domenica 16 novembre 2008

Repubblica Roma 16.11.08
Da ieri assemblea nazionale del movimento. E arrivano anche tanti giovani dagli atenei d'Europa
Sapienza, l'Onda non si ferma
Gli studenti annunciano: "Martedì una festa come Woodstock"
di Tea Maisto e Laura Mari


Irrappresentabile, autonomo, non-violento. Ed ora anche globale. Il movimento dell´Onda si arricchisce di un nuovo aggettivo ed estende la sua rete all´estero. All´assemblea plenaria nazionale, da ieri in corso alla Sapienza per stilare il documento dell´autoriforma universitaria, hanno infatti partecipato anche delegazioni di studenti venuti dagli atenei tedeschi e francesi. «La protesta contro i tagli sociali e la distruzione dell´educazione pubblica cresce ovunque e, sull´esempio dei giovani romani, in tutta Europa gli studenti hanno alzato la testa per dire no alla crisi dell´economia e dell´istruzione» ha detto Sebastien Forster, studente di 26 anni di Berlino, arrivato a Roma per partecipare ai workshop da cui oggi uscirà il documento ufficiale della controriforma dell´Onda, «non una semplice carta di intenti- hanno sottolineato i leader della Sapienza- né un tentativo di burocratizzare il movimento, ma un manifesto in cui esprimere la nostra idea di università, formazione, welfare e lavoro».
E dopo la stesura della "carta costituzionale dell´Onda", la protesta continuerà anche nelle prossime settimane. «Martedì alla Sapienza ci sarà una grande festa, sarà la nostra Woodstock» annunciano i portavoce del movimento. Alla serata parteciperanno, tra gli altri, Andrea Rivera, Ascanio Celestini, Daniele Silvestri, la Banda Osiris, Dario Vergassola e i Tête de Bois.
Mercoledì, invece, gli studenti del liceo Kant e delle scuole di Centocelle hanno indetto un corteo che si concluderà a Villa Gordiani con una battaglia di cuscini «per dimostrare che gli scontri di piazza Navona non sono stati provocati dai ragazzi dell´Onda». Gli studenti, i genitori e gli insegnati del Mamiani, di Tor Vergata, della Pistelli, della scuola Ariosto e del Caitani stanno infine preparando un documentario sulle mobilitazioni.

Repubblica 16.11.08
Il segretario Cgil al contrattacco: finora solo misure inutili, servono risposte eccezionali
"Governo illiberale, vuole escluderci ma Cisl e Uil non gli basteranno"
Intervista a Guglielmo Epifani di Alberto Statera


ROMA - Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, col suo tono sommesso, la scelta delle parole, l´eloquio lento, francamente non somiglia affatto al Marchese del Grillo («Io so´ io e voi non siete un cazzo»), né tantomeno a Lev Trotzky, cui l´hanno paragonato i suoi colleghi della Cisl e della Uil che in questi giorni l´hanno coperto di contumelie. Si tratta allora di capire anche con lui, al di là dei profili caratteriali, il senso vero della partita politica che si è aperta con la faglia nell´unità sindacale, mentre incede la crisi economica forse più grave del dopoguerra.
Però, segretario Epifani, lasciamo perdere per favore la questione della cena segreta a casa Berlusconi con i suoi colleghi Bonanni e Angeletti, e col presidente della Confindustria Emma Marcegaglia, cui lei non è stato invitato.
«Guardi, quella cena cui il maggior sindacato italiano non è stato invitato è stata organizzata da Tremonti e da quella parte del governo, di cui fa parte a pieno titolo il ministro Sacconi, che punta sistematicamente a escludere la Cgil. Per cui è difficile non tenerne conto. Se si muove Berlusconi non è per sorbire tè e pasticcini. Ed è bene che i lavoratori sappiano, infatti, che in quella cena si sono messe le basi per un accordo separato sul modello contrattuale e sulle misure contro la crisi».
Ma allora perché Bonanni e Angeletti dovrebbero continuare a negare, se poi la attaccano esplicitamente, con toni che tra i sindacati confederali non si sentivano da lustri?
«E´ un pessimo segno, fa pensar male anche chi non vorrebbe. Le sembra comunque normale discutere le sorti dei lavoratori in un paese in crisi a casa del presidente del Consiglio, escludendo il maggiore sindacato, l´Ugl, le associazioni d´impresa, a cominciare dalle piccole, e il settore commerciale che più gravemente paga e pagherà la recessione, per di più mentendo ai propri iscritti e al Paese? Se anche noi avessimo opinioni molto diverse da Cisl e Uil, proprio per questo tali opinioni andrebbero ascoltate. Tanto più che i governi responsabili nei momenti di crisi, come nota il presidente Napolitano, cercano il consenso più ampio, non gli accordi separati».
Il governo è dunque irresponsabile?
«Un governo che discute soltanto con chi è d´accordo con lui è sicuramente illiberale. Dovrebbe chiamare a raccolta tutte le proposte per uscire dalla crisi e invece assistiamo a posizioni puramente ideologiche, come quella del ministro Sacconi».
Ma se lei al tè coi pasticcini di Berlusconi non c´era, come sa quali meravigliosi provvedimenti per i lavoratori ha promesso il governo?
«A parte l´antefatto simile del 2001, quando l´allora segretario della Cisl trattò col vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini il "patto per l´Italia", poi soprannominato "patto della lavanderia", dal luogo in cui Savino Pezzotta sgusciò per non farsi scoprire, e che Berlusconi non mantenne, il governo si sottrae al confronto perché le proposte contro la crisi non sono all´altezza. Che senso ha avuto detassare gli straordinari quando i lavoratori vanno in cassa integrazione? Nessuno, come ha rilevato anche la Banca d´Italia. Al massimo vedremo una politica caritatevole, nessun allargamento significativo degli ammortizzatori sociali, il contrario di quello che ha promesso di fare Obama in America».
Allora lei accusa Cisl e Uil di fare la "cinghia di trasmissione" del governo, la stessa accusa che era rivolta una volta alla Cigil nei confronti del Pci. O, peggio, di fare il sindacato giallo.
«Vedo un collateralismo sindacale con tendenze neocorporative».
Illiberalismo, corporativismo, non vorrà pronunciare, segretario, la parola fascismo?
«Aggiungerei ideologismo, la stessa logica che presiede alla vicenda della Commissione di Vigilanza della Rai. Già sull´Alitalia Berlusconi disse: si può fare senza la Cgil. Noi abbiamo sempre detto che il governo di centrodestra è il risultato di un voto democratico, ma riconoscere questo non vuol dire cancellare il profilo delle nostre proposte. Per cui non accettiamo diktat, né un accordo fallimentare come quello della lavanderia del 2001».
Così le dicono che è bolscevico.
«La storia della Cgil è la storia di un grande corpo riformista, per cui dicano quello che vogliono, ma è falso».
Eppure, l´impressione è che lei sia troppo sensibile all´ala meno dialogante della Cgil, quella che fa capo a Giorgio Cremaschi.
«Guardi che Cremaschi è un radicale liberale, non certo un bolscevico. E´ bolscevico chi teme che le condizioni economiche e sociali si aggravino ancora, con una parte sempre più larga di lavoratori che ne soffrirà, in un paese sempre più diseguale»?
Vede il rischio che si torni agli anni cupi del terrorismo?
«Non c´è nessun segnale in questa direzione. Il movimento dei ragazzi è pacifico, salvo qualche provocazione di gruppi di destra sulla scuola. Mi sembra che ci sia forza e maturità».
Scusi Epifani, i suoi colleghi Bonanni e Angeletti dicono realisticamente: questo governo è molto forte, governerà per altri quattro anni e mezzo, se non prendiamo almeno quello che ci dà, noi che fine faremo di qui al 2013?
«La buttano in politica. Vorrei ricordare che noi facemmo lo sciopero generale contro il governo Prodi. Il fatto che il governo Berlusconi è forte e durerà non può uccidere la coerenza. E comunque noi siamo come sempre disponibili a mediare».
Su quali basi?
«Sospensione della detassazione degli straordinari, più tutela per i precari e per chi sta peggio, più cassa integrazione in deroga, politiche fiscali adeguate, cominciando dalla detassazione della tredicesima. Le sembra estremismo o il meglio della tradizione sindacale»?
Ma Berlusconi dice che con voi non tratta perché significherebbe trattare col Partito Democratico e con Veltroni, che dalla crisi tra i sindacati non trae certo vantaggio.
«Certo che no. E gli effetti sono in molti campi, a cominciare dal Parlamento, non solo nel Pd, che è un partito plurale per il quale l´unità sindacale è un punto di riferimento. Ma anche il Pd deve usare la bussola per il proprio orientamento».
Cosa direbbe a Berlusconi e Tremonti per farsi invitare a prendere almeno un cappuccino?
«A crisi eccezionale, risposte eccezionali. Conviene anche al governo»

Repubblica 16.11.08
L'assalto al futuro della nuova generazione
di Eugenio Scalfari


EPIFANI ha deciso di isolarsi. E´ un massimalista. Si aggrappa al sindacalese del secolo scorso e non capisce che siamo in un´economia globalizzata. Ha scelto il movimentismo abbandonando il riformismo. Insegue la Fiom. Si crede il centro del mondo. E´ uscito di testa ma speriamo che si ravveda. (Quest´ultimo giudizio è di Bonanni, l´uomo forte della Cisl). La sua politica favorisce Berlusconi. La Cgil non conta più niente. Il Pd prenderà le distanze. Lama si rivolterebbe nella tomba. Perfino Di Vittorio...
Venerdì sera l´ho chiamato al telefono, tanta unanimità contro di lui mi aveva incuriosito, del resto non è la prima volta per lui e non è la prima volta per chi guida il maggior sindacato italiano. Vi ricorderete Cofferati: per due anni fu la bestia nera dell´Italia benpensante. Anche lui si era isolato perché Cisl e Uil avevano firmato con Berlusconi il "patto Italia" che tuttavia restò lettera morta. Vi ricorderete Bruno Trentin, del quale tutti riconoscevano l´onestà intellettuale e tutti biasimavano la politica sindacale. E vi ricorderete Lama.
Luciano Lama è stato ricoperto di elogi (dall´Italia benpensante) quando lasciò la carica di segretario della Cgil e soprattutto quando morì. E non parliamo di Di Vittorio. "Post mortem" un generale rimpianto; da vivo invece l´avrebbero volentieri messo in galera per continua violazione dei diritti di proprietà, interruzione di pubblici servizi, resistenza alla forza pubblica.
Diffido molto della cosiddetta "Italia benpensante". Spesso pensa male, il più delle volte non pensa affatto, ripete gli "spot" dai quali viene ogni giorno bombardata e imbottita. Scopre le persone di qualità quando sono morte. Così fu per Ezio Vanoni, per Ugo La Malfa, per Aldo Moro e per Enrico Berlinguer. Da vivi preferisce i truffaldini che promettono miracoli e felicità.
Dunque Epifani. Lui non vuole isolarsi da nessuno e comunque non si sente affatto isolato. L´altro giorno fiancheggiava la manifestazione studentesca nelle strade di Roma, centomila ragazzi che chiedono una riforma vera e seria della scuola e dell´università e non i pannicelli caldi del grembiulino, del maestro unico e dei tagli.
Lo stesso giorno la Cgil insieme agli altri sindacati confederali, ha dato il disco verde alle assunzioni individuali che la Cai di Colaninno comincerà domani. Nei prossimi giorni chiederà al governo di convocare le parti sociali a Palazzo Chigi per discutere della recessione e delle urgenti misure che essa richiede. Poi bisognerà proseguire la discussione con la Confindustria sui contratti di lavoro e sulla loro eventuale riforma.
«Sembro uno che si vuole isolare? Quando il capo di un sindacato va a cena nell´abitazione privata del capo del governo è lui a rompere l´unità ed è lui che si isola».
Quella cena a Palazzo Grazioli l´ha fatto molto arrabbiare. «Non è la prima volta, ormai ci ho fatto l´abitudine, ma il fatto nuovo è stato la presenza di Emma Marcegaglia. Cisl, Uil e Confindustria a cena da Berlusconi per parlare di contratti con la voluta assenza della maggiore organizzazione sindacale. Qual è il senso? Che cosa significa?».
E quindi sciopero generale da soli il 12 dicembre. «No, quello era già previsto. Non sono così imbecille da indire lo sciopero generale per un mancato invito a cena. La motivazione è molto più seria, i lavoratori lo sanno e la loro adesione lo dimostrerà».
* * *
Uno sciopero generale è sempre politico per definizione. Se ci fosse un obiettivo specifico che interessa una specifica categoria professionale non si farebbe appello alla totalità dei lavoratori. Quando si proclama lo sciopero generale vuol dire che si vogliono affermare e conquistare diritti che riguardano tutti i lavoratori e addirittura tutti i cittadini. Riguardano l´interesse generale del paese, naturalmente visto dall´angolazione dei lavoratori. Per questo dico che si tratta d´uno sciopero politico per definizione.
Bisogna dunque capire quali sono i diritti da affermare e conquistare in questa fase dello scontro sociale che pure richiederebbe la collaborazione di tutte le forze per far fronte ad una tempesta economica che ha rari precedenti nella storia degli ultimi cent´anni.
Il diritto è quello che si legge nell´articolo uno della Costituzione: «La Repubblica italiana è fondata sul lavoro».
Sembrerà una frase rituale, mille volte invocata e mille volte elusa, che rappresenta tuttavia l´elemento portante della nostra architettura costituzionale. Tutti quelli che seguono sono diritti ai quali la Costituzione conferisce dignità e tutela giuridica, ma nessuno dei quali è definito come fondamento del patto nazionale. Il lavoro non è soltanto un diritto ma è anzitutto un valore. Così l´hanno voluto i nostri "padri costituenti": il lavoro degli operai e quello dei contadini, dei professionisti e degli imprenditori, dei docenti e dei discenti.
Ma perché proprio oggi uno sciopero per lavoro? E´ vero, la disoccupazione sta aumentando, la recessione distrugge ogni giorno posti di lavoro, le imprese riducono il personale dipendente, molte chiudono, anche il lavoro autonomo è in crisi. Ma non sarà certo uno sciopero a far invertire la tendenza. Allora perché lo sciopero generale? Bisogna esaminare con molta attenzione questa questione per capire ciò che sta accadendo.
I redditi reali dei lavoratori negli ultimi due anni e in particolare negli ultimi sei mesi sono aumentati meno dell´inflazione ufficiale e molto meno dell´inflazione reale. Ciò significa che il potere d´acquisto dei redditi inferiori ai trentamila euro annui è fortemente diminuito.
Poiché i redditi nominali sono tuttavia aumentati, di altrettanto è aumentato il prelievo fiscale. Il lavoro dipendente non può evadere e i pensionati neppure, per conseguenza il potere d´acquisto è ulteriormente diminuito.
Il lavoro precario, che negli anni scorsi è stato incoraggiato in molti modi e presentato come lo sbocco più idoneo per fronteggiare i fenomeni dell´economia globale, sarà il primo ad esser colpito sia nelle aziende private che nelle amministrazioni pubbliche. Nei prossimi mesi, ma già fin d´ora, decine di migliaia di lavoratori precari saranno licenziati senza disporre di alcuna tutela sociale.
L´intera gamma degli ammortizzatori sociali è inconsistente. La cassa integrazione non è estesa a tutti, non esiste un salario sociale minimo, il sussidio di disoccupazione è insufficiente e di breve durata, i corsi di formazione sono tuttora nella fase preliminare, privi di sostegno finanziario adeguato.
Nel frattempo la trattativa sul nuovo schema di contratto del lavoro è stata scavalcata dalla crisi recessiva in corso. Quando il negoziato tra le parti sociali ebbe inizio la crisi non era ancora scoppiata e tutti credevano di vivere nel migliore dei mondi possibili. Di qui la lunga discussione tra le parti sociali sui contratti di primo e secondo livello, quello nazionale e quelli aziendali agganciati alla produttività.
La Cgil, tra i tre sindacati confederali, era la meno entusiasta dell´idea di spostare l´asse contrattuale dalla sede nazionale a quella locale; tuttavia accettò l´aggancio alla produttività di settore e di azienda che avrebbe dato maggiore flessibilità al mercato del lavoro.
Nelle condizioni in cui ora ci troviamo, tuttavia, questa discussione è completamente fuori dalla realtà. Con la caduta della domanda e degli investimenti, con la restrizione del credito che sta soffocando il sistema delle imprese e in particolare delle più piccole, con l´aumento della disoccupazione, gli incrementi di produttività sono una giaculatoria puramente verbale, un´icona culturalmente valida ma concretamente inesistente.
Le cose reali, le rivendicazioni da mettere in campo, riguardano il sostegno e i redditi, l´espansione del credito, un sistema di ammortizzatori sociali efficace. In sostanza il rilancio della domanda, dei consumi e della produzione.
Tremonti sa benissimo che di questo si tratta ma ancora ieri ha ribadito che questa politica non si può fare aumentando il deficit e il debito. Ha perfettamente ragione. Si fa infatti riprendendo vigorosamente la lotta all´evasione che è stata di fatto abbandonata, tassando le rendite e i redditi più elevati.
Questa è la ricetta che Barack Obama si appresta a mettere in pratica non appena sarà insediato alla Casa Bianca. Del resto non c´è altra via: coi tempi che corrono la redistribuzione fiscale è lo strumento principale per rilanciare la crescita senza aumentare un debito già enorme.
I miliardi della Cassa depositi e prestiti sui quali il ministro dell´Economia fa tanto affidamento possono essere utilizzati per finanziare le infrastrutture (promesse nel 2001 con il famoso "contratto con gli italiani" stipulato in televisione da Berlusconi e completamente inevaso per tutta la legislatura) ma non possono certo essere usati per sostenere il reddito.
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Una politica così configurata, che è la sola possibile per uscire dalla tempesta della crisi, dovrebbe vedere unite tutte le organizzazioni sindacali e tutti i lavoratori. Accade viceversa che proprio in questo delicatissimo momento di svolta esse si dividano e la loro unità d´azione si spacchi clamorosamente. Questi fatti, oltreché incomprensibili, rendono assai difficile l´adozione della sola politica economica di crescita disponibile per un paese con un debito schiacciante.
L´opposizione reclama da tempo questa politica ma i rapporti di forza parlamentari sono quelli che sono. Diverso è il peso delle organizzazioni sindacali anche se non ha più la forza di un tempo. Il momento di gettarlo sul piatto della bilancia è questo. Il tentativo di convincere Berlusconi, Tremonti, Marcegaglia a tassare i ricchissimi patrimoni e le rendite per rilanciare il motore della crescita è pura illusione. Non è quella la loro strategia e non è quella l´alleanza sociale che li sostiene. Siamo dunque arrivati, dopo sei mesi di legislatura, al punto della svolta.
* * *
Gran parte degli osservatori, in Europa come in America, sostengono che il vento della crisi mondiale ha rimesso in sella il potere politico rispetto al mercato, i governi rispetto al "business", l´interventismo pubblico rispetto al liberismo.
C´è una buona parte di verità in questa diagnosi, ma non tutta la verità. Certamente il liberismo e il pensiero unico che ad esso si ispira sono in netta ritirata. Tuttavia è un fatto che per uscire dalla tempesta serve soprattutto un atto di fiducia. Senza un ritorno della fiducia l´economia mondiale precipiterà da una recessione temporanea in una lunga e devastante depressione.
Chi sono i destinatari della fiducia? I governi e le istituzioni nazionali e internazionali. E la fiducia da dove viene? Dalla società. Dagli individui, dalle famiglie, dai ceti, dai lavoratori-consumatori-contribuenti-risparmiatori che la compongono.
Queste enormi masse di persone sono prevalentemente animate da preoccupazioni economiche, però non soltanto da esse. Su un fondale di bisogni inappagati e di paure del futuro non dissipate si stagliano anche convinzioni profonde di carattere morale, di giustizia, di riconoscimento.
La politica è tornata in sella là dove la società si riconosce in essa. Bush era un´anatra zoppa già molto prima della campagna elettorale di Obama. Del resto Obama è sceso in guerra contro l´establishment del suo partito e McCain ha fatto altrettanto. Dopo le elezioni del 4 novembre la società americana ha determinato una nuova politica e nuove rappresentanze. La società ha espugnato il castello politico e vi ha issato una nuova bandiera.
In Italia il castello della politica berlusconiana era fino a un mese fa fortissimo. Ora è meno forte perché una parte della società si sente disconosciuta e ferita. Non più rappresentata. Questo è il fatto nuovo: una parte crescente della società è ferita per mancanza di futuro. I giovani studenti, i giovani precari, le donne, i lavoratori dipendenti, le imprese del Nordest, il Mezzogiorno non mafioso, le imprese schiacciate dal racket, i moderati che sognano il buon governo, i cattolici cristiani che non si riconoscono nella gerarchia papalina: queste minoranze si stanno cercando tra loro nel momento stesso in cui si distaccano dal castello politico berlusconiano.
Siamo appena ai primi segnali, ma sotto la spinta della crisi i mutamenti e gli smottamenti possono procedere con estrema rapidità. In una direzione o nell´altra. Ricementando il castello politico o smantellandolo.
Siamo ad una svolta di alto rischio dove la partita richiede lucidità e coraggio. Soprattutto coraggio. Bisogna dimenticare le proprie botteghe se si vuole l´assalto al futuro impedendo che ci venga confiscato.

