Oggi finisce il razzismo
di Vittorio Zucconi
Finisce oggi, nel mezzogiorno di una Washington tanto gelida fuori quando calorosa dentro, la storia ufficiale del razzismo negli Stati Uniti. Finisce, con Barack Hussein Obama, la presunzione della automatica superiorità morale, religiosa e culturale europea sugli altri popoli del mondo in forza del colore della pelle.
Quando Barack Obama farà appello nel suo discorso di insediamento all’unità e all´unicità del popolo americano, battendo sul tasto della «responsabilità comune» e non del vittimismo o del revanscismo da militante «black», un capitolo della storia umana sarà stato definitivamente chiuso, ben oltre i calcoli politicanti della «bipartisanship» e dei voti. Ma la fine del razzismo pubblico e formale che nel 1654 stabilì in Virginia che gli africani erano «oggetti di proprietà del padrone», comporterà anche la fine del razzismo privato? Non rischia, Obama, oltre il successo personale già acquisito, di giocare e perdere per tutte le minoranze, gli immigrati, i migranti, i «non bianchi» del mondo, una partita troppo ambiziosa e difficile, in questo momento di catastrofi imminenti, convincendo i poveri di spirito che, ecco, vedete, «un negro» non è all´altezza?
Se dobbiamo dare ascolto ai sondaggi di queste ore, la risposta è «no», Obama ha già vinto la partita del razzismo. Sei americani su dieci - in proporzione inversa a un anno fa - rispondono alle inchieste demografiche dicendo che per loro ormai la «razza» non ha più importanza. Che giudicano una persona dal contenuto del carattere e non dal colore della pelle, secondo la visione di Martin Luther King celebrato ieri nella festa nazionale caduta con perfetto calendario.
Il numero di coloro che giudicano la questione razziale come un «big problem», come un nodo ancora non sciolto si è dimezzato dal 1996 e soltanto un cittadino su quattro dice di pensare ancora in termini di «bianco e nero». Persino Obama è ormai visto come un «africano» soltanto da una minuscola minoranza di duri a morire, tra bianchi come tra neri.
Barack Obama è stato insieme la causa e l´effetto di questa pace razziale che dai gradini del Campidoglio soffia oggi su una nazione che negli anni �90, secondo i rapporti dello Fbi, vedeva una resurrezione sotterranea del Ku Klux Klan.
In attesa che cada anche il tabù anti femminile, da tutti i collegi elettorali del Paese si segnala una corsa opportunistica dei partiti al candidato di colore, anche da parte dei repubblicani presi in contropiede dal cambio di stagione, per sfruttare il vento di Washington. Il «nero» muove e vince. Persino il senatore scelto per riempire temporaneamente il seggio dell´Illinois lasciato libero da Obama, una nullità politica, è stato, dopo gemiti e proteste, accettato dall´augusto corpo del Senato, perché è nero. Neppure il quel Senato dove pure 99 su 100 membri sono bianchi, osa oggi alzare le vele contro il vento di Obama.
I sondaggi notano che la paura dell´«uomo nero» e le resistenza all´eguaglianza sopravvivono fra gli ultra sessantenni mentre tra gli «under 30», maschi come femmine, è trascurabile. Una generazione passata da scuole e università integrate, da sport giocati insieme, da fidanzamenti, matrimoni e amori misti, di «modelli» afro americani di successo in ogni professione, hanno intaccato i pregiudizi, lasciando in piedi soltanto i giudizi legittimi di condanna, individuali e non collettivi. Per un sindaco di Detroit, nero, deposto per manifesta corruzione, c´è un governatore dell´Illinois, il bianco Blagojevich, incriminato per corruzione. Nessuna razza o regione ha il monopolio del malgoverno, dell´incompetenza, della corruzione.
Ma proprio questa apoteosi così carica di passione movimentista, di autocompiacimento, di emozioni buone, presenta il rischio delle attese eccessive e dei riflussi negativi. Sappiamo ora che Barack Obama è stato eletto nonostante sia nero, forse addirittura perché è nero, dunque nell´aspetto fisico incarnava la voglia bruciante di cambiamento e di novità, dopo la lunga agonia della presidente Bush. La razza, come scrive ora il Washington Post, da barriera si è trasformata in trampolino e gli sforzi degli ultimi repubblicani aggrappati alla caricatura dell´afroamericano pericoloso, inesperto, addirittura «socialistico», come diceva l´avversaria, signora Sarah Palin, sono falliti. Il rischio non è forse quello di riportare indietro l´orologio del razzismo se lui dovesse, come è perfettamente possibile, fallire?
