martedì 14 ottobre 2008

l’Unità 14.10.08
Università occupate, la protesta si allarga
Corsi bloccati a Roma e Milano. Il rettore di Verona: dopo Siena, crisi nera anche per la Federico II


SI ALLARGA a macchia d’olio la protesta negli atenei italiani per i «tagli» previsti dalla Finanziaria e dalla riforma Gelmini. A Milano ieri una
settantina di studenti hanno occupato il rettorato dell’Università Statale. Occupazione anche a Firenze, dove alla facoltà di Ingegneria è scattata una mobilitazione permanente. La protesta nell’ateneo fiorentino è in atto dalla settimana scorsa e tuttora rimangono occupate la facoltà di Agraria e il Polo scientifico di Sesto Fiorentino. A Torino, invece, l’università compatta sta minacciando di far saltare la cerimonia di apertura dell’anno accademico. Agitazione anche alla Federico II di Napoli, dove si prospetta l’ipotesi di bloccare l’anno accademico e i ricercatori stanno prendendo in esame di richiedere il completo blocco della didattica a loro affidata. A Roma un corteo di «almeno un migliaio di studenti», dicono gli organizzatori, ha sfilato tra i viali della Sapienza per protestare, in particolare, «contro la privatizzazione dell’università». La manifestazione è stata avviata dai collettivi della facoltà di scienze (matematica, fisica, scienze naturali). «Gelmini, Brunetta ci avete stancato: il sapere non va privatizzato»: è stato uno degli slogan scanditi per denunciare la condizione della ricerca in Italia, il blocco del turn over dei docenti universitari, che rende impossibile, per un giovane laureato, qualsiasi speranza di intraprendere la carriera accademica e contro la privatizzazione della università. La mobilitazione continua anche oggi, quando è previsto un corteo studentesco davanti alla facoltà di Lettere e c’è grande attesa per l’assemblea di ateneo, alla quale è prevista la presenza del rettore e di vari rappresentanti dei docenti, che si svolgerà giovedì.
Alle occupazioni, si affiancano anche i problemi finanziari delle varie università italiane. Due sono in rosso e altre sei in grave difficoltà: è l’inizio di una crisi che per il 2010 potrebbe portare all’emergenza tutte e 66 le università statali italiane, se le cose non cambieranno rapidamente. L’università di Siena spende per il personale il 104% del suo finanziamento statale e la Federico II di Napoli il 101%: «entrambe hanno superato il 100% della spesa reale sul finanziamento statale», dice Alessandro Mazzucco, rettore dell’università di Verona e membro della giunta della Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui). Parlando a margine del congresso dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom), in corso a Verona, Mazzucco ha rilevato che «quella di Siena e la Federico II di Napoli sono le prime università a trovarsi in questa situazione. Se le cose continueranno a seguire questa direzione senza interventi, come riduzione dei corsi i laurea, riduzione delle sedi decentrate e blocco del turnover, nel 2010 tutte e 66 le università statali italiane saranno in emergenza».
Gli altri sei atenei in grave difficoltà sono quelli di Bari, Cassino, Firenze, l’università Orientale di Napoli e inoltre Pisa e Trieste: spendono oltre il 90% del finanziamento statale per il personale. Di questo passo Mazzucco non ha dubbi che «si ridurrà progressivamente la possibilità di fare ricerca nelle università italiane a causa delle difficoltà create dai tagli del finanziamento ordinario».

l’Unità 14.10.08
Licei e università: tutti “okkupati”
Si muovono anche i sindaci fiorentini
di Silvia Casagrande


