Presi d'assalto siti e blog di area. Il coro è unanime: ora facce nuove e opposizione dura
Dalla base sale un urlo sul web "Adesso via tutta la nomenklatura"
di Alessandra Longo
ROMA - Via tutti, via Veltroni, ma anche, come direbbe Crozza, per l´ultima volta, via tutti gli altri. Via Bersani, via Fioroni, via D´Alema, via Rutelli, via Soro, via Letta, via Latorre e persino i meno visibili Carra e D´Ubaldo... Via «le compagnie brutte», via «tutta la classe dirigente che nasce dal ventre del vecchio Pci», via «i pericolosi ipocriti doppiogiochisti», via «quelli che trattano il Vaticano non come uno Stato estero ma come il consigliere privilegiato», via la «Binetti che ascolta Radio Vaticana prima di votare», via «la nomenklatura arroccata nella torre d´avorio», «via quelli che anche quando cadono per terra, poi c´è sempre uno champagne, una prima all´opera, un vernissage che li aspetta».
Un grido collettivo, un´onda inarrestabile di emozioni, quella del dopo-Veltroni. La delusione, la rabbia, la voglia di reagire, prendono forma nelle migliaia di messaggi che intasano i siti online dell´Unità, di Repubblica, degli altri indirizzi web occupati da una sinistra travolta dalla sconfitta bruciante di Soru e poi da quel «me ne vado» senz´appello del leader. Cambia tutto, all´improvviso. Ed ecco che la reazione di molti, della maggioranza, prende la strada rancorosa, livida, della ribellione nei confronti di un establishment di partito, vissuto come «casta».
Messa così, non basta, non sazia, la testa caduta di Veltroni. Della vecchia guardia non si salva nessuno, chi stava in prima fila e chi in seconda, chi si opponeva e chi era organico al progetto. «Vorrei che se ne andassero tutti gli apparatnik, gli uomini di corridoio, i lecchini, i rutelli e i rutellini, i faziosi, i moralisti cattopapisti, gli arrivisti, i terzomondisti, i precisini, i benaltristi, i sempresentisti, gli entusiasti di ogni cambiamento». E´ la furia del cupio dissolvi. Il segnale che gli elettori del Pd vogliono girare pagina, anche brutalmente. Non vedevano l´ora di dirlo, di urlarlo: «Qui è un´intera classe dirigente che ha fallito! Invece di creare una scuola quadri, di promuovere facce nuove, i soliti hanno lottato per le poltrone. Veltroni ha solo accelerato il processo con la sua linea morbida...». Veltroni che lascia, Veltroni che passa dal «Yes we can, al Yes I go». Veltroni che qualche militante ostile, già non rimpiange: «Era ora, è la prima cosa buona che fa, ma troppo tardi». Però anche Veltroni che distrugge un sogno: «Grazie Walter, gentiluomo tra gli sciacalli, con te finisce la mia storia politica ed elettorale».
Fa impressione leggere in sequenza gli sfoghi, gli sbandamenti. E´ una base sofferente, mai più disposta ad illudersi: «A questo punto l´intera classe dirigente dovrebbe riflettere sullo stato del Partito. Il problema non è un semplice cambio di leadership. Abbiamo bisogno di una nuova sintesi che provenga da un´altra generazione». Aria nuova, dunque, «volti nuovi, idee fresche, opposizione dura»: «Facciamo la lista di quelli che se ne devono andare, tutti quelli che hanno trasformato il sogno in un incubo. Se si vogliono migliorare le cose va cambiato l´intero gruppo dirigente, vanno allontanate le cariatidi, si dimettano la direzione e il governo ombra o io non voterò più».
Quasi mille messaggi solo all´Unità e l´aria che tira è principalmente questa: Veltroni è stato troppo «soft» contro il Caimano, è stato travolto dal suo «maanchismo che in politica non paga», aveva «i capibastone che gli remavano contro», ma nessuno pensi di rimpiazzarlo con i soliti o il Pd, che adesso è «ircocervo», diventerà un guscio vuoto. «Bye bye Walter, non è l´epoca giusta per te. Adesso nuovo segretario, nuova linea politica». La rabbia per la sconfitta che brucia trasformata in opportunità: «E´ questa l´occasione per fare piazza pulita della nostra parte di casta». S´infila nella discussione online anche il giovane deputato Andrea Sarubbi: «Sono spaesato, mi ha voluto Walter, su suggerimento di Rutelli, è la prima volta che mi capita nella vita... Ma so che adesso bisogna avere coraggio, non aggrapparsi alle figure di garanzia, ad una classe dirigente nata quattro partiti fa». Modello Renzi, modello Bersani, i germi di una prossima divisione.
Tra tanto furore, note di tristezza: «Povera sinistra italiana, mi manca... Ma chi sono oggi gli italiani di sinistra? Cosa hanno in testa? Cosa vogliono veramente? Forse è tutto finito... Lo confesso: ho paura».
Repubblica 18.2.09
"Il ko è colpa di un partito che non c´è" Soru attacca e guarda alla sfida nel Pd
Nell´isola il Pd è crollato al 24 per cento, perdendo soprattutto nelle città e sulle coste
di Umberto Rosso
CAGLIARI - Lascia o raddoppia dopo la stangata elettorale? E´ cominciato un lungo day after per Renato Soru, con lo tsumani che dalla Sardegna travolge anche Veltroni, e la coda di queste elezioni che sembra non voler finire mai: tutti i voti in tribunale, gli scrutini non si sono conclusi entro le 24 ore e adesso appunto saranno i giudici a concludere lo spoglio, non si sa bene quando. Il grande sconfitto comincia dunque a guardarsi attorno, e intanto mette un grande imputato sul banco degli accusati: il Pd dell´isola, crollato al 24 per cento, che ha sparato anche raffiche di fuoco amico contro Soru ma che soprattutto «è un partito che non c´è - ha spiegato l´ex governatore - e che adesso va assolutamente ricostruito».
Un compito arduo per il commissario veltroniano Achille Passoni, che dopo la batosta si prepara a passare la mano a nuovi organismi che dovrebbero rinascere al più presto, «ma - ammette - non sarà una passeggiata dopo una sconfitta che nessuno si immaginava tanto pesante». L´ex presidente non fa dichiarazioni e s´interroga sul futuro ma intanto alcuni uomini della sua squadra hanno già le idee chiare. E hanno fatto partire il pressing. «Renato, soprattutto ora che Veltroni ha rassegnato le dimissioni, non puoi restare alla finestra: devi entrare nel dibattito nazionale che si è aperto nel Pd». Consigliano perciò di prendere parte al «confronto», suggeriscono di allargare l´orizzonte della «partecipazione» da Cagliari alla capitale. Vietato tradurre tutto e subito in «candidatura», in corsa alla segreteria, parola tabù.
Ma Soru sembrerebbe sintonizzato su un´altra lunghezza d´onda.
Altro che Roma. Sarà così difficile guidare l´opposizione alla Regione, se come pare nella pattuglia di consiglieri del Pd entreranno molti suoi nemici di partito, che all´ex governatore in queste ore verrebbe quasi la voglia di mollare la politica.
Tornare a fare l´imprenditore, con Tiscali che dopo la batosta elettorale ha bruciato in Borsa un altro 7,81 per cento del titolo. Siccome però i suoi sanno anche che non lo farà, insistono sulla missione romana: scendere in pista nel confronto sulla leadership non oscura il compito di contrastare il neo presidente del centrodestra, «si possono conciliare benissimo le due cose». Cappellacci intanto tende la mano, «basta con i veleni, sarò il presidente di tutti».