Di nuovo, la risposta è no, perché questo personaggio insieme enormemente carismatico ed eccezionalmente abile ha capito ed esorcizzato subito il rischio. Obama infatti non si è mai presentato, e non vede se stesso, come il «primo presidente nero» d´America e non ha voluto vincere come tale. Si vede e si offre come un presidente che ha la pelle scura, come altri possono avere gli occhi azzurri, i capelli castani o le efelidi. Non sente e non vende la propria etnicità come elemento caratterizzante, a differenza dei leader tradizionali della comunità di colore, ma come una forza, un uomo ponte per colmare meglio il fossato umano e politico con l´altra sponda. Avendo evitato la tentazione della «racial politics», la politica della razza e avendo scommesso su una nazione pronta a superare i reciproci ghetti, se dovesse fallire come presidente, sarebbe fallito come leader, non come «uomo nero» o giallo o diverso. In attesa dei giudizi della cronaca, dopo quello già dato dalla storia con l´insediamento, questa è la novità banalmente rivoluzionaria che il vento di Obama porta oggi sul resto del mondo. Giudicatemi per quello che faccio, non per quello che sono.
Repubblica 20.1.09
Israele parli anche con chi vuole distruggerci
di David Grossman
Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un´unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi ci trasciniamo l´un l´altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi � il nostro doppio, la nostra tragedia � e il fuoco che brucia noi stessi. Per questo, in mezzo all´esaltazione nazionalista che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest´ultima operazione a Gaza, in fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina.
Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all´occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale.
Allo stesso modo il successo dell´operazione non ha risolto le cause che l´hanno scatenata. Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all´occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l´esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L´offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un´altra generazione di palestinesi crescerà nell´odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi.
Ma quando l´operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c´è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in volta, ci consuma.
È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata "strozzata" da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza.
Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività - con attentati suicidi e lanci di Qassam - Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare enormemente il livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo punto critico.
Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono?
Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre un´esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l´opinione pubblica israeliana all´arroganza e al compiacimento nell´uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai carri armati.
Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest´ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui. Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un´alternativa, che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci.
Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un´opzione disperata. A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne verremmo annientati.
Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall´esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati.
Traduzione di A. Shomroni
Repubblica 20.1.09
Vittime civili. Il prezzo assurdo delle guerre
di Antonio Cassese
I vecchi divieti del diritto internazionale umanitario sono inservibili e obsoleti: gli spietati scontri attuali sono tra belligeranti diseguali, dove non si esita a trucidare i propri figli
La novità degli ultimi anni è che le battaglie non sono più tra forze armate omogenee: da una parte ci sono eserciti moderni e dall´altra uomini che possono compiere solo atti di guerriglia
Dalla Bosnia all´Afghanistan, dall´Iraq a Gaza i conflitti di oggi si incrudeliscono sulle popolazioni. Il ruolo delle organizzazioni internazionali nella difesa dei diritti umani
Quel che sta succedendo a Gaza strazia il cuore a ogni persona, quale che sia il suo orientamento politico o ideologico. Le stragi di civili sono il tragico punto di approdo di una lunga evoluzione delle guerre moderne e ci devono spingere a trovare un modo di porre un freno al massacro di innocenti.
Fino alla Seconda Guerra Mondiale le guerre erano sostanzialmente scontri tra eserciti regolari. Tutti i belligeranti dovevano osservare il principio della distinzione tra militari e civili, con l´obbligo di rispettare i civili che non prendessero parte alle ostilità. Certo, il principio veniva spesso violato, ma era pur sempre nell´interesse di ciascun belligerante conformarsi a esso, concentrandosi sulla distruzione dei combattenti nemici: perché uccidere civili nemici, con il rischio che l´avversario facesse altrettanto mediante rappresaglie?
A partire dalle guerre anticoloniali e altre guerre di liberazione nazionale i conflitti armati sono diventati quasi tutti asimmetrici: da una parte vi è un esercito con cannoni, carri armati, aerei, elicotteri e missili, e dunque con forze armate che possono in un baleno devastare interi territori nemici e hanno il controllo completo dell´aria; dall´altra uomini privi di uniforme, muniti solo di armi leggere, di bazooka e lanciamissili portatili, che dunque possono solo compiere atti di guerriglia. I guerriglieri si nascondono tra la popolazione civile, usano i civili come scudi, celano le loro munizioni in abitazioni private e, posti di fronte a eserciti poderosi e con una superiorità soverchiante, tendono a colpire il nemico nel suo "ventre molle": i civili. Certo, così facendo essi mettono anche a gravissimo repentaglio i propri civili. E, attaccando i civili nemici, commettono una violazione flagrante dei principi tradizionali e fondamentali del diritto internazionale umanitario. Ma, dicono i guerriglieri, non si può lottare diversamente: una formica, se affronta un elefante, non può combattere ad armi pari. Anche gli Stati che hanno eserciti moderni e agguerritissimi si trovano di fronte a un drammatico dilemma: distruggere i guerriglieri nemici sapendo che così si farà anche strage di civili, o rimanere inerti davanti ai lanci di missili indiscriminati o agli attacchi improvvisi ai propri civili?