Un giornale d’istituto su cui pubblicare gli interventi di tutti gli studenti fiorentini e non, il blog firenzeperlascuola.tk, completo di forum e galleria di foto, volantinaggio, rapporti con l’esterno, logistica e sicurezza. Sono le attività cui si stanno dedicando gli studenti fiorentini in questi giorni e notti di mobilitazione. Dal Castelnuovo, che stamattina in assemblea ospita alcuni ricercatori universitari, alla lista degli istituti medi occupati si sono aggiunti il Dante, l’istituto d'arte di porta romana, il Rodolico, il Leon battista Alberti, il Leonardo da Vinci, l’Elsa Morante, il Pascoli, il Gobetti di Bagno a Ripoli, il Meucci, il Gramsci, l’Agnoletti, l’istituto d'arte e il Calamandrei di Sesto Fiorentino. Gli alunni della Tornabuoni-Ciellini e del Duca d’Aosta hanno optato invece per l’autogestione, rinunciando a dormire nella struttura scolastica, ma sostituendo le lezioni con assemblee relative alla riforma Gelmini. Al Michelangelo, invece, dopo la contesta occupazione di venerdì scorso, che non fu votata in modo democratico dalla totalità degli iscritti, un gruppo di studenti occupa il cortile, mentre gli altri frequentano regolari lezioni. Nello storico liceo ha destato scalpore anche l’arresto di quattro ragazzi più che ventenni della Firenze bene, che nella notte fra domenica e lunedì si sono introdotti nell’istituto «pensando che fosse occupato».
Sul fronte universitario, mentre proseguono le occupazioni ad agraria e al polo di Sesto, ieri sono stai occupati anche gli spazi del dipartimento di matematica Ulisse Dini e giovedì lezioni aperte alla cittadinanza verranno svolte presso la stazione Rifredi, dalle 11 alle 13. Anche la facoltà di architettura si mobiliterà con il blocco della didattica di un giorno alla settimana. A Pisa invece, su mozione dei consigli di facoltà, sospensione full-time a ingegneria, scienze e lettere.
Preoccupazione sui temi della scuola, sono stati espressi anche dalla conferenza dei sindaci della città metropolitana, riunitasi ieri a Palazzo Vecchio, «Le famiglie rischiano di essere private della scelta di diversi modelli educativi e di un servizio sociale fondamentale. Non possiamo tornare al doposcuola, sia per scelta educativa che per l'impossibilità da parte dei comuni di rispondere ad un servizio che deve garantire lo Stato». La conferenza si è impegnata per realizzare un'iniziativa pubblica di sensibilizzazione sul tema, come la fiaccolata organizzata dai sindacati e che ieri sera ha visto una grande partecipazione per le vie del centro cittadino. Nel corteo capeggiato dallo striscione «Vietato calpestare la scuola» anche la senatrice del Pd Vittoria Franco.

Corriere Fiorentino 14.10.08
Occupati, ma non troppo Nei licei la rivolta è soft
Ventisei scuole in agitazione anche se la didattica va avanti La fiaccolata: in ventimila dall'Annunziata a Piazza Signoria
di Lisa Baracchi


