Testamento biologico
Ddl del governo contro la Costituzione
di Tania Groppi, Università di Siena
Altro che testamento biologico. Uno dei problemi del disegno di legge all'esame del Senato è che non solo e non tanto di testamento biologico si tratta.
Infatti, con questo testo si pretende di disciplinare, in tutti i suoi aspetti, la fine della vita. E lo si fa determinando un arretramento, incostituzionale, rispetto a principi finora pacifici.
Non è vero che ci sia un vuoto giuridico sul "fine vita" nel nostro ordinamento. Il diritto non coincide per intero con la legge: nel silenzio di questa esistono principi di ordine costituzionale, internazionale, deontologico e giurisprudenziale che hanno raggiunto da anni una serie di punti fermi.
E' ormai riconosciuto il diritto al rifiuto di trattamenti sanitari, anche di sostegno vitale, da parte del soggetto capace di intendere e di volere. In conseguenza del principio del consenso informato. Il fondamento sono gli artt. 13 e 32 della Costituzione e l'art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, trasfusi poi nel Codice di deontologia medica, in pareri del Comitato di bioetica, nella giurisprudenza della Cassazione. Ciò significa che il paziente può rifiutare qualsiasi trattamento, anche necessario a mantenerlo in vita.
Esiste, in definitiva, un principio di "disponibilità condizionata" del bene vita, che esclude sia un generale diritto di morire, sia un'assoluta indisponibilità della propria esistenza.
Ebbene, il disegno di legge rimette in discussione anche questo aspetto. Altro che disciplina del testamento biologico! Qui si pretende di coartare la volontà, attuale e presente, di chi è perfettamente capace.
Il diritto alla vita viene definito "indisponibile" fin dall'art.1 del testo, per stabilire poi che il medico, anche se il paziente rifiuta, debba comunque procedere ai trattamenti necessari a mantenerlo in vita: attaccarlo a un respiratore artificiale, praticare una trasfusione, amputare un arto…
Si tratta di una disciplina che non solo determina un arretramento, ma è palesemente incostituzionale. Essa viola l'art.32, comma 2, della Costituzione, secondo il quale "nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge", legge che non può "in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". E' difficile negare che imporre a un malato con la forza trattamenti che lo tengono in vita contro la sua volontà, del tutto ingiustificati da istanze di salute pubblica, sia in contrasto con la dignità della persona. Ancora una volta, non resta che prendere atto della lucidità dei Padri Costituenti e della miopia dei nostri attuali legislatori. Se questa è la voce del Parlamento, meglio il silenzio.
Repubblica 3.3.09
Fine-vita, la sfida dei cattolici del Pd
Emendamento per gettare un amo al Pdl. Fioroni: "Va migliorata la linea prevalente"
di Giovanna Casadio
ROMA - I cattolici del Pd si smarcano. Hanno preparato un emendamento al testamento biologico che dovrebbe avere come prima firmataria Dorina Bianchi, la senatrice capogruppo in commissione Sanità. Colloqui, incontri, mail, un grande lavorio per tenere insieme l´ala cattolica dei Democratici � ex Ppi e rutelliani, 36 in tutto, un terzo del gruppo - ma anche per battere un colpo dentro il partito e, sostengono, per gettare un amo dall´altra parte, nel centrodestra. Beppe Fioroni, il leader dei Popolari, afferma: «Cerchiamo di migliorare l´orientamento prevalente del partito». Detto in altri termini, una correzione di rotta.
È sempre la questione della nutrizione e dell´idratazione forzata a scompaginare i fronti. Il "caso Eluana" ha mostrato che quello è il confine estremo delle scelte sul fine-vita. E quindi nel merito, due le ipotesi a cui i cattolici del Pd stanno pensando e che rappresentano una "terza via", vicina (ma non sovrapponibile) alla proposta di Rutelli. Stabilito che alimentazione e idratazione sono sostegno vitale, nelle situazioni gravi terminali la decisione va affidata al paziente (o al fiduciario nel caso non possa più esprimere la sua volontà) e al medico. Oppure, l´emendamento potrebbe «circoscrivere la sospensione di idratazione e alimentazione nei casi in cui ci sia morte corticale». Anche Franco Marini si sta impegnando per cercare una posizione comune nelle file democratiche, dove la linea prevalente è stata quella di prevedere l´obbligo del sondino a meno che nel biotestamento non sia espressa volontà contraria. I cattolici da Rutelli a Marini non ci stanno, con diversa intensità di dissenso. Rutelli è disposto allo strappo nel partito, l´ha già detto e fatto, e punta al confronto con il centrodestra; gli ex Popolari, anche quelli vicini al segretario Dario Franceschini, sono per una strada che isoli i pasdaran del centrodestra - per cui idratazione e alimentazione sono obbligatori qualsiasi sia la volontà della persona - e scompigli il già diviso campo avversario. Daniele Bosone, Popolare del Pd, ha tentato di fare breccia con una proposta di modifica del testo di Raffaele Calabrò, relatore del Pdl. Tentativo già fallito. Calabrò chiude: «Non ci siamo, così si valica il limite oltre il quale per noi c´è il suicidio assistito». Gaetano Quagliariello, il vice capogruppo Pdl è più possibilista e rimanda alle indicazione del Comitato di bioetica del 2005. Emanuela Baio, che a sua volta media tra i cattolici Pd, dà l´alt alla «linea troppo semplificatoria del partito: un modo manicheo con cui si è affrontato il testamento di fine-vita».
Ma oggi il primo atto della partita politica sul biotestamento è in Senato sui tempi di discussione e di voto. Calabrò annuncia che in aula il disegno di legge andrà per metà marzo, non prima. Anna Finocchiaro, presidente dei senatori democratici, avverte: «Il Pdl vuole scappare ma noi non glielo consentiremo». Non consentono i Democratici un rinvio a tempo indeterminato. La riunione dei capigruppo di stamani potrebbe fissare l´aula per il 19 di marzo e intanto oggi cominciare in commissione il voto sugli emendamenti già presentati. Sempre che la commissione Affari costituzionali dia il via libera al testo Calabrò.
il Riformista 3.3.09
Sul fine-vita si va verso il rinvio
di Alessandro Calvi
Oggi con tutta probabilità si deciderà il rinvio. Qualche giorno, non di più. Il ddl sul testamento biologico dovrebbe arrivare in aula entro una, forse due settimane. Se infatti il Pdl ora è orientato a prendersi più tempo del previsto, nel Pd un rinvio non è considerato un dramma ma soltanto se il Pdl fornirà una data certa. Altrimenti non se ne fa niente.
Sul contenuto il Pdl non intende fare passi indietro. Stando alle parole di chi è al lavoro sul dossier, seppure qualche emendamento cambierà il volto del testo Calabrò - cosa che alla fine avverrà - non dovrebbe esserci nessun arretramento sulla linea di trincea: la nutrizione e l'idratazione rimarranno obbligatorie. E questo, nonostante il successo della proposta "terzista" di Francesco Rutelli. Quanto all'emendamento proposto da Daniele Bosone, ultima novità in ordine di tempo, nel Pdl non sembrano avere fretta e, anzi, si minimizza, facendolo rientrare tra le tante proposte che «stanno uscendo fuori in questi giorni in continuazione».
D'altra parte, va detto che la battaglia sul fine-vita in questa fase si combatte su un altro fronte, quello dei tempi dell'arrivo in aula del testo. Il Pdl, dopo essersi mostrato compatto per molto tempo, sta ora facendo i conti con una serie di strappi, come quello dei 53 parlamentari pro-vita o di Giuseppe Pisanu. Per questo, se il Pd chiede tempi rapidi e certi, al Pdl non dispiacerebbero più rilassati. «Una settimana in più o in meno non cambia ma non consentiremo alla maggioranza di scappare», diceva ieri Anna Finocchiaro, prendendosi una serie di risposte piccate dal fronte opposto. Ma, è il ragionamento che si fa nel Pd, il Pdl chiede tempo per discutere ancora e però non può tornare indietro su idratazione e nutrizione. Se dovesse accadere, sarebbe una vittoria per il Pd e una sconfessione del ddl Calabrò. In questa prospettiva, le proposte di Rutelli e Bosone sono politicamente importanti - come tutti hanno riconosciuto - ma potrebbero anche rivelarsi grimaldelli con i quali far esplodere definitivamente le contraddizioni che stanno emergendo nel fronte opposto. Difficile che ciò avvenga, l'ala pro-vita del Pdl fa buona guardia su questo punto. Ma è naturale che il Pd - al quale ieri Pierferdinando Casini ha fornito una sponda - ora chieda una data certa, lasciando il pallino nelle mani del Pdl che deve decidere come giocarlo senza spaccarsi definitivamente né ora né quando il testo arriverà in aula. Davvero una operazione non facile.
il Riformista 3.3.09
Boetica e cornetti
Perché la libertà non è più di moda
di Ritanna Armeni
L'impressione è che quel valore, usato in passato anche con non innocente spregiudicatezza, non sia più apprezzato
L'ultimo disegno di legge promosso dal nostro consiglio dei ministri è stato giudicato da molti un attacco alla libertà di sciopero. Una delle più controverse e difficili leggi degli ultimi anni, quella sul testamento biologico, prevede un intervento dello Stato nel momento della morte ritenuto lesivo della libertà dei singoli. Non si tratta di due leggi qualsiasi, esse riguardano momenti importanti della libertà individuale e di quella collettiva. Ma non sono le sole a porre il problema della limitazione delle libertà. Un esame delle leggi e dei provvedimenti varati o minacciati o, magari, solo in discussione in questi ultimi anni mostra questo segno inequivocabile. Si ha l'impressione che qualunque problema si debba risolvere, da quelli che riguardano la bioetica e quelli inerenti il disagio sociale, l'unica soluzione di chi ci governa è il restringimento delle libertà personali e collettive.
Non credo che sia solo colpa di un governo di centro destra anche se certamente ad esso e a quello schieramento che - ironia della sorte e della politica - si chiama Popolo delle libertà, si devono ovviamente molte di queste leggi e di questi provvedimenti. Mi riferisco a una temperie culturale che il governo interpreta, manifesta e potenzia, ma che ormai riguarda un po' tutti, intellettuali, giornalisti, classe dirigente ampiamente intesa. L'impressione è insomma che il valore della libertà, usato in passato anche con non innocente spregiudicatezza, nei primi anni del terzo millennio non sia più così apprezzato. Potremmo dire un po' frivolamente "non è più di moda".