Repubblica 16.11.08
Manganelli: spiegherò cosa avvenne al G8: "Pronto a farlo nelle sedi istituzionali"
Il coraggio della verità
Sarebbe desolante se ora la disponibilità del Capo della Polizia a ricostruire quei fatti non venisse raccolta
di Giuseppe D'Avanzo


Il capo della polizia Antonio Manganelli non si volta dall´altra parte. Non chiude gli occhi. Non sceglie un comodo silenzio. Decide di guardare in faccia la realtà e la realtà è che i pestaggi della Diaz ? come le torture di Bolzaneto ? sono una frattura tra lo Stato e la società, tra le forze dell´ordine e una giovane generazione.

Una macchia nella storia dell´istituzione che governa. È un´ombra incancellabile. Manganelli sembra saperlo, ma dichiara la sua disponibilità a collaborare «senza alcuna riserva» per ricostruire quella "pagina nera" nella convinzione che un´opera di verità possa, per lo meno, evitare che le violenze poliziesche si ripetano in un futuro.
Come è naturale, il capo della polizia non accetta che la sua istituzione possa essere soltanto sospettata di infedeltà costituzionale. Con orgoglio e consapevole dignità, ricorda il quotidiano sacrificio di migliaia di uomini in divisa che fanno il loro lavoro («sottopagato») al servizio della sicurezza dei cittadini. E tuttavia Manganelli ha il coraggio di dire quel che, nelle ore seguite alla pessima sentenza di Genova, nessuno nell´establishment ha accettato anche soltanto di ipotizzare: quel che «realmente accadde a Genova» deve essere ancora esplorato, ricostruito, raccontato. La verità di quei giorni di violenza non può essere rinchiusa in un´aula giudiziaria; spenta nella rete delle responsabilità personali e delle sanzioni penali che guidano un processo; soffocata dalle timidezze della magistratura o annullato dai difetti dei codici. Manganelli rivela quel che, per quanto nella sua disponibilità, ha messo su per migliorare («correggere») il lavoro di strada dei Reparti Mobile, della Celere, affidati a «persone pulite». In ogni caso, il capo della polizia si assume fin da ora «la responsabilità per gli errori che i suoi uomini possono commettere». Già è accaduto che, dopo «l´avventatezza» omicida di un agente della Stradale, Manganelli si sia assunto la responsabilità della morte di Gabriele Sandri, ucciso un anno fa da un colpo di pistola nell´area di servizio di Badia al Pino Est dell´A1. Uno stile assai diverso dal suo subordinato Vincenzo Canterini, comandante nel 2001 della Celere di Roma e del VII nucleo antisommossa (i picchiatori della Diaz): un ufficiale che, dopo avere gettato il sasso (un´arrogante lettera di velate minacce, di richiami all´omertà di gruppo, di propositi di vendetta), nasconde ora la mano.
Quel che più conta nella lettera di Manganelli sono un paio di righe: «? il Paese ha bisogno di spiegazioni su quel che accadde a Genova e l´istituzione, attraverso di me, si muove e muoverà senza alcuna riserva, non attraverso proclami stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali».
Ora toccherebbe alla politica, al parlamento inaugurare, se non ci sono, quei luoghi istituzionali dove rendere concreta la possibilità di ricostruire ? al di là dell´accertamento penale (o nonostante i suoi mediocri esiti) ? quel che è accaduto a Genova; come, con la responsabilità di chi, perché si sia aperto nei giorni del G8 un "vuoto di diritto" che ha inghiottito ogni garanzia costituzionale e consegnato la nuda vita delle persone a una violenza arbitraria e indiscriminata.
Dovrebbe essere la politica a battere ora un colpo, ma la scena che si scorge è avvilente. L´opposizione parlamentare appare afona e quando trova la voce, come con Antonio Di Pietro, è soltanto contraddittoria senza imbarazzi (l´Italia dei Valori bocciò la nascita della commissione parlamentare d´inchiesta che oggi pretende). La maggioranza mostra un volto prepotente fino all´insolenza. Maurizio Gasparri rifiuta ogni ipotesi di commissione d´inchiesta: «Non la voteremo mai. La maggioranza non ha alcuna intenzione di permettere una speculazione in Parlamento ai danni delle forze dell´ordine». Il presidente dei senatori della destra non si accontenta di sbattere la porta. Dimentico dei 93 arresti abusivi, delle prove artefatte, dei verbali truccati, degli 82 feriti, dei tre disgraziati in fin di vita, si dice convinto dell´innocenza di Canterini e del VII Nucleo antisommossa (per il tribunale di Genova sono i picchiatori della Diaz). Sarebbe davvero desolante, oltre che politicamente grave per la qualità della nostra democrazia, se la disponibilità del capo della polizia non venisse raccolta; se l´opportunità di ricostruire "i fatti di Genova" non trovasse alcun luogo istituzionale per essere acciuffata nell´interesse di una riconciliazione tra le forze dell´ordine e una generazione. Quale reticenza, quale viltà, quale convenienza potrebbe giustificarlo?

Repubblica 16.11.08
La nazione meticcia così gli immigrati ci cambieranno
di Massimo Livi Bacci


Ci sono prerogative naturali proprie di ciascun individuo che esistono da che mondo è mondo. Spostarsi, scegliere un partner, riprodursi. Spostarsi in cerca di contesti di vita più convenienti: habitat, clima, cibo, relazioni. La scelta del partner e la riproduzione, per vivere e trasmettere la vita. Prerogative che le società hanno condizionato in vario modo, imponendo regole e comportamenti, ma che non possono essere negate o costrette se non alterando i principi naturali della convivenza. Da queste originano le migrazioni e le unioni "miste" tra persone portatrici di caratteristiche diverse, che generano figli nei quali questi tratti confluiscono e si mischiano.
L´umanità si è formata, plasmata, sparsa e articolata sul pianeta, per la forza di questi processi, ora vorticosi, ora più lenti. Ma quanto "diverse" debbono essere le caratteristiche dei partner perché si abbia una mescolanza, un´ibridazione? Questa diversità è senza dubbio una "distanza" fisica (colore della pelle, degli occhi, dei capelli, statura, altre caratteristiche somatiche) ma è anche una "distanza" culturale e sociale (lingua, religione, nazione) che cambia nel tempo e nella storia. Distanze incolmabili in un´epoca si accorciano in un´altra, e viceversa. Così il grado di mescolanza di una società è difficile da definirsi perché il metro che la misura cambia nel tempo.
Siamo ancora lontani dalle cifre degli Stati Uniti, dove tra una generazione la somma delle minoranze sarà la maggioranza della popolazione. Ma anche da noi - oggi è tra coppie miste un matrimonio su dieci e da coppie miste una nascita su otto - una parte importante del futuro si costruirà sui bambini "extraitaliani"
Si usa contrapporre un´America molto mescolata a un´Europa, e un´Italia, assai più omogenee. L´elezione di Barack Obama rappresenta il pretesto mediatico per contrapporre due civiltà, una dinamica e mescolata, l´altra più stagnante e rinchiusa: ma questa rappresentazione rischia di sconfinare in un biologismo deteriore. Tutta l´America - dall´Alaska alla Patagonia, composta da società dinamiche e società stagnanti - è il risultato di un gigantesco processo di mescolanza iniziato con il tremendo shock della Conquista, con la catastrofe degli indios, con il trasporto forzato di dieci milioni di schiavi africani, con l´immigrazione degli europei, con le mescolanze (spesso forzate) tra padroni e schiavi. Negli Stati Uniti questo processo di ibridazione ha avuto un´accelerazione nell´ultimo mezzo secolo, con la rottura della segregazione dei neri e la nuova immigrazione di ispanici e asiatici: minorities numeriche che tra una generazione diventeranno majority secondo le valutazioni recentissime del Bureau of the Census.
In Europa questi processi hanno avuto una storia assai diversa. Prima dell´età moderna l´Europa è un continente aperto che riceve ondate di immigrazione per la via d´accesso del Mediterraneo e attraverso le steppe tra gli Urali e il Mar Caspio, la grande porta orientale. A partire dalle grandi esplorazioni atlantiche, l´Europa cessa di essere meta di immigrazioni e diventa prevalentemente esportatrice di donne e di uomini. Fin verso la metà del secolo scorso, i non rari tratti mongolici tra i nostri compatrioti non erano dovuti a mescolanze recenti, ma alle unioni illegittime di mercanti e signori, veneziani, fiorentini o genovesi, con schiave tratte dall´Oriente. Il fondamentale atlante antropometrico di Ridolfo Livi (pubblicato nel 1896), basato sulle caratteristiche dei coscritti rilevati alla visita di leva, mostrava inequivocabilmente la permanenza di caratteristiche somatiche (occhi chiari, capelli biondi) derivate dall´immigrazione normanna in alcune aree isolate del Sud. Tuttavia, fino alla metà del secolo scorso - prima che la decolonizzazione riportasse in Europa africani, berberi e arabi, assieme ad antillani, indiani o indocinesi - il nostro continente e l´Italia avevano conservato il loro patrimonio umano quasi intatto da influenze extraeuropee, che millenni di immigrazioni e mescolanze avevano contribuito a formare prima dell´età moderna.
Negli ultimi cinquanta anni il corso della storia è cambiato nuovamente. Dopo mezzo millennio, l´Europa ha cessato di esportare risorse umane e ha iniziato a importarne. Consistenti flussi di immigrazione sono affluiti prima dalle ex colonie, poi dalle più varie provenienze man mano che la globalizzazione si è rafforzata. Nel mezzo miliardo di persone che conta l´Unione Europea, gli stranieri non europei sono un numero imprecisato, tra i venti e i venticinque milioni. In Italia gli stranieri superano abbondantemente i quattro milioni, contando anche la numerosa comunità rumena. Si tratta di una collettività in forte crescita (anche se la crisi ne rallenterà temporaneamente il ritmo) per ragioni demografiche ed economiche, che determinerà una nuova fase di mescolanza e ibridazione della nostra popolazione.
Si tratta di un processo complesso, nel quale si debbono distinguere due modalità nettamente diverse. La prima, la più visibile e immediata, consiste nel formarsi e nel crescere delle varie comunità legate dall´origine nazionale, dalla religione, dalla lingua: rumena, marocchina, cinese, albanese, filippina o ecuadoriana. Queste comunità potrebbero perdere gradualmente la loro caratteristica nazionale con il conseguimento della cittadinanza italiana. È un processo non agevole date le regole nel nostro sistema giuridico, ma destinato ad accelerare con l´aumento delle nascite da cittadini stranieri, e soprattutto qualora lo jus soli sostituisse lo jus sanguinis. Tuttavia queste comunità potrebbero restare nettamente separate e "segregate" di fatto, qualora rimanessero strettamente endogamiche. Come è avvenuto negli Stati Uniti, per gli afro-americani, fino a tempi recenti. Oppure per le comunità degli Amish e degli Hutteriti, gruppi riformati emigrati dall´Europa centrale, e rimasti chiusi ed autonomi per secoli.
Tuttavia è dubbio che nel contesto delle società occidentali queste separazioni e distanze possano durare a lungo, senza essere gradualmente erose dalla contiguità, da una vita sociale comune nelle scuole, nei luoghi di lavoro, di culto, di svago. È però vero che la velocità con cui questi processi di mescolanza reale avverranno - l´indice più rappresentativo è la frequenza dei matrimoni misti - sarà determinato dal vigore delle politiche d´integrazione. Le mescolanze saranno tanto più frequenti quanto più verrà perseguita una politica di insediamento abitativo diffuso e non segregato. Se si rafforzeranno le esperienze educative comuni. Se verrà favorita l´ascesa sociale delle seconde generazioni di immigrati e si combatterà il formarsi di una classe subalterna. Se si opererà in modo che le disuguaglianze tra gruppi immigrati e autoctoni si indeboliscano. Nel 2004 i matrimoni misti (per nazionalità, tra italiani e stranieri) furono il nove per cento del totale (per i quattro quinti si tratta di uomini italiani che sposano una donna straniera), tuttavia quasi due terzi degli sposi e spose stranieri erano europei, appena il cinque per cento asiatici, il dodici per cento africani (in prevalenza Nord Africa) e un residuo venti per cento americani del centro e del sud del continente. Sui loro figli - una nascita su otto proviene da coppie miste - si costruirà una parte importante del nostro futuro.

Repubblica 16.11.08
Nella storia di Obama il vigore degli ibridi
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Oggi sappiamo che la divisione degli uomini in "razze" non è giustificata e che la "purezza genetica" nella realtà non esiste. Ma sappiamo anche che sull´incontro tra "diversi" si fonda la forza della vita e della cultura e sono state modellate le più grandi civiltà

