 giacenti nel Parlamento italiano) sul pullman ci hanno accompagnato giornalisti dei programmi Presa diretta e Persone e di Rainews24. Il 17 febbraio abbiamo incontrato gli europarlamentari, tra gli altri Roberto Musacchio, Giovanni Berlinguer e John Bowis, e poi i vicepresidenti Luisa Morgantini e Luigi Cocilovo e la relatrice della risoluzione Evangelia Tzampazi. Giorgio, Anna, Franca, Ombretta e Laura, per gli utenti, hanno più volte interloquito rivendicando i loro diritti. 
La risoluzione per la salute mentale dei cittadini dei Paesi europei approvata subito dopo la nostra partenza quasi all'unanimità, tranne i no dell'estrema destra, è in linea con la nostra legge (ascolti chi in Italia la vuole snaturare!) e con le parole di Franco e Franca Basaglia: «Continuare ad accettare la psichiatria e la definizione di malattia mentale significa accettare che il mondo disumanato in cui viviamo sia l'unico mondo umano, naturale, immodificabile, contro il quale gli uomini sono disarmati».
*presidente e direttivo Psichiatria Democratica Lazio

Liberazione 11 marzo 2009
L'appello-testimonianza del gruppo di utenti dei Servizi di salute mentale
Discorso agli eurodeputati


Questo è il discorso scritto da Laura Upupa insieme ad Anna Alessi e Massimiliano Giorgi e letto da lei ai parlamentari europei durante l'incontro di metà febbraio.
Presidente, ministri, onorevoli, signore e signori. Quasi quattro anni fa, al Parlamento europeo di Strasburgo alcuni di noi portarono la testimonianza della nostra esperienza in una delle nostre strutture nate in Italia grazie alla cosiddetta Legge Basaglia: la casa-famiglia. La nostra casa-famiglia è un appartamento nel centro di Roma, dove vivono sei persone con problemi di interesse psichiatrico che si autogestiscono con l'aiuto di alcuni operatori qualificati professionalmente. Oggi il nostro messaggio vuole essere di speranza: la casa-famiglia è un luogo, una situazione in cui ci prepariamo ad una vita autonoma, magari con un lavoro protetto, impariamo gradualmente a impadronirci della nostra vita riconquistando quella libertà che era impossibile quando in Italia esistevano i manicomi. In casa cuciniamo, facciamo la spesa, riordiniamo le nostre camere, andiamo in piscina, andiamo al lavoro, andiamo in vacanza, al cinema, teatro, museo, viaggiamo, navighiamo in internet, andiamo al ristorante, facciamo shopping, guardiamo insieme la tv, leggiamo libri. Conviviamo, condividiamo le nostre stanze, parliamo, litighiamo per poi fare pace, usciamo, riusciamo a vivere in un condominio senza troppi problemi, usiamo i mezzi di trasporto e i servizi sul territorio. Noi siamo qui a testimoniare ancora una volta che la malattia mentale non è un destino inevitabile. Si può controllare e sconfiggere senza nasconderla o relegandola ai margini per paura di essere contagiati nei nostri pensieri e nella nostra vita di tutti i giorni, ma integrandola, quando è possibile nel mondo della "normalità". Ogni cittadino, ogni persona, ogni individuo può dare il suo contributo; la distinzione tra sani e malati è superata e artificiale, siamo tutti un po' "malati", siamo tutti un po' "sani". E tutti noi oggi qui, con le nostre parti malate accanto a quelle sane, ci auguriamo che altri Paesi dell'Unione europea vogliano seguire l'esempio dell'Italia e dare una possibilità di vita diversa e migliore ad altri uomini e donne che sperano di riconquistare la propria dignità.