E come spesso accade la dimostrazione di questo non sta tanto e solo nelle grandi decisioni della vita pubblica, dove pure è evidente, ma nelle migliaia di piccole restrizione della libertà che avvengono nella vita quotidiana. Sono le vessazioni minime, le proibizioni apparentemente insignificanti che danno il segno che un valore perde peso nella società e nella cultura dominante. Che cosa c'è di importante nella proibizione di vendere i cornetti di notte? È un fatto apparentemente insignificante. Ma a questo si aggiunge la proibizione di bere birra in piazza, come tempo fa ha ordinato il sindaco di una importante città, di sostare in più di due di notte in un parco pubblico come dice l'ordinanza di un altro sindaco, si proibisce ai mendicanti di sostare sui marciapiedi, si pensa di proibire il fumo nei parchi se ci sono donne incinte, si vieta ai poveri di frugare nei cassonetti. Decine, forse centinaia di ordinanze, leggi e leggine che mandano un messaggio chiaro: il valore della libertà ha perso peso al punto che può essere calpestato anche a costo di cadere nel ridicolo. A Roma non si può mangiare un panino sotto un albero, scriveva qualche tempo fa il quotidiano britannico The Independent.
Naturalmente i calpestatori non sono così maldestri da affermare che la libertà ha poco o nessun valore. Si preferisce dire che colpendo le libertà di alcuni si difende quella di molti, che essa nella società moderna è diventata spesso arbitrio e che non è un valore assoluto, come altri, la vita per esempio.
Mi stupisce che sia la seconda delle grandi parole della rivoluzione francese, ad essere messa in mora e a perdere valore.
Qualche decennio fa è toccato alla parola "eguaglianza", privata di forza e persino derisa. È degli anni ottanta la grande offensiva contro di essa. Eguaglianza diventò egualitarismo ed appiattimento. Ad essa si contrapposero merito ed efficienza. E - paradossi della storia e delle ideologie - appunto la libertà. Libertà di intraprendere, di cambiare lavoro, di crescere, di essere diversi. Anche allora uno o più governi, uno o più partiti interpretarono e potenziarono una tendenza culturale che invase la società. Anche allora la politica fu ironica così che uno dei più convinti demolitori del valore dell'eguaglianza si chiamava partito socialista. E fu un governo diretto da Bettino Craxi a demolire quello che veniva considerato il moloch della eguaglianza, il sistema di adeguamento automatico dei salari al costo della vita, la scala mobile.
C'è da chiedersi quanto tempo resta a un mondo che cerca di costruire la sua coesione culturale e sociale sulla limitazione della libertà. Quando ci accorgeremo con orrore che dobbiamo fare marcia indietro. Mi auguro fra breve. Le tre parole della rivoluzione francese, libertà, eguaglianza e fraternità, hanno rappresentato in oltre duecento anni della storia del mondo la barra per definire cosa è giusto nella vita pubblica e privata, la base del vivere sociale l'ha definita Giovanni Paolo II, che non aveva paura evidentemente di richiamarsi a quella rivoluzione. Negli ultimi decenni invece è proprio la borghesia che da quella nacque a metterla in discussione. E quella rivoluzione (non quella russa e neppure quella cinese) a fare paura, a non essere più riconosciuta.
Ps. La terza parola, fraternità, la più negletta e trascurata. Oggi tradotta e ridicolizzata in buonismo o solidarismo incosciente. Ad essa si contrappone la parola egoismo. Ma quest'ultimo è molto praticato e, per mancanza di coraggio, poco pronunciato.
l’Unità 3.3.09
Gelmini insiste. Resta il maestro unico nonostante la scelta dei genitori per il tempo prolungato o pieno
I sindacati accusano: «Con i tagli migliaia di licenziamenti»
300mila bimbi non avranno il tempo prolungato
di J.B.
Le scelte delle famiglie per la scuola dei loro figli non saranno soddisfatte dal ministero
I sindacati: la conferma che il governo doveva ascoltare le proteste
Saranno circa 300mila i bambini che non potranno usufruire dell’offerta di 30 ore settimanali nella scuola primaria. È il calcolo fatto dal mensile “Tuttoscuola” sulla base degli organici previsti dal ministero.
Le iscrizioni hanno dimostrato che le esigenze delle famiglie vanno in direzione opposta a quella decisa e imposta dal governo
Il 34% delle famiglie (dunque oltre 170 mila alunni) ha scelto le 40 ore, il 56% (oltre 286 mila) le 30 ore. «Sfiduciata» la riforma Gelmini.
il 3% (oltre 15.000 famiglie) ha optato per le 24 ore, il 7% (più di 35 mila) per le 27, ovvero quello che veniva sponsorizzato dal ministero.
I bambini che verranno iscritti nell’anno 2009 alla prima elementare saranno circa 500mila, per loro i genitori hanno scelto in stragrande maggioranza un tempo medio-lungo. Fin qui il risultato del sondaggio ministeriale sul significativo campione di 900 scuole. Se questo sondaggio sarà confermato circa 300mila di quei bambini non avrebbero l’offerta formativa rischiesta dai loro genitori. Perché? Perché la definizione degli organici è stata tarata su 27 ore settimanali, una media fra il minimo di 24, le 30 ore del tempo medio, le 40 del tempo pieno. Ma solo il 3% delle famiglie ha scelto le 24 ore, il 7% le 27, il 56% le 30 ore e il 34% le 40 ore.
Quindi il 90% delle famiglie vorrebbe un tempo medio e lungo, solo il 10% ha chiesto gli orari ridotti. Il calcolo lo ha fatto il mensile Tuttoscuola: mantenendo fermo ai livelli attuali - ovvero al 27% - il tempo pieno (come dichiara il ministro)resterebbe disponibile solo il 3 per cento di posti a 30 ore settimanali. La gran parte delle famiglie dovrebbe accontentarsi delle 27 ore settimali. Ma non basta, per i sindacati della scuola quelle richieste sono anche la dimostrazione che i genitori apprezzano e vogliono le classi a moduli, che quelle richieste sono la dimostrazione del fallimento della proposta del maestro prevalente. Il maestro prevalente, infatti, significa, sottolinea Mimmo Pantaleo della Flc Cgil «La riduzione delle compresenze, non ci sarebbe più il team degli insegnanti, che ha funzionato e dato buona prova di sé». «Andiamo incontro - sostiene il sindacalista - a migliaia di licenziamenti, soprattutto di precari, la scuola non funzionerà più e i genitori se la prenderanno con gli insegnanti».
E, infatti, il ministro Gelmini - sostenuta dal solo Moige - insiste: «Il maestro unico c'è, indipendentemente dal quadro orario scelto. Esiste nelle 24, 27 e 30 ore. Credo che il cosiddetto modulo, la presenza di più insegnanti nella stessa classe, non abbia portato buoni risultati». Anzi, il ministero ha dato conferma dell’approvazione, da parte del consiglio dei ministri del regolamento che introduce per il prossimo quinquennio il modello a maestro prevalente nelle 24,27, 30 e 40 ore.
Non la pensa così Mimmo Pantaleo per il quale se il ministero non vuole deludere le scelte compiute dalle famiglie «Deve rivedere i regolamenti e la formazione degli organici». I genitori sanno, perché era indicato nel modulo della scelta, che la loro richiesta è subordinata alle possibilità e disponibilità, e tuttavia la richiesta è così massiccia che dovrebbe indurre a un ripensamento, «Gelmini ammetta che è stato un errore» insiste, per esempio rino Di Meglio del Gilda: «Se il ministro avesse ascoltato le centinaia di migliaia di docenti che il 30 ottobre sono scesi in piazza, avrebbe evitato di commettere questo grave errore».
Il ministro Gelmini «rispetti l’autonomia delle scuole», chiede il segretario generale della Cisl scuola, Francesco Scrima. «Incurante del giudizio chiaramente espresso dalle famiglie, il ministro insiste sul maestro unico, e lo vorrebbe estendere a tutti i modelli orari. Siamo alla pseudo pedagogia di Stato».
L’ex ministro all’istruzione Giuseppe Fioroni: «Non servono artifici tecnici o false verità, i genitori si aspettano le 30 ore, con la mensa e la compresenza, e si aspettano il tempo pieno e non il doposcuola». Ma: «Senza soldi e con la demagogia non si educano i nostri figli. tutti sanno che la scuola elementare non sarà più l’espressione di un progetto educativo, ma un ritorno al peggio del nostro passato».
Sul tempo scolastico, ieri, anche le regioni si sono mosse. Maria Stella Gelmini ha dato forfait ad un incontro in Veneto a Abano Terme, con i sindaci e l’assessore regionale Donazzan. «Il vero ministro è Giulio Tremonti - attacca Andrea Ferrazzi, vicepresidente della Provincia di Venezia - Lo stesso Tremonti, aveva detto che questa scuola elementare ai primi posti a livello mondiale, non ce la possiamo permette». Nel Lazio i tagli all'organico previsti saranno tra le 3 mila e le 3.500 unità, di cui 1.300-1.800 solo nella primaria, senza contare i tagli a bidelli e personale di sorveglianza, denuncia l’assessore regionale Silvia Costa. E l’assessore toscano Simoncini: «Una scelta giustificata esclusivamente da una logica di risparmio che impoverisce la scuola e acuisce disparità e disagio».
Corriere della Sera 3.3.09
Scuola Il ministero ridimensiona l'allarme: faremo il possibile
Lite sulle Elementari «A rischio le scelte di 250 mila famiglie»
Tuttoscuola: troppe domande per le 30 ore
di Giulio Benedetti
L'opposizione: la prova del fallimento del maestro unico. Gelmini: modello confermato per ogni scelta dei genitori
ROMA — Diciannovemila posti in più nel tempo pieno, ma impossibilità di accontentare 250 mila genitori che hanno scelto per il proprio bambino l'offerta di 30 ore settimanali. Le due notizie, una buona l'altra meno, provengono da «Tuttoscuola » e riguardano le prime elementari che si formeranno a settembre.
A settembre, per la prima volta, il ministero quasi certamente non sarà in grado di garantire l'offerta di orario da sempre più richiesta alle elementari. In passato il calcolo degli organici, cioè il numero delle maestre, è stato fatto tenendo conto di un orario minimo garantito di 30 ore, anche se non sono mancati casi di 27 ore. Dal prossimo anno le cose cambieranno: il monte ore da garantire alle famiglie, con il nuovo regolamento appena approvato dal governo, è infatti sceso da 30 a 27 ore. Una scuola più europea, piu leggera, come sostengono alcuni indicando la Francia dove i giorni di lezione sono scesi a 4, o una scuola sempre più povera come affermano altri? I genitori, per quanto avvisati (l'accoglimento delle 30 ore e delle 40 dipenderà rispettivamente dalla disponibilità degli organici e di locali per la mensa era scritto nei moduli) hanno esercitato il loro diritto di scelta chiedendo in massa (56 per cento) le 30 ore. Una richiesta chiara di tempi medi e lunghi per i propri figli. Un risultato che l'opposizione legge come la bocciatura del maestro prevalente.