È evidente che i caratteri intrinseci delle guerre moderne hanno reso inservibili e obsoleti i vecchi divieti del diritto internazionale umanitario. E perciò aveva un po´ ragione l´autorevole magistrato che giorni fa, incontrandomi, mi ha chiesto con tono canzonatorio: «Ma allora, dove è andato a finire il diritto internazionale a Gaza?». Tutti gli importanti trattati internazionali stipulati dal 1868 al 2008 a Ginevra, all´Aja e a New York non riescono più a frenare la violenza, perché le guerre attuali sono completamente diverse da quelle di una volta: sono scontri spietati tra belligeranti profondamente diseguali, che hanno in comune solo il fanatismo e l´intolleranza e, nell´odio per il nemico, non esitano a far trucidare i propri bambini, i vecchi e le donne e ad ammazzare quelli dell´avversario. Insomma, le guerre moderne sono un ritorno alla barbarie più feroce.
Cosa fare, dunque? Si è visto che l´indignazione dell´opinione pubblica, la pressione dei politici, le esortazioni delle alte autorità morali e religiose servono a poco. Dobbiamo dunque auspicare che vengano elaborate nuove regole internazionali? Sarebbe ingenuo farlo. I diplomatici e i giuristi impiegherebbero anni a mettersi d´accordo, e comunque le potenze militari interessate si sottrarrebbero facilmente ai nuovi divieti. Né è realistico pensare di colpire penalmente i colpevoli di stragi di vittime inermi. I guerriglieri che attaccano i civili nemici vengono considerati eroi dalla propria popolazione. Gli Stati o i governi belligeranti tendono a non processare i propri uomini, sia perché i comportamenti di questi ultimi si conformano spesso a pratiche diffuse, volute o tollerate dalle autorità, sia perché eventuali processi potrebbero nuocere al morale di truppe già esposte a gravi pericoli ed estenuate dalla lotta anti-guerriglia. I tribunali penali internazionali quasi sempre non hanno competenza in materia. Nel caso di Gaza, l´Onu non ha la forza di imporre processi contro i colpevoli.
Se i leader politici del mondo fossero ragionevoli si dovrebbero rendere conto di una cosa chiarissima: gli attuali conflitti armati, civili o internazionali, hanno spinto la disumanità al punto limite. Bisognerebbe dunque fare quel che si è fatto con le armi nucleari: siccome il loro uso comporterebbe la possibile distruzione del pianeta, sono state messe da parte; a esse oramai si applica, rovesciato, il detto di Napoleone sulle baionette («Con le baionette si può fare di tutto tranne che sedervisi sopra»); ora delle armi nucleari non si può far nulla tranne che sedervisi sopra. Nello stesso modo, bisognerebbe mettere in cantina ogni soluzione militare dei conflitti economici, politici e ideologici moderni e mettere in opera sempre ed esclusivamente, anche per i conflitti più aspri e incancreniti, soluzioni politiche. Alla violenza delle armi bisognerebbe sostituire il negoziato: come diceva Camus, "le parole" devono spazzar via "le pallottole". Ciò richiederebbe saggezza politica, molto sagacia e desiderio di capire le ragioni dell´avversario. Ci vorrebbero tanti Mandela, che purtroppo non esistono.
Si devono allora battere altre strade, assai modeste, puntando sull´azione morale di organizzazioni non governative quali il Comitato internazionale della Croce Rossa e altri enti umanitari. Questi enti hanno già acquisito grandi meriti nello sforzo di "umanizzare" la guerra. Essi potrebbero elaborare autorevoli "direttive generali" che in qualche modo chiariscano quel che attualmente è vago o ambiguo nelle regole internazionali; in particolare, specificando il comportamento dei belligeranti su due punti importanti: quali precauzioni prendere quando si sferra un attacco che può causare molte vittime tra i civili; e come stabilire se i "danni collaterali" sono sproporzionati. Si dovrebbe soprattutto creare meccanismi istituzionali di "monitoring", sia per prevenire violazioni sia per accertare ex post se l´uccisione di civili inermi è stata manifestamente ingiustificata. In caso affermativo, occorrerebbe almeno risarcire il danno. Se un belligerante distrugge la casa di un privato e gli uccide i figli, compie un atto intollerabile per il quale dovrebbe essere condannato; se ciò non è possibile, almeno gli risarcisca il gravissimo danno morale e materiale: così potrà in qualche modo lenire la sua tragedia. Tutte queste attività dovrebbero essere svolte sotto il controllo del Comitato internazionale della Croce Rossa o dell´Onu.
Certo, si tratterebbe di opzioni che non risolverebbero il problema alla radice. Vista però la complessità dei problemi e considerato che siamo fatti così male (siamo fatti da un legno storto, diceva Kant), questi pannicelli caldi sarebbero meglio che niente.