Liberazione 11 marzo 2009
«Una sfida aperta che riguarda tutti»

La risoluzione Ue


La salute mentale influenza la vita quotidiana e costituisce un elemento integrante del benessere, della solidarietà e della giustizia sociale. Viceversa, una cattiva salute mentale peggiora la qualità della vita delle persone e delle loro famiglie e comporta spese che gravano sul sistema sanitario e sui sistemi sociali, economici, dell'istruzione, assicurativi, penali e giudiziari. 
Attualmente si sta diffondendo la consapevolezza del fatto che non può esservi salute senza la salute mentale e che i servizi devono essere territoriali ed evitare l'internamento in grandi istituti. Basti pensare che: 1 persona su 4 soffrirà di qualche forma di disordine mentale almeno una volta nella vita, la depressione è uno dei disturbi più comuni (colpisce 1 donna su 6 in Europa) e, secondo le stime, sarà, entro il 2020, la malattia più diffusa nel mondo sviluppato e la seconda causa di disabilità, i gruppi vulnerabili ed emarginati, come i disoccupati, gli immigrati, i disabili, le persone che subiscono abusi e le persone che utilizzano sostanze psicoattive sviluppano con maggiore frequenza problemi di salute mentale, in un'Europa che continua a invecchiare le malattie neurodegenerative stanno diventando sempre più diffuse. 
Occorre quindi adottare un approccio concertato anche con utenti e familiari nei confronti delle sfide poste dalla salute mentale, poiché si tratta di una questione che riguarda tutti. Tuttavia, è un dato di fatto che i disturbi mentali non sono trattati con la stessa serietà dei disturbi di natura fisica.

Il manifesto 10.3.09
Lothar Bisky: «Die Linke sta con il Prc»
di Alessandro Braga



Lothar Bisky, fondatore in Germania (insieme a Oskar Lafontaine) di Die Linke, è anche presidente della Sinistra europea. Sabato scorso è stato a Milano, al teatro Carcano, per un incontro in cui si discuteva su come uscire dalla crisi da sinistra, insieme al segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero.
La sua presenza qui vuol dire che come Die Linke appoggiate per le elezioni europee Rifondazione comunista?
Sono qui perché Rifondazione comunista mi ha invitato. Il Prc è membro della Sinistra europea, di cui io sono presidente. Quindi è ovvio che appoggi la loro campagna elettorale.
Ma la scorsa settimana a Berlino ha incontrato anche Nichi Vendola. Cosa vi siete detti?
Come presidente di Sinistra europea ho necessariamente relazioni, diciamo 'istituzionali', anche con le altre sinistre. E in quest'ottica incontro tutti. Ma in Europa rispetto alla Sinistra europea ci sono partiti membri e partiti osservatori. Il Prc fa parte del nostro gruppo, io appoggio il loro lavoro e mi auguro che il risultato elettorale di giugno sia il migliore possibile. E per questo vorrei aggiungere una 'preghiera' ai politici italiani di sinistra.
Prego.
Chiedo che non ci lascino a Bruxelles soli con la destra italiana. Serve qualcuno che la conosca bene per fronteggiarla anche in Europa.
Per farlo bisogna riuscire ad essere eletti. Voi siete in costante crescita di consensi, qui in Italia non si può dire lo stesso.
Con Die Linke siamo riusciti a cambiare la costellazione dei partiti in Germania. Mentre i partiti più grossi perdono consensi noi siamo i più forti all'est e anche all'ovest riusciamo a raggiungere sempre almeno il 5%. Per questo puntiamo, nelle elezioni per il Bundestag di settembre, al 10%. Abbiamo buone speranze, la popolazione ci vede come una forza che denuncia i tagli sociali, porta avanti le lotte, insomma che fa opposizione. Tra la gente, anche tra chi non ci vota, ormai c'è un nuovo modo di dire, di cui siamo davvero felici: «Die Linke dice ciò che è». Vuol dire che siamo credibili.
In Italia c'è stata anche la proposta di una lista unitaria. Come la vede?
Guardi, una proposta del genere avrei potuto farla pure io. Ma preferisco non immischiarmi in affari italiani, che non conosco fino in fondo, e lascio a voi la possibilità di trovare una soluzione.