Giudizio respinto dalla Gelmini: «Il modello del maestro unico di riferimento si conferma indipendentemente dalla scelta dei genitori». A questo punto bastano due conti: poiché gli iscritti alle prime classi sono oltre 500 mila, più di 250 mila famiglie, il 56 per cento, secondo «Tuttoscuola», dovranno accontentarsi di un orario settimanale con tre ore in meno: 27 invece di 30.
La previsione di «Tuttoscuola » si basa su un sondaggio del ministero. Su un campione rappresentativo di 900 scuole il 3 per cento delle famiglie ha scelto infatti le 24 ore, il 7 le 27, il 56 le 30 ore e il 34 le 40 ore. Questi dati sono attendibili? Lo sapremo tra alcune settimane. Se lo fossero appare chiaro che si va verso un progressivo alleggerimento del tempo scuola. Inizialmente nelle prime e poi, anno dopo anno, in quelle successive. Al ministero i calcoli di «Tuttoscuola» non vengono smentiti ma ridimensionati. Verrà fatto il possibile per accontentare il maggior numero di famiglie che hanno chiesto le 30 ore, dice una fonte vicina al ministro.
Per quanto riguarda il tempo pieno (40 ore), che secondo il sondaggio è stato richiesto dal 34 per cento dei genitori, «Tuttoscuola» prevede un aumento del 2 per cento delle classi che potrebbero passare dalle attuali 34.317 a 35.000, con 19 mila bambini in più rispetto a quest'anno. «Le risorse per il tempo pieno non solo non sono state tagliate — ha spiegato il ministro — ma sono state confermate. E grazie a un migliore impiego, sono aumentate. Quindi, non ci saranno problemi e sarà possibile rispettare il tempo pieno e la scelta delle famiglie».
La polemica sulle 30 ore però continua. Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil, è molto scettico sulle rassicurazioni: «Appare difficile — ha dichiarato il leader dei lavoratori della conoscenza Cgil — che si possa assicurare al 90 per cento delle famiglie il tempo prolungato con i tagli previsti». Per Francesco Scrima, segretario Cisl Scuola: «Le famiglie giustamente chiedono un tempo scuola più ricco per una scuola di qualità migliore».
l’Unità 3.3.09
Paolo Ferrero: «Sì all’assegno per chi perde il lavoro ma alt sulle pensioni»
Il leader Prc: «L’idea di Franceschini è ottima ma devono pagare i ricchi, come ha fatto Obama»
di Andrea Carugati
Segretario Ferrero, Franceschini propone un assegno per i disoccupati, Berlusconi lo boccia.
«Non mi stupisce, È una logica gravissima eppure coerente: è lo stesso governo che vuole smontare il contratto nazionale di lavoro con l’accordo separato, che vuole scaricare la crisi sui lavoratori».
E la proposta di Franceschini le piace?
«L’idea è ottima. Il problema è come si realizza: Franceschini è rimasto sulle generali, poi Enrico Letta ne ha offerto una versione che non condivido affatto. Propone un nuovo sistema di ammortizzatori che superi la cassa integrazione. Ma così facendo si rischia di ridurre ulteriormente l’assegno per chi già ha diritto alla cig e di deresponsabilizzare le imprese. Trovare i fondi mettendo mano alle pensioni, come dice Letta, è un’idea criminale: vuol dire riaprire una guerra tra poveri, tra giovani e anziani».
Insomma, anche lei la boccia?
«Una strada per svilupparla c’è: bisogna allargare la cassa integrazione a tutto il mondo del lavoro, fino agli artigiani e alle piccolissime imprese. E introdurre un salario sociale per i disoccupati».
Per tutti i disoccupati?
«Con dei criteri, a partire dai carichi familiari. Per finanziarla serve una grande operazione di redistribuzione del reddito, alla Obama. Penso a 5 proposte: tassa patrimoniale sopra i 500mila euro, ripristino della tassa di successione, tassazione delle rendite finanziarie, aumento delle aliquote sopra i 100mila euro di reddito, lotta all’evasione. Penso a una manovra da 1,5 punti di Pil, 15-20 miliardi di euro».
Che effetto le fa vedere Obama che fa piangere i ricchi come voi volevate fare in Italia?
«Lo spostamento delle ricchezze dal basso in alto, in questi 20 anni, ha alimentato la bolla speculativa, senza sostenere i consumi. Ora, per uscire dalla crisi, è necessario spostare ricchezza in senso opposto. Obama fa una cosa razionale e di sinistra. Invece nel Pd si ripropone la guerra tra poveri. Ma se si vuole davvero spingere il governo a fare qualcosa, bisogna ricostruire un blocco sociale, tenere insieme i giovani precari e i pensionati, non metterli l’uno contro l’altro».
Teme un Pd che punta a sinistra e vi contende i voti alle europee?
«Se il Pd si spostasse a sinistra sul serio io sarei felicissimo perché renderebbe la vita più difficile a Berlusconi. Ma non credo che gli annunci a spot spostino molti voti. Voglio vederli andare dagli operai a dire che gli tagliano la pensione per dare qualcosa in cambio al figlio precario».
Col Pd volete allearvi alle amministrative?
«Se si fanno dei buoni programmi sì. Ma a Firenze è impossibile».
A Bologna vi siete divisi su questo dentro il Prc...
«In realtà alcuni dei nostri non volevano neppure andare a vedere le carte del Pd. Se c’è una discontinuità netta con Cofferati si può ragionare, altrimenti no. Se il Pd fa politiche securitarie noi non ci stiamo».
È sicuro che le politiche di sicurezza siano “il male”?
«No di certo, ma le ronde e la guerra ai lavavetri sono risposte sbagliate. E alla fine Penati sta più a destra di Pisanu e insegue la Lega sul suo terreno».
Con il Pd di Franceschini sarà più facile per voi dialogare?
«Se cominciano a fare opposizione al governo, a Confindustria e, quando serve, anche al Vaticano è possibile. Ma con un Pd più a destra di Obama sarà molto difficile allearsi».
Corriere della Sera 3.3.09
Il leader «movimentista» per farsi preferire a Bersani al congresso e aumentare i consensi
Franceschini e la strategia «cattura ex ds»
di Maria Teresa Meli
ROMA — I sondaggi parlano chiaro. Con le dimissioni di Walter Veltroni il Pd, che nelle settimane precedenti aveva lentamente recuperato, ha perso due punti. E dopo non è che sia andata meglio. La flessione continua e il Partito democratico è ridotto al suo «zoccolo duro». Insomma, veleggia intorno al 22 per cento.
È con queste assai poco gratificanti percentuali che Dario Franceschini deve fare i conti. Per questa ragione il segretario sembra essersi spostato a sinistra. In realtà così non è. O meglio così è solo fino a un certo punto. C'è tutto un elettorato che intende astenersi alle elezioni europee e che è fatto di ulivisti, dipietristi, girotondini, e, naturalmente, di ex diessini delusi. Sono loro che Franceschini vuole coinvolgere. Del resto, lo ha ammesso lui stesso: «Dobbiamo spiegare che non è il momento dell'astensionismo, che adesso non si può fare un passo indietro. Dobbiamo evitare che le prossime Europee diventino una vittoria della destra». Insomma, Franceschini tenta di svegliare l'elettorato del Pd nell'unico modo possibile: presentandosi come il campione dell'antiberlusconismo. E la proposta degli assegni ai disoccupati va in questa direzione: dimostrare che il premier non è assolutamente in grado di gestire una crisi economica di questa gravità.
Dunque, niente accordi con il Cavaliere, anche se la situazione economica è pesante e magari consiglierebbe un tentativo di confronto tra maggioranza e opposizione. D'altra parte, se non si fosse dimesso, Veltroni avrebbe adottato questa identica strategia: era stato già deciso con lui segretario che era l'unica chance per guadagnare qualche voto. L'illusione della corsa al centro è finita ormai da un bel po'. Lo ha lasciato ampiamente intendere anche Massimo D'Alema. E c'è un altro motivo per cui Franceschini si comporta in questo modo: è un ex dc che deve convincere gli ex diessini a votarlo. E, magari, al Congresso di ottobre, a preferirlo a chi viene dalla loro storia, come Pierluigi Bersani, il cui grado di popolarità è il più alto di tutti i leader del Pd. Più di D'Alema, più di Fassino, più di Franceschini. Ma questa è una partita successiva, che il segretario potrà giocarsi solo se il risultato elettorale di giugno glielo consentirà.
Quali reazioni sta suscitando all'interno del Pd il «movimentismo» di Franceschini? Un altro ex dc come lui, Beppe Fioroni, che ha dovuto cedere la guida dell'organizzazione agli ex Ds per riequilibrare i rapporti di forza dentro il partito, fa mostra di non essere preoccupato. Però qualche segnale lo manda: «Non temo che Dario trascuri la nostra area — dice — e del resto noi non ci facciamo trascurare. Nel Pd non può essere trascurata nessuna anima e questa è l'unica carta per riuscire a fare il segretario. Comunque sui temi come l'ingresso nel Pse e il testamento biologico non ho dubbi su Franceschini...». Un atto di fede o un messaggio all'indirizzo del segretario? Per il resto c'è chi approfitta della linea presa dal segretario per «scartare» e ritagliarsi un proprio ruolo. È il caso di Enrico Letta che ha proposto al governo lo scambio «riforma pensioni- riforma ammortizzatori sociali». O di Francesco Rutelli, che spazia dai centristi ai radicali, perché, spiega l'onorevole Gianni Vernetti, «non si vuole far appiattire nel ruolo dell'ultrà cattolico: quel che gli interessa è dimostrare che il Pd è un partito riformista e non socialdemocratico e perciò lui si pone come punto di coagulo di chi non viene dagli ex ds». Comunque sono in tanti a scommettere che a urne chiuse anche Franceschini abbandonerà la linea attuale. D'altra parte non è proprio lui il primo leader del Pd a mettere in segreteria un esponente vicino all'Opus Dei, come Peppino Lupo, sindacalista siciliano della Cisl?
Corriere della Sera 3.3.09
Drammatizzare la crisi. Offensiva democratica per il voto europeo
di Massimo Franco
Obiettivo duplice: recuperare voti e intaccare il consenso del premier
La campagna elettorale del Pd per le Europee di giugno sta cominciando a prendere forma. Scommette su un aggravamento rapido della crisi economica. E lo addita per accusare il governo di sottovalutare i problemi, o addirittura di nasconderli. L'obiettivo è doppio: recuperare un elettorato di centrosinistra sbandato, e scalfire la popolarità più o meno intatta di Silvio Berlusconi. L'offensiva del segretario Dario Franceschini sull'indennità di disoccupazione per tutti nasce da questa sfida sul disastro che starebbe arrivando: una sorta di verità alternativa alle parole rassicuranti del premier e alle scelte del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti.