Ciò che ci dà più speranza nell´elezione di Barack Obama è che questo grande Paese, che più di mezzo secolo fa ci ha liberato da Hitler, sia anche riuscito a cancellare una delle sue vergogne più gravi: il secolare sfruttamento e disprezzo dei neri. Solo quarant´anni fa negli Stati Uniti la legge ha riconosciuto e imposto la parità di diritti civili. Da noi è prevista dalla Costituzione: eppure, lo immaginate qui un presidente di origine senegalese o keniota, pronipote di uno schiavo?
Resta naturalmente il terribile pericolo che uno dei tanti matti sfrutti un´altra debolezza del sistema americano: l´antica quanto ferrea convinzione dei pionieri che il cittadino debba essere libero di procurarsi qualunque arma ritenga necessaria. La sopravvivenza di questo costume, che mantiene pazzescamente elevata la frequenza di omicidi negli Usa, ha dato occasione a diversi maniaci di uccidere, nel secolo scorso, politici e militanti molto simili a Obama per colore, progetto politico e fascino.
Questa elezione porta anche a riflettere su un fatto importante: Obama è un "ibrido", è cioè il risultato di un incrocio fra due "razze" diverse, un meticcio. Fra gli aristocratici, quando la nobiltà era "di sangue", si diceva anche "bastardo", parola poi diventata un insulto generico.
Oggi sappiamo che la divisione della specie umana in razze non è giustificata. La prova più semplice è che chi vuole farlo non riesce a mettersi d´accordo: le classificazioni vanno da due a trecento razze. Darwin lo aveva già notato, e ne aveva indicato il motivo: la variazione che si osserva da una "razza" all´altra è praticamente continua, oltre che molto piccola. Questo non è vero per gli animali e le piante domestiche, in cui l´identità e la "purezza" genetica di una linea prodotta artificialmente hanno anche, spesso a ragione, un valore economico. Proprio in campo applicato, però, si è scoperto quasi un secolo fa che l´ibrido, anziché soffrire di uno svantaggio, ha maggiore vitalità e valore economico rispetto alle "linee pure" o "razze pure" che sono state incrociate per produrlo.
La "purezza genetica" nella realtà non esiste, con eccezioni molto speciali. Se con "purezza" si intendono individui tutti geneticamente identici fra loro, la si può produrre a volontà solo in specie capaci di riprodursi per via asessuata, come è vero di molte piante e di qualche animale, ma non dell´Uomo, dove solo i gemelli identici sono geneticamente uguali: per il resto, la diversità genetica fra individui di una stessa popolazione, qualunque essa sia, è molto più grande di quella fra due qualsiasi popolazioni del mondo.
Il "vigore degli ibridi", come è chiamato, si nota in varia misura per molti caratteri studiati. La prima specie in cui lo si è scoperto è stato il granoturco: quello che si coltiva oggi è praticamente tutto ibrido. Il contadino è costretto a comprare ogni anno il seme e non può tenerlo da parte da un anno all´altro, ma ne ha chiaramente la convenienza. La pratica di produrre ibridi per uso commerciale è stata poi estesa a parecchie altre piante ed animali.
E nell´Uomo? In passato, il "divino" sangue reale non si doveva diluire: la pratica di sposarsi fra regnanti imparentati diffuse nelle famiglie reali europee alcune malattie ereditarie, come l´emofilia. Nell´antico Egitto e in altri reami vicini si affermò in più dinastie, nella speranza di perpetuare caratteri desiderabili, l´usanza di sposare fratello e sorella. È una pratica che provoca un´elevata incidenza di malattie ereditarie tra i figli, un aumento della mortalità e una diminuzione di fecondità che alla fine estinguono la "linea pura" che si formerebbe continuando così per parecchie generazioni. Non sorprendentemente, queste dinastie non durarono a lungo.
Oggi in più parti del mondo il matrimonio fra parenti molto stretti non è ammesso; però in altre, non meno numerose, le unioni fra consanguinei (anche cugini primi) raggiungono il cinquanta per cento di tutti i matrimoni. Anche questo diminuisce la fecondità e aumenta la mortalità, ma in misura assai più modesta. Qui però la vera ragione non è il desiderio di aumentare la purezza genetica, ma quello di non disperdere il capitale di famiglia.
È molto probabile che il "vigore degli ibridi" valga anche per l´uomo, almeno sul piano genetico. Il meticcio può avere uno svantaggio sociale, se il suo ibridismo viene riconosciuto, e quello fra popolazioni che provengono da continenti lontani è difficile da nascondere. Soprattutto là dove l´immigrazione da paesi distanti è rara, i tipi fisici insoliti si notano di più, e l´individuo "diverso" all´aspetto può colpire sfavorevolmente chi non vi è abituato. Ne nasce diffidenza, se non timore, dettato dall´ignoranza o da pregiudizi fuorvianti su quel che ci si può attendere da una persona superficialmente un po´ "diversa" da noi.
Un´ipotesi difficile da controllare, ma interessante da tenere presente, è che l´eccellenza intellettuale e spirituale dimostrata da Obama nella sua lunga e combattuta campagna presidenziale possa essere dovuta a "vigore degli ibridi". Non è il primo caso di uomo politico, meticcio di origine, eccezionalmente dotato. Martin Luther King è un esempio molto simile. Nelson Mandela, cui si deve una svolta storica in Africa del Sud, è un ibrido fra due "razze" africane parecchio diverse, entrambe nere, che entrambe godono di poca stima fra i razzisti (anche quelli africani, che pure sono numerosi). In Sud Africa vi sono due sole popolazioni antichissime, lì stanziate da decine di migliaia di anni: i Boscimani e gli Ottentotti (i loro veri nomi sono San e Khoi-Khoi). Mandela dev´essere per metà circa di origine ottentotta, e per il resto bantù, una popolazione che giunse in Sud Africa molto tardi,al termine di una lunga espansione, poche centinaia di anni fa.
Il vigore degli ibridi è dovuto a un fenomeno genetico chiamato "vantaggio degli eterozigoti": un´espressione tecnica che ha lo stesso significato, ma riferito alle singole unità di dna. Per comprendere di cosa si tratta risaliamo a Mendel, lo scopritore delle leggi dell´eredità biologica (1865), che eseguì decine di migliaia di incroci tra "linee pure" di piselli, studiando separatamente caratteri ben visibili e costanti, che non mostravano variazione tra individui della stessa linea, per esempio il colore e la forma dei semi o dei fiori, l´altezza del fusto e così via. Vide che nell´incrocio fra linee diverse compare nella prima generazione di solito soltanto il carattere di uno dei due genitori, per cui tutti gli ibridi di prima generazione sono eguali fra loro e eguali a uno solo dei due genitori. Cioè, se uno dei genitori ha fusto alto e l´altro ha fusto nano, tutti gli ibridi hanno fusto alto, ma il carattere fusto nano non è affatto scomparso e ricompare in proporzioni precise nei successivi discendenti, mostrando chiaramente che entrambi i genitori danno sempre un pari contributo ereditario ai figli.
Oggi chiamiamo dna il patrimonio ereditario, e sappiamo che è molto ricco nell´Uomo: ogni genitore contribuisce circa 3,3 miliardi di unità di dna, dette nucleotidi. I caratteri del tipo studiato da Mendel sono di solito prodotti da differenze, fra i due genitori dell´ibrido, in uno solo dei nucleotidi. Il carattere che Mendel chiamò "dominante" perché compare negli ibridi della prima generazione (il fusto alto rispetto a quello nano, per esempio) è sovente più utile all´organismo di quello dominato (che i genetisti chiamano "recessivo", cioè "che si nasconde").
Nella nostra specie, al livello che osserviamo nella vita quotidiana, la fisionomia esterna dell´individuo e parecchi aspetti del suo carattere sono almeno in parte controllati dal dna. In un ibrido fra individui di popolazioni molto lontane il dna dei genitori mostrerà un maggior numero di differenze tra i dna che riceve da padre e madre, rispetto a un individuo i cui genitori sono nati in luoghi vicini. Questo può donare un vantaggio all´ibrido, portando più corde al suo arco: per esempio, una migliore resistenza a un maggior numero di malattie, perché la dominanza fa sì che non sia necessario ricevere da entrambi i genitori il tipo di nucleotide che ci protegge contro una certa malattia, infettiva o meno. Basta riceverlo da uno dei due. Lo stesso ragionamento si può applicare a numerose altre caratteristiche ereditarie, anche di comportamento, compresa la capacità di imparare. L´ibrido può avere insomma un maggior numero di doti, per esempio può essere più adattabile a condizioni ambientali diverse ed eccellere in più capacità.
I politici hanno particolare bisogno di saper lavorare in molte diverse direzioni, data la complessità del loro compito, che richiede di essere buoni oratori, diplomatici, capaci di rispondere rapidamente in situazioni difficili e a persone difficili, di saper analizzare e valutare con buonsenso problemi complessi in campi molto diversi. All´opposto invece un artista, un letterato, un matematico, un musicista, un ingegnere, un industriale hanno bisogno di doti ben sviluppate in una o poche direzioni altamente specializzate.
Ai vantaggi genetici dell´ibrido Obama se ne devono aggiungere anche altri, non genetici, che però hanno un effetto simile: il vantaggio di essere cresciuto in più culture, in ambienti sociali e geografici lontani fra loro - Hawaii, Indonesia, Stati Uniti - ricevendone esperienze e insegnamenti assai diversi. Di avere conosciuto le vite dei neri, dei bianchi, dei meticci, dei ricchi e dei poveri. La sua condizione di ibrido potrebbe forse renderlo più capace della media di ascoltare voci disparate e di parlare a tutti, come la campagna elettorale ha dimostrato. Di avere la visione di un bene comune, fatto di lavoro, istruzione, democrazia e dignità per tutti. A differenza, in questo, da quei politici bianchi, spesso cresciuti nelle migliori università e nei circoli del potere, che non vedono al di là di ciò che occorre dire a coloro da cui sperano il voto.
È forte la tentazione di ipotizzare che il vigore degli ibridi e la varietà delle sue esperienze abbiano contribuito allo sviluppo intellettuale e morale di Obama. Se la diversità è la forza della vita, e il vigore degli ibridi deriva dall´incontro di stirpi diverse, la diversità è anche la forza della cultura e è stata l´humus delle maggiori civiltà. Le sfide che attendono il nuovo presidente degli Stati Uniti sono immani: è incoraggiante pensare che le sue origini e la sua storia lo abbiano attrezzato per affrontarle.

Corriere della Sera 16.11.08
Malasanità Proposta Pdl: troppe denunce, è meglio depenalizzare
L'errore medico non sarà più reato
di Margherita de Bac


ROMA — Sarà più difficile per i pazienti citare i medici in giudizio. Una proposta di legge appena depositata (primi firmatari Iole Santelli e Giuseppe Palumbo) prevede di depenalizzare lo sbaglio medico che non nasca da imperizia e negligenza, che continueranno a essere punite penalmente. Per gli altri errori si farà la causa civile.
Al termine delle battaglie giudiziarie nove casi su dieci si concludono con l'assoluzione

ROMA — Destino inesorabile per otto su dieci. Denunciati e trascinati in tribunale per sospetta malpractice. Accusati di aver sbagliato. Un rischio che i chirurghi devono mettere in preventivo e dal quale cercano di difendersi con tutte le armi. Ricorrendo ad esempio alla cosiddetta medicina difensiva, cioè prescrivendo al paziente cure, ricoveri, esami che in cuor loro ritengono superflui ma che risulterebbero solidi scudi in caso di processo.
Ogni anno il sistema sanitario pubblico sborsa tra 12 e 20 miliardi per analisi di tipo precauzionale. Una proposta di legge appena depositata ha l'obiettivo di alleggerire «il disagio di fronte alla crescita prepotente del contenzioso medico legale e alla richiesta di risarcimento a tutti i costi ». Un progetto di depenalizzazione dell'errore medico annunciato già a giugno dal sottosegretario al Welfare Fazio, e auspicato dalle categorie dei camici bianchi, chiamati da famiglie e pazienti a sostenere battaglie giudiziarie infinite che in quasi 9 casi su 10 si concludono con l'assoluzione. Primi firmatari Iole Santelli (vicepresidente commissione Affari Costituzionali) e Giuseppe Palumbo (presidente Affari sociali), entrambi Pdl, il provvedimento introduce nel codice penale e civile una serie di aggiunte e nuovi articoli che definiscono la colpa professionale legata ad un atto medico e chiariscono i meccanismi del nesso di causalità. «Ora la giurisprudenza non dà margini di certezza, i tribunali decidono in modo discrezionale, non c'è uniformità e i cittadini possono fare causa contro tutti e tutto», spiega la Santelli. «Un conto sono imperizia e negligenza che continueranno ad essere punite e resteranno nell'ambito penale — aggiunge Palumbo —. Un altro sono gli errori che non derivano da omissioni o superficialità tecnico scientifica. E allora la causa è civile». Insomma, sarà meno automatico per i cittadini citare il dottore in giudizio. La legge si affianca a quella già in discussione al Senato, avviata da Antonio Tomassini. Obiettivi «modesti», si spiega nella premessa: «Alleggerire la pressione psicologica sul medico e l'animo a volte vendicativo del paziente nei confronti dei sanitari, accelerare la soluzione delle vertenze giudiziarie».
Particolare importanza viene attribuita alle caratteristiche dei periti, al ruolo delle assicurazioni e al consenso informato. Un anno di carcere per chi «sottopone una persona contro la sua volontà a un trattamento arbitrario». «Siamo il Paese col maggior numero di denunce contro la categoria, assieme al Messico — lamenta Rocco Bellantone, segretario della società italiana di chirurgia —. Solo in Italia i reati medici vengono puniti penalmente, altrove si dà per scontato che chi opera o prescrive una cura non ha un atteggiamento lesivo. Quando sbagliamo siamo accomunati a chi commette un omicidio in stato di ubriachezza». Tra gli specialisti più tartassati, i ginecologi-ostetrici, su cui pesa la doppia responsabilità di mamma e bambino. Tra le contestazioni più frequenti, il ritardato cesareo.

Corriere della Sera 16.11.08
Scontro Londra-Israele sui prodotti dei coloni
Gli inglesi vogliono etichettarli come «illegali»
E' già pronta una campagna pubblicitaria simile a quella contro l'apartheid del Sudafrica bianco
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — Barzelletta del mercato: «Le olive più economiche le trovi il venerdì pomeriggio a Mahane Yehuda, alle bancarelle degli ebrei; le più buone, il sabato mattina alla Porta di Damasco, alle bancarelle degli arabi; le più ammaccate, tutto l'anno nei supermarket di mezza Europa». Ammaccate. Perché sono le olive dei Territori. Raccolte a suon di botte fra coloni israeliani e contadini palestinesi. I primi impegnati da settimane, e senza complimenti, a impedire il lavoro dei secondi. Queste olive, come gran parte della frutta e della verdura della Cisgiordania, sono fra le poche fonti di guadagno dei palestinesi. Da anni, finiscono sui banconi inglesi, tedeschi, francesi con l'etichetta «prodotto nella West Bank» e l'indicazione della località. Ora qualcuno, nello specifico il governo di Londra, pensa che l'etichetta non basti più. E quelle ammaccature vadano spiegate meglio, distinguendo i «veri » prodotti palestinesi da quelli degl'insediamenti israeliani. E in quest'ultimo caso, informare i consumatori con scritte politicamente più corrette. Tipo: «Attenzione, il prodotto viene da territori occupati illegalmente da Israele ».
C'è poco da ridere. La guerra delle olive e delle etichette sta inacidendo i rapporti fra governi. Qualche giorno fa Tzipi Livni, la ministra degli Esteri, ha chiesto chiarimenti, perché l'idea di marcare l'ortofrutta degli insediamenti avrebbe incontrato il favore del premier in persona, Gordon Brown, e a Londra si sta studiando una legge con le ong, le associazioni dei commercianti e dei consumatori, tutti d'accordo nel boicottare i prodotti «made in the settlements». E' già pronta una campagna pubblicitaria, simile a quella contro l'apartheid, quando l'opinione pubblica inglese veniva diffidata dall'acquistare esportazioni del Sudafrica bianco. «L'iniziativa è un serio e concreto problema nelle relazioni fra i due Paesi — dice un diplomatico israeliano a Haaretz — e può determinare anche una crisi».
Ron Prosor, ambasciatore negli Stati Uniti, ha approfittato d'un incontro col ministro degli Esteri inglese, David Miliband, per protestare: etichettare in quel modo la produzione agricola dei coloni equivale a un boicottaggio contro Israele e un tentativo d'influenzarne la politica. «Per ora siamo solo a una proposta della sinistra inglese — si giustifica una fonte diplomatica britannica — ed è comunque una misura di maggiore trasparenza che può tornare utile anche al governo israeliano». La posizione di Downing Street è precisa: l'Onu e la Ue hanno stabilito che gli insediamenti sono illegali, le importazioni da Israele godono dal 2000 di dazii privilegiati, ergo i nostri consumatori non possono accettare che i loro soldi vadano a legittimare l'occupazione dei Territori.
L'etichetta sarebbe qualcosa di più d'un regime fiscale differenziato. «E perché non hanno mai messo quella scritta sulle importazioni da tutti i Paesi che non rispettano le risoluzioni Onu?», protestano i diplomatici israeliani: «E' stato Ehud Olmert, nel 2005 ministro del Commercio, a introdurre sui prodotti dalla Cisgiordania l'obbligo d'indicare città, villaggio, zona industriale».
Non basta, replicano gli inglesi: la semplice scritta «prodotto a Masua» o a Netiv Hagdid non spiega con esattezza che quella verdura, quel frutto vengono da un insediamento illegale. E Londra, come gran parte della comunità internazionale, è convinta che non si stia facendo più nulla per smantellare le colonie, nonostante Shimon Peres abbia condannato la settimana scorsa le aggressioni ai palestinesi nella raccolta delle olive e il governo israeliano, due settimane fa, abbia minacciato la mano pesante coi coloni. «Abbiamo sopportato la guerra delle rose, non ci spaventa quella degli ortaggi », è l'ironia british.
Anche perché le olive sono solo l'antipasto. Altre, le questioni aperte fra i due Paesi: dalle pesanti accuse di crimini di guerra al ministro Shaul Mofaz, rimbalzate qualche mese fa, al discusso ruolo di Tony Blair inviato nel Medio Oriente. Pochi giorni, e Miliband arriva a Gerusalemme. Tzipi l'aspetta. Spremi spremi, qualcosa uscirà.

Corriere della Sera 16.11.08
La Binetti: «Conciliare il valore della vita e della libertà»
Babele del testamento biologico Sei progetti diversi solo nel Pd
Creato un «comitato ristretto», ma le divisioni restano
di Andrea Garibaldi


Sul testamento biologico in Senato giacciono dieci proposte di legge: oltre alle sei Pd ci sono le tre del Pdl e una della Lega
ROMA — Da quarantott'ore si leva un coro, da destra e da sinistra: subito una legge sul testamento biologico, la possibilità di scrivere a quali cure si voglia essere sottoposti, anche in caso di incoscienza. Ma dire «ci vuole una legge» non significa nulla. Quale legge? In realtà nel Partito democratico esiste — non è una novità — un profondo contrasto fra l'anima laica e quella cattolica. E nel centrodestra c'è la tentazione di votare la legge a maggioranza, con l'appoggio — appunto — di una parte di Pd e dell'Udc.
In commissione Sanità, al Senato, giacciono dieci proposte, sei del Pd (una dei radicali), tre del Popolo della libertà e una della Lega. Mai questa materia è approdata alla discussione in aula, ma nel 2005 un testo fu votato all'unanimità in commissione al Senato. Diceva che «ogni trattamento sanitario è subordinato all'esplicito ed espresso consenso dell'interessato». Ma cos'è e cosa non è «trattamento sanitario »? Oggi il contrasto è proprio qui.
Il nodo è: «Idratazione e alimentazione ». Indirettamente nelle proposte degli illustri medici del Pd, Marino e Veronesi, ed esplicitamente nella proposta radicale, bere e mangiare sono considerati trattamenti sanitari, ove avvengano con ausili esterni. La legge di Ignazio Marino (credente, ma laico) lascia piena libertà al malato, o al suo fiduciario, di decidere se utilizzare ogni risorsa della scienza, oppure no. Nella proposta Baio Dossi (uguale a quella di Paola Binetti alla Camera) invece «idratazione e nutrizione sono sempre e comunque garantite al paziente». E questo ultimo concetto si ritrova nelle proposte Pdl. Quella del presidente della commissione, Tomassini, dice: «Idratazione e alimentazione parentale non sono assimilate all'accanimento terapeutico ». Difficile conciliare, quindi come andrà a finire? «Se non ci sarà accordo — dice Tomassini — la legge passerà a maggioranza». E il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella: «Binetti e cattolici democratici possono votare con noi».
Nel Pd, per sanare le fratture, è stato creato un «comitato ristretto», che non trova la quadratura. Paola Binetti la vede così: «Io voglio conciliare il valore della vita e la libertà. Nutrizione e idratazione sono forme di sostegno vitale». E spiega: «Lavoreremo nel Pd perché cresca l'anima cattolica. Chiedo agli ex popolari di interpellare la loro coscienza... ».
Nel Pdl, differenze meno marcate. In Forza Italia c'è un gruppo di ex socialisti e radicali come Margherita Boniver e Della Vedova: alla Camera hanno ripresentato la legge approvata in commissione nel 2005. E Berlusconi? Ai tempi del caso Terry Schiavo disse di condividere «in pieno» un articolo di Baget Bozzo dove addirittura si leggeva: «L'eutanasia è l'atto di un uomo libero ». Sette giorni dopo dichiarò: «In casi simili solo Dio può decidere. Io non avrei staccato la spina».
Il presidente Tomassini confida che presto la commissione varerà un testo e entro la primavera il Senato consegnerà una legge alla Camera. Si tratterà della versione voluta da maggioranza e cattolici democratici? «Se così — dice Marino — ci saranno centinaia di cause in tribunale». Sulla scia di Eluana.