Un ko clamoroso in Sardegna - il distacco dal vincitore è quasi di dieci punti, il centrosinistra è sotto di diciotto - che diventa un trampolino di lancio sulla scena nazionale? Meno paradossale di quel che può sembrare, secondo i ragionamenti che circolano a Palazzo Chapel, quartier generale della corsa elettorale. Battuto dall´effetto-Berlusconi, con il Pdl al 30 per cento. Impallinato dal fuoco amico, che con il voto disgiunto si è preso la rivincita sull´«uomo solo al comando» alla Regione. Ma soprattutto senza un «vero» partito democratico alle spalle. In nome di questa mission, allora, Soru potrebbe portare la sua battaglia dalla Sardegna a Roma. Per provare a invertire la sconfortante tendenza registrata nell´isola. Il Pd perde nelle città e sulle coste, le enclave che resistono sono soltanto le aree rosse nelle zone rurali. Il partito lascia 12 punti a Olbia e in Ogliastra. Otto a Sassari e tre a Nuoro, che pure risultano le migliori performances. In Sardegna il Pd non c´è, «e questa assenza - ammette sconsolato Passoni - ha consegnato il potere ai capi corrente, col naufragio dell´unità».
Repubblica 18.2.09
La responsabilità dei riformisti
di Ezio Mauro
Il Partito democratico è senza un Capo, nel momento in cui Berlusconi si riconferma leader incontrastato della destra, anzi padrone del Paese, che tiene ormai in mano come una "cosa" di sua proprietà, tra gli applausi degli italiani. Il risultato della Sardegna era atteso come un test nazionale e ha funzionato proprio in questo senso, rivelando la presa sul Paese di questa destra, che vince anche mentre attacca il Capo dello Stato, rinnega la Costituzione, offre un patto al ribasso alla Chiesa e non riesce ad affrontare la crisi economica. L´Italia sta con Berlusconi. E come conseguenza, il Pd va in frantumi.
L´uscita di scena di Walter Veltroni mentre tutti i capipartito ieri gli chiedevano di restare è un gesto inusuale in un Paese di finti abbandoni, di dimissioni annunciate, di mandati "messi a disposizione": talmente inusuale che può persino essere seme di una nuova politica, dove finiscono le tutele, gli scambi, le garanzie reciproche di una "classe eterna" che si autoperpetua. Ma quelle dimissioni erano ormai obbligatorie. Il Pd trascinava se stesso nel deserto della sinistra giocando di rimessa in un´agenda politica imposta da Berlusconi, prigioniero di un senso comune altrui che non riusciva a spezzare. Il segretario - il primo segretario di un nuovo partito, dunque in qualche modo il fondatore - ha detto in questi mesi cose anche ragionevoli e giuste. Ma non è mai riuscito a spezzare l´onda alta del pensiero dominante, anche quando le idee della destra arrancavano davanti alla realtà, diventavano inadeguate, non riuscivano a mordere la crisi economica.
Il problema vero è che non c´è stato un altro pensiero in campo oltre a quello della destra, un pensiero lungo, riformista, moderno, occidentale, di una sinistra risolta che con spirito nazionale e costituzionale sappia parlare all´intero Paese, cambiandolo.
Di questa insufficienza, la responsabilità è certo di Veltroni, ma la colpa è dell´intero gruppo dirigente che oggi si trova nudo ed esposto dalle dimissioni del segretario, e palesemente non sa che pesci pigliare. Dev´essere ben chiaro, infatti, che se Veltroni paga, com´è giusto, nessuno tra i molti sedicenti leader del Pd può considerarsi assolto, per due ragioni ben evidenti a tutti gli elettori.
La prima, è nel gioco continuo di delegittimazione e di interdizione nei confronti di Veltroni, come se il Pd fosse riuscito nel miracolo di importare al suo interno tutti i veleni intestini e i cannibalismi con cui la destra di Dini e Mastella da un lato e la sinistra di Bertinotti e Pecoraro dall´altro avevano prima logorato e poi ucciso il governo Prodi. Con Berlusconi non solo leader ma egemone di una destra ridotta a pensiero unico, i Democratici hanno parlato sempre con mille voci che volevano via via affermare vecchie autorità declinanti e nuove identità incerte, e finivano soltanto per confondersi, imprigionando il leader e impaurendolo. La sintesi paralizzante di tutto questo è la guerra tra Veltroni e D´Alema, che nel disinteresse totale degli elettori litigano da quattro partiti (pci, pds, ds e pd), mentre nel frattempo il mondo ha fatto un giro, è nato Google, ci sono stati cinque presidenti americani e l´Inter è tornata a vincere lo scudetto.
La seconda ragione è nell´incapacità del gruppo dirigente nel suo insieme di produrre una chiara cultura politica di riferimento per gli elettori, la struttura di idee di una moderna forza di progresso, la definizione di che cosa deve essere il riformismo italiano oggi. Il deficit culturale è direttamente un deficit politico. Perché come dimostra il caso Englaro le idee oggi predeterminano le scelte politiche, soprattutto in partiti che sono nati appena ieri, e dunque non hanno un portato storico, una cultura di riferimento elaborata negli anni, una struttura di pensiero a cui potersi appoggiare. Ridotto a prassi, il Pd non poteva che appiccicare le sue figurine casuali nell´album di Berlusconi, dove la prassi sostituisce la politica, l´energia prende il posto della cultura, la figura stessa del leader è il messaggio e persino il suo contesto.
Ecco perché il deficit culturale diventa oggi deficit di leadership. Il progetto del Pd è rimasto un grande orizzonte annunciato: il superamento del Novecento, la fine della stagione grigia e troppo lunga del post-comunismo, l´approdo costituente e definitivo della cultura popolare irriducibile al berlusconismo, anche dopo la crisi evidente del cattolicesimo democratico, la speranza di crescita di una sinistra di governo, che coniughi finalmente davanti al Paese la rappresentanza e la responsabilità, la difesa della Costituzione e dello Stato di diritto e il cambiamento di un Paese immobile, la rottura delle sue incrostazioni e delle troppe rendite di posizione.
Per fare questo serviva un partito forte ma disarmato, nuovo in quanto scalabile, aperto perché contendibile, e tuttavia presente sul territorio, nell´Italia dei comuni, in mezzo ai cittadini. Un partito forte della serenità delle sue scelte. Ci vuol tanto a spiegare che la sinistra è in ritardo nella percezione dell´insicurezza, e tuttavia è una mistificazione sostenere che questa è la prima emergenza del Paese, una mistificazione che mette in gioco la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri? È davvero così difficile sostenere che credenti e non credenti hanno a pari titolo la loro casa nel Pd, ma il partito ha tra le sue regole di fondo la separazione tra Stato e Chiesa, tra la legge del Creatore e la legge delle creature? Soprattutto, è un tabù pronunciare la parola sinistra nel Partito democratico, pur sapendo bene che socio fondatore è la Margherita, con la sua storia? Quando ciò che è al governo è "destra realizzata", anzi destra al cubo, con tre partiti tutti post-costituzionali e l´espulsione dell´anima cattolica dell´Udc, come può ciò che si oppone a tutto questo non definirsi sinistra, naturalmente del nuovo secolo, risolta, europea e riformista?
Molte volte il Pd non sa cosa dire perché non sa cos´è. È stato certo una speranza, per i milioni delle primarie, per quel 33,4 per cento che l´ha votato alle politiche, segnando nelle sconfitta con Berlusconi il risultato più alto nella storia del riformismo italiano. Oggi quella speranza è in buona parte delusa e prende la via di una secessione silenziosa, cittadini che si disconnettono dal discorso pubblico, attraversano una linea che li porta in qualche modo nella clandestinità politica, convinti di poter conservare individualmente una loro identità di sinistra fuori dal "campo", pensando così di punire un intero gruppo dirigente che giudicano colpevole di aver risuscitato qualche illusione, e poi di averla tradita. Ma come dimostra il risultato di Soru, il migliore tra i possibili candidati in Sardegna, senza l´acqua della politica non si galleggia.