Palazzo Chigi continua a spiegare anche nei vertici internazionali che le difficoltà italiane sono minori rispetto ad altri Paesi; e che le misure predisposte consentiranno di ammortizzare le tensioni sociali. Anche per questo la proposta di un'indennità per chi rimane senza lavoro è stata respinta come demagogica e «impraticabile». Ma l'opposizione contesta la tesi berlusconiana. Elenca le aree di crisi, dall'aeroporto milanese di Malpensa a Prato. «L'operazione di Berlusconi è di impedire che si senta la crisi », protesta Franceschini. «Addirittura di negarne l'esistenza».
Il centrosinistra, invece, la drammatizza. Evoca un deserto occupazionale ed un governo insensibile, che metterebbe a rischio la tenuta non solo economica. Senza rimedi immediati, martella, si va incontro a proteste che sarebbe colpevole sottovalutare. La paura più diffusa e palpabile riguarda ormai la disoccupazione; e le stime più pessimistiche parlano di circa due milioni e mezzo di licenziamenti nel 2009. Ecco, allora, materializzarsi lo spettro di una «sindrome da Est europeo», con manifestazioni di piazza come quelle avvenute, appunto, in alcuni dei Paesi ex comunisti più disastrati.
Si tratta di uno scenario apocalittico, che gli avversari di Berlusconi sembrano considerare probabile, se non inevitabile. L'esecutivo ha stanziato fondi tutt'altro che irrisori: circa 16 miliardi di euro nel 2009, ricorda il ministro Maurizio Sacconi. Ma l'opposizione sembra convinta che i tempi della crisi saranno più veloci di quelli necessari per distribuire gli aiuti; e concentra le sue critiche sull'attesa di un cortocircuito pericoloso. Il tentativo è di attribuirne fin d'ora la responsabilità non ad una situazione finanziaria globale che dà i brividi, ma soprattutto all'inettitudine o alla reticenza del governo: anche se per il momento la manovra non sembra dare i risultati sperati.
Finora, infatti, i sondaggi tendono a mostrare che l'immagine del presidente del Consiglio risente relativamente del peggioramento dell'economia. Al contrario di altri governi, come quello del francese Nicolas Sarkozy, in calo nei sondaggi, il consenso di cui Berlusconi è beneficiario non viene intaccato. La previsione del Pd è che di qui al voto europeo la situazione sia destinata a cambiare sotto la spinta drammatica dei dati economici; e che palazzo Chigi diventerà il parafulmine naturale dell'apprensione dell'opinione pubblica. Il calo del Prodotto interno lordo dell'1 per cento nel 2008 conforta le previsioni più preoccupate. Rimane da vedere se basterà a rendere il Pd più credibile agli occhi dei suoi elettori.
Repubblica 3.3.09
Le profezie di Keynes
in libreria una lezione dell’economista con un commento di guido rossi
Il mondo possibile dei nostri nipoti
di Guido Rossi
Un fronte comune tra Occidente e Oriente contro le disuguaglianze in grado oggi di scongiurare le bolle speculative
Durante la Grande Crisi auspicò una regolamentazione finanziaria mondiale che appianasse gli squilibri
Anticipiamo parte del testo di pubblicato accanto a una lezione di John Maynard Keynes del �28: ambedue intitolati "Possibilità economiche per i nostri nipoti" (Adelphi, pagg. 52, euro 5,50) in questi giorni in libreria
A Keynes si deve sempre tornare - se non alle sue profezie, alle sue terapie. In particolare, la crisi dei subprime mortgages, che ha dato l´avvio a un crollo del sistema finanziario di cui è oggi impossibile definire le esatte dimensioni, o le probabili ripercussioni, fa tornare d´attualità una questione molto importante nel pensiero keynesiano, e cioè la domanda se sia giusto o legittimo pagare un interesse sul denaro preso a prestito. Già nelle ultime pagine della Teoria generale Keynes aveva previsto la possibilità che il venir meno della scarsità del capitale riducesse i tassi di interesse, provocando «l´eutanasia del rentier». E´ un dilemma antico (...) e generalmente ignorato, ma che oggi, improvvisamente, appare irrisolto: oggi, improvvisamente, spostare il centro dell´economia dal capitale al lavoro non sembra più utopico, e nemmeno impossibile. La ricchezza delle nazioni, appare evidente, non si costruisce sul denaro, sugli interessi di mercato o sull´ingegneria azionaria (...): si misura sulla capacità dell´uomo di apprendere, e di applicare le sue conoscenze ai procedimenti di produzioni e di consumo. Di conseguenza il prodotto del denaro, cioè l´interesse, dovrebbe essere commisurato alla produttività del lavoro, anziché a un mercato retto dall´azzardo, e dall´azzardo oggi distrutto.
Fino a pochissimo tempo fa, il feticcio della liquidità come unica fonte di ricchezza avrebbe sbarrato la strada a qualsiasi discorso di questo genere, ma oggi si comincia a capire cosa succederà domani, quando qualcuno (o più di qualcuno) pretenderà di incassare strumenti finanziari come i credit default swaps - per chi non li conoscesse, si tratta di titoli che costituiscono vere e proprie «scommesse» senza regole né rete sull´inadempienza di enti pubblici e privati nel rimborso dei propri debiti - mettendo a rischio un giro di affari virtuale, ma che ammonta a più di 62 trilioni di dollari (...). «Il decadente capitalismo internazionale, eppure individualistico, nelle cui mani siamo finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso - e non fornisce nessun bene». Keynes lo scriveva nel 1933 su The New Statesman and The Nation dell´8-15 luglio. E stavolta aveva ragione. (...)
Prima o poi, il fenomeno che ci siamo abituati, in mancanza di meglio, a chiamare globalizzazione richiederà una gestione, un controllo altrettanto globali. (...) Questo postula una sorta di Commonwealth che non sembra alle viste, ma che se venisse istituito in una forma qualsiasi non potrebbe (non potrà) non affrontare precisamente quei problemi (la disoccupazione, lo squilibrio fra Nord e Sud del mondo, l´ambiente) che oggi vengono con sconcertante regolarità accantonati in nome di una superiore ragione economica (...).
E un cambiamento di agenda di queste proporzioni porrebbe il problema (che in effetti comincia a porsi) di rivoluzioni solo in apparenza impensabili, a cominciare dall´avvento di una valuta globale. Non sarebbe in fondo nulla di così diverso dai certificati aurei internazionali che Keynes, durante la tempesta degli anni Trenta, proponeva di emettere e distribuire simultaneamente a tutti i Paesi, a condizioni diverse per ciascuno, con lo scopo di rivitalizzare il potere d´acquisto, consentendo il pagamento dei debiti e la ripresa del commercio internazionale. Se dovesse realizzarsi, questo fronte comune fra Occidente e Oriente contro diseguaglianze e conflitti creerebbe le condizioni per qualcosa di molto, molto simile alla fine dell´economia classica (e, oggi possiamo dirlo, anche moderna, e postmoderna) invocata da Keynes.
Da dove può cominciare, una rivoluzione di queste proporzioni? Senza andare troppo lontano, proprio dalle linee d´intervento proposte da Keynes a Bretton Woods (quella vera, del 1944), che gettavano le basi sia di un nuovo sistema di regolamentazione finanziaria mondiale sia di una politica monetaria internazionale tesa a scongiurare tanto i «credit booms», quanto gli «asset bubbles», cioè l´espansione incontrollata del credito, e più in generale le bolle speculative sui beni, immobiliari, energetici o alimentari che fossero.
La fenice dello sviluppo economico contemporaneo sta bruciando su un rogo che si è accesa da sola. Ciò che nascerà dalle sue ceneri dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto (...). Che cosa sarà non è ancora chiaro, ma nel pensarlo possiamo in un certo senso permetterci più utopia di quanta se ne sia concessa Keynes. Dopotutto il suo mondo era più piccolo del nostro, e l´unico risultato che i suoi nipoti - cioè noi - hanno ottenuto è di renderlo più grande e più instabile. Ma anche meno limitato, più aperto. Questa apertura sembra oggi l´unica possibilità economica che i nostri nipoti, essendone capaci, avranno modo di sfruttare.
Repubblica 3.3.09
Non solo un tecnico pragmatico
È ancora lui il terapeuta
di Federico Rampini
E´ un Keynes insolito quello che l´Adelphi rivela pubblicando il discorso Possibilità economiche per i nostri nipoti con un commento di Guido Rossi. Non stupisce solo per l´attualità dei giudizi formulati ottant´anni fa. Siamo ormai costretti a rivisitare la Grande Depressione degli anni Trenta per capire il nostro presente, e il grande economista britannico ne rimane l´analista-terapeuta più autorevole. Sembrano scritti oggi quei passaggi datati 1928-1930: «Ci troviamo a soffrire di una forma virulenta di pessimismo economico. E´ opinione comune che il progresso economico sia finito per sempre; che il miglioramento del tenore di vita abbia imboccato una parabola discendente; che per il prossimo decennio ci si debba aspettare un declino della prosperità».
E´ singolare la preveggenza con cui mette a fuoco la disoccupazione tecnologica («il lettore ne sentirà molto parlare negli anni a venire»). Sorprendente, e poco nota, è la sua dimestichezza con Freud e la psicanalisi, i cui strumenti interpretativi applica con disinvoltura all´economia: Guido Rossi ricorda le affermazioni dell´economista sulla pulsione «sadico-anale» insita nella bramosía capitalistica di profitto. La dimensione più inedita in assoluto è quella del Keynes visionario, sognatore, idealista, che qui viene alla luce. Staccandosi per un attimo dalle preoccupazioni del presente, il grande intellettuale élitario del circolo Bloomsbury e l´ispiratore del New Deal disegna un futuro in cui «l´amore per il denaro sarà, agli occhi di tutti, un´attitudine morbosa e repellente». Immagina una società fondata su valori più solidi, dove cammineremo spediti sui sentieri della virtù e della saggezza. «Dobbiamo tornare a porre i fini avanti ai mezzi, ad anteporre il buono all´utile. Dobbiamo onorare chi può insegnarci a cogliere meglio l´ora e il giorno, quelle deliziose persone capaci di apprezzare le cose fino in fondo».
Per arrivare a quello stadio Keynes pone la barra molto in alto, tra le condizioni dell´avvento di una società ideale elenca la pace universale e un perfetto controllo della crescita demografica. Non si fa illusioni sul breve termine ma spiega che sognare è un obbligo, perché «l´utopia appare oggi l´unica possibilità economica che i nostri nipoti possano, essendone capaci, sfruttare». Più dei singoli dettagli, allora, conta il nocciolo duro di questo pensiero che viene catturato e attualizzato da Rossi: ciò che nascerà dalle ceneri della grande crisi del XXI secolo, «dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto».