Repubblica 16.11.08
Nuovi protagonisti. Elio Germano
di Irene Maria Scalise


In "Mio fratello è figlio unico" rubava la scena a Riccardo Scamarcio. Prima, sulla carta di identità aveva scritto "impiegato" Oggi è finalmente orgoglioso della sua professione di attore. E, a ventotto anni, è stato già diretto dai migliori registi italiani: da Scola a Luchetti, passando per Virzì e Crialese "Finalmente - dice - mi posso permettere di scegliere, ho capito che voglio recitare in film che mi fanno stare bene, in cui condivido qualcosa con gli altri"
"La recitazione è sempre stata la mia ossessione Da ragazzo vivevo anni schizofrenici: a casa parlavo romanaccio, a teatro in versi"

Ha lo sguardo come una lama Elio Germano. In una faccia normale, da ragazzo che potrebbe essere il fratello più giovane del tuo migliore amico, colpisce e incanta. Arriva trafelato, stravolto dal traffico romano che anche per uno come lui, che a Roma c´è nato, non è una cosa normale. Sorride, si scusa, e capisci quello che è successo al pubblico del film Mio fratello è figlio unico, grande successo dell´inverno scorso. Fiumi di spettatori, e non solo donne, entrati in sala per ammirare gli occhi blu di Riccardo Scamarcio e usciti con il cuore toccato dalla passione per Elio Germano. Del resto, uno che riesce a farti amare il personaggio del picchiatore fascista deve avere qualcosa di speciale.
Elio Germano dimostra appena i suoi ventotto anni: magro come un chiodo, capelli arruffati, jeans larghi che sembrano vuoti e zaino sulle spalle. Ma quando parla non ha età: maturo, spiritoso, intelligente e, soprattutto, vero. Si agita sulla sedia, quasi cade all´indietro quando, ridendo delle sue mille disavventure, spiega agitando le braccia nervose quanto è difficile adesso, qui e ora, diventare attore in Italia. Umiliazione e fatica. Passione e rabbia. «Prima di Mio fratello è figlio unico, sulla carta d´identità avevo scritto impiegato: mi vergognavo all´idea che qualcuno mi potesse riconoscere, però io questo mestiere l´ho sempre amato e non certo per dire faccio l´attore ma proprio perché mi piaceva salire sul palco».
Da ragazzino era un´ossessione. Non è facile vivere così: andare a scuola, giocare con gli amici a pallone, fare judo ma, in fondo, pensare solo a quello. Esistere per recitare. L´unica occasione di sfogo erano i villaggi turistici dove i genitori, papà architetto e mamma impiegata di banca, lo portavano in vacanza. «Mi lanciavo come un pazzo su tutti i teatrini dei club estivi, provavo per ore mentre gli altri andavano al mare e poi tornavo a Roma e mettevo in croce i miei».
A quel punto la decisione di famiglia. Cercare un qualsiasi aggancio per questo figlio così determinato: «Non è una cosa facile, le persone normali non frequentano il giro del cinema. Mio nonno era arrivato dal Molise e a Roma l´avevano arrestato subito, perché non aveva il permesso di soggiorno, ma per fortuna era riuscito a mettersi in regola e aveva trovato lavoro come portinaio in un palazzo del quartiere Prati. Proprio in quello stabile abitava Jole Silvani, un´attrice di Paolo Poli. Per i miei nonni lei era l´attrice, un valore assoluto, ancora ricordo tutti i nomi dei condomini sul citofono e quello della Silvani che secondo me risplendeva più degli altri». Comunque l´attrice gli diede il consiglio giusto: iscriversi a una scuola di teatro. Ripensandoci gli occhi si addolciscono un poco. «Tre pomeriggi la settimana fuggivo dalla mia routine di studente e entravo in un mondo nuovo fatto di Shakespeare, Cechov, esercizi di pronuncia. Da un lato mi sembravano tutti matti, dall´altro era meraviglioso aver trovato una cosa che mi piaceva e che era un´estensione dell´anima di bambino. Erano anni schizofrenici: a casa parlavo romanaccio, a teatro mi esprimevo in versi».
Passioni così, però, stravolgono l´esistenza. Allontanano e possono fare male: «I miei erano preoccupati della deriva, del fatto che trascuravo la scuola, gli amici, ero come uno che si è innamorato e ha perso di vista la realtà». E la realtà di Elio non era esattamente da cartolina. Era quella delle periferie romane. Anzi, della periferia, quella di Corviale, il quartiere divenuto famoso perché ci hanno costruito un palazzo lungo un chilometro, da sempre rifugio degli immigrati e degli abusivi. Quando ne parla s´irrigidisce, la lama degli occhi non perdona i finti romanticismi. I tendini sottili del collo sembrano gonfiarsi: «Questa storia di Corviale me l´hanno appiccicata addosso e sembra quasi una favola, io non ci vedo niente d´originale. Sono nato nel quartiere vicino e ci sono rimasto perché comprare casa da un´altra parte sarebbe stato troppo caro. C´è del bello in quei posti estremi ed è che sono rimasti i soli dove ci sono rapporti umani, è come se il degrado migliorasse i sentimenti. Per il resto è solo uno schifo. Non trovi mai un autobus, manca il verde e hanno eliminato le botteghe per costruire mostruosi centri commerciali».
Dopo le scuole di teatro per Elio Germano è arrivato il cinema, qualche particina in televisione, le pubblicità. Senza storcere troppo il naso: «La differenza per un attore è rappresentata da chi lavora per mantenersi e chi, grazie ai soldi, può scegliere di fare solo quello che desidera. La povertà aiuta perché insegna che nel lavoro non c´è nessuna vergogna, che non stai rubando niente e se ti fanno delle proposte oscene casomai si deve vergognare chi te le prospetta. Io mi sono confrontato con il mondo reale sin da ragazzo e credo sia la migliore lezione, perché questo è un mestiere che va fatto con le mani».
Dopo Il cielo in una stanza, commedia per i fratelli Vanzina, Elio prende il volo: Ettore Scola lo inserisce nel cast di Concorrenza sleale e lo fa lavorare al fianco di Sergio Castellitto, Gérard Depardieu e Diego Abatantuono. Emanuele Crialese lo chiama per Respiro, Giovanni Veronesi lo vuole in Che ne sarà di noi e Michele Placido in Romanzo Criminale. Quindi Abel Ferrara gli offre una parte nel suo Mary e Elio arriva alla mostra del Cinema di Venezia. Gabriele Salvatores e Paolo Virzì lo scritturano per Quo Vadis, Baby? e per N-Io e Napoleone. Di lui Virzì dice: «Un attore straordinario. Basta puntargli la macchina addosso e lasciarlo andare. Sai che qualcosa accade sempre».
Ma il successo vero arriva con Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti, ispirato al romanzo Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi. Per quel film vince il David di Donatello come miglior attore protagonista 2007. Di tutta quella gloria un po´ è contento e un po´ ci scherza: «La verità è che la vendibilità di quel film era legata all´immagine di Scamarcio, poi il pubblico ha scoperto che il protagonista ero io e la sorpresa ha giocato a mio favore. Un giorno magari mi capiterà il contrario».
Sulla difficoltà di essere un fascista, anche se solo per due ore, invece ironizza tristemente: «Tra i ragazzi di oggi chi dice d´essere fascista non ha nessuna cognizione di causa, i giovani parlano senza senso. Proclamandosi di destra difendono le privatizzazioni e non sanno che Mussolini sarebbe inorridito di fronte alla Gelmini. Il loro unico desiderio è di non essere politicamente corretti, non capiscono che finiscono per essere strumentalizzati e che la politica vera, quella che arriva dall´alto, li usa per mandarli allo sbaraglio».
Nel 2008, dopo Nessuna qualità agli eroi, interpreta il personaggio principale de Il mattino ha l´oro in bocca, film ispirato alla tormentata autobiografia di Marco Baldini, nota voce radiofonica. Quindi un altro film di Virzì, Tutta la vita davanti, sui problemi legati al mondo dei call center, e Il grande sogno, sempre insieme a Scamarcio. E poi ancora il film di Salvatores Come Dio comanda, tratto da una storia di Niccolò Ammaniti. Un´attività frenetica, che gli ha finalmente tolto di dosso l´insicurezza del precariato: «A un certo punto mi hanno piazzato in tutti i lavori perché il sistema funziona così: se hai successo in un film, sono convinti che funzionerai anche negli altri. Però adesso che finalmente mi posso permettere di scegliere, ho cominciato a farmi delle domande e ho capito che voglio recitare in film che mi fanno stare bene, in cui condivido qualcosa con gli altri. Non mi piace l´interpretazione masturbatoria e, se devo scegliere tra una buona squadra e un prodotto di sicuro successo, preferisco la prima perché il valore di un film non lo vedi quando esce ma da quanta gioia ti dà quando lo prepari».
Nessuna qualità agli eroi è l´opera cinematografica che gli è costata più fatica. Nei lunghi mesi di preparazione è dimagrito quasi dieci chili ma, alla fine, si è ritrovato in vetrina per una scena di nudo. Al ripensarci gli occhi s´incupiscono, le vene sulla fronte si gonfiano: «È assurdo che i giornalisti si scandalizzano perché un attore è nudo, in fondo il sesso fa parte della nostra vita. Non c´è psicoanalisi senza la sessualità di un personaggio e invece alla conferenza stampa di Venezia parlavano solo di quello».
Elio non ha un rapporto facile con la stampa e con il pubblico. «Soprattutto la televisione è rovinosa perché crea negli spettatori un senso di proprietà sull´attore. Per la strada ti fanno le foto come fossero allo zoo. Io, se un ammiratore mi ferma, vorrei magari berci un caffè, creare uno scambio umano, ma alla gente non gliene frega niente di parlare, ti vogliono solo mettere sul telefonino perché così diventi una cosa loro. Credo che la colpa sta nel fatto che la televisione ci rende simili a un elettrodomestico e la gente ti sente cosa sua, come il frigorifero o il divano. Nel pubblico del cinema c´è più scelta e di conseguenza maggior rispetto».
La parte più brutta del mestiere di attore, anche nel cinema, è la promozione del film. «Ti senti un prodotto da gestire, ti dicono dove andare e cosa dire. Io all´inizio avevo dei problemi perché mi rifiutavo di rispondere e pensavo che mostrarmi in televisione poteva essere un´occasione per recitare e, invece, regolarmente mi chiedono se sono fidanzato o se veramente lavoro nell´orto. E pensare che ero convinto che l´attore, proprio perché interpreta tanti ruoli, dovrebbe essere asettico. Una figura neutra senza storia e senza anima. Poi ho imparato dagli altri e ho capito che è anche una questione di cortesia ma non sempre mi controllo». Un esempio per tutti? «Un giorno mi hanno telefonato e ho risposto che ero in autobus, da allora ho addosso la definizione dell´antidivo che gira in autobus. Figuriamoci, anche volendo non potrei farlo perché a Corviale i mezzi pubblici non ci sono mai arrivati».
In questi giorni Elio Germano è sul grande schermo con Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari. Un film in cui il protagonista, studente modello, all´improvviso scopre "lo stomaco": la realtà squallida e imperfetta del mondo del gioco. «La mia preparazione è diversa secondo le sceneggiature, in questa ho dovuto costruire l´ossessione di un personaggio che ha vissuto la sua esistenza nella distanza e all´improvviso toglie un tappo all´anima. È uno di quei film in cui ti devi immedesimare e costruirti nella testa la stessa malattia del protagonista». In più uscirà a breve Come Dio comanda di Gabriele Salvatores. Faticoso? «Sicuramente, ma niente rispetto alla necessaria promozione».

sabato 15 novembre 2008

Corriere della Sera 15.11.08
Da sinistra Lo storico: questi ragazzi non mettono in discussione i poteri dello Stato
Asor Rosa: clima molto diverso dal '68
di Alessandra Arachi


ROMA — Alberto Asor Rosa li ha visti da vicino questi ragazzi che protestano. All'università, ovviamente. «Non ieri perché ero fuori Roma, ma li ho visti spesso». Con simpatia, sicuramente.
Non c'è dubbio: il famoso storico della letteratura guarda con benevolenza a questo neonato movimento di protesta. Dice: «Mi sembrano poco ideologizzati, molto concreti. Però certamente molto lontani dalle esperienze precedenti».
Esperienze precedenti? A cosa allude Asor Rosa? «Al Sessantotto, per esempio. Quello era tutta un'altra cosa: era il tentativo di cambiare attraverso le lotte studentesche il sistema politico e sociale. E non dimentichiamoci che alle lotte studentesche all'epoca si affiancarono le lotte operaie». Questa volta è diverso, secondo Alberto Asor Rosa. «Questi ragazzi non mettono in discussione i poteri dello Stato. Guardano al lavoro, al futuro, al clima civile. Hanno obiettivi mirati». Ma sono totalmente privi di modelli da seguire.
Asor Rosa ci pensa su. Poi annuisce: «Sì, è così. Il fatto è che i giovani hanno sempre alle spalle un certo tipo di mondo. E di certo quello che stava alle spalle del Sessantotto era molto diverso da oggi. C'era il Vietnam, ad esempio, con tutto il suo richiamo patriottico comunista. Un forte richiamo per quella generazione».
E oggi che succede? Che richiamo hanno questi ragazzi che protestano? Quali prospettive a lunga scadenza? «I giovani oggi si confrontano con una realtà che li porta ad essere confusi. Hanno prospettive più ravvicinate, necessariamente ». Però Asor Rosa sembra non volersi scoraggiare: «Io credo che comunque questo movimento sia destinato a crescere».
E questo a dispetto delle prospettive brevi o della totale mancanza di modelli di riferimento? Asor Rosa sospira: «Beh evidentemente sono fatti così, questi ragazzi. Ad una manifestazione mi risulta che gli studenti abbiano voluto cacciare via Beppe Grillo. Forse sono riluttanti a trovare modelli, gente che venga da fuori».
Però forse Grillo non è proprio un modello di riferimento adatto per una protesta come la loro? «In effetti. A pensarci bene anche oggi i modelli ce li avrebbero, se soltanto volessero ». Qual è uno che le viene in mente, professore? «Barak Obama. Chissà perché questi ragazzi non ci hanno proprio pensato di prendere almeno lui come modello».

Corriere della Sera 15.11.08
Incontri Alla vigilia degli 88 anni, lo studioso ripercorre le tappe della sua carriera e dimostra come competenza e eclettismo non siano antitetici
Starobinski
«Un testo è una voce che ci parla una critica troppo tecnica lo uccide»
di Nuccio Ordine


«Avevo sedici anni quando mio padre mi regalò per il compleanno la Pléiade degli Essais di Montaigne con la prefazione di Albert Thibaudet. Fu un "incontro" che lasciò un segno profondo. Da allora la letteratura mi ha accompagnato per tutta la vita». Jean Starobinski, una delle voci più importanti e originali della critica letteraria contemporanea, festeggerà lunedì il suo ottantottesimo compleanno. In sessant'anni di febbrile attività, i suoi celebri saggi su Montaigne, Baudelaire, Rousseau, Montesquieu, Diderot gli hanno procurato prestigiosi premi (Institut de France, Balzan, Goethe) e numerose lauree honoris causa (l'ultima, il prossimo 19 dicembre, dall'Orientale di Napoli).
L'appuntamento con il critico ginevrino è nel suo nuovo appartamento di Avenue Champel, a Ginevra. «Ho vissuto — dice sorridendo — in un ambiente dominato dall'interesse per la medicina e per la letteratura. Mio padre, mia madre e mia zia erano medici. Ma in casa non arrivavano solo le riviste scientifiche. I miei genitori erano anche abbonati alla Nouvelle Revue Française
che mi ha fatto precocemente conoscere i lavori di Gide, Rivière, Thibaudet».
E proprio lungo questo doppio binario scientifico e umanistico, Starobinski (affettuosamente chiamato Starò dagli amici e dagli allievi) compie il suo percorso di formazione. Prima la laurea in Lettere classiche a Ginevra nel 1941 e poi quella in Medicina nel 1951. «Dopo la laurea in Lettere mi resi conto che non c'erano buone prospettive di lavoro. Così, incoraggiato anche dalla mia famiglia, decisi di iscrivermi a Medicina. E quando nel 1946 divenni assistente di Marcel Raymond continuai i miei studi di psichiatria, indirizzandomi però verso la storia delle scienze. Alla Johns Hopkins University, infatti, insegnavo letteratura francese e frequentavo i corsi di due maestri, Temkin e Edelstein, presso l'Istituto di Storia della medicina. Poi Georges Bataille e Eric Weil mi chiesero di collaborare a Critique con una serie di saggi in cui mettevo a frutto le mie competenze scientifiche e letterarie».
Non a caso Starobinski, nel corso della sua lunga carriera, ha attraversato in lungo e in largo le più diverse discipline, utilizzando strumenti della psicoanalisi e della linguistica, della filosofia e dello strutturalismo, della fenomenologia e della storia delle scienze. Ma si è trattato di un dialogo che non ha mai generato la scelta esclusiva di un metodo. «Ho sempre cercato di piazzarmi nel movimento dei diversi orientamenti della ricerca. Il critico deve prestare molta attenzione alle trasformazioni delle conoscenze. Deve saper ascoltare il dibattito sui metodi e sulle idee, cercando di appropriarsi di ciò che può essere utile al suo lavoro di indagine».
Ma l'attitudine all'ascolto e l'attenzione alle «variazioni» — coltivate, probabilmente, sin dalla giovinezza anche nella sua passione per la musica e per il pianoforte — hanno soprattutto guidato il rapporto che Starobinski, volta per volta, ha intrecciato con i classici di cui si è occupato. «Per prima cosa bisogna accogliere il testo così com'è e, soprattutto, saperlo ascoltare, perché un testo è una voce che ci parla. In lui c'è qualcosa di immediatamente ricevibile: il sistema delle immagini, dei ritmi, delle rime e la stessa materialità del linguaggio. Il testo ci interroga, ci domanda di rendergli giustizia riconoscendo la sua direzione, la tensione di fondo che lo anima. Si crea una sorta di va e vieni tra una ricezione generosa, accogliente, interrogativa e, successivamente, un'iniziativa che bisogna prendere poiché non possiamo accontentarci di essere passivamente l'eco del testo. Spetta al critico, insomma, avere un progetto e sapere dove vuole andare una volta che ha accolto il testo. E, in questa fase, l'individuazione di un tema, di un motivo, di un'immagine può essere determinante per interrogare un'opera o una serie di opere. Devo molto a Marcel Raymond e a Georges Poulet».
Per Starobinski, insomma, l'analisi dello specifico testuale, della sua forma, deve essere sapientemente coniugata con l'analisi dei contenuti. La letteratura non può essere considerata come un universo chiuso in sé, come autoreferenziale: essa ci parla sempre e comunque del mondo, raccontando i sentimenti e le contraddizioni che animano il genere umano. «Nessuno vuole negare che la letteratura ha sempre avuto relazioni con la letteratura precedente e che essa cerca di costituirsi come un corpo indipendente. Ma questo non significa che la letteratura designi solo se stessa. Essa è sempre in rapporto con la realtà anche quando esprime un rifiuto del mondo. Non ci può essere letteratura senza lettori e senza una relazione tra lo scrittore e suoi lettori. Perciò non sono stato mai tentato dall'idea di autoreferenzialità della letteratura, un modello che non mi pare abbia prodotto risultati significativi ».
Il critico ginevrino esprime anche preoccupazione per gli eccessi di specialismo. La sua doppia formazione lo ha sempre incoraggiato a superare i limiti dei ristretti perimetri disciplinari per abbracciare i saperi più diversi. «Un eccesso di specializzazione può rendere incomprensibile il nostro lavoro: un critico deve essere sufficientemente istruito nei singoli domini e, nello stesso tempo, però capace di filtrare e decantare ogni forma estrema di tecnicismo. Se la critica diventa fine a se stessa (il sapere per il sapere) si corre il pericolo di uccidere la letteratura. Ma la stessa preoccupazione riguarda altre discipline: i filosofi analitici non rischiano di uccidere la filosofia?».
Le pagine esemplari che Starobinski ha dedicato alla malinconia testimoniano la ricerca di un equilibrio tra letteratura e medicina. Nel corso dei secoli la stessa parola ha significato cose opposte: il genio energico e fantasioso in preda all'ispirazione creatrice e il malato apatico in preda ai pensieri di morte. «Si tratta di un tema affascinante cui ho dedicato la mia tesi di Medicina quando diventai psichiatra. In quegli anni c'era molta attenzione per la depressione e per le cure chimiche che si andavano sperimentando. Partendo dagli studi di Panofsky, Saxl e Klibansky ho ripercorso la storia della malinconia nei testi letterari e nei trattati di medicina fino all'Ottocento».
«L'insegnamento — conclude il critico — mi manca. Ma i progetti da portare a termine riempiono tutta la mia giornata. Sto risistemando una serie di saggi su Diderot e Rousseau. E poi vorrei realizzare un libro su un tema che mi attrae tantissimo: la descrizione nei testi letterari di una giornata tipo».