Il manifesto 10.3.09
DIRITTI UMANI . L'atto d'accusa delle ong: un'inchiesta internazionale per i massacri di Gaza
«Adesso processiamo Tel Aviv»
di Michelangelo Cocco



CRIMINI DI GUERRA Parla l'avvocato Devers, rappresentante all'Aja dell'istanza di centinaia di organizzazioni non governative che si sono costituite per portare alla sbarra l'esecutivo Olmert: procedimento necessario perché tutti gli stati comprendano che l'ordine mondiale non può essere fondato su dei crimini contro l'umanità Il procuratore della Corte penale internazionale Ocampo: indagine possibile
«Esiste una possibilità che ciò accada». Così l'altro ieri Luis Moreno Ocampo sulla possibilità di aprire presso la Corte penale internazionale (Cpi) un'inchiesta su «crimini di guerra» e «crimini contro l'umanità» nei confronti d'Israele per i massacri di palestinesi perpetrati durante l'operazione «Piombo fuso» a Gaza. Si tratterebbe di una rivoluzione, perché - ha sottolineato Perfil, il domenicale di Buenos Aires che ha riportato le dichiarazioni di Ocampo - sarebbe la prima volta che un organismo internazionale riconosce l'Autorità palestinese (Anp) come «stato indipendente». «Stiamo valutando la questione - ha aggiunto Ocampo - siamo in una fase di analisi».
L'avvocato Gilles Devers è il legale rappresentante presso la Corte dell'istanza di centinaia di organizzazioni non governative (ong) e associazioni che si sono costituite contro i crimini di guerra. Con Devers - ieri a Roma per illustrare l'iniziativa giuridica della società civile internazionale promossa in Italia dal Network degli Artisti italiani e lanciata dalla Rete dei Traduttori per la diversità linguistica Tlaxcala - abbiamo discusso del procedimento.
Avvocato Devers, può spiegarci come è nata la vostra iniziativa?
Si tratta di un'iniziativa militante, portata avanti da oltre 350 associazioni - europee, africane, mediorientali e sudamericane - testimoni dell'offensiva «Piombo fuso» contro la Striscia di Gaza. Il 22 gennaio abbiamo depositato la denuncia per «crimini di guerra» e «crimini contro l'umanità» presso La Corte penale internazionale (Cpi). Lo stesso giorno - questo è un elemento molto importante per la procedura - l'Autorità palestinese (Anp) ha dato competenza alla Cpi. Se gliel'avesse negata, solo un intervento del Consiglio di sicurezza dell'Onu avrebbe potuto obbligare la Cpi a indagare, come è avvenuto nel caso del Sudan. Cosa che però nel nostro caso sarebbe stata impossibile, per il veto che sicuramente avrebbero opposto gli Stati Uniti. Per questo prima le organizzazioni non governative (ong) hanno deciso di costituirsi come testimoni del crimine. Poi l'Anp - con un accordo politico tra Hamas e Fatah - ha riconosciuto l'autorità della Cpi Il procuratore Ocampo ha chiesto chiarimenti tra cui quello su chi rappresenti lo Stato a Gaza. A quel punto c'è stata una seconda visita all'Aja, da parte dell'ambasciatore, del ministro della giustizia e degli esteri palestinesi, per riunire tutti gli elementi e mostrare che l'Anp rappresenta il popolo palestinese e che se la Cpi invierà ispettori a Gaza, saranno ben accolti.
Ma Israele non è firmatario del Trattato di Roma che nel 1998 istituì la Cpi: ciò non inficia il procedimento?
La Cpi agisce nell'ambito del diritto penale, cioè della ricerca del criminale X, Y, o Z. Si occupa prima di tutto dei fatti: dove è stato commesso il crimine? A Gaza, e l'Autorità palestinese le ha dato competenza, dunque il la Corte può indagare a Gaza. Ci sono ancora dei dettagli da esaminare, ma credo si tratti di problemi superabili.
Perché rivolgersi alla Cpi e non alle giurisdizioni nazionali, come avvenuto in passato per altri massacri a Gaza? 
Ci rivolgeremo anche ai giudici di singoli stati: all'inizio di aprile depositeremo a Madrid un dossier su un astrofisico della Nasa che lavora negli Stati Uniti ma ha famiglia nella Striscia. La sua abitazione era conosciuta da tutti i bambini di Gaza, alcuni dei quali hanno imparato a osservare le stelle col telescopio che aveva istallato sul tetto. Il figlio di questo signore è rimasto ucciso a causa del bombardamento della sua casa da parte dall'aviazione israeliana. Ci sono tanti altri casi simili. Faremo altre denunce, presso altre corti, in relazione alla nazionalità delle vittime. Cercheremo di presentare denunce in tutti e 47 i paesi del Consiglio d'Europa che dipendono dalla Convenzione Ue sui diritti dell'uomo. 