Sta proprio qui l´interesse di questo Keynes riesumato dall´oblìo. Di lui ricordavamo soprattutto il tecnico pragmatico, capace di rovesciare tutta l´ortodossìa economica pur di trovare ricette efficaci per rimettere in moto la macchina paralizzata dello sviluppo. Fu senza dubbio colui che teorizzando il ruolo benefico della spesa pubblica salvò il capitalismo da se stesso, nonché dalla sfida di movimenti rivoluzionari e modelli alternativi: il comunismo sovietico; i capitalismi autoritari e illiberali nel Giappone militarista, nella Germania nazista, nell´Italia fascista. E´ utile scoprire che dietro la prodigiosa fecondità intellettuale di Keynes c´era la capacità di guardare ben oltre la semplice crescita materiale. Le grandi crisi servono a rimettersi in discussione, costringono a osare là dove il pensiero non si era mai avventurato: quella del XXI secolo è ancora in attesa del suo Keynes.
Repubblica 3.3.09
Lo storico Angelo Del Boca: "E adesso costruiamo laggiù inumani centri di detenzione per immigrati"
"Solo soldi, la memoria non c’entra sui massacri neppure una parola"
di Giampaolo Cadalanu
Non mi aspettavo dal Cavaliere un gesto come quello di Brandt al ghetto di Varsavia
Ma se l’accordo è solo economico, tutti quei dollari dati al colonnello sono davvero troppi
Angelo Del Boca non nasconde la sua delusione. Altro che "giornata della memoria" per le vittime delle imprese imperiali fasciste, come lo storico più importante del colonialismo italiano propone da decenni: nel trattato con la Libia non c´è nemmeno il riconoscimento dei crimini commessi in Africa.
Professor Del Boca, come giudica il trattato di amicizia con Tripoli?
«Ho studiato molto bene il trattato, anche con l´amico Nicola Labanca. Non discuto la parte economica, né quella politica, discuto quella "storica". Ho scoperto che c´è appena un accenno di sfuggita al passato. Insomma, l´Italia versa 5 miliardi di dollari, sostanzialmente come indennizzo per i crimini compiuti in trent´anni di presenza in Libia e per i centomila morti provocati, ma nel Trattato non se ne fa riferimento».
Come mai?
«Non so se sia stata una specifica richiesta di Berlusconi o di chi ha discusso la formulazione del trattato, o piuttosto una dimenticanza. Ma quest´ultima ipotesi è davvero improbabile. Gheddafi ha sempre voluto sottolineare l´esigenza di conservare la memoria delle vittime dei massacri italiani. Se però è solo un´operazione economica, per il gas, cinque miliardi mi sembrano davvero molti, anzi troppi. Se non c´è la richiesta di perdono, che cos´è tutta questa premura, con i regali personali a Gheddafi?».
Professore, lei vorrebbe da Berlusconi un gesto come quello di Willy Brandt al ghetto di Varsavia?
«Figuriamoci! Non lo credo proprio adatto a gesti del genere. Berlusconi non festeggia il 25 aprile, parla della condanna al confino per i dissidenti come di una vacanza... Non mi meraviglio di questa assenza».
Non crede che un obiettivo importante di questo trattato sia l´intesa sull´immigrazione?
«Potrebbe servire ad accontentare i leghisti, che pensano a come fermare i clandestini. Ma per la verità negli ultimi tempi i libici stanno già mettendo le mani avanti, sostengono - ma è una bugia - di avere sul loro territorio sei milioni di migranti, dicono apertamente che sarà difficile per loro riuscire a controllare confini così vasti».
Gli accordi prevedono anche una partecipazione italiana.
«I due paesi dovrebbero organizzare una flottiglia mista per pattugliare le coste libiche e impedire le partenze, si parla anche di radar volti verso il deserto per controllare gli arrivi. Ma ho molti dubbi sull´operazione».
Che cosa pensa dei centri di detenzione in territorio libico, su cui si sono rivolte le critiche durissime di Amnesty International?
«Sono completamente d´accordo con Amnesty. Da quanto si riesce a sapere sono in realtà campi di concentramento. Nel mio ultimo libro (Il mio Novecento, edito da Neri Pozza, ndr) ho riportato diverse testimonianze di chi li ha visitati: Jas Gawronski parla di "inumanità", il prefetto Mori racconta di 650 persone rinchiuse in condizioni terribili dove ne erano previste 100, e così via. Ora mi chiedo: come può l´Italia partecipare alla costruzione di opere del genere?».
Repubblica 3.3.09
Con il ritorno di Borsari e Bodei
Modena il Festival si farà
SEMBRA ormai una certezza: il Festival di Filosofia di Modena si terrà a settembre con il ritorno della storica responsabile scientifica Michelina Borsari, come sempre affiancata da Remo Bodei. In questa vicenda i colpi di scena non sono mancati tanto che molte grandi firme della filosofia sembravano decise a defilarsi dal gran pasticcio emiliano - da Marc Augé a Etienne Balibar, da Cacciari a Galimberti, da Givone a Marramao, da Odifreddi a Perniola, da Rodotà a Veca, da Savater a Viroli, dalla Cantarella alla Cavarero. Ma ora le fratture, almeno per quel che riguarda il Festival, si sono ricomposte e c´è da credere che la rassegna potrà svolgersi secondo lo schema ben collaudato degli anni scorsi, contando sulla crema dell´intellettualità filosofica italiana e internazionale.
Non c´è invece il lieto fine per la Scuola di Alti Studi di Modena. Il Comitato scientifico e Il Consiglio di amministrazione della Fondazione San Carlo non hanno trovato nessun accordo. La direzione della Scuola è stata affidata al professor Carlo Altini, sfilandola di fatto alla Borsari, una decisione irrevocabile che ha reso impossibile ogni tentativo di mediazione. Il risultato è che i membri del Comitato scientifico della Fondazione hanno confermato le dimissioni: si tratta di Remo Bodei, Giovanni Filoramo, Tullio Gregory, Francisco Jarauta, Maurice Olender, Wolfgang Schluchter. È loro convinzione che siano state prese decisioni di carattere culturale con un´ottica esclusivamente amministrativa.
Corriere della Sera 3.3.09
Classi per stranieri, no della Crusca «Così non si aiuta l'integrazione»
«Per imparare l'italiano meglio stare in aula con gli altri» Il consiglio: formare i docenti. Ora la decisione del ministro
di Gianna Fregonara
Nell'anno scolastico 2007-2008 gli studenti non italiani erano 574 mila. Quest'anno, secondo una stima, sono 650 mila
L'Accademia si è fatta portavoce di altre cinque istituzioni che hanno il compito di custodire la nostra lingua
Su «Crusca per voi», il periodico dell'Accademia (a sinistra il logo) sono stati pubblicati due saggi nei quali si commenta la proposta di creare classi differenziate (o ponte) per gli studenti stranieri. «Un metodo incongruente rispetto all'obiettivo di favorire la promozione dell'acquisizione dell'italiano», scrive la Crusca
Confusa. Generica e per lo più impraticabile. In altre parole, inadeguata. L'imprevista bocciatura è dell'Accademia della Crusca, che critica la proposta di formare classi differenziate (le classi di inserimento o classi ponte) per far apprendere l'italiano agli stranieri, presentata dal leghista Roberto Cota e approvata dalla maggioranza lo scorso ottobre. Non serve: funzionerà certo a tranquillizzare genitori italiani e docenti alle prese con problemi di integrazione, ma dal punto di vista scientifico e dell'apprendimento dell'italiano per studiare è del tutto inutile.
Sul periodico dell'Accademia, la «Crusca per voi», si possono leggere due saggi argomentati sul tema. E, come se non bastasse, la rivista si fa portavoce delle impietose osservazioni delle altre istituzioni custodi della nostra lingua: la Società italiana di Glottologia, la Società di linguistica italiana, l'Associazione italiana di linguistica applicata, il Gruppo di intervento e studio nel campo dell'educazione linguistica e l'Associazione per la storia della Lingua italiana, che della proposta Cota scrivono: «La mozione risulta non chiara nelle premesse, poco perspicua nel metodo e inefficace nella soluzione». E ancora: «Il metodo proposto per affrontare il problema è piuttosto incongruente rispetto all'obiettivo di favorire la promozione dell'acquisizione dell'italiano ai fini,almeno dichiarati, di una armonica integrazione».
Replica Cota: «Rispetto la Crusca, ma loro rispettino il problema vissuto da migliaia di famiglie nelle periferie delle grandi città. Temo che vedano più il tarlo del razzismo che altro, ma io spero che al più presto il ministro Gelmini possa varare un provvedimento dettagliato sulle classi ponte, la mozione indica soltanto la linea politica, non le soluzioni tecniche migliori». Per ora il ministro sta studiando la pratica, e i presidi sono in attesa di lumi per le iscrizioni.
I dati innanzitutto. Nello scorso anno scolastico, 2007-2008, secondo le rilevazioni del ministero dell'Istruzione, su dieci milioni di alunni, 574.000 erano stranieri, cioè con «cittadinanza non italiana»: in percentuale il 6,4, il 7 per cento dall'asilo alle medie e il 4 per cento nelle superiori.
Non una cifra spaventosa, in termini assoluti. Ma dieci volte di più degli studenti stranieri inseriti a scuola appena dieci anni prima, nel 1997. Tanto da creare, come riconoscono anche gli studiosi della Crusca, «una situazione di disagio».
Di questo mezzo milione tuttavia, i non-italiofoni, quelli cioè che non parlano l'italiano, entrati per la prima volta nel sistema scolastico italiano, e che avrebbero bisogno di corsi e sostegni non sono più di 50 mila: «Circa il 70 per cento dei bambini stranieri che frequentano la scuola dell'infanzia e la metà di quelli che sono alle elementari — si legge nell'articolo di Silvia Morgana, ordinaria di linguistica italiana alla Statale di Milano — sono nati in Italia, mentre un'altra parte consistente è in Italia da anni e ha già frequentato altri gradi di scuola e quindi è sostanzialmente in grado di comunicare in italiano, anche se con diversi livelli di competenza linguistica».
Dov'è dunque il problema secondo la Crusca? Non è l'italiano di base, quello che si insegnerebbe prima dell'inserimento nelle scuole normali, da verificare con gli ormai famosi test entro dicembre il vero problema: l'apprendimento di queste conoscenze da parte degli stranieri è di solito rapido e «richiede da pochi mesi, all'anno e mezzo dall'inserimento nella scuola "normale"», a contatto con gli studenti italiani. Il problema che può insorgere e creare difficoltà di apprendimento è «la lingua per lo studio», cioè quelle competenze specialistiche che servono per comunicare le proprie conoscenze più avanzate: «Queste risultano spesso ben più difficili da padroneggiare completamente anche per gli studenti italiani e la lingua per lo studio può richiedere fino a cinque anni per essere utilizzata nel modo più efficace», spiega ancora Morgana.