Corriere della Sera 15.11.08
Escono in italiano gli scritti del filosofo francese sull'arte di edificare la città
L'architettura processa Derrida
«Cattivo maestro» o «utopista», ha armato la mano delle archistar
di Pierluigi Panza


La storia dei grattacieli storti, disassati, antisimmetrici — prima invocati per non escludere l'Italia dalla
nouvelle vogue architettonica, poi denunciati come edifici alla moda e incompatibili con il contesto urbano della città europea —, ha una data di inizio, che si può fissare nel 1985. È l'anno in cui l'architetto Bernard Tschumi, vincitore del concorso per costruire il Parc de la Villette a Parigi, chiese al filosofo Jacques Derrida di collaborare con lui e con Peter Eisenman. Preso alla sprovvista, Derrida pensò che il suo propagandato «oltrepassamento della metafisica» attraverso la decostruzione della «traccia» potesse sperimentarsi anche in architettura. Dalla collaborazione con Eisenman nacque un abbozzo non realizzato, ma Derrida scrisse la presentazione dell'intervento al parco parigino realizzato da Tschumi intitolandola Point de folie - maintenant l'architecture, poi pubblicata in
Psyché nel 1987 (parzialmente tradotta in italiano nell'antologia Estetica dell'Architettura
edita da Guerini nel 1996). I «punti di follia» di cui parla Derrida sono rappresentati materialmente dalle folies, ovvero 42 casotti quadrati di colore rosso disseminati nel parco secondo una griglia rigida, uguali di misura ma ogni volta decostruiti, con funzioni d'uso diverse e arricchiti con differenti elementi pop: ora un gigantesco orologio, ora un sottomarino che fa da hall di ingresso, ora la ruota di un mulino (nella foto).
L'intervento di Derrida suscitò un dibattito che trovò nuovo esito quando, nel 1988 al Moma di New York, Philip Johnson e Mark Wigley realizzarono una mostra di nuovi progetti intitolandola «Deconstructiviste Architecture». A quel punto il cortocircuito era avvenuto, e le «archistar» misero mano alla matita.
Quell'intervento di Derrida, insieme ai dibattiti che ne seguirono, e ad altre riflessioni del filosofo sull'architettura, trovano ora definitiva pubblicazione italiana in un libro a cura di Francesco Vitale ( Adesso l'architettura,
Scheiwiller, pp. 372, e 24).
Questi saggi si configurano come un rapsodico commentario teorico all'architettura decostruttivista, non come una teoria. Il filosofo francese, non immune dallo scivolare in contorti esercizi di stile, lancia più che altro spunti di riflessione, argomenti senza però, come suo proprio stile, arrivare a definire un nuovo metodo e, ancor meno, statuti costitutivi di una disciplina. Come evidenzia nel saggio poi raccolto in Psyché, ciò che sarebbe da decostruire per Derrida è l'idea stessa che «l'architettura debba avere un senso, debba presentarlo e significare qualcosa». L'esperienza della decostruzione deve intervenire sul senso dell'abitare, sulla gerarchia dell'organizzazione architettonica, sull'idea che l'architettura debba essere al servizio di qualcos'altro e in vista di un fine. E anche sull'idea che l'architettura rientri nel campo delle belle arti, aspetto quest'ultimo che però, secondo l'antropologo Franco La Cecla, il decostruttivismo «ha invece favorito». «Il concetto di architettura è esso stesso un constructum mentale— scrive Derrida —. Un'assiomatica attraversa, impassibile, imperturbabile, la storia dell'architettura. Un'assiomatica, cioè un insieme organizzato di valutazioni fondamentali sempre presupposte. Questa gerarchia si è fissata nella pietra, informa ormai tutto lo spazio sociale». Per Derrida questa assiomatica, che coincide con l'intera storia del vitruvianesimo, ovvero quella che il critico inglese John Summerson ha definito Il linguaggio classico dell'architettura (1966) è da decostruire.
A distanza di una ventina d'anni da queste proposte teoriche, l'uscita in italiano di questi testi è l'occasione per una prima verifica della stagione alla quale hanno fornito supporto teorico, prima che tutti gli studenti di architettura si mettano a laurearsi solo su edifici storti. Questa stagione è fatta di «oggetti» riusciti (Guggenheim di Bilbao di Gehry), parzialmente riusciti (Museo ebraico di Berlino di Libeskind), falliti (uffici al Mit di Gehry), in arrivo (grattacieli storti di Libeskind, Isozaki e Hadid a Milano), edifici riusciti e altri mostruosi nella provincia italiana. Decostruire il vitruvianesimo ha voluto dire superare la storia della trattatistica, dimenticare abdicare di fronte a metodi, tipologie, logiche urbanistiche per aprirsi a alla «chance», all'heideggeriano «far spazio». Una direzione scelta ancora da Aaron Betsky nell'ultima Biennale di architettura, nella quale si vuole «andare oltre l'edificio perché gli edifici ormai sono tombe», afferma Betsky, che vede in Derrida una carica di utile utopismo. Si tratta di una dimensione nella quale il relativismo nichilista si presenta come alternativa alla costruzione razionale. Il gioco, prende il posto della meccanica razionale e la dimensione nietzschiana della Gaia scienza e del dionisiaco il posto dell'illuministico «rigorismo » architettonico. Tanto che un teorico che punta tutto sulla geometria, come Nikos Salingaros, boccia senza mezzi termini Derrida come «cattivo maestro»: «Le sue sono parole vuote. Derrida ha decostruito prima la letteratura e la lingua, tagliando i legami tra significati che formano la base della comunicazione. Poi, ha voluto applicare lo stesso metodo distruttivo all'architettura. Solo che non era nemmeno capace di farlo, perché non sapeva niente di geometria. Il suo discorso con Eisenmann per il Parc de la Villette è assurdo. Senza volerlo, Eisenman ha mostrato che le idee di Derrida sono un metodo per distruggere, non per costruire».

venerdì 14 novembre 2008

Il Giornale 14.11.08
Il «Berti-bossi» seppellisce il comunismo
di Luca Telese


Roma. Quindici tesi per rifondare la sinistra, scritte in una lingua di mezzo, a metà fra il «bertinottese» stretto e il «neopadano». C’è qualcosa di curioso nel percorso di «reinserimento» di Fausto Bertinotti nella società, dopo la traumatica (per lui) esperienza alla presidenza della Camera. Certo, non è facile per nessuno: per provarlo basta ricordare la parabola dolorosa di Irene Pivetti, che transitò in meno di un mese dai foularini color pastello ultra-istituzionali, alla passerella in camicia verde ultraleghista, alla fondazione di un partito di cui non si ricorda più nessuno (l’Orso!), all’ipotesi centrista della lista Dini, per approdare a una nuova vita televisiva con rubrica delle lettere del cuore su La7, fino alla conduzione di prime serate Mediaset, e servizi fotografici vestita in lattice nero come Catwoman, o accompagnata dai pettorali scolpiti di Costantino Vitagliano. Si dirà: a Bertinotti è andata meglio. Una trombatura sontuosa come candidato premier della lista Arcobaleno e il faticoso tentativo di ritagliarsi il ruolo di «grande saggio» a sinistra.
Percorso non impossibile: poche interviste mirate, la direzione di una pensosa rivista (Alternative), qualche centellinata riflessione da leader super partes. Senonché il digiuno mediatico è difficile per tutti. Dopo uno struggente addio ai monti, o meglio a Porta a Porta («È la mia ultima puntata, mi ritiro dalla politica»), l’astinenza dal palcoscenico è faticosa. Così Bertinotti non resiste agli inviti del suo amico Massimo Fagioli, e le sue folle di «fagiolini» (gli ultimi che non gli lesinano applausi). E nemmeno alle richieste di intervista di Bruno Vespa. Così Bertinotti aveva appena archiviato la disastrosa sconfitta subìta al congresso di Rifondazione (il suo candidato, Nichi Vendola, è stato messo incredibilmente in minoranza con il 47%, anche e sopratutto per l’ostilità che si era accumulata contro di lui) ha fatto un altro scivolone imperdonabile agli occhi degli ex compagni: ha incautamente dichiarato - in una intervista per l’ultimo libro di Bruno Vespa Viaggio in una italia diversa - che «il comunismo è ormai indicibile». Ora, a parte che Vespa è uno che ai politici italiani riesce a strappare qualunque cosa, i militanti del Prc non l’hanno presa bene, e Bertinotti è a rischio fischiaggio in molte sedi del suo partito (gli è successo anche il 12 ottobre al corteo antigovernativo promosso da Rifondazione).
Incivili, certo. Ma per tornare a «volare alto» Fausto doveva trovare il modo di far dimenticare quelle revisioni vagamente gossipare dell’utopia comunista. Così, ieri, su Liberazione, ha pubblicato il suo nuovo manifesto, una sorta di vademecum per risollevare le sorti della sinistra. E qui, per chi si è pazientemente letto la doppia lenzuolata bertinottiana, qualche sorpresa è arrivata. Per esempio alla tesi numero 8): «Era già evidente dopo la sconfitta che la rinascista della sinistra sarebbe dovuta essere, in realtà, un cominciare da capo. Tutto ciò che accade, avvalora questa tesi. Il rinnovamento nella continuità che sarebbe stato possibile fino a ieri - avverte Bertinotti - oggi è impossibile». Seconda doccia scozzese per i militanti, al punto 11): «Si tratta di ricominciare da capo... Non sarà un caso che nel rinascimento della sinistra latinoamericana, nessuna grande formazione politica che lì ha condotto alla vittoria, nei diversi Paesi, la sinistra e i popoli del continente si chiami comunista». Quindi, se mai non fosse chiaro, l’ennesimo certificato di morte per la storia politica del «comunismo». Punto 12) «Il Pd non è di sinistra, non per la composizione della sua base sociale, ma per la natura intrinseca del partito e del suo progetto politico». Nostalgie uliviste? Macché, al punto 13) Bertinotti stila un altro certificato di decesso, quasi impietoso: «Il centrosinistra è finito, ed è finito insieme alla sua tormentata, speranzosa, ma al fondo fallimentare stagione». Caspita.
Ma è il punto 15), l’ultimo, quello che stupisce più di tutti, non solo per il contenuto politico, ma addirittura per le scelte lessicali. Se non ci fosse la firma di Bertinotti, infatti, leggendo un singolo passo, sembrerebbe di sentire parlare Umberto Bossi, il leader del Carroccio in persona. Scrive infatti Bertinotti: «Il centralismo romanocentrico, figlio non più dell’esigenza nazionale di una formazione compatta di combattimento, bensì della governamentalità, e della centralità delle istituzioni della politica va spezzato in radice, dalle fondamenta». Morale della favola? «Va fatta, nell’organizzazione della politica della sinistra - scrive Bertinotti - la scelta di un modello federativo partecipato, fondato sulla pianificazione dei ruoli dirigenti tra autonome strutture regionali, la sinistra sarda, campana, lombarda, toscana, pugliese, eccetera». Parola di Fausto Bertinotti - pardon - Bertibossi.

il manifesto 13.11.08
Bertinotti frena la scissione Alle europee sinistra unita
Nelle tesi dell'ex segretario liste aperte sotto la falce e martello
di Matteo Bartocci


Quindici tesi per la sinistra. Oggi su Liberazione Fausto Bertinotti prova a riprendere il filo unitario rotto con la disastrosa sconfitta di aprile. Non per marcare le differenze e sollecitare scissioni di corrente ma per ritrovare «l'uscita a sinistra dalla crisi del movimento operaio del '900». Come titolo alle sue tesi Bertinotti riparte da se stesso agli stati generali di dicembre: «Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua», disse allora alla Fiera di Roma prima del disastro arcobaleno e ripete oggi, con un aforisma che Google attribuisce nientemeno che al guru Sai Baba.
E' un invito all'unità della sinistra, a tutta la sinistra, a costruire quel big-bang necessario alla sua rinascita. Tesi dove la parola comunismo non è indicibile ma nondimeno deve essere maneggiata con cura. In una sinistra in cui le identità contano e vengono da lontano ma devono avere il coraggio di «fare massa critica» se vogliono ambire a trasformare la società. E' una sinistra che deve tornare a imparare, andando a lezione dal movimento della scuola, e ritrovare voce sul terreno sindacale (con la Cgil in primis) e su altre contraddizioni fondamentali, oltre a quella generata dal capitale, come quelle ambientale e di genere.
Nelle ultime due tesi la lunga analisi sulla società e la sconfitta epocale di aprile precipitano nel futuro e nella forma della possibile reazione. Si legge chiaramente l'invito a un'impresa comune per una «forza politica unitaria e plurale così com'è oggi possibile» e a scegliere le primarie o comunque la partecipazione «una testa, un voto» per decidere tutto, a cominciare dai gruppi dirigenti.
Non è il là alla scissione di Rifondazione verso Sinistra democratica. Né certamente la sua sconfessione. E' la prima forma pubblica, certo autorevole, della tregua che un po' goffamente l'area Vendola ha chiesto e ottenuto all'interno del partito pur impegnandosi ufficialmente nell'associazione con Fava e compagni.
Una tregua che per Bertinotti può prendere due forme. In alto, alle elezioni europee, con una lista nazionale in cui, dice, è preziosa l'esperienza della Sinistra europea. Un precedente dove, anche se l'ex segretario non lo ricorda esplicitamente, la metà delle liste furono di iscritti al Prc e l'altra metà aperta all'esterno (movimenti, associazioni e stavolta, chissà, anche altri partiti o pezzi di essi) fino al clamoroso successo del «disobbediente» Nunzio d'Erme. In basso, insiste però Bertinotti, l'unità si può fare con un modello federativo dove rappresentanze territoriali e direzione centrale contino allo stesso modo (una sinistra lombarda, pugliese, etc. accanto a quella nazionale).
Per le reazioni bisognerà attendere. Martedì intanto una riunione dell'area vendoliana «Rifondazione per la sinistra» ha registrato molti dissensi alla scissione. E non è da escludere nei prossimi giorni un documento pubblico firmato soprattutto da dirigenti di federazione ostili al salto nel buio fuori dal partito. L'idea prevalente, in questa fase piuttosto confusa, è di insistere per liste unitarie alle europee senza precludersi, là dove è possibile, liste di sinistra dal basso insieme a Sd e Verdi. Per esempio a Firenze, in Basilicata o a Bari.
Ma è un doppio binario che sicuramente troverebbe l'ostilità di tutta la maggioranza di Rifondazione inclusa la componente ferreriana.
Ieri sera il segretario nulla sapeva delle tesi di Bertinotti in uscita sul quotidiano del suo partito. Ma certo è che almeno per Ferrero dal congresso di Chianciano è uscito con chiarezza da un lato il no alla riproposizione dell'Arcobaleno, dall'altro il sì all'apertura delle liste di Rifondazione a soggetti comunisti e non comunisti. Sotto la falce e martello molto è possibile. Ma come spiega uno dei dirigenti a lui più vicini «non si può proprio fare che si chiede una tregua per le europee e poi ci si mette a fare la guerricciola alle amministrative dove si può». La sinistra, del resto, ha già dimostrato di buttarsi nell'acqua e finire per affogare.