Non è il momento della secessione individuale, della solitudine di sinistra. Berlusconi dopo il trionfo personale in Sardegna può permettersi di aggiornare la sua strategia, rinviando la scalata al Quirinale, che farà, ma più tardi. Oggi può provare a prendere ciò che gli manca dell´Italia. Napoli, la Campania. Poi portare la sfida direttamente nel cuore della sinistra del Novecento, a Bologna. Quindi pensare a Torino, magari a Firenze. Chiudere il cerchio. Per poi finalmente pensare ai giornali.
Il Pd in questi mesi si è certamente opposto al governo Berlusconi, e anche a suoi singoli provvedimenti. Ma a me ha dato l´impressione di non avere l´esatta percezione della posta in gioco, che non si contende, oggi, con il normale contrasto parlamentare e televisivo di una destra normale. Qui c´è in campo qualcosa di particolare, l´esperimento di un moderno populismo europeo che coltiva in pubblico la sua anomalia sottraendosi alle leggi, sfidando le istituzioni di controllo, proponendosi come sovraordinato rispetto agli altri poteri dello Stato in nome di un rapporto mistico e sacro con gli elettori. Un´anomalia vittoriosa, che ha saputo conquistarsi il consenso di quasi tutti i media, che ha indotto un riflesso di "sazietà democratica" anche a sinistra ("il conflitto di interessi esiste ma basta, non ne posso più") che ha reso la sinistra e il Pd incapace di pronunciare il suo nome mentre non sa pronunciare il nome del suo leader: e che quindi proprio oggi, per tutte queste ragioni, può chiedere apertamente di essere "costituzionalizzata", proponendo di fatto all´intero sistema politico, istituzionale e costituzionale italiano di farsi berlusconiano.
Se questa è la partita - e con ogni evidenza lo è - dovrebbero discendere comportamenti politici e scelte all´altezza della sfida. E persino del pericolo, per una sinistra di governo. Dunque il Pd, se vuole continuare ad esistere - cominciare davvero ad esistere: il partito non ha nemmeno ancora un tesseramento - deve capitalizzare le dimissioni di Veltroni, come la spia di un punto d´allarme a cui è giunto il partito, ma anche come un investimento di generosità. Deve restituire infine un nome alle cose, leggendo Berlusconi per ciò che è, un potere anomalo e vincente, che tuttavia può essere battuto, come ha fatto per due volte Prodi.
La situazione è eccezionale, non fosse altro per la crisi gravissima della sinistra davanti al trionfo della destra. Si adottino misure d´eccezione. Capisco che è più comodo prendere tempo, studiarsi, far decantare le cose, misurare i pericoli di scissione, cercare una soluzione di transizione. Ma io penso che serva subito una soluzione forte e vera, la scelta di un leader per oggi e per domani o attraverso un congresso anticipato o attraverso le primarie. È in gioco la stessa idea del Partito democratico. Ci si confronti su programmi alternativi, idee diverse di partito, schemi di alleanza chiari, qualcosa di riconoscibile, che si tocca con mano, in modo che il cittadino si veda restituita una capacità reale di scelta. Quei leader che oggi dovrebbero sentirsi tutti spodestati e dimissionari, per l´incapacità dimostrata di costruire una leadership collettiva, facciano un patto pubblico di responsabilità, pronti ad accettare l´autorità del segretario e l´interesse del partito - per una volta - , invece di minacciare scissioni striscianti, veti feudali. Solo così ritroveranno quel popolo disperso che conserva comunque una certa idea dell´Italia alternativa a quella berlusconiana: e chiede per l´ultima volta di essere rappresentato.
Corriere della Sera 18.2.09
Si acuisce la crisi interna E torna il fantasma della scissione del partito
di Massimo Franco
Le dimissioni di Walter Veltroni drammatizzano la crisi del Pd, senza risolverla. Ufficializzano la decapitazione di una leadership bocciata dall'elettorato, senza indicazioni sul futuro. Dopo l'addio del segretario, travolto dalla sconfitta in Sardegna, si parla di «collegialità»: termine che evoca una rivincita delle correnti, dopo una gestione accusata di eccessivo verticismo. Ma potrebbe essere una rivalsa di breve durata. Le elezioni europee di primavera colgono un centrosinistra in pieno marasma, condannato alla provvisorietà dall'uscita di scena di Veltroni e dalla scelta di un segretario di transizione; ed a rischio di sopravvivenza.
La rapidità con la quale gli avversari tendono ad archiviare i sedici mesi di segreteria è un segnale pessimo. Mostrano la tentazione di scaricare su una sola persona una crisi di identità collettiva. Veltroni sostiene di fare un passo indietro per salvare il progetto del Pd. Ma non è credibile: la sua strategia è stata già punita dagli elettori.
L'accelerazione ha provocato disorientamento nel gruppo dirigente, a conferma che non si prepara solo un cambio al vertice, ma una metamorfosi del partito.
Veltroni era il tentativo estremo di emanciparsi da un prodismo ormai logoro. E proponeva un partito in grado di fare a meno di Rifondazione e Pdci. La residualità dell'«antagonismo» è stata confermata nel voto del 2008; in parallelo, però, è finito il lungo braccio di ferro fra berlusconismo e avversari. Il successo del Pdl ha segnato una nuova fase, alla quale il centrosinistra oppone formule e alleanze che appaiono proiettate nel passato.
L'ambiguità del fallimento veltroniano è questa. Si chiude una fase di primato velleitario. Ma il Pd sembra rimbalzare verso un'identità comunque indefinita; con un profilo magari più chiaro in senso socialdemocratico: al prezzo, però, di un ridimensionamento secco e di una frattura interna. L'idea di una leadership transitoria affidata al vice di Veltroni, Dario Franceschini, conferma il limbo. Sembra figlia della volontà di scaricare sulla dirigenza attuale una sconfitta alle Europee.
Non solo. Costretto dall'emergenza, o forse con quel pretesto, il Pd rinuncia alle primarie per scegliere chi lo guiderà. La prospettiva di un'opposizione polverizzata è nelle cose. E potrebbe risultare indigesta alla stessa maggioranza di governo. È indubbio che si sta confermando un primato berlusconiano capace di frantumare qualunque avversario. Ma l'insidia è che, con un centrosinistra tutto da ristrutturare, cominci nel Pdl una caccia ai voti in libera uscita: con una competizione fra alleati in grado di riservare sorprese.
L'appello ad un nuovo centrosinistra rimanda ad alleanze già fallite
l’Unità 18.2.09
Risposte chiare
di Concita de Gregorio
Tremila commenti in un'ora alla notizia delle dimissioni di Veltroni, sul web. Una folla all'unisono. Provo a riassumere. C'è più emozione che ragione, in momenti come questi capita. C'è disorientamento, sgomento, sconcerto. Soddisfazione, paura. E adesso?, domandano. E ora? Quelli che fino a ieri urlavano andatevene tutti sono ancora lì, certo: dicono «tutti a casa, anche gli altri». C'è sempre una quota che demolisce e non propone, anche nelle assemblee di condominio e nei consigli di classe, esiste in natura. Poi ci sono quelli che pensano oltre l'istante presente. Domandano: c'è qualcuno che vorreste al suo posto? Chi?
Perché è del tutto evidente che qualcuno dovrà farsi avanti e anche subito: non quando converrà a ciascuno, non dopo che si sarà andati alle europee in ordine sparso per la massima soddisfazione del presidente del consiglio in carica, libero intanto di zittire i giudici e bloccare le indagini, di massacrare la giustizia e di demolire i cardini dello stato, di non rispondere di alcun reato (se l'avvocato Mills è stato corrotto con 600mila euro per testimoniare il falso nel processo contro Berlusconi qualcuno può dire chi sia il corruttore? Domanda facile), di sabotare il sindacato e di avvilire la scuola pubblica, di cambiare la Costituzione come gli convenga e di farsi eleggere presidente della Repubblica ridisegnata a sua immagine, un fantasma di repubblica. Prima di tutto questo, dicevamo. Perché certo conviene alla destra suonare oggi il requiem per l'opposizione. Più difficile capire perché voglia farlo qualcuno anche a sinistra.