Se le classi di inserimento o differenziali o ponte non servono, allora che fare, per situazioni in cui in una classe ci sono tre quarti di studenti stranieri e gli italiani sono in fuga? Di idee e sperimentazioni, ne sono nate tante in questi ultimi anni. La Crusca suggerisce di puntare sui docenti, preparandoli per la formazione dell'insegnamento dell'italiano come seconda lingua, disponendo una formazione specifica per i docenti che lavorano nei Cpt, e più in generale creando una «vera e propria cultura della valutazione» non solo delle competenze linguistiche, formando gli insegnanti ad una revisione dei curriculum in chiave interculturale.
A provare le classi di inserimento è da qualche mese la Catalogna, in Spagna, in due città vicino a Barcellona, Vic e Reus. Ma il modello, proposto tra mille polemiche, ha una durata di tempo molto limitata: da uno a sei mesi, soltanto per i nuovi entrati. In questo primo periodo di tempo dalle classi separate è passato qualche centinaio di studenti e oltre i due terzi sono già stati inseriti nelle classi normali.
Non che in Italia negli ultimi anni non sia suonata la campanella dell'emergenza. L'osservatorio nazionale per l'integrazione degli alunni stranieri e l'educazione interculturale presso il ministero, ha prodotto diversi documenti di indirizzo, segnalando già due anni fa il problema di quel 20% di alunni stranieri che arrivano ad anno scolastico già iniziato. La linea fin qui seguita nelle zone ad alta concentrazione era quella di lasciare autonomia alle scuole per fare corsi e laboratori di lingua pomeridiani e di sostegno. Ancora non è stato valutato il successo. Ma lo stesso osservatorio aveva messo in guardia «contro i rischi di pregiudizi e preconcetti su base emozionale rispetto ai nuovi arrivati».
Per ora alcuni Comuni si sono arrangiati da sé, trovando nelle raccomandazioni europee e nelle esperienze di altri Paesi, l'ispirazione per le proprie politiche. A Vicenza il sindaco Achille Variati (Pd) ha imposto un tetto di tre alunni che non parlano italiano per ogni classe, gli altri verranno aiutati dal Comune e dai presidi a trovare altre sistemazioni. La Commissione europea non ha censurato l'idea. A Novara succede il contrario. Nelle scuole del quartiere Sant'Agabio, ad alta densità di stranieri, sono gli studenti italiani che sono invitati a iscriversi: per loro mensa e scuolabus gratis. Stesso incentivo per gli stranieri che accettano di spostarsi in altre realtà. Il modello è la Spagna, quella Catalogna che però poi ha deciso di introdurre i corsi di inserimento. A Milano il Comune sta pensando a qualcosa di simile. A Roma l'assessore alle politiche educative Laura Marsilio ha proposto l'obiettivo di avere negli asili non più di cinque stranieri per classe. Tutto questo in attesa di una parola definitiva da parte del ministero.
Corriere della Sera 3.3.09
Esce da Elliot «Chi ha cucinato l'ultima cena?». Le vicende dell'umanità dall'altro punto di vista
Quando le donne persero il potere
Dalla «signora delle caverne» al neomachismo: storia femminile del mondo
di Isabella Bossi Fedrigotti
Non fosse che per il titolo, il libro meriterebbe attenzione. Chi ha cucinato l'ultima cena? è, in effetti, una domanda che nessuno probabilmente si era mai posto prima della saggista inglese Rosalind Miles, fondatrice del Centro per gli studi sulla donna dell'Università di Coventry. Ovvio che risposta non l'ha trovata, ma il paradossale quesito è servito comunque a intitolare la sua ampia e sistematica ricerca sulla storia del mondo al femminile, dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri.
Il primo nucleo del libro risale in verità a circa vent'anni fa, mentre la sua versione definitiva, riscritta e corredata del nuovo, brillante titolo è del 2000. Uscito da tempo in tutto il mondo, Cina compresa, Chi ha cucinato l'ultima cena? arriva tuttavia soltanto venerdì in Italia (tradotto da Luisa Pece per Elliot) e chissà se il ritardo è dovuto al feroce sarcasmo che l'autrice dedica al pervicace machismo mediterraneo o, invece, alla denuncia appena un po' più soave del mai davvero tramontato antifemminismo cui è improntata la tradizione religiosa cristiana. Oppure dipenderà dal fatto che Rosalind Miles non nasce come storica ma lo è diventata sulle tracce di un suo particolare interesse in nome del quale ha consultato un numero sterminato di fonti, testimoniate dalla vastissima bibliografia del libro?
Nonostante le frequenti citazioni virgolettate, il lettore e, naturalmente, ancora più la lettrice segue il racconto con interesse e divertimento grazie allo stile poco accademico e allo humour della migliore tradizione inglese che tende a sdrammatizzare anche i contesti più tremendi nei quali si sono trovate le donne nel corso dei secoli, principalmente per opera dei loro peggiori nemici, gli uomini: maggior danno, infatti, a quanto pare, non hanno avuto da cataclismi, inondazioni, incendi o epidemie e tanto meno da animali feroci. Divertimento, dunque, sì, però in qualche caso è inevitabile il raccapriccio di fronte a certe offensive pesanti e sistematiche, oltre che codificate dalle leggi civili e religiose, subite nel tempo dalle donne: offensive in parte già note, però per lo più velocemente e volentieri dimenticate.
L'autrice sostiene che per un lungo periodo, fino all'incirca all'età del ferro, le donne erano rispettate, onorate, riverite e servite, niente affatto — come da sempre illustrano i libri di scuola — chiuse nelle caverne ad attizzare il fuoco o intente alle incombenze più umili nell'attesa che il prode tornasse dalla caccia, e ancora meno erano sottomesse ai voleri di lui. Le signore passavano prima, insomma, come ancora succede in qualche rara tribù primitiva nascosta nelle foreste, ma non solo riesce difficile immaginarlo, anche a scriverlo si fa quasi fatica perché così radicata è l'immagine dell'antica donna asservita in secondo piano che in un certo senso mancano i termini per descrivere la primigenia situazione capovolta.
La signora delle caverne non se ne stava, dunque, affatto rintanata, bensì si occupava della raccolta di frutti e della coltivazione di orti, assicurando in tal modo la sopravvivenza della comunità giorno per giorno. Radunava frasche, costruiva rifugi e difese contro gli animali, istruiva i figli e partecipava alle famose cacce, come testimoniano non pochi graffiti paleolitici. Ovvio, dunque, che venisse tenuta in grande conto. La vera ragione della sua supremazia stava, tuttavia, soprattutto, nel misterioso potere di procreare dal nulla piccoli uomini e piccole donne, nel misterioso e magico scorrere puntuale del suo sangue che, pur essendo impossibile da fermare, non la uccideva come sarebbe stato normale per una simile ripetuta emorragia. La logica conseguenza fu che si venerò la Grande Madre, potente dispensatrice di vita, dio femmina innalzata sugli altari come poi non è — quasi — mai più successo, tranne che per figure divine collaterali, come, per esempio, la nostra Madonna.
La grande svolta che portò in alto gli uomini e in basso — per sempre — le donne storicamente arrivò quando le comunità si fecero più numerose per cui gli orti non bastarono più a nutrire tutti quanti e fu necessario coltivare campi più estesi, con impiego di attrezzi pesanti; campi che bisognò poi anche difendere dagli aggressori esterni: entrambe incombenze ovviamente adatte in particolare ai più muscolosi e prestanti maschi. Filosoficamente il tramonto della supremazia femminile arrivò, invece, secondo la Miles, nel momento in cui gli uomini compresero — non i singoli ma le intere popolazioni — il legame esistente tra atto sessuale e gravidanza, d'un colpo assai meno misteriosa e, soprattutto, impossibile senza il contributo maschile.
Il dio da adorare divenne allora maschio con il suo fallo innalzato alto sugli altari, e, di passo in passo, come se tutti gli uomini insieme fossero stati un solo uomo troppo a lungo umiliato lontano dal potere e smanioso di rivalsa, la donna fu ridotta a figurante di secondo piano, a schiava sottomessa e senza alcun potere, a puro contenitore biologico alla quale neppure i figli appartenevano.
Questa nuova situazione fu, nel corso dei secoli, ampiamente formalizzata anche da firme illustrissime, quali, per esempio, Eschilo che nelle
Eumenidi scrisse: «Colei che viene chiamata madre non è genitrice del figlio, bensì la nutrice dell'embrione appena seminato. È il fecondatore che genera». Oppure Aristotele, secondo il quale «la donna è passiva. Sta a casa come è nella sua natura. È l'incubatrice passiva del seme maschile ». E teorie più o meno identiche sul minor valore delle donne (in qualche caso anche rispetto agli animali domestici) riecheggiarono serenamente concordi dall'una all'altra parte del mondo.
Poi vennero le grandi religioni monoteiste, e, come scrive l'autrice, furono i chiodi della bara delle libertà femminili. Il dio divenne padre e per quello cristiano parlò Sant'Agostino: «La donna non è fatta a immagine di Dio... l'uomo soltanto è l'immagine di Dio». Quello musulmano — si sa — fu ancora più duro e Maometto nel Corano spiegò: «Gli uomini hanno autorità sulle donne perché Dio ha preferito alcune creature ad altre. Perciò le donne buone sono obbedienti. Se poi temete che alcune si ribellino, ammonitele, lasciatele sole nei loro letti e poi frustatele».
Il resto, si può dire è la variegata storia di oggi.
Corriere della Sera 3.3.09
La polemica
Bellocchio: mai censurato da Rai Cinema
ROMA — Marco Bellocchio che accusa di censura Rai Cinema che ha prodotto i suoi ultimi film? Tutto nasce da un'intervista a Left,
ripresa anche dal Giornale. Ma il diretto interessato non ci sta. Alle perse con il mixaggio del suo prossimo film (Vincere!, su Mussolini e Ida Dalser), Bellocchio attacca: «Sono colpito dall'uso che si è fatto delle mie parole nei giornali, estrapolando brani di un ragionamento più ampio». Spiega: «Chi ci ha voluto leggere qualcosa di critico in merito al mio rapporto con Rai Cinema è in malafede, tanto è vero che io sono stato libero di scrivere e girare Vincere! che Rai Cinema, la tv pubblica quindi, ha prodotto con entusiasmo e dandomi il massimo sostegno e libertà d'espressione».
Liberazione 3.3.09
«La memoria per guardare al futuro non solo per ricordare il passato»
Lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld.Ebreo polacco scampato alla Shoah, vive dal dopoguerra in Israele
Nei suoi romanzi racconta l'ebraismo dell'Est prima della tragedia
di Guido Caldiron
«La memoria è uno strabiliante strumento dell'anima, che ci mette in comunicazione con ciò che è vicino e ciò che è lontano (...) La Seconda guerra mondiale è stato uno dei conflitti più cruenti che l'umanità abbia mai conosciuto, e per gli ebrei certamente il peggiore. Un terzo del popolo ebraico è stato sterminato. Ogni ebreo sopravvissuto alla guerra, al ghetto e al campo di concentramento serba nella memoria decine, se non centinaia di immagini che hanno per segno la morte. Che fare di quelle immagini? Fissarle? Adottarle? Identificarsi in esse, tentando di tenere a mente i volti degli assassini, per odiarli?».