Repubblica 20.1.09
Chi è il nemico nella guerra asimmetrica
La barbarie strategica
di Fabio Mini
Con i nuovi eserciti e le nuove armi i danni collaterali dovrebbero tendere a zero. E con i nuovi avversari non ci sono strutture militari e produttive da distruggere. Ci sono solo case, chiese, moschee e persone, donne e bambini
I danni collaterali sono per definizione quelli causati ai civili quando si tenta di colpire gli obiettivi militari. Sono danni previsti o imprevisti, frutto dell´imprecisione delle armi o di errore. Durante la guerra del Kosovo il portavoce della Nato utilizzò il termine in maniera estensiva e assolutoria anche quando l´attacco contro strutture civili era intenzionale. Veniva così derubricato un evento che poteva essere un crimine di guerra e le vittime diventavano responsabili di trovarsi nel posto e nel momento sbagliati. Il caso ha fatto scuola e oggi la gente si è abituata all´inevitabilità delle vittime civili durante ogni tipo di conflitto, compreso quello tra guardie e ladri.
Dal punto di vista militare è il segno della regressione della guerra tra avversari asimmetrici: regressione di umanità e di strategia. La prima diventa ancora più grave perché sostenuta dalla seconda che spesso viene spacciata per "evoluzione". La realtà è che le vittime civili, in barba a tutte le norme del diritto internazionale, dei codici militari e dei costumi di guerra, sono tornate ad essere il vero obiettivo delle guerre. Si è tornati alla distruzione "strutturale" adottata nella seconda guerra mondiale con i bombardamenti a tappeto e in Vietnam con il napalm. Questa guerra sembrava finita quando si è voluto distinguere fra forze combattenti e non combattenti, quando l´etica ha richiamato le norme di protezione dei civili e quando lo stesso interesse consigliava di limitare i danni perché, come disse Liddell Hart, «il nemico di oggi è il cliente di domani e l´alleato del futuro».
Questa guerra sembrava finita per sempre quando dalla distruzione nucleare si è passati al precision strike, l´attacco di precisione, che rappresenta la rivoluzione strategica e tecnologica più importante e costosa dell´ultimo mezzo secolo. Di tutto questo si è persa traccia e memoria e gli imbonitori che indulgono nella giustificazione militare dei danni collaterali sono analfabeti di ritorno. Con i nuovi eserciti e le nuove armi i danni collaterali dovrebbero tendere a zero e con i nuovi avversari, arcaici e disperati, non ci sono strutture militari e produttive da distruggere per piegare la volontà di resistenza. Ci sono solo case, chiese, moschee e persone, donne, bambini. Tutte cose facili da colpire e allora la vera sfida strategica non sta nel come distruggere, ma nel come non coinvolgere gli innocenti.
In Cecenia, Afghanistan, Libano e, oggi, a Gaza la strategia deliberata di colpire i civili per far mancare il sostegno della popolazione agli insorti, ribelli e cosiddetti terroristi è un´altra regressione. Riporta alla guerra controrivoluzionaria, che invece ha fatto sempre vincere i ribelli, e alle nefandezze delle occupazioni coloniali. Anche le giustificazioni e il mascheramento di queste regressioni con strumenti di propaganda sono dejà vu. Sono cambiati i nomi e alcuni strumenti, ma gli effetti sono sempre gli stessi. La guerra psicologica che tenta di dimostrare che i civili non sono i nostri obiettivi ma le vittime dell´avversario che li usa come scudo non è cambiata da millenni, per questo il nemico è sempre stato "scellerato". Si usano gli stessi messaggi anche se al posto di proclami e infiltrati si utilizzano volantini, radio, televisioni, ambasciatori e lobby politiche. Ieri, la popolazione priva di sistema d´allarme, sapeva dell´imminente attacco dal rumore dei bombardieri. Pochi minuti per scappare. Oggi si telefona alle vittime, ma questo, come allora, non aiuta chi è intrappolato come un sorcio e non può andare altrove. Appare solo cinico.
L´ultima novità della guerra psicologica è che non si rivolge più all´avversario, ma alle proprie truppe e, soprattutto, all´opinione pubblica interna e internazionale. Quest´arma di manipolazione delle masse e di distruzione delle intelligenze è diretta verso le proprie forze e i propri alleati e ogni soldato sa che nulla è più pericoloso del cominciare a credere alla propria propaganda. Gli eserciti più potenti del mondo non sanno riconoscere e affrontare le nuove forme di guerra asimmetrica. Non sanno penetrare, discriminare, selezionare e operare chirurgicamente. Non sanno gestire il proprio eccesso di potenza e hanno perso la coscienza dell´inutilità e della illegalità delle distruzioni civili. Non si rendono conto che questo serve solo a imbarbarire la guerra: un lusso che i terroristi possono permettersi. Noi no.