Dunque: c'è qualcuno disposto a farsi avanti? I lettori scrivono Bersani, Cofferati, Soru, Di Pietro, Epifani. Un giovane. Ottimo. Quale giovane? Facciamo le primarie, suggeriscono allora: primarie subito. Però, obietta qualcun altro, bisogna rispettare le regole: almeno noi dobbiamo farlo. Allora convocare gli organismi dirigenti, eleggere un segretario di transizione, poi fare le primarie. Poi il congresso. C'è il tempo? Bisogna fare in fretta, lo diciamo da mesi. Molti dicono: il tempo è già scaduto.
E invece c'è il dovere di trovarlo, il tempo che serve, e di starci dentro. Perché poi il problema non sono le procedure e i candidati, il tema vero è: per fare cosa. Ci vuole un partito laico. Un partito che dica cosa vuole fare in tema di immigrazione, di sicurezza, di politica per il lavoro, di scuola, di salute. Che non si pieghi alla logica imperante della corruzione endemica nè soccomba al dettato del clero. È così difficile? Resto convinta che agli elettori più delle tessere delle alleanze e delle strategie importi sapere cosa pensa il Pd sul testamento biologico, tanto per fare l’ultimo esempio. Ecco. Bisognerebbe che potesse dire: se la signora Silvia vuole essere alimentata artificialmente per sessant'anni nel malaugurato caso che resti in stato vegetativo è libera di farlo, nessuno glielo impedirà, ma se Carlo non vuole, invece, nessuno deve imporglielo. Liberi di scegliere: è impossibile? Garantire la scelta di ciascuno. È così complicato? Il Partito democratico sarà riconosciuto come la casa comune se saprà dare risposte semplici e chiare, risposte così. Si può fare, volendo. Si può ancora fare.
il Riformista 18.2.09
Macaluso: «Ora è in discussione il Pd»
INTERVISTA. «Un partito che si è basato su un'analisi politica sbagliata. Questo è il risultato dell'unione di due formazioni giunte al capolinea».
di Alessandro Calvi
«Le dimissioni di Veltroni mettono in discussione lo stesso Partito democratico». Emanuele Macaluso, non dice mai: «Io l'avevo detto», ma rimanda al pamphlet Al capolinea. Controstoria del partito democratico. Sostiene che quella del Pd è una crisi strutturale e la sconfitta rimediata in Sardegna ha radici che affondano molto lontano dall'isola. La vittoria di Berlusconi, dunque, non è che «l'altra faccia della crisi del Pd» che oggi è un partito «che non riesce più ad andare avanti sulla linea che si era dato ma che non può più neppure tornare indietro».
Veltroni si è dimesso. Siamo alla fine del Pd?
Le dimissioni non sono un fatto burocratico. Quelle dimissioni mettono in discussione lo stesso modo di essere del Pd. Veltroni era l'interprete della possibilità di una mediazione alta tra le due anime del partito. Proprio questo è risultato impossibile. Ora il pericolo è che si apra una crisi che non riguarda più soltanto la sostituzione del segretario ma che metta in discussione lo stesso partito, congresso o non congresso. C'è già qualcuno con un piede dentro e un piede fuori.
Pensa a qualcuno in particolare?
Constato che c'è una operazione di matrice cattolica che tende a rafforzare l'Udc per farne un ragruppamento in grado di condizionare sia il Pdl sia il Pd.
Come si è arrivati a questo punto?
Ci sono stati certamente errori di gestione ma è in crisi il progetto stesso del Pd che si è basato su un'analisi politica sbagliata.
Insomma, sta scontando una sorta di peccato originale?
L'Ulivo era un'alleanza politica che lasciava in piedi le identità di Ds e Margherita, legandole con una idea di governo del paese. L'idea sbagliata è che un'alleanza di governo possa essere anche un partito. Si è invece ritenuto che fosse possibile dare vita a un nuovo partito con la fusione tra gli eredi del Pci e gli eredi della sinistra Dc. Fu Eugenio Scalfari a scrivere in un suo articolo di due partiti al capolinea, parlando dei Ds e della Margherita. Quei due partiti, però, invece di fare l'analisi del perché fossero arrivati al capolinea, pensarono di mettersi insieme saltando del tutto quell'analisi, rifiutandosi di capire cosa erano diventati, che rapporto avevano con la società. Già allora, infatti, non avevano più un'anima e si dedicavano soprattutto alla gestione del potere.
Ma in un partito contano anche i valori, le idee.
Già. In molti spiegavano che il Pd avrebbe dovuto essere una sintesi dei valori originari eppure non c'è stato un solo tema sul quale il Pd non si sia diviso, dalla collocazione internazionale alla laicità. Sulla laicità, poi, si è passati addirittura dalla sintesi alla libertà di coscienza. Ma come si può dare libertà di coscienza a un parlamentare che poi vota con quelli che negano la libertà di coscienza ai cittadini? Non si può certo pensare di superare ogni ostacolo in nome di un generico ecumenismo veltroniano. E, poi, non ha funzionato la forma partito. C'è stata una gran confusione e, nella confusione, comandano quelli che loro stessi hanno definito cacicchi, ovvero coloro che hanno un potere reale: i sindaci, i presidenti di Regione.
E allora quale è la via di uscita?
Certo non quella di decidere di sciogliere il partito né di cambiare il segretario pensando che cambiare una persona con un'altra possa risolvere tutti i problemi. C'è un problema di scelte, di linea, di identità da affrontare. Non basta dire che Veltroni non va bene e allora si prova con Bersani, occorre costruire una alternativa che dia risposte alle domande alle quali il Pd non ha mai risposto. Ora serve pazienza, si deve mettere da parte quell'ansia di mettere in scacco Berlusconi che alla fine ha messo in scacco lo stesso Pd. Servono scelte politiche chiare sulle quali si confrontino una maggioranza e una minoranza, non serve un congresso che sia una semplice resa dei conti tra i big del partito. Non so se nel partito si riuscirà a farlo. Però deve essere chiaro che nessuno può dire: io non c'ero.
Repubblica 18.2.09
No al crocifisso in aula, la Cassazione dà ragione al giudice
La Suprema Cassazione ribalta la sentenza che aveva condannato in appello Luigi Tosti
di Giuseppe Caporale
ANCONA - «Il fatto - per la Cassazione - non sussiste». Il giudice Luigi Tosti, nel rifiutare di celebrare udienze in un´aula dove era presente il crocifisso, non ha commesso alcun reato. Così, ieri, la Sesta sezione penale della Suprema Corte ha ribaltato la sentenza della Corte d´Appello dell´Aquila che - quasi due anni fa - aveva condannato Tosti a sette mesi di reclusione e un anno di interdizione dai pubblici uffici, con l´accusa di interruzione di pubblico servizio e omissione di atti d´ufficio. La battaglia del magistrato che, in nome della laicità dello Stato, vuole che il crocifisso sia rimosso da tutti gli uffici pubblici (a cominciare dalle aule giudiziarie) dura ormai da sei anni. Ovvero da quando il giudice, in servizio al tribunale di Camerino, sollevò per la prima volta il caso, con perentorie prese di posizione: dallo sciopero delle udienze alla restituzione del certificato elettorale, sino al conflitto di attribuzioni contro il ministro della Giustizia davanti alla Consulta. Una vicenda che gli è costata anche un procedimento disciplinare con tanto di sospensione da parte del Csm. Ora, anche se Tosti ha ottenuto un´importante vittoria, non tornerà subito nelle sue funzioni, dato che il procedimento del Consiglio Superiore della Magistratura è ancora in corso.