l’Unità 14.11.08
Eluana, ultimo atto. «Basta accanimenti»
di Andrea Carugati


La decisione della Suprema Corte conferma la sentenza del 9 luglio scorso della Corte d’Appello di Milano. Il ricorso respinto per «difetto di legittimazione all’impugnazione». Un dramma durato 16 anni.
Dopo più di 10 anni, ha vinto Beppino Englaro. E ha vinto, soprattutto, sua figlia Eluana, la sua «straordinaria tensione verso la libertà», come hanno scritto i giudici della Cassazione nella storica sentenza di ieri in cui hanno riconosciuto che si può staccare il sondino che da 16 anni la tiene in vita in uno stato vegetativo. Dopo due giorni di camera di consiglio, i giudici hanno bocciato il ricorso della procura generale di Milano, che aveva impugnato il decreto con cui la Corte d’appello del capoluogo lombardo, nel luglio scorso, aveva dato il primo via libera a interrompere l’alimentazione artificiale. Il primo presidente della Suprema Corte, Vincenzo Carbone, ha spiegato in un comunicato che il ricorso è stato respinto «per difetto di legittimazione all’impugnazione», come aveva chiesto martedì durante l’udienza pubblica il Pg Domenico Iannelli. La sentenza, numero 27145, è lunga 21 pagine nelle quali il relatore Mario Rosario Morelli spiega il perché del rigetto: la vicenda in questione non riguarda un «interesse generale e pubblico ma una tutela soggettiva e individuale» di Eluana. L’intervento del pm, nelle cause civili, si giustifica solo se il caso riguarda un interesse pubblico, ma stavolta si trattava di un «diritto personalissimo del soggetto, di spessore costituzionale come il diritto di autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale».
Soddisfatti i legali della famiglia Englaro. «È quello che ci aspettavamo e non poteva andare diversamente. La Cassazione ha fatto giustizia», dice Franca Alessio, curatrice speciale di Eluana. «Hanno vinto la giustizia e le regole del diritto», dice Vittorio Angiolini. «Ora il decreto di luglio può essere eseguito, e il padre può autorizzare lo stop ai trattamenti».
Il relatore Morelli ricostruisce nelle motivazioni la lunga vicenda giudiziaria di Eluana. Le sezioni unite evidenziano come la Corte d’Appello di Milano, il 9 luglio scorso, sia giunta alla decisione di dare l’ok a staccare il sondino «in considerazione sia della straordinaria durata dello stato vegetativo permanente (e quindi irreversibile), sia della, altrettanto straordinaria, tensione del suo carattere verso la libertà, nonché della inconciliabilità della sua concezione sulla dignità della vita con la perdita totale ed irrecuperabile delle facoltà motorie e psichiche e con la sopravvivenza solo biologica del suo corpo in uno stato di assoluta soggezione all’altrui volere». «Tutti fattori - si legge nelle motivazioni- che appaiono prevalenti su una necessità di tutela della vita biologica in sé e per sé considerata». Secondo le Sezioni unite della Cassazione, i giudici d’appello di Milano, a luglio, avevano valutato «analiticamente e approfonditamente» la documentazione sulle condizioni cliniche di Eluana. In sostanza la sentenza di ieri ha confermato quanto stabilito dalla stessa Cassazione nell’ottobre 2007, e cioè che si può “staccare la spina” solo in presenza concomitante di due circostanze: lo stato vegetativo del paziente apprezzata clinicamente come irreversibile e l’accertamento, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento.
E tuttavia la polemica, politica e clericale, contro la Cassazione è durissima. Al punto che tutti i membri togati del Csm hanno firmato per avviare una pratica a tutela dei giudici della Cassazione. Nel documento si sottolinea che la funzione «delicatissima» che spetta alla Cassazione di «mantenere l’unità del diritto nazionale», «richiede una puntuale presa di posizione da parte dell’organo di autogoverno», di fronte agli attacchi ricevuti. L’intervento del Csm servirà a «rammentare al Paese che la Cassazione non si è inventata nulla ma ha applicato la legge», spiega il consigliere Giuseppe Maria Berruti, tra i promotori dell’iniziativa. «Mai prima d’ora ci sono stati attacchi così virulenti nei confronti dell’organo supremo della giustizia italiana», aggiunge il togato Mario Fresa. Un netto stop «agli insulti e alle aggressioni contro una istituzione fondamentale del sistema giudiziario italiano» arriva dai vertici dell’Anm.

l’Unità 14.11.08
La svolta della Cassazione
«Nessuno può opporsi al rifiuto delle cure»
di Giuseppe Vittori


«Una sentenza definitiva non eseguirla è reato»
«La vicenda Englaro è definitivamente chiusa da un punto di vista giuridico. Non eseguire questa sentenza può configurare gli estremi di un reato». Parola di Amedeo Santosuosso, magistrato della Corte d’appello di Milano e componente della Consulta di bioetica, intervenuto alla presentazione del libro scritto dall’anestesista Mario Riccio sulla vicenda Welby, che ribadisce: «La sentenza e il suo percorso giungono a conclusione. A questo punto non vi sono ulteriori possibilità di ricorso da parte di chicchessia».

Il diritto all’autodeterminazione terapeutica esiste in tutte le fasi della vita anche quella terminale. Contro questo diritto personalissimo il giudice non può opporsi. La svolta della Cassazione.
Il diritto personalissimo e costituzionale all’autodeterminazione terapeutica non può essere impugnato da un giudice. È una sentenza che segna una svolta quella con la quale la Cassazione ha dato il via libera alla sospensione dell’alimentazione. Una svolta perché per la prima volta stabilisce che il diritto Costituzionale al rifiuto delle cure «prevale» su quello di altri, come ad esempio sul dovere del medico a rianimare il malato o a quello dei giudici di imporre ancora le cure. I giudici entrano nel merito, per la prima volta. E per la prima volta dicono e risolvono un conflitto normativo che ha tenuto ferme per diversi anni ben otto proposte di legge. Il passaggio cruciale dice così. Dice che «esiste un diritto di autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Dice che non si può fare «richiamo alla impugnazione nell’interesse della legge per accogliere il ricorso della Procura. E non si pone nemmeno il dubbio di legittimità costituzionale, in relazione ai precetti di eguaglianza e della ragionevolezza della Costituzione, stante l’evidente ragionevolezza, invece, del non identico trattamento di fattispecie in cui viene in rilievo un diritto personalissimo del soggetto di spessore costituzionale (come nella specie il diritto di autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale), all’esercizio del quale è coerente che il pm non possa contrapporsi fino al punto della impugnazione di decisione di accoglimento della domanda di tutela del titolare, solo in ragione del quale si giustifica l’attribuzione di più incisivi poteri, anche impugnatori, al pm.
Un anno fa, il 16 ottobre, la prima sezione della Cassazione aveva aperto la strada al disco verde per l’interruzione dell’alimentazione. Nella decisione i supremi giudici indicarono due condizioni concorrenti perché il giudice potesse autorizzare l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione: che lo stato vegetativo sia accertato come irreversibile e che il paziente, e cioè Eluana, avesse dimostrato il convincimento, quando era cosciente, che in un caso simile non avrebbe consentito il trattamento. Oggi ventuno pagine, sentenza 27145, hanno scritto la parola fine. Le ultime sei pagine spiegano perché l’impugnazione della Procura di Milano è inammissibile.
Come aveva detto l’avvocato generale Domenico Iannelli anche le sezioni unite hanno sostenuto che la vicenda in questione non riguardava un «interesse generale e pubblico ma una tutela soggettiva e individuale» di Eluana. Nelle cause civili,come in questo caso spiegano i supremi giudici, «la presenza del pm ha carattere eccezionale, risultando normativamente prevista solo in ipotesi di controversie coinvolgenti anche un interesse pubblico».

l’Unità 14.11.08
La polizia non paga per il G8
Assolti i vertici. «Vergogna»
di Maria Zegarelli


Nell’aula dopo pochi minuti irrompe un grido delle persone che civilmente hanno atteso per ore la sentenza del G8 di Genova: «Vergogna». Assolti i vertici della polizia, solo 13 condanne su 29 richieste.
«Se finisce così è tremendo», sussurra Vittorio Agnoletto mentre il presidente del tribunale pronuncia la sentenza. «E' finita così. In modo tremendo», ripete tra le lacrime Mark Covell, il giornalista inglese che fu quasi ammazzato quella notte del 21 luglio. Li hanno assolti. Hanno assolto gli alti funzionari di polizia accusati di falso ideologico. Hanno condannato, con pene lievi, soltanto Vincenzo Canterini, capo del VII Nucleo del I Reparto mobile di Roma, e i suoi uomini, i picchiatori della scuola Diaz. Il massacro c'è stato. Ma nessuno lo ha deciso. «Vergogna», urlano le parti civili, cioè le vittime di quel massacro. «Vergogna» urlano i genitori, gli amici. Una, due, dieci volte. Haidi Giuliani, la madre di Carlo, piange e urla. Urla e piange. «Questa sentenza significa mancanza di dignità e coraggio». Giovanni Luperi, numero due dell'antiterrorismo; Francesco Gratteri, capo dello Sco; Spartaco Mortola, dirigente Digos; Gilberto Calderozzi, numero due dello Sco: assolti perché il fatto non sussiste. Michelangelo Fournier, vice di Canterini, l'unico che in aula parlò di «macelleria messicana», due anni. Cioè nulla, con l'indulto. Non esiste il teorema su cui i pm Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona hanno impostato la tesi accusatoria. Nessuna «politica criminale» decisa da Roma, dal capo della Polizia, Gianni De Gennaro, che quella sera disse «la Diaz non è un'ambasciata». Il giudice per le indagini preliminari, Daniela Faroggi, si avvicina ad Albini Cardona e lo abbraccia: «E' andata così», risponde lui. Enrica Bartesaghi, presidente del comitato Verità e Giustizia per Genova, tocca la mano di sua figlia, Sara, parte lesa, pestata a sangue alla Diaz, ricoverata in ospedale, prelevata dalla polizia e inghiottita per due giorni a Bolzaneto. Capelli rasta, sguardo disorientato, Sara sfugge alle telecamere. Enrica no. «E' una sentenza indegna, riconoscono il massacro ma assolvono i mandanti. Ho visto mia figlia picchiata, oggi vedo l'impunità». E' vero, riconoscono i giudici Gabrio Barone, Anna Leila Dellopreite e Fulvia Maggio, furono create prove false: le molotov le portarono gli agenti - per questo sono stati condannati Pietro Troiani e Michele Burgio -; è vero che furono provocate lesioni gravissime, che si ruppero le ossa, ma - in sostanza - fu solo responsabilità di chi compì materialmente quei reati. Una tesi ampiamente sostenuta dalla difesa degli imputati. Tredici condannati su oltre duecento agenti che fecero irruzione alla Diaz e tutti i dirigenti che quella notte erano lì. «La Costituzione italiana è stata sospesa per la seconda volta, è stata sancita l'impunità delle forze dell'ordine», dice Agnoletto davanti alla telecamere. Arnaldo Cestaro, 69 anni, quella notte fu il primo a prenderle, l'ultimo ad essere soccorso. Avrà meno di seimila euro di provvisionale. E’ arrivato con un fazzoletto rosso intorno al collo, segno di speranza, diceva nel pomeriggio. Adesso è qui che dice: «Che idea avranno i giovani della giustizia italiana? Questo è un paese che oggi dice: chi comanda non deve rispondere ad alcuno». Luciana Calamai non è parte lesa, non fu picchiata. Ma c'era qui giorni a Genova. Entrò alla Diaz la mattina dopo. Adesso è qui che chiede ai giudici "Ma voi lo avete visto il sangue, tutto il sangue che c'era in quella scuola? Cosa vi hanno insegnato Falcone e Borsellino?». Lorenzo Guadagnucci è un giornalista del Resto del Carlino, non è qui per lavoro. E' qui perché malgrado la sera del 21 luglio continuasse a gridare «sono un giornalista», gli massacrarono una mano, lo bruciarono su una spalla con la scossa elettrica. Lo torturarono. «Perché tutti gli assolti non sono qui? Sono omini di legge, sarebbero dovuti venire in forma di rispetto per questo tribunale, per la magistratura. Non sono venuti perché non hanno il coraggio di guardarci in faccia. Loro lo sanno come andarono le cose», ripete. Perché quella notte fu deciso che bisognava fare un'irruzione, fu inventato un assalto con lanci di bottiglie ad un pattugliane. E' stato provato che non ci fu quell'assalto. «Sono sempre stato sereno, ho sempre avuto la coscienza a posto e la giustizia mi ha dato ragione», dice al telefono il questore Gianni Luperi, ora numero 3 di Aisi, l'ex Sisde. E' l'unico che parla di giustizia giusta. In aula l'unico ad essersi presentato ieri è stato Alfredo Fabbrocini. «Sto zitto anche oggi, ho fiducia in questo tribunale», diceva nel pomeriggio. Anche il pm aveva chiesto per lui l'assoluzione. Ma alle nove della sera, dopo oltre 11 ore di camera di consiglio, non è l'unico assolto in questo processo. Non è azzardato prevedere sin d'ora l'esito della richiesta di rinvio a giudizio per l'ex capo della polizia e attuale numero uno del Dis, l'ufficio che coordina la nostra intelligence. L'udienza è prevista il 25 novembre. L'accusa lo ritiene responsabile di aver indotto alla falsa testimonianza l'allora questore di Genova Francesco Colucci. E' scritto su un cartello appeso intorno al collo delle parti lese. «Lo Stato non condanna se stesso». E alla fine hanno lavato anche quel sangue.

l’Unità 14.11.08
Alla fine Maroni «silura» il prefetto anti-impronte
di Mariagrazia Gerina


Dopo mesi di tensione con Alemanno e le linee del Viminale soprattutto sui temi dell’immigrazione e dell’integrazione, il funzionario viene rimosso. Al suo posto arriva Pecoraro, capo dei vigili del fuoco.
Non hanno usato nemmeno la cortesia della dissimulazione. Alle 9.15 inizia il Consiglio dei ministri, Maroni scalpita, alle 9.35 la notizia è già in agenzia: Carlo Mosca, 63 anni, alle spalle una vita a servizio dello Stato, non è più prefetto di Roma, al suo posto il governo ha nominato Giuseppe Pecoraro, capo dei Vigili del fuoco. Fatto, tolto il disturbo. Dopo tanti rinvii la decisione non poteva essere più secca. Non ci sono nemmeno le altre nomine (quella del nuovo prefetto di Napoli), attese sempre per ieri, a togliere il sapore della rimozione. Maroni può tirare un sospiro. Il sindaco di Roma anche. Mosca, con i suoi tempestivi richiami alla costituzione e al diritto, con il suo no a prendere le impronte ai bambini rom, con i suoi distinguo tra «delinquenti» e «la gente onesta a cui bisogna dare una casa», è stato una spina nel fianco per tutti e due. Neanche Berlusconi deve aver gradito le sue parole sul «diritto degli studenti a manifestare» quando lui aveva appena invocato l’intervento della polizia.
Alemanno si trova nello studio di Unomattina quando il conduttore Michele Cucuzza gli dà modo di commentare in diretta la novità: «Auguri al nuovo prefetto, ha di fronte a se una situazione difficile, ma sicuramente ci sarà una grande collaborazione istituzionale», si complimenta il sindaco di Roma, senza battere ciglio. Più tardi, a freddo, si ricorderà di aggiungere un «ringranziamento non formale a Mosca». Senza fretta. E con qualche stizza se qualcuno prova ad accennare alle frizioni dietro la scelta: «Una sciocchezza, il consiglio dei Ministri non decide in base a frizioni».
«Preferirei mi si ricordasse come una persona che ha fatto il bene dei cittadini», si schermisce lo stesso Mosca, poco a suo agio nei panni del ribelle. Anche se poi, ripercorrendo la storia di questi mesi, si lascia sfuggire: «Le impronte a Roma non le avremmo prese comunque». Dal Viminale ancora nessuno si è preoccupato di comunicargli la decisione quando Mosca la legge sulle agenzie. Non batte ciglio nemmeno lui. Infila il cappotto e rispetta il programma di una ordinaria giornata da prefetto, che ieri, ironia della sorte, alle 11 in punto lo voleva al Quirinale insieme al ministro Maroni. Quando entra nella sala dove è attesa la delegazione di «nuovi cittadini», molte tra le autorità presenti si alzano in piedi per un inusuale omaggio. Lui si imbarazza un poco. Napolitano, nel suo saluto, parla di diritti, accoglienza e rispetto per gli immigrati. Principi che Mosca non si è mai stancato di richiamare nei suoi 14 mesi da prefetto.
«Accetto la decisione, ma sono orgoglioso del lavoro fatto», rivendica da sé, facendo velo alla modestia. «Lascerà un ricordo indelebile», fanno sapere le persone che hanno lavorato con lui. Mentre il suo predecessore Serra, ora deputato del Pd, attacca: «Ingiustizia è fatta, un uomo ineccepibile e di straordinaria professionalità, che si è trovato a spiegare come certi provvedimenti non potevano essere applicati semplicemente perché il diritto non lo consentiva è stato sostituito in maniera assolutamente ingiustificata». «Cercavano un capro espiatorio», dice Serra. Mentre attestati di stima arrivano da Sant’Egidio, dalla comunità ebraica, dallo stesso Gianni Letta. E Rifondazione avverte: «La situazione a Roma è già abbastanza esplosiva».
Alle 12, Palazzo Chigi fa sapere che «il sottosegretario Letta ha sottolineato le alte doti di responsabilità, professionalità e senso dello stato che hanno caratterizzato l'intera carriera del prefetto Mosca e il Cdm gli ha rivolto un vivo ringraziamento». Per lui il governo prepara una nomina nel Consiglio di Stato. Nel frattempo, dovrà: «Riorganizzare la rete degli uffici territoriali del governo».

l’Unità 14.11.08
Carlo Mosca, il gentiluomo che ha detto no al razzismo
Ha rappresentato l’Italia civile che non piega la schiena davanti all’intolleranza, anche se viene da partiti di governo. Alla fine il Viminale e Alemanno hanno avuto la sua testa