Repubblica 20.1.09
Da sempre muoiono più civili che soldati
Tutti i morti del Novecento
di Giorgio Rochat
Malattie e carestie. Spesso sono le cosiddette cause "indirette" a provocare il maggior numero di morti: scarsità di rifornimenti alimentari, carestie, malattie, epidemie. A partire dalla Prima guerra mondiale le perdite si contano a decine di milioni
Nel corso dei secoli, la maggior parte delle guerre hanno provocato più morti tra i civili che tra i militari, senza grandi differenze tra civiltà e regimi. Violenze dei soldati sui civili, città prese d´assalto con il massacro degli abitanti (quando non era possibile venderli come schiavi). Soprattutto vittime indirette, le devastazioni sistematiche dei terreni coltivati portavano fame, malattie e morte. Nella storia europea un triste primato va alle guerre di religione, dalle crociate medievali contro gli eretici alle guerre di sterminio tra cattolici e protestanti del Cinque-Seicento. E poi le ricorrenti grandi rivolte contadine, che iniziavano con il massacro dei padroni e finivano con una repressione sanguinosa. Altri tempi, vale la pena di ricordare che fino a metà Ottocento i soldati caduti in battaglia erano meno di quelli morti per malattia, fame o stenti, ancora nella guerra civile statunitense 1861-1865.
La prima guerra mondiale 1914-1918 è il primo grande conflitto in cui la popolazione civile non viene coinvolta direttamente, per lo meno nell´Europa centro-occidentale. Lo straordinario numero di morti, 10 milioni (cifra approssimativa, come tutte le seguenti), è composto praticamente tutto da militari: 1.800.000 tedeschi, 1.350.000 francesi, 1.300.000 austro-ungheresi, 750 mila inglesi. Cifre incomplete per l´esercito russo, tra 1.700.000 e 2.500.000 caduti, e per gli stati balcanici, dove è difficile dividere le perdite militari e civili. Nel totale di 10 milioni non sono compresi il massacro degli armeni condotto dai turchi e i milioni di morti della successiva guerra civile di Russia. Per restare al caso italiano, contiamo 650 mila militari caduti su circa 4.200.000 che andarono al fronte, di cui 400 mila morti per ferite, 100 mila per malattie contratte in trincea, 100 mila in prigionia (in gran parte perché il governo rifiutò l´invio di viveri ai 600 mila prigionieri), 50 mila dopo il 1918 per ferite e malattie di guerra.
Fin qui i militari. E i civili? Le perdite dirette sono ridotte, gli abitanti della zona del fronte vennero trasferiti d´autorità all´interno del paese; rimane qualche centinaio di morti per i bombardamenti dell´aviazione austriaca sulle città italiane. Le perdite indirette sono però grandi e dimenticate. La guerra colpiva i civili con la crisi dei rifornimenti alimentari, i trasferimenti forzati citati e i 600 mila profughi dal Veneto invaso dopo Caporetto, il peggioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche, infine la priorità che le strutture sanitarie davano alla cura dei soldati. Di conseguenza si ebbe un forte aumento di malattie che parevano sotto controllo, come la malaria (6 milioni di casi) e la tubercolosi (2 milioni di casi), la pellagra, il morbillo, la difterite. Le statistiche sanitarie valutano in 546 mila i casi di morti civili in più del normale negli anni di guerra. Inoltre nell´inverno 1918-1919 la "spagnola", un´epidemia di cui ancora oggi sappiamo poco, fece milioni di morti in Europa, 600 mila in Italia. Gli studi lasciano un margine di dubbio, ma le perdite provocate dalla guerra tra i civili sono superiori a quelle dei soldati.
Per la seconda guerra mondiale le cifre impazziscono, 50 milioni di morti di cui poco meno di 20 milioni di militari, si può capire che siano sempre cifre approssimative. Soltanto gli Stati Uniti non furono raggiunti dalla guerra, i loro 300 mila caduti sono tutti soldati. Invece i 26 milioni di morti dell´Unione sovietica sono da ripartire grosso modo in tre parti, i soldati caduti in combattimento o in prigionia, le perdite civili causate direttamente dalla guerra (500 mila morti nell´assedio di Leningrado) e quelle indirette della popolazione negli anni in cui tutto era sacrificato allo sforzo bellico. Guerre e politiche di sterminio che si sovrappongono, quasi 6 milioni di ebrei vittime della follia nazista (anche un terzo di milione di zingari), i lager di morte per gli antifascisti, i massacri tedeschi in Russia e nei Balcani (da 50 a 100 civili uccisi per un morto tedesco). E poi le vittime dei bombardamenti aerei, 60 mila inglesi e mezzo milione di tedeschi. Cifre terribili e pur superate dai 14 milioni di morti dell´invasione giapponese della Cina.