«La sentenza della Cassazione è un passo importante - ha spiegato Tosti - eliminato l´aspetto penale ora attendo serenamente le risultanze del procedimento disciplinare. Ma un dato è certo: se tornerò in aula a fare il giudice, è ovvio che continuerò la mia battaglia: "o me o i crocifissi in aula". La mia presa di posizione - ha continuato il magistrato - é per il rispetto del principio di laicità, che in Italia è violato soltanto dalla religione cattolica, mentre tutte le altre lo rispettano. Infatti l´unico simbolo che ricorre negli uffici pubblici è il crocifisso. Non abbiamo mai visto, ad esempio, simboli islamici o buddisti».
Invece per i giudici della Corte d´Appello dell´Aquila che lo avevano condannato «la presenza o meno del crocifisso in un´aula di giustizia è irrilevante ai fini dello svolgimento di un processo e non crea alcuna condizione di illegittimità». Tosti, invece, dopo la sentenza del tribunale abruzzese si è sempre considerato «vittima della discriminazione religiosa». Ora la Cassazione lo ha assolto.
Repubblica 18.2.09
Un libro postumo del filosofo Jean Baudrillard
Quando l’immagine cancella la realtà
di Jean Baudrillard
Trasmissioni come il Grande Fratello corrispondono al desiderio imperscrittibile di essere assolutamente "Nulla" e di essere guardati in quanto tali
La violenza dell´immagine (e, in generale, dell´informazione o del virtuale) consiste nel far sparire il Reale. Tutto deve esser visto, tutto deve essere visibile. L´immagine è il luogo per eccellenza di questa visibilità. Tutto il reale deve convertirsi in immagine, ma quasi sempre è a costo della sua scomparsa. È d´altronde proprio nel fatto che qualcosa in essa è scomparso che risiede la seduzione, il fascino dell´immagine, ma anche la sua ambiguità; in particolare quella dell´immagine-reportage, dell´immagine-messaggio, dell´immagine-testimonianza. Facendo apparire la realtà, anche la più violenta, all´immaginazione, essa ne dissolve la sostanza reale. È un po´ come nel mito di Euridice: quando Orfeo si volta per guardarla, Euridice sparisce e ricade negli inferi. Così il traffico di immagini sviluppa un´immensa indifferenza nei confronti del mondo reale. In ultima istanza, il mondo reale si converte in una funzione inutile, un insieme di forme ed eventi fantasma. Non siamo lontani dalle ombre sui muri della caverna di Platone.
Un buon esempio di questa visibilità forzata, e in cui (in linea di massima) si mostra tutto, è il Grande Fratello e tutti i programmi dello stesso genere, reality show ecc. È qui, nel momento in cui tutto è mostrato, che ci si rende conto che non c´è più nulla da vedere. È lo specchio della piattezza, del grado zero. È qui che ci si inventa una socialità di sintesi, una socialità virtuale in cui si comprova, contrariamente alle intenzioni, la scomparsa dell´altro e, forse, anche la natura non essenzialmente sociale dell´essere umano. A questo si aggiunge il fatto che il mito del Grande Fratello, quello della visibilità poliziesca totale, riguarda il pubblico stesso, mobilitato come voyeur e come giudice. È il pubblico che è diventato Grande Fratello.
Ci troviamo oltre il panottico, con la visibilità come fonte di potere e di controllo. Ormai non si tratta più di far sì che le cose risultino visibili ad un occhio esterno, ma di renderle trasparenti a se stesse, di cancellare cioè le tracce del controllo e di rendere invisibile anche l´operatore. La capacità di controllo si interiorizza e gli uomini non sono più vittime delle immagini: si trasformano inesorabilmente essi stessi in immagini (non esistono ormai più che in due dimensioni, o in una sola dimensione superficiale). Questo significa che sono leggibili in qualsiasi istante, sovraesposti alle luci dell´informazione, e sollecitati ovunque a mettersi in mostra, a esprimersi. È l´espressione di se stessi come forma ultima di confessione di cui parlava Foucault.
Farsi immagine è esporre tutta la propria vita quotidiana, tutte le sue disgrazie, tutti i suoi desideri, tutte le sue possibilità. È non mantenere nessun segreto. Parlare, parlare, comunicare instancabilmente. Questa è la violenza più profonda dell´immagine. È una violenza che va in profondità, all´essere particolare, al suo segreto. Al tempo stesso è una violenza contro il linguaggio che, a partire da questo momento, perde anch´esso la propria originalità; non è nient´altro che un operatore di visibilità, nient´altro che un medium, perde la sua dimensione ironica di gioco e distanza, la sua dimensione simbolica autonoma: quella in cui il linguaggio è più importante di ciò che dice.
Anche l´immagine è più importante di quello che dice: è ciò che si dimentica, ed è anche, oltre che della violenza dell´immagine, la fonte della violenza contro l´immagine. Tutto quello che si vede nell´operazione Grande Fratello è una realtà virtuale, un´immagine di sintesi della realtà, una trasposizione dell´every day life, già trattata a sua volta secondo i modelli dominanti.
Si tratta di voyuerismo pornografico? No, quello che la gente davvero brama non è sesso, ma spettacolo della banalità, che è il vero porno di oggi, la vera oscenità - quella della piattezza, dell´insignificanza e della nullità, una specie di parodia del suo estremo opposto: il Teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Ma può darsi che ci sia in questo una forma di crudeltà, almeno virtuale: dal momento in cui la televisione è sempre più incapace di offrire un´immagine degli eventi del mondo, finisce per disvelare la vita quotidiana, la banalità esistenziale come l´evento più mortifero, come l´attualità più violenta, come il luogo stesso del Crimine Perfetto. Che poi è quello che in effetti lei è. E la gente resta affascinata, terrorizzata e affascinata dall´indifferenza del Niente-da-vedere, del Niente-da-dire, dall´indifferenza dello Stesso, dalla propria stessa esistenza.
Non si tratta più di una metafisica del crimine e del sesso. È una patafisica del crimine perfetto: assunzione della banalità come destino, come il nuovo volto della fatalità. Contro-transfert illustrato dal fatto che tutti sono diventati Grande Fratello. Perfusione del Super-io nella massa. Non solo gli spettatori: tutti sono presi nella spirale della Grande Gidouille (il ventre di Ubu). La contemplazione del Crimine Perfetto, di questa perpetrazione della banalità, è diventata una autentica disciplina olimpica, o l´ultima metamorfosi degli sport estremi.
In fondo, tutto questo corrisponde al diritto (e al desiderio) imprescrittibile di non essere Nulla e di essere guardati in quanto tali. Ci sono due maniere di scomparire: o si esige di non essere visti (è la problematica attuale del diritto all´immagine), o si cade nell´esibizionismo delirante della propria nullità. Ci si fa nulla con il fine di essere visti e guardati come nulla - estrema protezione contro la necessità di esistere e l´obbligo di essere se stessi. Da qui l´esigenza contraddittoria e simultanea di non esser visti e di essere perpetuamente visibili. Tutti giocano su due tavoli allo stesso tempo e non c´è nessuna etica né legislazione che possa porre fine a questo dilemma, quello che comportano il diritto incondizionato di vedere ed il diritto, altrettanto categorico, di non esser visti. La massima informazione possibile fa parte dei diritti dell´uomo e, pertanto, lo è anche la visibilità forzata, la sovraesposizione alle luci dell´informazione.
La cosa peggiore in questo gioco televisivo "interattivo" è la partecipazione forzata, questa complicità automatica dello spettatore che va intesa come un autentico ricatto. Questo è l´obiettivo più chiaro dell´operazione: il servilismo, la sottomissione volontaria delle vittime che godono del male che gli si infligge, della vergogna che gli si impone. Tutta la società condivide questo meccanismo fondamentale: la abiezione interattiva, consensuale.