«Io non prendo le impronte ai bambini», disse un bel giorno nel pieno della campagna per la schedatura di Sinti e Rom. Ieri il prefetto Mosca ha detto che gli piacerebbe essere ricordato per «aver fatto il bene dei cittadini» ma quella breve frase che, alla fine, gli è costata il posto, ci resterà impressa.
Quattordici mesi è durata la missione del prefetto gentiluomo Carlo Mosca a Roma. Il “licenziamento” annunciato da molte indiscrezioni è avvenuto nel modo piu’ brutale. Una sorta di prepensionamento per il servitore dello Stato di 63 anni dal portamento militare, che volentieri ricorda la sua formazione all’Accademia militare della Nunziatella a Napoli. La “colpa” per un trattamento così inusuale? Non certo l’inefficienza: il censimento degli insediamenti rom insieme alla Croce rossa si è concluso senza incidenti e con tempismo; i reati a Roma sono in calo dal gennaio 2008; dopo la devastazione delle caserme, nella notte che seguì alla uccisione di Gabriele Sandri, anche la violenza degli stadi è stata circoscritta.
Il fatto è che il volto, un po’ invecchiato negli ultimi giorni, di Carlo Mosca ha rappresentato in Europa l’Italia civile che non cede al razzismo. Costituzionalista e penalista, Mosca - nelle lunghe riunioni al Viminale - l’ha avuta vinta sul ministro Maroni: «Rigorosi con delinquenti, solidali con gli altri». Parole basate sulle leggi italiane, europee e sulla Carta dei diritti dell’infanzia.
«Sgomberi? che brutta parola...». E se prima si era inimicato il ministro Maroni, poi deve aver urtato la sensibilità del sindaco Alemanno che la chiusura di Casilino 900, il più antico insediamento rom a Roma, l’ha promesso. Con gli sgomberi - pensa il prefetto - esporti solo il problema: sul piano della sicurezza, non sai più dove vada a finire la gente; i ragazzini che vanno a scuola li perdi per strada. Le azioni di forza non gli piacevano mai quando si tratta di problemi sociali, era così anche per i movimenti di lotta per la casa, con cui trattava.
Avrebbe voluto fondi per avviare la “fase due” post censimento: moduli abitativi dignitosi, formazione, avviamento al lavoro...
«Il dissenso fa parte della democrazia». E tre. Nel pieno dell’Onda, quando il premier ventilava il pugno duro, il prefetto si è permesso di ricordare il diritto costituzionalmente garantito. Veramente indifendibile, avranno pensato a palazzo Chigi . Del resto, ad aggirare lo scoglio di quella garbata ma ferma personalità ci aveva già provato il Campidoglio, creando una «cabina di regia». Ma non si può scavalcare il presidente del comitato per l’ordine e la sicurezza.
Ieri, a chi gli chiedeva se il sindaco lo avesse chiamato, il prefetto ha risposto «no». Sono momenti in cui certi politici appaiono piccoli piccoli. E molto grandi gli uomini dello Stato che non si fanno zittire.

l’Unità 14.11.08
L’Onda diventa una marea
Cortei per salvare l’università
di Maristella Iervasi


Senza la Cisl che si è sfilata, oggi grande mobilitazione contro i tagli. Civita (Uil): dalla Gelmini nemmeno una telefonata. Nella Capitale 4 fiumi. Fino a domenica assemblea nazionale degli atenei.
È il giorno della «mareggiata» dell’Onda. La marea studentesca contro i tagli all’istruzione e per il ritiro della legge 133 oggi invaderà Roma. Allo sciopero generale indetto dai sindacati Cgil e Uil (la Cisl ha fatto dietrofront dopo la cena a casa di Berlusconi) saranno in centinaia di migliaia da tutta Italia. Oltre 100mila universitari, ricercatori e allievi dei conservatori da ieri sono in viaggio da tutti gli Ateni d’Italia, compresa una delegazione della cattolica del «Sacro Cuore». Collette e notte bianche per autofinanziarsi, a Padova anche il sindaco Flavio Zanonato avrebbe partecipato alla «baron tax» degli studenti. 30mila le persone che si muovono con la Cgil e tanti altri che arriveranno per pronto conto, per esserci. E chi non può partire bloccherà le città di residenza. Una giornata difficile, i primi segnali già ieri pomeriggio. All’improvviso la polizia ha sgomberato Giurisprudenza mentre Giuseppe Frigo, giudice costituzionale stava tenendo una relazione sul mandato di arresto europeo. «Ci hanno poi spiegato - ha detto Frigo - che lo sgombero era su ordine del questore, in tutte le facoltà della Sapienza, per il pericolo di un’occupazione studentesca imminente».
Quattro i cortei che terranno sotto scacco la capitale: i collettivi della Sapienza si muoveranno alle 9.30 da Piazzale Aldo Moro dopo aver «chiuso» i sacchi a pelo di chi già passato la prima delle 3 notti del week-end nelle facoltà occupate. Più o meno alla stessa ora si muoveranno da Piramide i ragazzi di Roma Tre e da Piazza Barberini i giovani delle superiori. Tutti confluiranno a Piazza della Repubblica, a due passi dalla stazione Termini. Non è ancora chiaro quanti e quali universitari manifesteranno in modo autonomo, di sicuro uno spezzone punta all’assedio di Montecitorio. Il concentramento dei sindacati è invece in via della Bocca della Verità, l’arrivo in piazza Navona. E anche la destra identitaria vuole la sua fetta di piazza: alle 14 dal quartiere Prati «marcerà» fin sotto al ministero in difesa della Gelmini. «Non accettiamo provocazioni dalle sigle della destra», è la risposta dei collettivi che per evitare infiltrazioni hanno organizzato un proprio servizio d’ordine.
Mimmo Pantaleo della Flc-Cgil parlerà dal palco di piazza Navona. Ci sarà anche il segretario della Confederazione dei lavoratori Guglielmo Epifani, che ieri dopo l’occupazione-lampo di Azione studentesca nella sede romana del sindacato di categoria e della Camera del Lavoro a Brescia, ha detto: «Basta con i metodi squadristi. Non tolleriamo il ritorno a provocazioni di questo segno. Non consentiremo che forme di violenze dirette o indirette possano vincere sulla forza delle idee della ragione e della giustizia». Per la Uil interverrà Michele Civita, che ieri ha detto: «Tempo scaduto. Dalla Gelmini neppure una telefonata. Confermiamo lo sciopero». Poi il microfono passerà a 2 studenti, un ricercatore, un universitario e un rappresentante dell’Afam.
Intanto, la protesta italiana arriva anche all’estero. Con lo sciopero degli studenti che seguono l’Erasmus. Sit-in dei ricercatori davanti all’ambasciata italiana a Bruxelles. Stessa cosa a Parigi, dove studenti e prof protesteranno in contemporanea con Roma sotto le finestre del Consolato italiano della capitale francese.
Tutto è pronto alla Sapienza per ospitare chi arriva da fuori. Già ieri sera molti ragazzi hanno dormito nelle aule delle facoltà occupate: Chimica, Scienze Politiche, Lettere, Fisica. Da Napoli, Bologna, Milano i primi arrivi. «Occuperemo anche i dipartimenti di Geologia e Igiene per far posto ai ragazzi» assicura Giorgio Sestili del collettivo di Fisica. Dopo la manifestazione-mareggiata dell’Onda, infatti, i ragazzi si fermeranno fino a domenica per partecipare all’assemblea nazionale degli Atenei. La bozza del manifesto dell’autoriforma degli universitari è pronta e contiene un appello dove si chiede l’abrogazione delle leggi 133 e il decreto Gelmini sul maestro unico; l’abolizione del numero chiuso, il sistema di credito e della frequenza obbligatoria ma anche la possibilità di usufruire di servizi come la casa, l’accesso alla cultura e ai trasporti. I workshop si chiuderanno domenica mattina, poi dal pomeriggio assemblea aperta anche alle scuole superiori ed elementari.

l’Unità 14.11.08
La verità secondo Cossiga
di Carlo Lucarelli


Un giorno mi si è avvicinata una studentessa svizzera che voleva chiedermi una cosa a proposito di un’intervista che il presidente emerito Francesco Cossiga aveva rilasciato a «Blu Notte». Più o meno testualmente il Presidente Emerito, parlando degli anni 70, ci aveva detto: «Quando c’era un rosso che non riuscivamo a prendere gli mandavamo addosso un ragazzotto che gli infilava di nascosto una bustina di droga nella tasca e poi, casualmente, il terrorista incontrava una pattuglia dei carabinieri all’angolo della strada che gli trovava la bustina. Così gli perquisivamo la casa per la droga e gli trovavamo le armi». La ragazza l’aveva vista dalla Svizzera italiana e voleva sapere una cosa precisa: «Cos’è successo dopo?». Scandali, interrogazioni parlamentari, revisione di processi, proteste: insomma, il Presidente Emerito aveva ammesso un reato, o quantomento esposto una prassi inquietante, qualcosa doveva essere successo, no? «No. È solo una delle tante cose che dice Cossiga», le ho spiegato, e lei «va bene, ma lo ha detto Cossiga!». E lì ho capito che avevamo due diversi modi di vedere la cosa, due modi che ora che il Presidente Emerito ha detto cose ancora più inquietanti su come usare la polizia contro gli studenti impongono una decisione. Perché o consideriamo Cossiga un vecchietto che parla a vanvera, e allora perché dargli peso, lasciamolo a lanciare i dischi come “dj K.” nel programma radiofonico di Sabelli Fioretti. Oppure lo consideriamo un politico acuto e intelligente che ha rivestito ruoli assai importanti, e allora prendiamolo sul serio quando svela meccanismi che ci ricordano momenti drammatici come la morte di Francesco Lo Russo e di Giorgiana Masi negli anni 70, o anche di Carlo Giuliani nei giorni del G8 del 2001.

l’Unità 14.11.08
Immigrati, il monito di Napolitano: «Basta pregiudizi, sono una ricchezza»
di Marcella Ciarnelli


«Gli immigrati sono una forza per il Paese» sottolinea il presidente della Repubblica davanti al ministro Maroni, esponente del partito che vorrebbe bloccare i flussi per 2 anni. Fini: «È una scelta sbagliata».
L’abbraccio «festoso» delle istituzioni ai «nuovi cittadini», ai neo italiani rappresentanti di tante etnie e culture, portatori si storie diverse, commoventi, appassionanti, anche dolorose, è nelle parole con cui il presidente della Repubblica li ha accolti ieri al Quirinale. Qualche decina in rappresentanza degli oltre 38.000 che l’anno scorso hanno raggiunto l’obbiettivo di diventare italiani a tutti gli effetti. Che del Paese che li ha accolti si sentono parte integrante, ne amano i pregi e i difetti, ne conoscono la lingua e la cultura. Che hanno vissuto un lungo itinerario di integrazione. Forse troppo lungo. Parlano tre di loro, due ragazze e un ragazzo, visibilmente emozionati per l’essere diventati italiani. E il Capo dello Stato in chiusura del suo intervento, quindi, osserva che «più si mette l’accento su forme di verifica dell’avvenuta piena adesione, da parte dei singoli stranieri, al nostro sistema di valori e di principi, meno si può irrigidire il criterio del tempo di residenza che si è trascorso in Italia». Insomma «sulle disposizioni e gli strumenti da adottare a questo riguardo la discussione è aperta» però non può certo risolversi con un ingiustificato irrigidimento.
Nel giorno della festa, a Palazzo, nel salone affrescato e scintillante, si confrontano ancora una volta il diverso approccio al tema tra chi vive l’arrivo di nuove forze e intelligenze come una ricchezza e un’occasione e chi, invece, cerca di porre ostacoli e limitazioni dietro lo scudo della lotta all’innigrazione clandestina.
Prima del Capo dello Stato ha parlato così il ministro dell’Interno, Roberto Maroni senza dimenticare di essere esponente di un partito che propone di bloccare i flussi d’ingresso degli extracomunitari per due anni. «Il rispetto dei nostri valori fondanti e la conoscenza essenziale della nostra lingua e della nostra storia devono essere accertati con serenità ed equilibrio affinchè non si giunga a concedere il beneficio della cittadinanza indistintamente a tutti attraverso valutazioni superficiali». E non c’è nessuno che l’abbia mai sostenuto. L’immigrato che arriva in Italia è vissuto in fondo come un nemico. La cittadinanza è una «concessione» non un diritto per chi spende la propria esistenza a vantaggio del Paese che hanno scelto.
Invece Napolitano ha insistito sulla necessità, certo, che le leggi vengano rispettate e che l’integrazione sia totale nella lingua e nella cultura. Ma bisogna fare i conti con la realtà «di un fenomeno che non è più temporaneo» e quindi bisogna «stabilire regole non solo per la più feconda e pacifica convivenza con gli stranieri, ma anche per l’accoglimento di un numero crescente di nuovi cittadini». Il presidente della Camera, Fini ha ascoltato ed ha condiviso. «Napolitano ha ragione. Sono maturi i tempi per una nuova legge mentre bloccare il decreto flussi sarebbe non solo paradossale, perchè alimenterebbe la clandestinità e il lavoro nero, ma sarebbe sbagliato».
Plaudono il Pd e il Vaticano. Il cardinale Raffaele Marino ha apprezzato le parole del Capo dello Stato: «Gli immigrati non sono un peso». D’accordo anche la Caritas e le Acli. Il leghista Cota, isolato, ha insistito nella versione del suo partito: «Gli italiani non ne vogliono più».

l’Unità 14.11.08
Alta tensione nel mondo del lavoro
Scontro tra Epifani e Bonanni
di Felicia Masocco


Epifani chiede al governo e ai colleghi di Cisl e Uil confronti «alla luce del sole». Bonanni stizzito: «È tolemaico, pensa di essere al centro di ogni cosa». E resta da solo a negare l’incontro di Palazzo Grazioli.
L’incontro a palazzo Grazioli senza la Cgil c’è stato. Lo confermano il premier, il ministro Scajola, lo conferma la Confindustria. Nega ancora Bonanni mentre tace dopo averlo negato, Angeletti. Se c’erano dubbi, sono stati dissipati. Ora ci vorrebbe un po’ di trasparenza. Parlando ai pensionati dello Spi, Guglielmo Epifani è tornato a chiedere «un confronto alla luce del sole». Il ministro per lo Sviluppo quasi si spazientisce, «Quanta caciara inutile - ribatte Scajola - lo incontrerò giovedì per discutere dei problemi del mio dicastero». Come se fosse la stessa cosa.
Le gentili concessioni ministeriali non basteranno comunque a rimettere insieme i cocci che le tre confederazioni si ritrovano in mano. I rapporti tra Cisl e Uil e Cgil sono tesissimi. E oggi e domani la divisione sarà in piazza. Oggi scioperano scuola e università, doveva essere una protesta unitaria, ma la Cisl si è sfilata convinta dal governo. Sempre oggi, al Sud e alle isole si terrà lo sciopero die dipendenti pubblici: anche questo era stato proclamato unitariamente, ma 70 euro lordi di aumento mensile (meno della metà dell’inflazione) sono bastati a Cisl e Uil per rompere le righe. Sabato ancora uno sciopero, quello del commercio, contro il contratto separato che Cisl e Uil hanno firmato, la Cgil no. Il clou ci sarà il 12 dicembre, quando lo sciopero sarà generale. della Cgil, da sola. «È velleitario, sbagliato, antiunitario», accusa Raffaele Bonanni. «Non lottiamo tanto per lottare - spiega Epifani -. La storia ci ha insegnato che nessuno ti regala niente. Ogni cosa, nel nostro Paese ce la siamo conquistata con la lotta». La Cgil non vede nelle scelte del governo le risposte «che andavano e vanno date alla crisi».
Nella polemica interviene la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. «Polemica inutile», asserisce, «gli incontri informali ci sono sempre stati. Io stessa ne ho avuti con Epifani». La differenza è che né la Confindustria né la Cgil sono il governo. In ogni caso per Marcegaglia sarebbe il caso che «maggioranza e opposizione, banche, imprese e sindacati, avessero la capacità di unirsi per aiutare imprese e famiglie a uscire dalla crisi».
Pur simpatizzando ora con la Cisl ora con la Cgil, le varie anime dl Pd si ritrovano nell’accusare il governo: «L’unità delle forze del lavoro è un bene in sé e chi prova a dividere i lavoratori e le loro organizzazioni commette un errore enorme», dice Marina Sereni vicepresidente dei deputati Pd.
E parla di «errore», anzi di «miopia» e «autolesionismo» uno che ci è passato: «Il lupo perde il pelo ma non il vizio - afferma il sindaco di Bologna, ex leader Cgil Sergio Cofferati -. Dalla pessima abitudine di provare a dividere i sindacati Berlusconi non riesce ad affrancarsi».

l’Unità 14.11.08
Non si uccide così un sindacato
di Marco Simoni


La storia politica dell’Italia del dopoguerra è scandita dalle dinamiche tra le confederazioni sindacali. Nel 2002 Berlusconi riuscì a dividerle, come era riuscito a Craxi negli anni ‘80, interrompendo dieci anni di unità. Tuttavia, si giovò solo parzialmente del risultato. La battaglia per la difesa dell’art. 18 fu troppo contraddittoria per generare un coerente programma alternativo, ma un efficace catalizzatore per colpire il consenso di cui godeva Berlusconi. Le recenti mobilitazioni degli studenti hanno avuto un impatto negativo contenuto ma non trascurabile sulla popolarità del governo. Il centrodestra non può dunque rischiare un altro fronte di opposizione di massa e così si spiega la volontà di isolare la Cgil. L’incontro segreto tra il governo e i segretari di Cisl e Uil, che escono dal retro e vengono notati da tutti, sembra una trama farsesca organizzata per farsi scoprire, e forse lo è stata, dato che i suoi autori potevano prevedere la reazione della Cgil: proclamare con enfasi uno sciopero generale.
L’obiettivo del governo è chiaro: dipingere la Cgil come un sindacato che opera contro il Paese in un momento difficile, con mobilitazioni pretestuose e poco comprensibili. Se lo sciopero generale del 12 Dicembre sostenesse una generica piattaforma contro il governo, rimanendo senza una sponda politica da parte del Pd, questo obiettivo sarebbe a portata di mano. Davanti ad una recessione che appare durissima, tutto dovrebbe fare il governo tranne che fomentare divisioni tra i sindacati e aggravare la conflittualità delle relazioni industriali. Ma ciò che interessa Berlusconi è mantenere diviso, nella società e nella politica, il mondo del lavoro, base elettorale naturale per qualunque coalizione vincente di centrosinistra. Per reagire all’offensiva è necessario alzare il livello dell’opposizione al governo dentro le pieghe della società. Non cadere nell’errore di sventolare anatemi generici con linguaggio da iniziati, ma individuare le responsabilità precise: la precarietà diffusa che impoverisce le persone e depaupera le aziende; l’attacco alla scuola e all’università, motori di futuro; un federalismo che inasprisce le differenze e riduce la capacità di reagire alla crisi. Fare opposizione in modo credibile per costruire una alternativa politica non significa annacquare il messaggio da trasmettere. La diminuzione dei consensi al centrodestra non è condizione sufficiente per poter governare efficacemente, ma è una condizione necessaria. Per evitare che lo sciopero generale sia un boomerang, si trasformino due o tre priorità in comunicazione concentrata della Cgil e del Pd. Una volta raccolto il consenso di lavoratori vecchi e nuovi, il resto del sindacato dovrà tornare sui suoi passi.