Per l´Italia, l´inchiesta promossa dal ministro Scelba a partire dalle anagrafi comunali attesta fino all´8 settembre 1943 200 mila soldati caduti nelle guerre fasciste e 25 mila civili, quasi tutti vittime dei bombardamenti anglo-americani. È più difficile suddividere i 220 mila morti dal settembre 1943 al 1945, forse 85 mila militari morti in combattimento o in prigionia, 40 mila partigiani, 7300 ebrei e 24 mila antifascisti nei lager tedeschi di morte, 40 mila vittime dei bombardamenti aerei e 10 mila delle rappresaglie nazifasciste, 15 mila fascisti morti in combattimento o fucilati al 25 aprile 1945. Conti approssimativi, che non tengono conto delle vittime indirette della guerra, sicuramente molte centinaia di migliaia.
il Riformista 20.1.09
Stella, il Grande Bidello
di Fabrizio d'Esposito
Vivesse ancora Edmondo De Amicis, sarebbe costretto a cambiare titolo al suo bestseller. Da Cuore a Occhio. Tutto merito di una Stella di nome Gelmini che fa il ministro dell'Istruzione e che adesso per fronteggiare l'eterno fenomeno del bullismo scolastico vuole mettere le telecamere in classe. Come se le scuole fossero un carcere o una curva di ultras irriducibili. Teppisti, non studenti. Il Grande Maestro, anche se la massoneria non c'entra nulla. Fantozzi direbbe: una boiata pazzesca. Perché ci sono ragioni serie e meno serie per dire che stavolta la ministra Gelmini sbaglia di grosso.
Eppoi un governo che vuole limitare le intercettazioni telefoniche ma al tempo stesso trasformare le aule in un deprimente reality school è un governo schizofrenico.
Contro il Grande Orecchio ma a favore del Grande Occhio. Forse anche per questo motivo la luna di miele tra il centrodestra e il paese sta finendo, con il calo evidente dei consensi nei sondaggi degli ultimi giorni. A dire il vero, proprio la ministra Gelmini è stata indicata, insieme con il collega Brunetta, come un traino demoscopico dell'esecutivo. Ma fino a quando, di questo passo?
Le telecamere a scuola sono innanzitutto una violazione dell'intimità tra professore e alunni. Un vincolo sacrale che sotto lo sguardo vigile di una centrale tv si muterebbe in esibizionismo, se non in un allenamento precoce per il casting del Grande Fratello. Non solo. C'è un'altra verità con cui fare i conti: i bulli sono una minoranza. Lo ricordò in modo saggio il predecessore di Gelmini, Beppe Fioroni del centrosinistra. I bulli a scuola ci sono sempre stati. A renderli più spacconi e violenti sono stati i videofonini e Internet ed è lecito allora chiedersi se le telecamere non possano paradossalmente trasformarsi in un clamoroso boomerang. Non mancherebbero, poi, momenti di grande imbarazzo: come farebbe un professore a spiegare la nefasta profezia di un classico come "1984" di Orwell mentre viene ripreso dalle telecamere? Certo, si potrebbero alleggerire le lezioni con l'introduzione di un'annunciatrice che scandisce le materie di ora in ora: magari in questo modo si riciclerebbero gli insegnanti tagliati dall'ultima riforma sulla scuola.
Ma la dittatura televisiva cui Gelmini vorrebbe sottoporre la scuola è indice anche della scarsa concezione liberale che alligna in molti ambienti della maggioranza. Uno Stato che controlla e che punisce con l'aiuto del Grande Fratello assomiglia in modo inquietante a uno Stato etico. A quando le telecamere nelle mense scolastiche per sorvegliare i bimbi obesi oppure nelle palestre per verificare il numero di flessioni eseguite?
La scuola sottoposta all'esame del video è una scuola triste, che nega se stessa. I bulli vanno controllati da insegnanti autorevoli e motivati, non da un occhio tecnologico. La sensazione è che questo governo insegua gli annunci per fare scalpore. Anche perché la scuola italiana non è ancora quella giungla americana della lavagna raccontata da Evan Hunter alias Ed McBain nel "Seme della violenza". E gli insegnanti saranno pure frustrati e mal pagati ma non sono ancora un misto di «spazzini e poliziotti».
Le telecamere a scuola vogliono dire che la lezione di Truman Show non ha insegnato nulla. Il Grande Fratello modifica la vita delle persone, in peggio. E le classi non sono banche, carceri o stadi. Nella sua ansia di fare e di cambiare il ministro Gelmini sta dipingendo un quadro fin troppo fosco della scuola italiana, con il rischio di aizzare ancora di più i suoi tanti contestatori dell'Onda. Sulle telecamere sarebbe meglio, molto meglio fare marcia indietro. Mettendo insieme i tasselli del mosaico gelminiano viene fuori una sorta di mostro che va dal grembiule al Grande Occhio. Ma col tempo il pugno duro logora chi lo mostra.
Mariastella Gelmini ha un'aria perennemente severa, aggravata dalla rigida montatura dei suoi occhiali colorati (si dice che ne abbia un centinaio), e su questo sta costruendo la sua immagine di maestrina cattiva che Tinto Brass ha definito molto «stuzzicante» da quel punto di vista lì. E questo ha moltiplicato l'inventiva e i pruriti delle sue due strepitose imitatrici in tv, Caterina Guzzanti e Paola Cortellesi. In un modo o nell'altro è la ministra più mediatica del governo Berlusconi. E questa, forse, potrebbe essere la vera ragione dell'ultima trovata nella crociata anti-bulli. Mariastella, ormai, ha l'ossessione delle telecamere. Sorrida, però, ogni tanto. E sul Grande Bidello ci ripensi.