Corriere della Sera 18.2.09
Personaggi Tradotto per la prima volta in italiano un commento sulla rivoluzione americana: il volto inedito del poeta
Elogio libertario di Ezra Pound
Scambiò Mussolini per Jefferson. Ma il suo era un Canto contro i tiranni
di Giulio Giorello
«Boston era allora grande come Rapallo » (la cittadina ligure prediletta da poeti come Pound e Yeats), quando i coloni del Massachusetts passarono all'azione contro il governo di sua maestà. Eppure, «la rivoluzione ebbe luogo nella mente del popolo», tra il 1760 e il 1764, prima che a Lexington (19 aprile 1775) «parlassero i fucili». I
Cantos di Ezra Pound narrano, fra tante vicende storiche, anche l'epica del «virginiano» Thomas Jefferson e del «puritano» John Adams, due degli estensori della Dichiarazione d'indipendenza (4 luglio 1776). Non fu solo guerra di separazione di tredici colonie dalla madrepatria, bensì creazione di una realtà nuova, capace di legare, nel bene e nel male, le sorti dei discendenti dei primi «migranti » dalla vecchia Europa con quelle dei nativi americani e degli stessi africani gettati oltre Atlantico dalla tratta degli schiavi. Una «rivoluzione», appunto, che Jefferson e Adams volevano «permanente », contro ogni tentazione dispotica che venisse dall'interno o dall'esterno del Paese.
Riassumendo in poche pagine per la North American Review (inverno 1937-38) lo scambio epistolare tra i due, Pound chiedeva polemicamente: «Dovremmo perdere la nostra rivoluzione prostituendoci a esotismi moscoviti o europei?». Rispondeva risolutamente di no, non nascondendo la critica al modello comunista e la diffidenza per quello nazista (come mostra il suo uso dell'aggettivo «teutonico»). Il testo compare ora in lingua italiana, corredato da un'introduzione di Luca Gallesi:
Il carteggio Jefferson-Adams come tempio e monumento (Edizioni Ares). Ma «tempio» e «monumento » sono termini che potrebbero far pensare a qualcosa di immobile nel flusso della storia; mentre quella corrispondenza è «una dinamo ancora funzionante », che dovrebbe restituire il piacere per la libertà e l'odio per i tiranni. Per l'autore dei Cantos
l'eclisse dello spirito rivoluzionario nella sua patria era conseguenza della lacerazione della cultura «in frammenti inutilizzabili o incompetenti »: letterati che si disinteressano della propria storia, storici che ignorano l'economia, scienziati che si nascondono dietro il loro specialismo. Come nota Gallesi, il ripensamento del ruolo della moneta nel capitalismo avanzato era diventato il chiodo fisso di Pound. Prendendosela con Freud e i suoi seguaci, dichiara il poeta che «per ogni persona con uno stato d'ansia causato dal sesso, ve ne sono nove con uno stato d'ansia causato dalla mancanza del potere d'acquisto» del proprio denaro!
Forse, le nostre preoccupazioni non sono troppo diverse da quelle diffuse dopo la crisi del 1929. Ma io non penso tanto che dobbiamo cercare risposta ai guai di oggi nelle dottrine economiche care a Pound, quanto che possiamo sfruttare come un tesoro nascosto l'insofferenza per ogni dispotismo fatta rivivere dalla parola poundiana: mai sacrificare libertà e responsabilità dei singoli individui al sogno della centralizzazione burocratica o della sorveglianza totale, fosse pure in nome dell'efficienza, della sicurezza, o magari della sacralità della vita. Troppo incline, all'inizio, a cedere alle richieste dei «federalisti» (il nome negli Usa indica i fautori del centralismo) e «caparbio» nel contenere le esuberanze di Jefferson, John Adams, successore di Washington alla presidenza (1797-1801), finì col «giocarsi i successivi quattro anni» a vantaggio dell'amico-rivale. Jefferson, divenuto il terzo presidente Usa (1801-1809), doveva presentarsi come il garante della democrazia contro ogni velleità di imitare, magari sotto altre forme, il potere britannico, con il suo monarca, la sua Camera dei Lord, la sua Chiesa di Stato e il suo imperialismo. Ma lasciò prosperare quella Banca centrale che anni prima aveva condannato come un «meccanismo » usurpatore dei diritti dei vari Stati dell'Unione. «Tu e io non dobbiamo morire prima di aver spiegato noi stessi l'uno all'altro», scriveva Adams a Jefferson nel 1813. Per un caso della sorte, John e Thomas chiusero le loro esistenze lo stesso giorno, il 4 luglio 1826, nel cinquantesimo anniversario della Dichiarazione d'indipendenza. «Per più di mezzo secolo — commenta Pound — in America sono vissute, e per molti versi hanno regnato, due persone civili ». Civiltà è qui sinonimo non solo di buon governo, ma (come scrive nei Cantos) di «sincerità, onestà, dirittura»: vi acconsentirebbe anche il più tenace repubblicano!
I Cantos, definiti dal loro autore un esperimento di laboratorio, dovevano segnare il transito dal Purgatorio al Paradiso dell'umana avventura con l'elogio delle virtù di John Adams. Ma come doveva imparare a sue spese il poeta, «insegna la nuova luna che non dura la fortuna»: alla fine degli anni Trenta scoppiò «la guerra di merda » che non doveva risparmiare nemmeno l'artista. Innamorato dell'Italia e curiosamente convinto che Mussolini fosse una sorta di rispecchiamento europeo dell'americano Jefferson, Pound venne ufficialmente accusato dalle autorità del suo Paese di tradimento, nel luglio 1943, per i suoi discorsi pacifisti alla radio fascista. Sorpreso a Roma l'8 settembre, aveva poi raggiunto la Val Pusteria, in Tirolo (a piedi!), per ritornare al suo appartamento sul lungomare di Rapallo. Dalle vicine colline di S. Ambrogio, dove era infine «sfollato», assistette al crollo del regime di Salò. Ai primi di maggio del 1945 due partigiani lo conducono al comando alleato di Lavagna. Il 24 è trasferito al Disciplinary Trading Center presso Pisa, cioè nelle mani della polizia militare Usa. Il 18 novembre è a Washington: dichiarato infermo di mente, rimarrà rinchiuso dodici anni al Saint Elizabeths Hospital. Il processo al «traditore» non è stato mai celebrato.
Che razza di democrazia è quella che sequestra i suoi pretesi nemici senza sottoporli al giudizio di un'equa giuria? La libertà, aveva scritto Pound nel suo saggio su Jefferson e Adams, «è ancora il diritto di fare qualsiasi cosa non danneggi il prossimo». Si può essere nel più ampio disaccordo con le idee politiche di Pound; ma mi pare bene riconoscere quanto sia preziosa l'invocazione che ricorre nei Canti pisani, scritti al tempo della prigionia «in una gabbia per belve»: democrazia ascolta, «libertà di parola senza libertà di parola via radio vale zero »! Il 18 aprile 1958 la Corte suprema Usa faceva ritirare l'accusa di tradimento: Pound poteva così ritornare in Italia. Il lettore troverà nelle pagine ora tradotte l'idea che «se si vuole una classe politica responsabile» non bisogna «restare nella penombra», ma «fare come gli scienziati», risalendo da fatti isolati alla connessione dei fenomeni. Il poeta si spense a Venezia il 1˚novembre del 1972. All'irlandese Yeats, che aveva cantato «la terribile bellezza» dell'insurrezione di Dublino (Pasqua 1916), amava ripetere che «il bello è difficile ». Lo è anche restare un democratico. In entrambi i casi ne vale la pena.
l’Unità 18.2.09
I segreti della DDR
Un computer ricostruirà le vite degli altri distrutte dalla Stasi
di Laura Lucchini
Un impiegato colloca su una cintura meccanica diversi frammenti di carta, facendo attenzione a che gli angoli siano ben stesi. Ogni foglietto entra in una specie di grande scanner e inizia ad apparire sullo schermo. Una volta entrati tutti i pezzi, un software inizia ad assemblarli come tasselli di un puzzle. Poco dopo, compaiono sullo schermo le immagini di fogli A-4, alcuni scritti a macchina, altri a mano, e datati fino all'ottobre del 1989, non oltre. Sono i documenti che furono distrutti dal Ministerium für Staatsichereit, la Stasi, alla vigilia della caduta del muro di Berlino, il 9 novembre dell'89. Nel 2010, il loro contenuto sarà interamente fruibile grazie a un computer che è stato in grado di ricostruirli. Nel 2007 gli scienziati tedeschi dell'istituto Fraunhofer ricevettero il via libera del governo per mettere in moto la loro macchina di assemblaggio che avrebbe ricostruito 600 milioni di stralci di carta per un totale di circa 45 milioni di documenti. Due anni dopo, il direttore dell'iniziativa, Bertrand Nicolay ha fatto sapere che il progetto pilota ha funzionato, e che prima della fine del 2010 tutti i documenti saranno stati digitalizzati.