Questo il quesito centrale della Lectio Magistralis che Aharon Appelfeld terrà questa sera a Milano e che ha per titolo "La memoria e la parola: una speranza per il futuro". Decano degli scrittori israeliani, vive dal 1946 a Gerusalemme e insegna letteratura ebraica all'Università Ben Gurion a Be'er Sheva', Appelfeld è nato nel 1932 a Czernowitz, in Bucovina (Ucraina), e ha costruito attraverso le sue opere, oltre una quarantina di libri (romanzi, raccolte di racconti, saggi), tradotti in più di 30 lingue, una narrazione corale della storia dell'ebraismo dell'Est Europa spazzato via dalla barbarie nazista. Il suo contributo alla memoria della cultura ebraica è perciò fondamentale e riconosciuto a livello internazionale. Negli ultimi anni Guanda ha pubblicato i suoi romanzi Badenheim 1939 (2007), Storia di una vita (2008) e, in questi giorni, Paesaggio con bambina (pp. 148, euro 14,00) una storia che sembra riecheggiare proprio la vicenda di Appelfeld fuggito all'età di otto anni da un campo di concentramento dove era stato deportato con il padre. Protagonista del romanzo è Tsili Kraus, l'ultimogenita di una famiglia di bottegai ebrei dell'Est che sfugge allo sterminio vagando per l'Europa prima di cercare rifugio in Israele. E che trova nel proprio candore una sorta di rifugio all'orrore del mondo che la circonda.
Abbiamo posto alcune domande a Aharon Appelfeld alla vigilia del suo incontro milanese di questa sera.
Il personaggio di Tsili sembra assomigliarle molto: una bambina in fuga tutta sola dallo sterminio, in mezzo a un mondo in frantumi e pieno di pericoli. E' così?
Certo che Tsili rappresenta la mia infanzia, ma attraverso il suo personaggio ho cercato anche di uscire da una prospettiva esclusivamente personale. Ho trasferito la mia esperienza a questa bambina ma ho costruito anche una storia che andasse al di là della semplice ricostruzione di quanto ho vissuto io da bambino. Tsili è molto giovane, ma nonostante ciò è un simbolo, rappresenta l'infanzia perduta, la solitudine, l'innocenza. Infine si può dire che questa bambina rappresenti i sopravvissuti. Questo perché lei possiede qualcosa che le altre persone non possiedono, che è poi la sua innocenza. Lei sembra non pensare troppo a quanto le sta capitando, e questo la mette al riparo dalla disperazione. E' così che riesce a sopravvivere, a trovare una ragione per andare avanti nonostante tutto. Lei non si lamenta del fatto che la vita è così crudele nei suoi confronti, accetta la propria esistenza così com'è. Le persone che ha intorno sono sempre crudeli con lei, ma lei non piange, non maledice, non protesta: assorbe l'umiliazione ma non è una persona umiliata. E, alla fine, ha la forza di superare tutto quello che le è successo.
Il testo che leggerà questa sera a Milano riflette ancora una volta sul valore della memoria, ma anche sul modo in cui si può ricordare attraverso la creazione artistica e la letteratura. Nella sua esperienza in quale rapporto si trovano la scrittura e la memoria?
Per scrivere credo si debba essere in grado di mobilitare tutta la propria personalità, i propri sentimenti, le proprie sensazioni, i proprie pensieri e anche l'immaginazione. E' chiaro che anche la memoria fa parte di ciò, ma la memoria da sola non basta per creare l'arte. La memoria da sola rischia di rimandare al passato, mentre invece la scrittura creativa consiste nel mettere in gioco tutto: il passato, il presente e il futuro. Un'opera d'arte credo debba cercare di contenere tutte queste dimensioni temporali. La memoria non può essere da sola la base di un romanzo. Certo, si possono scrivere memoire o diari, cronaca o storia, ma è un'altra cosa. In un romanzo lo sforzo maggiore sta proprio nell'articolare l'insieme delle diverse dimensioni temporali in ogni paragrafo. Per fare un esempio di quanto dico, proprio in Paesaggio con bambina la dimensione narrativa incrocia la memoria, ma la proietta verso il futuro. La protagonista, Tsili, non è solo una bambina che si è trovata a vivere in un bosco da qualche parte in Ucraina durante la guerra. Lei, si potrebbe dire, vive al di là del tempo in cui è effettivamente vissuta. Tsili rappresenta l'eterna innocenza, l'eterna ragazza perduta. Perciò torniamo alla differenza che esiste tra la memoria e la letteratura: nel primo caso ci si concentra su un tempo e un momento ben preciso, nel secondo si cerca di rendere quell'elemento eterno e universale. Tsili rappresenta infatti l'eternità.
Lei ha detto di aspettare ancora il ritorno dei suoi famigliari scomparsi nella Shoah. La scrittura è perciò lo strumento attraverso cui ritrovare le proprie radici?
Sì, ne sono convinto. Io ho perso i miei genitori quando ero piccolo e ho perso per anni ogni contatto con la mia famiglia d'origine. Quindi scrivere della mia infanzia, tornare a ripercorrere le emozioni e i sentimenti di allora, mi fa ritrovare la mia famiglia e il mio paese. E' un percorso che compio senza nostalgia, guidato dall'amore. E' un modo per ritrovare il senso più profondo della vita, perché la vita di tutti parte proprio dal periodo dell'infanzia. Così, ritrovando la mia famiglia e l'ambiente da cui provengo, credo di poter andare davvero al fondo delle cose.
Al centro di "Paesaggio con bambina" c'è ancora, come nei suoi precedenti romanzi, la storia europea e la fuga degli ebrei dai paesi dell'Est. Lei vive da oltre sessant'anni in Israele però si è spesso definito come "un ebreo che scrive in Israele" e non uno scrittore israeliano. Cosa significa?
Le mie radici restano in Europa, malgrado io viva in Israele da più di sessant'anni. Sono uno scrittore ebreo che vive in Israele, come prima ho vissuto in altre parti del mondo. Come gli ebrei ancora oggi vivono in tutto il mondo. E' di loro che parlo nei miei libri, di quelli che vivono in ogni paese della terra. Non di quelli che vivono in Israele. Mi interessa la più vecchia civiltà del mondo, che è quella ebraica e non uno spazio geografico definito. Mi interessa lo spazio interiore. E' a questo spazio della cultura ebraica che rimanda la mia esperienza di vita. Per questo se devo "definirmi" penso all'Europa: è lì che sono nato ed è a quella cultura che faccio ancora riferimento pur vivendo in Israele.
Alla fine del suo romanzo Tsili cerca rifugio in Israele come hanno fatto tanti ebrei in fuga dall'Europa. Oggi, però, quel paese sembra dominato da una destra xenofoba e pericolosa che ha vinto le recenti elezioni e sembra rifiutare ogni ipotesi di dialogo con i palestinesi. Come valuta la situazione?
E' vero, Tsili alla fine del libro se ne va dall'Europa e in un certo senso rappresenta un po' tutti gli immigrati che dopo la guerra hanno scelto di andare a vivere in Israele. Immigrati che per la maggior parte erano rappresentati da persone perdute, sole, senza una famiglia, persone ferite. Si deve tener presente che ogni due persone immigrate in Israele nel dopoguerra, almeno una era un sopravvissuto direttamente alla Shoah o era figlio o nipote di sopravvissuti. Quando sono arrivato dall'Europa, nel 1946, in quello che sarebbe diventato lo Stato di Israele c'erano meno di un milione di abitanti, poi sono arrivati in pochi anni oltre settecentomila scampati alla Shoah in fuga dall'Europa. Israele è perciò sempre stato, fin dall'inizio della sua storia, un paese di immigrati e ha continuato a conoscere rapidi cambiamenti da questo punto di vista. Israele è tutto fuorché un paese omogeneo; è, da questo punto di vista, una società aperta. Oggi, in effetti, la paura sembra dominare la società israeliana: paura del terrorismo, paura di Hamas, paura della minaccia che arriva dall'Iran e dal suo arsenale militare. All'inizio della sua esistenza, e per molti anni, Israele era uno stato d'ispirazione socialista, ma oggi questo clima di paura ha fatto sì che tanti israeliani si spostassero verso destra, anche verso le posizioni della destra più estrema. Ora il paese mi appare come diviso nettamente in due dal punto di vista politico. Spero davvero che la minaccia iraniana possa passare e Israele possa tornare ad essere com'era e come dovrebbe essere, vale a dire un paese accogliente, democratico e socialista.
Liberazione Lettere 3.3.09
Franco Coppoli, l'aula e il crocifisso
Cara "Liberazione", l'Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" nell'esprimere tutta la sua solidarietà al prof. Franco Coppoli ("reo", a quanto sembrerebbe, di non aver obbedito all'ordine del Dirigente scolastico di far lezione col crocifisso in classe), ritiene del tutto inaccettabile la sospensiva a cui il docente è stato condannato dal Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione per aver fatto valere appieno il principio della laicità dello Stato costituzionalmente sancito. In base a questo, lo Stato repubblicano, non si può far portatore di una confessione religiosa, imponendo simboli religiosi nei luoghi pubblici, tanto più quando si tratta di un'aula scolastica, dove si educa all'appartenenza alla cittadinanza al di là delle preferenze religiose di singoli o gruppi. Fossero pure maggioritari. Se infatti, anche il 100% degli italiani fosse cattolico, cosa che non è, lo Stato non potrebbe farsi propagatore della confessione della chiesa romana e del suo simbolo. Come hanno abbondantemente ricordato diverse sentenze della Corte Costituzionale (in particolare, 203/1989), e della Corte di Cassazione (in particolare, 439/2000). Nonché quella emessa recentemente dalla Sesta sezione penale della Cassazione il 17 febbraio 2009, che "ha annullato senza rinvio perché il fatto non sussiste" la condanna per il giudice del Tribunale di Camerino, Luigi Tosti, a sette mesi di reclusione per interruzione di pubblico servizio e omissione di atti d'ufficio inflitta dalla Corte d'Appello dell'Aquila nel maggio 2007, perché il magistrato si era rifiutato di svolgere le sue funzioni nell'aula giudiziaria a causa della presenza di un crocifisso.