Repubblica Firenze 20.1.09
Martini non ha risposto pubblicamente all'invito di Cioni
Eluana in Toscana scettico Defanti
di Michele Bocci
«Al momento non nutro alcuna speranza sulla possibilità di portare Eluana in Toscana». Il neurologo Carlo Alberto Defanti, che segue la donna in stato vegetativo da 17 anni, è scettico sulla possibilità che la richiesta dell´assessore alla salute di Firenze Graziano Cioni al presidente della Regione Claudio Martini possa portare ad una apertura nei confronti della famiglia Englaro. Del resto Martini non ha risposto pubblicamente al suo invito. Restano valide le parole che disse quando Riccardo Nencini, presidente del consiglio regionale, fece un´uscita simile a quella di Cioni. «Si tratta di una vicenda privata - disse circa un mese fa - Rispetto alla quale la politica deve fare un passo indietro». Beppino Englaro sta aspettando il risultato di un ricorso al Tar della Lombardia e non avrebbe individuato un altro posto dove portare a morire la figlia. «Ci vuole molta discrezione, visto quello che è successo in Friuli», commenta Defanti. Prende posizione la sezione di Pisa della Consulta di bioetica. «Auspichiamo che almeno dalla Regione Toscana parta una iniziativa che consenta di uscire dalla condizione di mortificazione in cui è stata costretta la legalità. La tradizione che vede questa regione sensibilissima al tema dei diritti di libertà e autodeterminazione non può più far finta di non vedere». Opposta Scienza e vita di Firenze, che attacca Cioni. «Gli ospedali sono fatti per assicurare le cure ai malati, non per farli morire».
Il Tempo 18.1.09
Rifondazione ormai afflitta da «disturbi comportamentali»
Bertinotti che rompe con il suo psicanalista, Rina Gagliardi che è sconvolta
di Silvia Santarelli
Torna in mente quel libro Tutte le famiglie sono disturbate di Douglas Coupland (l'autore di Generazione X) che parlava di disturbi comportamentali che si sviluppano all'interno della famiglia. Sta succedendo lo stesso dentro Rifondazione comunista? Una famiglia che si disintegra a causa dell'accumulo di incomprensioni e rancori? In effetti, solo qualche elemento di psicanalisi può spiegare perché i figli (l'attuale classe dirigente del Prc) dell'amatissimo padre (l'ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti) sono arrivati ad odiarsi tanto, e perché la scissione che si sta consumando in questi giorni della minoranza guidata da Nichi Vendola, scattata in seguito all'allontanamento del direttore Sansonetti dalla guida di Liberazione, abbia assunto toni tanto personali e drammatici. È un «fratelli coltelli» senza la minima ironia. Sansonetti che dà dell'omofobo al suo segretario, che conosce e frequenta da anni. Questi, Ferrero, che parla solo con le cifre: «Meno 40% delle vendite, un giornale che perde tanto non può che cambiare gestione», neanche fosse uno di quegli industriali del Nord con cui da sindacalista si è scontrato per anni. Maurizio Zipponi che attacca il neodirettore di Liberazione Dino Greco, sindacalista come lui, bresciano come lui: «È uno che non ha mai vinto una battaglia sindacale, mai. Saranno contenti quelli di Brescia che se ne sono liberati». Gennaro Migliore che è il più triste: perde un partito, un futuro - per anni è stato l'erede al trono designato da Bertinotti - e il suo ex migliore amico, Luca Bonaccorsi, il quale ha mollato lui e il vecchio Fausto, portandosi appresso lo psicanalista Fagioli, tutto per lo schiribizzo di diventare il prossimo editore di Liberazione.
E, comunque, non è ancora finita. Da qui al 24 gennaio, giorno in cui è convocata a Chianciano l'assemblea dagli scissionisti, liti e rese dei conti vanno avanti. Anche perché molti di quelli che hanno votato la mozione Vendola all'ultimo congresso, non vogliono saperne di lasciare il Prc. Tra i dirigenti, Augusto Rocchi, ex parlamentare, bertinottiano della prima ora; Milziade Caprile, ex vicepresidente del Senato; Rosa Rinaldi, ex sottosegretario al ministero del lavoro e ora membro della direzione; e Tommaso Sodano, ex presidente della commissione ambiente del Senato. Non lasciano il Prc perché non vogliono dar vita a un'ennesima formazione che è solo «un escamotage politicista e centralista, che assomiglia troppo alla fallita Sinistra Arcobaleno». In tutto sarebbero un terzo dei vendoliani quelli che vogliano restare. Pezzi di Sicilia, Sardegna, di Veneto. A Roma, la mitica sezione di San Lorenzo, dove pure Vendola aveva ottenuto più del 50%, ha deciso a maggioranza di rimanere nel partito. A volerlo più di tutti è il segretario, Giuseppe D'Agata, che bertinotttiano lo è non solo di fede, ma anche per lavoro, essendo uno dei collaboratori dell'ex presidente della Camera.