Quasi nello stesso momento in cui «cadeva» il muro di Berlino, gli agenti della Stasi ricevettero l'ordine dal loro capo Erich Mielke di distruggere tutti gli archivi e accumulare i resti di carta in sacchi da bruciare. Il tentativo si risolse in una commedia degli errori in cui inizialmente le macchine tritacarta si ruppero sotto la pressione dell'enorme mole di documenti e i funzionari dovettero continuare l'opera a mano. L'impresa aveva richiesto più tempo del previsto e nessuno era stato in grado di organizzare dei camion che trasportassero i 16.000 sacchi al luogo in cui dovevano essere bruciati. L'opera di distruzione fu finalmente interrotta da una manifestazione popolare e i sacchi non andarono mai completamente distrutti. Due anni dopo, 30 impiegati di Norimberga iniziarono a ricostruire manualmente i documenti, armati di lente d'ingrandimento e nastro adesivo. «Dieci anni fa abbiamo visto una trasmissione in televisione che mostrava come gli archivi della Stasi venivano lentamente ricostruiti a mano e con un gran dispendio di energia», spiega Nicolay, coordinatore dell'iniziativa al Fraunhofer, «a partire da quel momento ci siamo posti il problema di come risolvere questa situazione sviluppando uno strumento». Il software, chiamato E-Puzzler funziona grazie alla creazione di un file d'immagine basato sulla digitalizzazione dei vari frammenti. Come in un gigantesco rompicapo, lo scanner ricava informazioni riguardo al colore, il tessuto, l'inchiostro e il tipo di carattere usato nel documento. «Grazie alle informazioni su ogni singolo pezzetto, si riesce ad associare ad altri possibili tasselli, e come in un puzzle, poco a poco si ricostruiscono i fogli», spiega Beate Koch del Fraunhofer.
Lo Stato ha stanziato, non senza polemiche, circa 6 milioni di euro nella ricostruzione dei documenti della Stasi. La ragione di questo enorme sforzo, scientifico ed economico, è che il contenuto dei sacchi potrebbe fare luce su i nomi dei 174.000 collaboratori non ufficiali del Ministero di Sicurezza della Germania dell'est e i 6 milioni di persone che, si calcola, vennero spiate durante la Guerra Fredda. Nel 2010 l'intera mole di documenti potrà finalmente passare agli archivisti della BStU, la commissione federale per i documenti segreti, che deciderà come e quando renderli pubblici. La richiesta sarà alta. Già ora, questo istituto riceve più di 8.000 domande al mese per la consultazione dei file.
La BStU non è ancora in grado di rivelare dettagli specifici del contenuto dei documenti, però ha confermato che quelli che furono ricostruiti a mano contenevano materiale esplosivo riguardo a diversi aspetti dell'attività della Stasi: dalle violazioni dei diritti umani nel trattamento dei detenuti, alle relazioni con il gruppo terrorista armato della Germania dell'ovest, la RAF, e soprattutto la struttura della rete degli "spioni", nonché la loro identità. "Inoltre, il loro contenuto potrebbe essere utile a interpretare i documenti rimasti intatti", spiega Sylvia Dalitz, di BStU.
Il progetto di ricostruzione è stato ostacolato da molti funzionari pubblici sulla base di motivazioni economiche. Alcuni deputati del parlamento tedesco attuale furono membri del partito comunista della Germania dell'est. Ma non solo: la stampa tedesca ha avanzato l'ipotesi che numerose reputazioni di personaggi pubblici potrebbero essere rovinate attraverso la pubblicazione del contenuto dei documenti. Da questa impresa ciclopica esce sicuramente vincitore il software E-Puzzler che presto potrebbe essere messo a disposizione di altre situazioni analoghe: è stato richiesto dalle autorità di altri paesi dell'est come la Polonia, ma anche da Argentina e Cile, paesi che soffrirono una dittatura militare con feroce repressione del dissenso.
Left 29/08 18 luglio 08
Ignazio Marino: Le persone vogliono una legge sul testamento biologico
di Simona Maggiorelli
Un sondaggio Eurispes rivela che l'ottanta per cento degli italiani è a favore del testamento biologico. Ma i parlamentari sembrano un gruppo di sordi, che se ne stanno chiusi nel Palazzo di Simona Maggiorelli
Nella scorsa legislatura, come presidente della commissione Sanità del Senato, si è battuto con tutte le forze perché anche in Italia, come negli altri Paesi, ci fosse una legge sul testamento biologico. La triste sorpresa è stato vedere che la proposta di ampia mediazione del senatore e chirurgo diessino è stata "boiccottata", non solo da esponenti del centrodestra, ma anche da parlamentari di area Partito democratico. Ma il professore non si è arreso e dai banchi dell'opposizione rilancia un disegno di legge che sussume le precedenti proposte. Lo abbiamo incontrato per capire meglio di che si tratta.
Il caso Englaro rende ancora più chiaro quanto sia necessaria una legge?
È importante riconoscere l'esistenza di situazioni personali come quella di Eluana, ma il mio obiettivo come medico e legislatore è cercare di arrivare a una legge che rappresenti la sensibilità dei cittadini, al di là delle singole situazioni drammatiche.
Da medico come descrive la situazione di Eluana?
È la condizione di una persona che dopo un grave incidente d'auto si trova in stato vegetativo permanente. Ha avuto un periodo di coma di alcuni mesi, il che già significa che le possibilità concrete di recupero dell'integrità intellettiva sono praticamente inesistenti. Inoltre sono già 16 anni che è in stato vegetativo permanente. Non esiste nella letteratura scientifica internazionale nessuna persona che abbia recuperato l'integrità intellettiva dopo così tanto tempo. Sul piano della legge e della bioetica, in questi giorni è stato detto molto per disorientare il cittadino: la vera centralità della questione non è "staccare o meno la spina". Il punto è: come esseri umani abbiano il diritto, rispetto alle tecnologie esistenti, di indicare le terapie a cui vogliamo sottoporci e quelle che rifiutiamo? C'è un diritto riconosciuto in tutti i Paesi: io posso dire no a un trapianto di cuore. Posso dire preferisco avviarmi al percorso che mi porterà alla morte. Quello non è suicidio, non è eutanasia, è un percorso naturale. Allora se io quel percorso lo posso accettare oggi che sono in grado di ragionare e comunicare, perché non posso lasciare delle indicazioni per quando, supponiamo, non fossi più cosciente? Personalmente se mi trovassi in certe condizioni non vorrei che le terapie fossero proseguite. L'ho scritto nel testamento biologico che ho fatto negli Usa dove ho vissuto per 18 anni. Serve una legge per dare indicazioni sulle terapie che voglio e non voglio ricevere, in positivo e in negativo.
Per questo c'è l'articolo 32 della Costituzione.