Una intervista a Gian Luigi Pegolo, ex deputato Prc, dell’area L’Ernesto
avversario di Fausto Bertinotti
Pegolo, le contraddizioni di Bertinotti e delle sue “15 tesi”
di Alessandro Cardulli


Due pagine fitte fitte. Una “ improvvisata” su Liberazione e Fausto Bertinotti, abbandona la “cultura” della politica e torna a far politica a tutto campo. Lancia le “sue” tesi per la sinistra e, in un solo colpo manda in soffitta diversi documenti elaborati in questi mesi da chi vuole costruire un nuovo partito, oltre Rifondazione, come si dice in gergo. Fra questi segnaliamo quello di cui primo firmatario era Nichi Vendola dal titolo “Rifondazione per la sinistra”, mozione due in termini congressuali, e tutti quelli seguenti fino alle proposte per la “costituente” del nuovo soggetto della sinistra che andranno in scena il 13 dicembre firmate da Vendola e Claudio Fava per Sinistra democratica, insieme ad alcuni esponenti del mondo delle associazioni e della cultura che da cinque anni si riuniscono in seminari, convegni.

Perchè questa improvvisa uscita di Bertinotti? La risposta più semplice: lui vuole guidare in prima persona la costruzione del nuovo partito, perché sua è la proposta quando pensava che il primo passaggio verso questa sponda fosse Sinistra europea. Poi il fallimento di un’altra operazione di cui forse non è mai stato troppo convinto, la Sinistra-Arcobaleno. Ora, forse, sa di giocare l’ultima carta e scende in campo in prima persona. Poco si fida dei comprimari che non hanno dato bella prova di sé e che sembrano infilarsi in un imbuto da cui non si esce. Gianluigi Pegolo, della segreteria nazionale di Rifondazione comunista, nella intervista che ci rilasciato e di seguito riportiamo, si misura a tutto campo con il documento di Bertinotti, reclamizzato fin dalla prima pagina di Liberazione.

Un progetto politico per la sinistra è senza dubbio tema anche culturalmente stimolante. Penso che anche tu sia stato preso alla sprovvista da questa sortita di cui si cerca di capire il perché dandone diverse interpretazioni. Qual è la tua opinione in proposito? Che impressione ne hai tratto?
Si, anch’io sono stato colto di sorpresa, visti gli attuali protagonisti del dibattito dentro e fuori Rifondazione. Più fuori devo dire. Ma preferisco non avventurarmi sul terreno del politichese e dare una lettura critica del documento. Si tratta di un testo molto ambizioso, espresso in termini di tesi, che si propone di disegnare nell’attuale fase di crisi e dopo la sconfitta elettorale il ruolo della sinistra in Italia. Dal punto di vista analitico contiene molte affermazioni condivisibili, anche se non tutte; dal punto di vista propositivo non mi convince, ed anzi colgo una contraddizione esplicita fra i due piani.

Forse è una specie di vizio storico della sinistra quello di non riuscire a coniugare l’analisi con lr proposte, i progetti, i programmi. Ma dove stanno le contraddizioni di cui parli?
Nel senso che sul piano analitico vi è il riconoscimento di alcuni elementi condivisibili. Per esempio: la portata della crisi, la necessità di un programma che oltrepassi l’orizzonte classico del keynesismo per proporsi di intervenire su un nuovo modello di sviluppo, la riscoperta del ruolo del lavoro, l’esigenza di un salto di qualità nelle modalità dell’opposizione sociale, la necessità di un ruolo più autonomo dal PD. Faccio presente che su questi temi Bertinotti corregge non poche delle posizioni che ha assunto negli scorsi anni. Quando si passa, però, alla proposta la contraddizione con la premessa analitica è evidente.

La tua valutazione è molto secca, non lascia margini di dubbio e, se capisco, riguarda la prospettiva, il che fare prendendo a prestito uno scritto di Lenin che ogni tanto sarebbe bene rileggere.
A mio parere la critica anticapitalista che ispira la parte analitica si traduce nella proposta in un approccio poco credibile. Quale è in sostanza la tesi di Bertinotti? Che di fronte alla portata della crisi il comunismo ha poco da dire. Egli sostiene che, per alcuni versi, il riferimento al comunismo è troppo, per altri è troppo poco. Ne consegue – a suo avviso- che l’unica prospettiva è quella di dar vita ad un nuovo soggetto della sinistra. L’elemento visibilmente contraddittorio è che questa sinistra appare oggi assai poco credibile come soggetto compiutamente anticapitalista e, pertanto, non in grado di rispondere a quella domanda di profondo cambiamento che la stessa crisi pone.

Si ricade cioè nell’”arcobalenismo”? Sembra, cioè, di tornare a ripercorrere strade ormai vecchie che non portano da nessuna parte. Questo vuoi dire?
Per l’appunto. Anche se per ovviare alla critica naturale che gli si potrebbe muovere – e cioè il fallimento di quel progetto – Bertinotti si cura di modificarne l’impostazione, enfatizzandone il carattere processuale, dal basso, democratico, ma l’assunto fondamentale resta quello del congresso ed è pertanto poco convincente. In primo luogo, come dicevo, perché la proposta del nuovo soggetto della sinistra ha già subito un’evidente sconfessione dagli elettori. Ma vi è anche un secondo motivo. Non è un caso che quando Bertinotti affronta il tema del soggetto della sinistra si sofferma essenzialmente sulle modalità del percorso che conduce alla sua realizzazione, anziché sui contenuti del suo progetto politico.

Ma Bertinotti nella parte iniziale del suo documento allude ad alcuni contenuti di un progetto per la sinistra. Non parla solo di forma del soggetto, indica delle scelte.
Sì, ma il punto è che quando parla della sinistra le attribuisce la capacità di sostenere quel progetto, prescindendo completamento dalla realtà dei fatti. Parliamoci chiaro: quando mai Sinistra Democratica ha teorizzato un ruolo alternativo al PD? Quando mai i Verdi hanno condiviso un’esplicita critica anticapitalista? La verità è che queste forze, nel migliore dei casi, si attestano su una critica al neo-liberismo e si muovono, sul piano politico, in un’ottica “migliorista”. Sono per molti versi una variante di quello che furono i DS. Farci un partito insieme significa imprigionarsi in una visione meramente compatibilista, con buona pace dei propositi di trasformazione radicale.

Ma Bertinotti scrive che occorre evitare il “politicismo.”Anche se talora lo si dice proprio per mettere le mani avanti. In questo caso,forse, per evitare di indicare i tempi del processo oltre Rifondazione ?
Già, ma ho proprio l’impressione che, in effetti, si riferisca più ai tempi del processo che ai suoi contenuti. Ciò può significare che si vuole evitare la fusione a freddo accelerata con Sinistra Democratica. O che l’ipotesi di scissione da Rifondazione è considerata - almeno nel breve periodo - poco credibile e che per le europee va evitata la rottura. Il che è in se’ positivo, ma non fa venir meno la negatività di una proposta che allude pur sempre - anche se in modo non così rozzo come si è fatto nei mesi scorsi - al superamento di Rifondazione Comunista.

Nella parte finale del documento si parla della ricostruzione della sinistra dai territori.. Che significato attribuisci a queste affermazioni, anche alla luce delle prossime elezioni amministrative?
E’ la parte che francamente mi inquieta di più ed anzi temo che possa tirare la volata ad opzioni scissioniste non dichiarate, ma praticate. Cosa significa, infatti, la scelta di un modello federativo partecipato, in cui si formano sinistre locali che approdano poi ad una direzione nazionale? Premetto che mi vengono i brividi a sentir parlare di “federalismo” perché vi leggo un’impostazione localistica che dà spazio ad un eclettismo di esperienze che rischia di enfatizzare - non tanto la partecipazione - quanto l’opportunismo di ceti politici locali in cerca di visibilità. Il punto è che questa impostazione sembra fatta su misura per lanciare le liste civiche di sinistra alle prossime amministrative, entrando quindi in rotta di collisione con le scelte di Rifondazione Comunista che – vorrei sottolinearlo - intende presentare proprie liste alle prossime amministrative.
da Dazebao 14.11.08


The Lancet Volume 372, Issue 9651 15 November 2008
Obama and health: change can happen


A palpable sense of optimism, “opportunity, and unyielding hope” has emanated from the USA since President-elect Barack Obama's victory speech on the the historic night of Nov 4. With such great expectations comes huge responsibility. Obama deserves the support of everyone who yearns for a more equitable America and a fairer world. Health, currently one of the most divisive of political issues, could become a symbolic uniting force for the new administration.
The leadership appointments to four key US health institutions will send crucial messages about what the Obama administration does, and does not, stand for. The next director of the National Institutes of Health should be an internationally renowned scientist passionate about putting science at the heart of government decision making. A public-health specialist who is committed to promoting public-health principles should take the helm at the Centers for Disease Control and Prevention. The new director of the Food and Drug Administration should be determined to take a robust safety approach to regulation. And the next Secretary of the Department of Health and Human Services (DHHS) must be ready, willing, and able to reach out to health policy makers.
Health system strengthening must be a top priority for the new administration if 46 million uninsured US residents are to have access to health care. Obama's plans to offer a range of payment choices, his commitment to ensure that all children have health insurance, and the requirement that insurance companies cover pre-existing conditions are positive steps towards an inclusive health system. In addition, Medicaid and Medicare must be rebuilt, reinforced, and fully supported.
Michael Marmot and colleagues have shown that ill-health in US residents has a particularly strong socioeconomic gradient. The current state of migrant health in the USA is a notorious example of health and social injustice. The final report from WHO's Commission on the Social Determinants of Health is a credible platform to address health and social inequalities. It was encouraging to hear UK Prime Minister Gordon Brown say at last week's international conference on the Social Determinants of Health in London that Barack Obama is committed to tackling domestic and global inequality.
The agenda for Obama on global health is complex and includes climate change, conflict—particularly the wars in Iraq and Afghanistan—and trade, including intellectual property rights on essential medicines. But there are several steps towards advancing global health that could be quickly implemented. First, health equity and human security should be a stated objective of foreign policy. Second, the DHHS Director of Global Health Affairs, Bill Steiger—who has badly hurt America's reputation in global health—should be replaced with a more experienced and appropriate politician. Third, Mark Dybul, the head of PEPFAR—the President's Emergency Plan for AIDS Relief, undoubtedly the biggest triumph of the Bush administration despite its controversies—will likely be swiftly replaced. Strong leadership from a respected international expert, such as Jim Kim, could help to negate PEPFAR's dogmatic and damaging policies—for example, its preference for abstinence-until-marriage programmes.
Fourth, just as George W Bush reinstated the global gag rule—a law that forces recipients of federal funding to agree that they will not perform or promote abortion as a method of family planning—in his first day in office, Obama could reverse this decision as soon as he is inaugurated and so improve women's access to sexual and reproductive health in a single stroke. Fifth, a public commitment to agree to spend the internationally agreed target of 0·7% of gross national income on aid by 2015 would set a good example to the international community. Sixth, as a signal that the USA is committed to human rights, Obama could bring the USA in line with most other UN member states by ratifying the UN Convention on the Rights of the Child and the International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights.
The new administration must also reach out to the global community and rebuild damaged relationships caused by the antagonism and harassment shown towards the whole UN system by the previous administration. The choice of the next UN Ambassador is pivotal to improving these relationships, in health as well as in other domains. An increase in support—including financial support—for WHO would be a sign that the USA wishes to re-engage with the global health community.
President-elect Obama is a reminder about what is great about the USA and that, indeed, “change can happen”. The fruits of that change will be judged by tangible improvements to the welfare and health of Americans—and those affected by American foreign policy.

The Lancet, Volume 372, Issue 9651 15 November 2008
Evolution of China's health-care system
by Zhe Dong, Michael R Phillips


A nation's health and the health-care services provided to its citizens are determined by inter-related ecological, economic, political, and sociocultural factors. Ongoing changes in these conditions guide the evolution of health and health services in a community. Here we describe major transitions in China since 1949. Five phases are described, but other divisions could also be valid1 and the timing and characteristics of each phase vary in different parts of the country.
The first phase was post liberation (1949—65). The conflict with Japan and a protracted civil war before the establishment of the People's Republic of China in 1949 had greatly weakened the health-care system. Following the model of other socialist economies, the Government gradually took over all health-care services, organised a centralised three-tier delivery system, and made all health providers state employees. Emphasis was placed on preventive services, integration of western and traditional Chinese medicine, and the use of mass mobilisation campaigns (eg, for schistosomiasis eradication). The organisation and funding of urban and rural services were fundamentally different: urban services were mainly provided at government-funded hospitals while basic rural services were provided at village and township clinics by the commune-based Cooperative Medical System.2 Many new medical and nursing schools were established but most graduates worked in urban areas. With the exception of massive famines during the Great Leap Forward (1958—60), the health of the nation advanced dramatically, mainly because of improved sanitation, water quality, and nutrition.
Phase two was the Cultural Revolution (1966—76). All institutions in the country were profoundly affected by the upheaval of the Cultural Revolution when different factions vied for political control. Universities and medical schools were closed for 5 years and their students and faculty members sent to the countryside.3 The provision of health care became part of the process of politicising the population: in many psychiatric hospitals drug treatment was replaced by political education sessions with use of Mao's Little Red Book.4 Mao initiated the programme of barefoot doctors that gave 3—6 months of medical training to tens of thousands of peasants and urban youth who provided preventive and basic health services to rural residents.5 Health statistics were politicised, so few reliable data on the status of the nation's health over this period are available.
The next phase was the early reform period (1977—89). Deng Xiaoping's return to power heralded a period of rapid economic development, decentralisation of political and economic power, and opening up to the global economy that fundamentally transformed the nation. Economic improvements and well-coordinated public-health initiatives resulted in dramatic decreases in the rates of most infectious diseases, decreased infant mortality, and a corresponding increase in longevity. Chronic illnesses (mainly heart disease, cancer, stroke, and mental illnesses) became the leading causes of death and disability. The one-child per family policy accelerated the rate of ageing of the population and focused public attention on child health. Many rural residents moved to urban areas for work, which created an underclass of migrant workers that was not well covered by traditional health services. Financial responsibility for managing health care was decentralised to the provinces, which exacerbated disparities between rich and poor regions. Ownership of health services remained public, but financing was gradually privatised.1, 2 Price caps for basic drugs and services resulted in excessive use of expensive drugs and high-tech services, a rapid increase in costs, a substantial increase in the proportion of costs paid by consumers, and the replacement of the prevention-focused rural Cooperative Medical System by under-trained fee-for-service village doctors, who had no incentive to provide preventive services. Many families could not afford health care and few had medical insurance to protect them from catastrophic medical expenses.
The fourth phase was the late reform period (1990—2002). The Government's attempts to reign in accelerating health-care costs, to provide more community-based health services in urban areas, and to provide insurance coverage to the uninsured were largely unsuccessful,6, 7 partly because of powerful interests (eg, drug companies, large general hospitals) and partly because poorer provinces did not have the resources needed to implement central policies. For similar reasons policies aimed at decreasing the negative health consequences of economic development (increased tobacco use, obesity, traffic injuries, mining and industrial accidents, the health effects of pollution, etc) were not effective. The rising urban middle class demanded higher-quality services (and became increasingly litigious), while disgruntled rural communities focused on poor health services as a key marker of the inequitable distribution of social resources.8 A small but growing number of private health-care providers and facilities (some funded by foreign corporations) started to address the unmet health needs of an increasingly health-conscious urban elite. The rapid decline in infectious diseases seen previously reached a plateau and the rates of some previously controlled diseases increased (eg, sexually transmitted infections, HIV/AIDS, hepatitis B, and schistosomiasis).
The final phase was after the epidemic of severe acute respiratory distress syndrome (SARS), from 2003 to the present. The SARS epidemic, played out in the glare of the international press, was a national wake-up call that highlighted the weakened state of China's public-health infrastructur e and the increasing inequity of its health-care system.9 This watershed event and rising public discontent generated the political will to fundamentally reform the system, including a partial resumption of central management of public-health services and a major reallocation of central resources to address inequities in health.10 The outcome of these post-SARS reforms remains uncertain, but there are reasons for optimism. Central funding is supporting the re-introduction of a New Cooperative Medical System in rural areas11 and a parallel programme for the uninsured in urban areas that plans to achieve universal coverage by 2020. The exemplary national monitoring system for infectious diseases implemented after the SARS epidemic (which provides real-time reports of cases across the country) and the effective public-health response to the earthquake in Sichuan12 are examples of what China can accomplish in health. The most important task ahead is to focus attention and resources on improving the quality, comprehensiveness, and cost-effectiveness of services.
We are project coordinators for the Lancet—CMB China series. We declare that we have no conflict of interest.
References
1 Blumenthal D, Hsiao W. Privatization and its discontents—the evolving Chinese Health Care System. N Engl J Med 2005; 353: 1165-1170. CrossRef | PubMed
2 Ma S, Sood N. A comparison of the health systems in China and India. http://www.rand.org/pubs/occasional_papers/2008/RAND_OP212.pdf. (accessed Aug 22, 2008).
3 Hesketh T, Wei XZ. Health in China: from Mao to market reform. BMJ 1997; 314: 1543-1545. PubMed
4 Phillips MR. The transformation of China's mental health services. China J 1998; 39: 1-36. PubMed
5 Sidel R, Sidel VW. The health of China. Boston, MA: Beacon Press, 1982.
6 Eggleston K, Li L, Meng QY, Lindelow M, Wagstaff M. Health service delivery in China: a literature review. Health Econ 2008; 17: 149-165. CrossRef | PubMed
7 Hougaard JL, Osterdal LP, Yu Y. The Chinese health care system: structure, problems and challenges. http://www.econ.ku.dk/Research/Publications/pink/2008/0801.pdf. (accessed Aug 21, 2008).
8 Wang HL, Xu TD, Jin X. Factors contributing to high costs and inequity in China's health care system. JAMA 2007; 298: 1928-1930. CrossRef | PubMed
9 Shaw K. The 2003 SARS outbreak and its impact on infection control practices. Public Health 2006; 120: 8-14. PubMed
10 Yip W, Hsiao WC. The Chinese health system at a crossroads. Health Aff (Millwood) 2008; 27: 460-468. CrossRef | PubMed
11 Dib HH, Pan XL, Zhang H. Evaluation of the new rural cooperative medical system in China: is it working or not?. Int J Equity Health 2008; 7: 17. PubMed
12 Chan EYY. The untold stories of the Sichuan earthquake. Lancet 2008; 372: 359-362. Full Text | PDF(42KB) | CrossRef | PubMed
a Peking University Health Sciences Centre and Peking University Institute for Global Health, Beijing, China
b WHO Coordinating Centre for Research and Training in Suicide Prevention, Beijing Suicide Research and Prevention Centre, Beijing Hui Long Guan Hospital, Beijing 100096, China
c Departments of Psychiatry and Epidemiology, Columbia University, New York, NY, USA