L'ex presidente della Cpi Antonio Cassese, ha detto che la Corte «può svolgere un'azione efficace solo con la cooperazione degli stati» e che «la giustizia internazionale deve essere prudente e saggia, altrimenti rischia di essere considerata poco credibile».
La cooperazione c'è nel momento in cui 110 stati hanno firmato la ratifica della Cpi. Susan Rice, la rappresentante dell'Amministrazione statunitense presso l'Onu, nel suo discorso d'investitura ha dichiarato che la Corte è uno strumento degno di stima. Utilizziamo la procedura prevista dal Trattato di Roma e quindi non vedo rischi di minare la credibilità della Corte. Se la procedura divenisse d'ostacolo alla pace - nel caso domani si palesasse un accordo politico ed economico - il Consiglio di sicurezza avrebbe il potere di sospenderla per un anno (rinnovabile). La giustizia deve fare il suo corso affinché Israele e tutto il mondo comprendano che l'ordine mondiale non può essere fondato su dei crimini contro l'umanità.
Quali indizi di «crimini di guerra» e «crimini contro l'umanità avete raccolto?
Anzitutto una distinzione: i primi fanno riferimento a violazioni delle protezioni stabilite per i civili dalle leggi di guerra, i secondi a un crimine di guerra sistematico in cui, attraverso mezzi militari, si prende di mira la popolazione civile. Ad esempio, il primo giorno di guerra (il 27 dicembre 2008, ndr) è stato dato un ordine di bombardamento, per quaranta caccia, alle 11,30, l'ora in cui i bambini a Gaza escono da scuola. Chi ha impartito quelle istruzioni sapeva che avrebbe ucciso dei bambini. I morti infatti il primo giorno sono stati oltre 200. Ancora, decine di abitanti di un quartiere erano stati rinchiusi in una scuola che il giorno dopo è stata bombardata: questo è un crimine contro l'umanità. Poi l'uso delle munizioni al fosforo bianco in pieno giorno e su aree densamente popolate, il che implica l'intenzione di bruciare e mutilare il maggior numero possibile di persone. C'è ancora nel nostro dossier una cosa che non impressiona come il sangue ma che è altrettanto drammatica: durante «Piombo fuso», il 30% dei terreni di Gaza è stato devastato con i bulldozer.
Per evitare che l'esercito sia danneggiato dai processi il governo israeliano ha proibito ai militari che hanno partecipato a «Piombo fuso» di farsi intervistare e fotografare. Come identificarli?
Bisogna anzitutto stabilire i fatti, attraverso le testimonianze delle vittime e gli indizi raccolti, poi eserciteremo una forte pressione su Israele. Israele non è un blocco monolitico, ci sono giovani, soldati, giornalisti che ritengono che quello che è stato fatto a Gaza sia abominevole. Diremo a Israele: avete una coscienza, aiutateci a processare i criminali. Inoltre la Cpi ha dei mezzi di pressione, strumenti per indagare e raccogliere testimonianze. E se l'inchiesta dovesse morire perché non saranno stati trovati i responsabili materiali, avremmo comunque dimostrato che ci sono stati dei crimini. Dopo l'azione penale, arriverà quella civile. Israele può nascondere i suoi ufficiali e i suoi ministri, non se stesso. 
Come si fa a evitare, nel caso del vostro procedimento, accuse di antisemitismo come quelle già rivolte alla conferenza di Durban II?
Penso che l'azione giuridica debba essere ben distinta da quella politica. Per non cadere nell'antisemitismo mentre si porta avanti una causa contro Israele è necessario mettere sul tavolo delle prove. Antisemitismo vuol dire generalizzare: Israele, gli ebrei. Questo non è il nostro punto di vista. Se si generalizza, possono sorgere tanti fraintendimenti. Se ci si rifà alla realtà giudiziaria, il discorso diventa chiaro. Bisogna analizzano insomma i fatti, mettendo da parte le ideologie. Ma se non accetterà il confronto, sarà Israele a sollevare il vento dell'antisemitismo.