Ecco, questa legge sul testamento biologico dovrebbe servire a estendere al momento in cui non mi potrò esprimere i diritti garantiti dall'articolo 32. È davvero molto semplice. Quando negli anni Quaranta i padri costituenti lo hanno stilato non potevano neanche immaginare che un giorno ci sarebbero state tecniche in grado di mantenere in vita persone in gravi condizioni, anche per anni. All'epoca erano appena arrivati gli antibiotici, come si poteva immaginare una cosa simile quando si moriva di polmonite? Oggi dobbiamo decidere se la tecnologia è un obbligo. Chi lo deve stabilire? Lo Stato, la religione, la cultura, il Parlamento, un medico, o il cittadino? Io credo quest'ultimo.
C'è stata una particolare violenza sul pensiero di Eluana, un accanimento contro ciò che diceva quando stava bene.
Ho incontrato il padre, Beppino, sono andato in ospedale, è evidente che ci sia bisogno di una legge. La situazione di Eluana è stata molto difficile. Se ci fosse stata una legge avrebbe potuto scrivere le sue scelte. In una situazione di vuoto legislativo, invece, i tribunali hanno agito seguendo le norme esistenti, secondo l'indirizzo che sembrava più logico ai magistrati. Penso che tutta questa fase debba essere superata con una legge. Del resto, già il presidente della Consulta, diversi magistrati, molti medici e gli stessi cittadini si sono espressi in questo senso. Un sondaggio Eurispes rivela che oltre l'ottanta per cento degli italiani è favorevole a una legge. Sembra quasi di vedere parlamentari sordi, chiusi nel Palazzo.
In questa legislatura sarà discussa la sua proposta?
Il mio disegno di legge ha già la firma di molte decine di senatrici e senatori del Pd. È il frutto di riflessioni sul disegno di legge che avevo presentato la scorsa legislatura e che ho ampliato ascoltando tutti, anche coloro che mi segnalavano l'importanza di riflettere sulla malattia nel suo insieme, non solo pensando agli aspetti formali della fine della vita. Così mi sono occupato di malattia terminale, di cure palliative, della necessità di distribuire meglio gli hospice sul territorio. Adesso ne abbiamo circa 103 al Nord su un totale di 130. Solo 17 sono nel Sud. Ma il Nord ha una popolazione di 25 milioni di abitanti e il Sud di 22 milioni. Infine c'è un capitolo dedicato alle terapie per il dolore. Nel nostro Paese c'è una grande difficoltà nel somministrare i farmaci anti dolore: 5 milioni di italiani soffrono di dolore cronico. La loro qualità di vita è molto ridotta a causa di cure inadeguate.
Più di cento medici hanno scritto al ministro Maurizio Sacconi perché si torni a discutere di terapie intensive e accanimento terapeutico sui prematuri, che ne pensa?
Credo che ci sia un confine molto sottile tra l'assistenza e l'interruzione delle terapie. Lo dico da medico che ha avuto a che fare con molti casi di trapianto d'organo. Penso che all'inizio della vita non si possa decidere per regolamenti. Si deve risolvere questo problema del confine sottilissimo: se il neonato non ha molte possibilità, c'è accanimento. Ci sono casi molto rari di sopravvivenza dei cosiddetti grandi prematuri. Ma quelle situazioni vanno approfondite tra famiglia e specialisti in grado di dare delle indicazioni prognostiche ai genitori. Non compete solo al rianimatore o al neonatologo, ma anche al genetista, al pediatra, al neurologo. Ci vuole un approccio collegiale che porti a definire se in quella circostanza sia il caso di proseguire le cure oppure se ci sia solo accanimento sul prematuro. Bisogna cercare di migliorare il suo stato.
Parlare di questioni eticamente sensibili invece che di diritti può essere un controsenso con temi simili?
Credo che sia sbagliato parlare di temi eticamente sensibili in questi casi. Per me legiferare sulle armi, la guerra, ma anche il fumo potrebbero essere temi eticamente sensibili. Invece le decisioni sulla nostra vita sono diritti civili. Dopo la rivoluzione francese in molti li chiamano così.
Una Ue dei diritti civili, non solo delle merci?
È auspicabile ma molto improbabile, ci sono Paesi come l'Inghilterra che, per cultura, vogliono essere liberi di seguire un proprio percorso. Negli ultimi anni hanno fondato degli organismi che stabiliscono le linee della ricerca da portare avanti, peraltro molto democratici perché prevedono la consultazione popolare, che permettere di procedere in una direzione piuttosto che in un'altra. Ma non mi sembra che gli inglesi stiano dimostrando interesse a un percorso condiviso con il resto dell'Ue.
In Italia non c'è più un ministero della Salute, ma ci sono due sottosegretari preposti a due leggi, la 40 e la 194.
Al Consiglio dei ministri, luogo supremo dove riportare gli interessi dei cittadini, partecipano soltanto i ministri, i sottosegretari non entrano e non votano. Questo significa che il premier Berlusconi sceglie le aree strategiche. In tutto 12, tra queste può metterci le riforme, la semplificazione, le pari opportunità, oppure la sanità. È evidente che si ha la percezione che ministeri come quello della Semplificazione o, mettiamo, dei Rapporti con il Parlamento siano più importanti delle divisioni dove si curano i tumori.
Liberazione 17.2.09
Mi ha già scomunicata PioXII
Caro direttore, mi associo alla lettera di Paolo Izzo nel chiedere la scomunica. Il mio è un gesto di solidarietà perché sono felicemente scomunicata da molti anni, dalla famosa scomunica di Pio XII inflitta ai comunisti e a chi leggeva, diffondeva, condivideva, idee comuniste. Non avevo l’età del voto né la facoltà di andarmene di casa ma ero comunista e atea, tormentata ogni domenica da mia nonna che voleva portarmi alla messa. Alle mie proteste contrapponeva gli esempi di “lavoratori e donne del popolo” credenti e osservanti. Io rispondevo che queste erano solo la conferma del fatto che “la religione è oppio dei popoli”. La scomunica mi liberò. Nonna non poté replicare quando le dissi che sarebbe caduta in peccato mortale portando in chiesa una scomunicata e andai allegramente a diffondere “l’Unità”. Oggi liberarsi dai dettami della chiesa è un po’ più difficoltoso, non si tratta più di una nonna bigotta ma della concreta minaccia delle leggi di uno Stato avviato verso un nuovo clericofascismo, ma è un passo avanti, piccolo ma forte, dichiarare la nostra indisponibilità a essere governati dal catechismo invece che dalla Costituzione. Complimenti per il giornale a te e alla Redazione, un particolare abbraccio al carissimo Apicella.
Bianca Bracci Torsi
Anche io chiedo la scomunica. Me la merito!
Che la chiesa mantenga la“promessa”
Cari amici, ho letto su “Liberazione” di ieri la bella lettera firmata da Paolo Izzo, il quale provocatoriamente (ma neanche tanto) invitava la chiesa a dare concretezza alla minaccia del quel cardinale che invocava la scomunica per tutti coloro che si sono attivati per la liberazione di Eluana. Ebbene, anche io, come Paolo Izzo (e tanti altri) chiedo la scomunica a gran voce, e aggiungo che sono fiera di meritarmela.
Barbara Sbrocca
Facciamo sentire la nostra voce laicaCarissimi, sono iscritta al gruppo di facebook “scomunicateci” per condividere con altri un pensiero: se è vero che la destra e la religione cattolica presidiano la paura umana con l’uso strumentale e violento dell’ignoranza, la paura di essere nati con dentro un nocciolo mostruoso e malvagio (…), quella della morte (…), quella di chi è diverso (…), quella di chi non aderisce ai dogmi e vuol pensare, e… aiutatemi anche voi a dire cos’altro; se è vero che molti dei conflitti e dei confini umani nascono e si alimentano nella paura, forse è di vitale importanza che questi temi vengano ampiamente e continuamente dibattuti, e forse è fondamentale affrontarli ora, insieme, con la nostra voce laica, per poi essere in grado di lottare per le leggi ed i diritti civili che ad essi si legano, saper leggere con chiarezza i prossimi tentativi di atterrirci e resistere.
Donatella Buti