Maria Mantello vicepresidente della Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"
l’Unità 3.3.09
l’Unità sciopera, domani non è in edicola
Domani l’Unità non sarà in edicola e oggi il sito on line non verrà aggiornato. È stato proclamato, infatti, il primo dei cinque giorni di sciopero messi a disposizione del cdr. Lo ha deciso all’unanimità l’assemblea delle redazioni di Roma, Bologna, Firenze, Milano e dell’on-line, per respingere l’ipotesi di drastico ridimensionamento aziendale prospettato dall’amministratore delegato. Che provocherebbe gravissime ripercussioni sugli organici e sulla fisionomia stessa del prodotto. Tutto questo malgrado i positivi risultati di vendita e i piani di rilancio della testata messi in atto non più di quattro mesi fa. L’assemblea respinge i tempi, strettissimi, indicati dall’azienda per la trattativa. E, in particolare, ritiene inaccettabile la data ultimativa del 23 marzo, fissata come termine ultimo per scongiurare lo stato di insolvenza. Si ricorda che i tempi e le modalità per dichiarare lo stato di crisi sono indicati dal contratto e che, in ogni caso, la dinamica di una trattativa non può essere condizionata da scadenze ultimative.
La redazione del l’Unità assieme alla Fnsi e alle associazioni di stampa regionali non si sottrarrà ad un confronto di merito sulle prospettive dell’azienda che parta, però, dalla difesa della qualità del prodotto, della sua articolazione territoriale, dei livelli occupazionali e dalla tutela del precariato, dalla salvaguardia della professionalità e delle retribuzioni dei giornalisti.
L’assemblea invita il Pd, le forze di sinistra, il sindacato, l’opinione pubblica democratica, i propri lettori javascript:void(0)ad adoperarsi perché l’Unità possa superare anche questo difficile momento, continuando ad assolvere al suo ruolo e alla sua funzione.
L’ASSEMBLEA DE L’UNITÀ
Repubblica 3.3.09
Le idee Di cosa parla il Vangelo quando parla di vita
di Pietro Citati
Nelle nostre lingue, abbiamo un solo termine per indicare la vita: si tratti di vita animale, umana, quotidiana, materiale, spirituale, celeste, eterna. Il greco classico (e il greco dei Vangeli) conosce tre termini: segno dell´attenzione con cui il pensiero e la lingua antichi osservavano ed esprimevano le forme dell´esistenza – sottigliezza che abbiamo dimenticato. Il primo è bios: che vale vita quotidiana, costume di vita, carattere, durata dell´esistenza, professione, mestiere, proprietà, eredità, ricchezza. Il secondo è zoe, che ha significato prevalentemente religioso. Il terzo, psyche, possiede molti sensi, di cui non posso parlare in un articolo.
Nel Vangelo di Giovanni, «il volatile delle altitudini», come lo chiamò Giovanni Scoto, bios non appare mai. L´autore del Vangelo (forse un «discepolo del discepolo che Gesù amava») non provava il minimo interesse per la esistenza quotidiana, che i nostri cardinali esaltano tanto. Non amava l´esistenza insignificante, nella quale noi nasciamo, diventiamo adulti, abbiamo un carattere, dei sentimenti, lavoriamo, siamo ricchi o poveri, conosciamo il tempo, lo spazio e il numero, abbiamo una famiglia e degli amici, e infine, in modo egualmente insignificante, moriamo. A lui interessava soltanto la zoe ton aionon: la vita eterna.
La vita eterna è, in primo luogo, Dio Padre, il vivente, come dice l´Antico Testamento: egli vive in eterno, porta in sé la vita, dà e toglie l´esistenza, e colma l´universo con una freschezza inesauribile. Anche il Figlio dispensa vita al mondo; e dà agli uomini un´acqua zampillante che non si esaurisce mai. Il Padre e il Figlio sono «una cosa sola», dice Giovanni, mentre Matteo, Marco e Luca non osano dirlo. Prima della creazione, quando lo spazio è vuoto e le tenebre si allargano sull´abisso, essi sono già una "cosa sola": il Figlio esiste presso Dio; e il Figlio e il Padre si riflettono l´uno nell´altro. Se il Padre ama il Figlio, il Figlio ama il Padre: se il Padre risuscita e vivifica i morti, così fa il Figlio: se il Figlio dona la sua vita per gli uomini, la dona per volontà del Padre: quando il Padre parla, il Figlio parla per lui; quando il Padre insegna, il Figlio ripete il suo insegnamento. «Io non sono mai solo, dice Gesù, perché il Padre è con me».
Questa doppia vita è una luce gloriosa, onnipervasiva, ininterrotta, che caccia da ogni parte le tenebre che non la riconoscono. Non c´è niente nella vita eterna, che non sia zampillo e esplosione di luce. Questa luce sovrannaturale si esprime con le immagini più semplici e fisiche: Giovanni unisce la sublimità tremenda e la semplicità naturale; ecco l´acqua, il pane, la vite, il tralcio, il mietitore, il seminatore, il buon pastore, le pecore. Giovanni tuffa le mani nel mare del linguaggio della religione tardo-giudaica, ellenistica, gnostica, mandea: non teme il contatto con nessuna esperienza; accetta qualsiasi fonte, perché, come tutti i grandi teologi, la impregna col suo respiro.
Lo "scandalo della Croce" aveva inquietato le prime comunità cristiane: quel Cristo disperatamente solo, che prega invano il Padre sul Getsemani e sulla Croce, e non riceve risposta, riempiva d´angoscia i fedeli. Queste inquietudini ed angosce diventano, in Giovanni, un trionfo; e la gloria di Cristo non sta solo nella Resurrezione, come pensano gli altri Vangeli, ma sopratutto nella Croce. Giovanni abolisce la scena notturna del Getsemani, dove Cristo aveva sofferto lacrime di sangue, invocando un´altra possibilità, e un´altra salvezza. Insiste sul fatto che mai, nemmeno per un attimo, durante la passione e la crocefissione, Gesù era rimasto solo: perché il Padre era sempre vicino a lui, e parlava con lui, senza conoscere né il silenzio né il segreto. Dio, per lui, non era mai nascosto. E infine, mentre negli altri Vangeli, la tenebra avvolge per tre ore l´agonia di Cristo, nel racconto di Giovanni c´è sempre luce: Gesù è «la luce vera, che illumina ogni uomo»; e dunque attorno a lui splende forse la stessa fresca aria primaverile che aveva illuminato qualche giorno prima, durante la festa di Gerusalemme, i rami delle palme pasquali. Tutto muta. La terribile umiliazione del Giusto biblico, abbandonato da Dio sulla Croce, rivela in ogni evento, anche il più doloroso, la maestà, l´esaltazione, la dignità regale del vero Re � il cui regno non appartiene a questo mondo, ma giudica e condanna il mondo e i suoi regni. La Croce di Gesù è un trono: il suo trono.
* * *
Secondo Giovanni, anche gli uomini conoscono la vita eterna: non la conoscono solo nel futuro, dopo la morte, dopo il giudizio, come pensano Matteo, Marco e Luca e, dopo di loro, moltitudini di cristiani. Nel Vangelo di Giovanni, come Gesù ripete di continuo, la vita eterna è già qui, davanti agli occhi, a Betania, a Betesda, a Cana, lungo le rive del mare di Galilea, tra le palme di Gerusalemme. Il raccolto è già presente: se i discepoli alzano gli occhi, vedono i campi albeggiare di messi. In nessun altro testo cristiano (e in nessun altro libro che abbia mai letto) le parole di Gesù fanno sentire il respiro e il sapore della vita eterna impregnare la nostra vita, come se tutto ciò che è quotidiano fosse scomparso o fosse stato completamente assorbito dalla gloria della luce. Leggendo Giovanni, senza che egli alzi mai la voce e il tono, l´eterno si insinua in ogni angolo del presente. Non c´è che l´eterno: prossimo, famigliare, confidenziale. Tutto avviene qui: la vita eterna è tra noi, sebbene forse avrà una risonanza più sottile nel cielo. Anche la glorificazione di Cristo avviene in terra, sulla Croce, sul Golgota, non quando egli ascende nell´altro mondo.
Se vogliamo conoscere la vita eterna, basta la fede nel Figlio, che ci viene data dal Padre. «Nessuno può venire a me, dice Gesù, se il Padre che mi ha mandato non lo attrae». Così siamo liberati dalla morte fisica, che non ha più alcun peso, perché viene completamente annullata dalla fede. A questa morte fisica, oggi, noi badiamo a tal punto, che vogliamo evitarla e cancellarla e allontanarla per mezzo di sondine e macchine respiratorie, come se non dovesse più esistere. Secondo Giovanni, morte è soltanto il nome della tenebra � il peccato d´Adamo, l´odio, la malvagità, l´assenza d´amore, l´incredulità, le cattive opere, la mancanza di conoscenza, Satana, il "mondo"�: tenebra che lascia attorno a sé una fascinazione sinistra, turbando anche i primi discepoli, durante e dopo l´ultima cena.
Mentre leggiamo il Vangelo di Giovanni, il Padre è una "cosa sola" col Figlio: il Figlio è "una cosa sola" col Padre: i discepoli presenti e tutti gli altri che in futuro leggeranno il Vangelo di Giovanni sono "una cosa sola" tra loro: essi sono "una cosa sola" col Figlio, come il tralcio e la vite; e sono "una cosa sola" attraverso la mediazione di Gesù Cristo, anche col Padre, come nessun cristiano aveva mai detto. Queste successive identità di amore e di conoscenza, queste fusioni sempre più vaste di cuori e di spiriti, che si allargano come onde nel lago dell´amore cristiano, ripetono l´unità originaria, che, prima della creazione, esisteva tra le due figure divine. Qualsiasi separazione e divisione, nel cielo e nella terra, è caduta. Non c´è che l´Uno celeste e terrestre. Fuori di esso soltanto le tenebre, che non riconoscono e non accolgono il Figlio.
Cinecittà News 3.3.09
Bellocchio: Rai Cinema non mi ha mai censurato
Marco Bellocchio torna su alcuni passaggi di una sua intervista a 'Left' che, dice il regista, non corrispondeva esattamente alle parole da lui dette. Lamentandosi per l'uso fatto di alcune sue espressioni "estrapolando brani di un ragionamento più ampio", Bellocchio sottolinea che l'affermazione a lui attribuita su cinema e tv ("Il cinema oggi è totalmente dipendente dalla tv, che ogni tanto elargisce qualcosa, ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il suo linguaggio. Difficile trovare spazi di libertà ") riguardava il linguaggio che la televisione, di tutto il mondo, tende a omologare e non dunque una critica a Rai Cinema, che ha prodotto i suoi ultimi film. Tanto è vero, precisa il regista, che proprio da Rai Cinema, dalla tv pubblica dunque, ha ricevuto "il massimo sostegno e libertà d'espressione" per il suo prossimo Vincere, film sul figlio segreto che il Duce ha avuto con Ida Dalser.
Per quanto riguarda L'ora di religione, il suo film del 2002 con Sergio Castellitto, "non credo - sottolinea Bellocchio - di aver detto letteralmente che oggi non mi lascerebbero fare questo film, ma mi riferivo a un clima generale nel Paese dove mi sembra più a rischio una visione laica della vita che è necessario assolutamente salvaguardare".