A proposito, il Maestro, il punto di riferimento di tutti, il vecchio leader, il papà amato e ripudiato, insomma, Bertinotti, che fa? A parte dire che «la sinistra ha bisogno di un big bang», e che il partito gli sembra «irriconoscibile», non molto. Di certo, si sa che non aderirà formalmente né al nuovo soggetto, né alla vecchia Rifondazione.
La confusione è massima, ma le Europee sono vicine. Se la legge elettorale non cambia, e rimane il proporzionale puro, il Prc di Ferrero dovrebbe allearsi con il Pdci e Sinistra Critica, ovvero Turigliatto e c. Mentre gli scissionisti dovrebbero andare con Sinistra Democratica e i Verdi, aspettando che anche il Pd si disintegri e che tutto si rimetta in moto. Se, invece, arriva lo sbarramento al 4%, non è da escludere che la scissione si ricomponga. Per un paio di deputati a Strasburgo, si rimangeranno accuse e insulti? Si vedrà. Per ora, le scommesse sono aperte solo sul futuro di Sansonetti. I ferrariani di Liberazione, che non l'hanno mai amato, invitano a scegliere tra: una rubrica dal perfido Paolo Mieli; una su Panorama offerta da Berlusconi in nome del servizio reso (di spappolare ulteriormente la sinistra) e della comune fede milanista; o sul Riformista, dal compagno di tante comparsate tv Antonio Polito.
Vendola: «l diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti»
Repubblica 19.5.85
Il gay della Fgci
intervista a Nichi Vendola di Stefano Malatesta
ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".
da Wikipedia:
Mario Mieli (da cui prende nome il Circolo di cultura omosessuale di Roma)
Mario Mieli (1952-1983) è considerato uno dei fondatori del movimento omosessuale/ transgender in Italia.
“Fu uno dei primi a contestare le categorie di genere vestendosi sempre al femminile; coprofago senza vergogna, utilizzò anche immagini e ruoli per portare avanti la propria battaglia dei diritti individuali inalienabili.”
A lui è dedicato il Circolo di cultura omosessuale di Roma, fondato nell’anno del suo suicidio.
“L'assunto di fondo del pensiero di Mario Mieli consiste nel ritenere che ogni persona è potenzialmente bisessuale se non fosse condizionata, fin dall'infanzia, da un certo tipo di società che (attraverso quella che Mieli chiamava "educastrazione"), costringe a considerare l'eterosessualità come "normalità" e tutto il resto come perversione. ...
Mieli abbracciò immediatamente il marxismo, cercando di rimodularlo sulle istanze della lotta di liberazione ed emancipazione omosessuale.
Tim Dean, psicoanalista dell’Università di Buffalo, il quale ha redatto l'appendice dell'edizione Feltrinelli del libro di Mieli, Elementi di critica omosessuale, afferma: «Nel processo politico di ristrutturazione della società (...) Mieli non esita a includere nel suo elenco di esperienze redentive la pedofilia, la necrofilia e la coprofagia» e «ridefinisce drasticamente il comunismo descrivendolo come riscoperta dei corpi (...) In questa comunicazione alla Bataille di forme materiali, la corporeità umana entra liberamente in relazioni egualitarie multiple con tutti gli esseri della terra, inclusi "i bambini e i nuovi arrivati di ogni tipo, corpi defunti, animali, piante, cose" annullando "democraticamente" ogni differenza non solo tra gli esseri umani ma anche tra le specie».
A questa rivoluzione sociale sono di ostacolo determinati elementi, ritenuti da Mieli come «pregiudizi di certa canaglia reazionaria» che, trasmessi con l’educazione, hanno la colpa di «trasformare troppo precocemente il bambino in adulto eterosessuale».
I bambini, secondo quello che sembra il pensiero di Mieli, possono però "liberarsi" e trovare la realizzazione della loro "perversità poliforme" grazie agli adulti consapevoli di quanto sopra asserito: «Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l'Edipo, o il futuro Edipo, bensì l’essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica».
Mario Mieli si rifaceva alle teorie di Freud sulla sessualità infantile. Il padre della psicoanalisi sosteneva che l'orientamento sessuale poteva prendere qualsiasi "direzione".
Conseguentemente eterosessualità ed omosessualità sarebbero varianti possibili (l'OMS, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, considera l'omosessualità come "una variante naturale della sessualità umana").
Anche e soprattutto in questo senso Mario Mieli invoca l'amore per i bambini."
il grassetto è di Fabio Della Pergola