Il manifesto 10.3.09
Anche i rumeni votano, ma non lo sa nessuno
di Enrica Rigo



I rumeni hanno diritto di voto alle europee come tutti i cittadini neocomunitari e come tutti gli altri cittadini della cosiddetta «vecchia Europa» residenti in Italia. In totale, sono circa un milione di potenziali voti, di cui non sembra che si siano accorti in molti. 
Non certo i media che, riproponendo a ogni occasione l'equazione rumeno/stupratore, alimentano gli impulsi di risentimento e razzismo della società, già abbondantemente strumentalizzati dalla politica istituzionale. Ma non sembrano essersene accorti neppure i rimasugli della «sinistra radicale», in tutte le loro diverse forme di frantumazione e riassemblamento, impegnati nel radicalissimo obiettivo di contrastare lo sbarramento del 4 per cento alle europee. Il Pd, dal canto suo, ha ben comprensibili preoccupazioni, ragione per cui, nell'ansia di emulazione della tradizione democratica statunitense, deve essergli sfuggito che le elezioni Usa si giocano anche sulle capillari campagne per far iscrivere i potenziali elettori nelle liste dei votanti.
Sì, perché a differenza dei cittadini a pieno titolo, ai vecchi e nuovi comunitari residenti in Italia non arriva a casa la cartella elettorale, ma (se arriva) si tratta di un semplice avviso che indica il termine ultimo per l'iscrizione all'apposita «lista separata» (90 giorni prima della data delle elezioni europee). Il comune di Roma, per esempio, lo ha inviato solo alcuni giorni fa con l'indicazione che invita al disbrigo delle pratiche burocratiche, via raccomandata o brevi manu, entro il 9 marzo.
A spingerci a simili considerazioni, non è certo la convinzione che il voto - questa «performance anonima della cittadinanza» come l'ha definita lo studioso indiano Partha Chatterjee - possa riempire di chissà quali contenuti il simulacro vuoto della democrazia contabile (si veda La forza del numero e la legge della ragione. Storia del principio di maggioranza, Francesco Galgano, Il Mulino, 2007). Né immaginiamo orde di militanti del Pd che, rivitalizzando il patrimonio dissipato dei circoli territoriali di ormai tre o più partiti post-comunisti, si prodigano in campagne «porta a porta» per far iscrivere cittadini rumeni o polacchi alle liste elettorali. Tanto meno, riteniamo scontato che i suddetti cittadini voterebbero per liste di sinistra o centrosinistra. Pensiamo però che se qualcuno si fosse accorto di questi voti, per esempio durante l'ultima tornata amministrativa romana, forse le regole di una partita elettorale xenofoba, giocata sulle spoglie dell'omicidio Reggiani, sarebbero state meno odiose. Da fonti dello stesso Campidoglio, solo nella capitale i rumeni residenti e maggiorenni sono infatti circa 50.000 (forse più numerosi dei tassisti che facevano il carosello per l'elezione di Alemanno?). 
Ma, soprattutto, rimaniamo convinti che lo spazio europeo - compreso il diritto di elettorato attivo e passivo che assieme a quello di circolazione ne costituiscono i contenuti in termini di dritti - possa essere assunto come spazio di sperimentazione di nuove pratiche della cittadinanza. I movimenti sociali, in particolare le reti migranti attive anche su un livello transnazionale, lo vanno ripetendo da anni, e sembra ancora più indispensabile ribadirlo oggi, nel pieno di una crisi economica di cui i migranti, comunitari e non, stanno pagando un prezzo altissimo. 
La prossima data delle europee coincide con una tornata amministrativa che vedrà rinnovare i consigli di numerosi comuni, anche molto popolosi. I termini di iscrizione alle liste separate, nel caso delle amministrative, risultano ridotti fino a 40 giorni prima delle elezioni (c'è tempo fino al prossimo 28 aprile). Chissà se qualcuno questa volta se ne accorgerà.