Occupazione sì, ma educata. O come dicono i rappresentanti degli studenti «consapevole». Sulle facciate delle scuole superiori fiorentine svolazzano da ieri striscioni con grandi scritte colorate: «L'istruzione è un diritto di tutti e non un privilegio di pochi», «Gelmini chiama… la scuola risponde». Davanti ai portoni i comitati di sicurezza controllano gli ingressi. «Tutto deve essere organizzato. Niente vandalismi», sono le parole d'ordine. In diciotto istituti scolastici si sono svolte assemblee straordinarie.
Nella maggior parte dei casi non autorizzate, anche se sono pochi gli alunni in classe. Si discute la «riforma Gelmini»: si urlano slogan contro i tagli, contro il voto in condotta, l'accorpamento delle scuole con meno di 500 alunni e via dicendo. I ragazzi dicono di essere contrari a gran parte dei punti del decreto. E sono «molto preoccupati» per il loro futuro universitario.
Così, dopo le otto avanguardie che hanno occupato sabato, il numero degli istituti gestiti dagli studenti a Firenze è salito a 22. A questi bisogna aggiungere il liceo scientifico Gobetti e l'istituto tecnico Volta di Bagno a Ripoli, il liceo Agnoletti e l'istituto Calamandrei di Sesto Fiorentino.
Decideranno stamattina se aderire o meno alla protesta il San Bartolo a Cintoia e il Russel-Newton di Scandicci. Le occupazioni andranno avanti almeno fino a sabato prossimo, ma in molti casi (la maggior parte) non si tratta di occupazioni «tradizionali »: le lezioni non saranno interrotte.
Il Capponi da «conservare » Piazza Santo Spirito è piena degli allievi del liceo Machiavelli-Capponi. Dalle scale della chiesa alcuni studenti parlano con il megafono. «Volete pagare 10 mila euro per andare all'università?». Parte il no corale, poi si passa alla votazione: per alzata di mano l'occupazione è approvata. A piccoli gruppi gli studenti entrano nel palazzo Frescobaldi, che si affaccia maestoso sul ponte Santa Trinita. Iniziano a organizzarsi in comitati. «Andiamo a piccoli gruppi per non rischiare di danneggiare l'edificio — spiegano Alessia e Laura — siamo in tanti e non vorremmo che i piani superiori non reggessero il peso di tutti. Per le lezioni è diverso: siamo divisi in varie sedi. Il nostro è un edificio storico, ci teniamo alla nostra scuola».
Lucia è rappresentante d'istituto, ieri mattina si è confrontata con la preside davanti agli agenti della questura, arrivati per assicurarsi che la situazione fosse tranquilla. «Ci siamo impegnati a mantenere tutto in ordine», dice Lucia e precisa: «Alla prima sigaretta accesa dentro la scuola, al minimo danno, l'occupazione finirà». I ragazzi del Machiavelli-Capponi si assumono un altro grosso impegno: non ci sarà nessun blocco della didattica. «Perché non è giusto impedire di fare lezione a chi vuole, noi siamo per il diritto allo studio, ma davvero», spiega ancora Lucia. Nei prossimi giorni inoltre i genitori saranno invitati a partecipare a un'assemblea all'interno del liceo: «Vogliamo spiegare il perché della nostra azione. Li vogliamo rassicurare ».
Dante, la prima volta
Nei dintorni di via Puccinotti, dove c'è la sede del liceo Dante si aggirano gruppetti di ragazzi. Lezioni sospese, è il momento di distribuire volantini, i cosiddetti «occupazionali ». Una lunga lettera aperta e in conclusione un appello diretto al ministro: «Ci siamo anche noi, Gelmini, non ci sei solo te e l'amministrazione statale. Esistiamo anche noi e possiamo cambiare le cose». Tre studenti di quarta ginnasio chiedono «finanziamenti ». «Siamo il comitato accattonaggio insomma», spiegano ridendo. «Stai assistendo a una cosa eccezionale: il Dante è una scuola che non occupa mai. Stavolta invece ci siamo anche noi». Per gli studenti l'occupazione vera è iniziata ieri, ma il preside del liceo Elio Bruno ha spedito un fax di denuncia dell'azione degli studenti alla procura già sabato.
L'assemblea degli studenti è durata più delle due ore autorizzate, i ragazzi volevano continuare a discutere in palestra, i bidelli se n'erano ormai andati, «allora che dovevo fare, ho sbarrato il portone della scuola e li ho lasciati lì: per me la scuola era occupata», spiega Bruno. La vicepreside Viviana Viviani parla di «ingenuità dei ragazzi», e fa da intermediaria: «Ho passato tutta la mattina a spiegare che significato ha la loro azione», racconta. «Noi dobbiamo spiegare la legalità», sottolinea il dirigente scolastico. «Pensi — racconta sorridendo — che un genitore stamani è venuto a chiedermi il permesso per portare a casa la figlia che partecipava all'occupazione».
Carabinieri al Gobetti
A Bagno a Ripoli oggi i carabinieri pattuglieranno nei dintorni del liceo scientifico Piero Gobetti e dell'istituto tecnico Alessandro Volta. Clara Pistolesi, preside del Gobetti dice: «Sono stati molto gentili, hanno offerto la loro collaborazione, perché i ragazzi non si rendono neanche conto dei pericoli che corrono a rimanere nella scuola di notte. A dormire lì». «Avrei appoggiato un'autogestione piuttosto, un modo per discutere nel merito della riforma. Anche i professori avrebbero partecipato. E invece gli studenti hanno voluto occupare. Son convinta che lo fanno per emulazione, per seguire le altre scuole ». E continua: «Ho chiesto le firme di chi partecipa alla protesta, ancora non le ho ottenute. Comunque sono anche sicura che non ci saranno atti di vandalismo».
La fiaccolata
L'occupazione «educata», insomma, consente anche di garantire le lezioni in molte scuole. È il caso del liceo Castelnuovo dove nella sede centrale è occupata solo la palestra. O dell'istituto Peano dove saranno gestite dagli studenti soltanto le aule dell'edificio prefabbricato e non quello dove c'è la presidenza. Gli studenti del liceo artistico di via San Gallo, occupato da sabato, hanno impegnato la giornata di ieri a preparare la scenografia della fiaccolata, partita da Santissima Annunziata intorno alle 21.30 e arrivato in piazza della Signoria un'ora dopo. Presenti tutte le sigle sindacali — che parlano di 35 mila partecipanti, 20 mila per le forze dell'ordine — studenti di scuole inferiori e superiori, universitari e ricercatori. E poi cori e striscioni contro il ministro Mariastella Gelmini, inviti al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a non firmare il decreto e gran finale con cori e balletti.

La Repubblica Firenze 14.10.08
Nuove occupazioni: Dante, Michelangelo, Galileo, Matematica
Ventimila ieri in corteo contro il decreto Gelmini, la fiaccolata unisce padri e figli
di Laura Montanari


Ventimila in piazza contro il decreto Gelmini. Un fiume in piena ieri sera ha tagliato il centro di Firenze per la manifestazione "in difesa della scuola" organizzata dai sindacati contro la legge 137 e i provvedimenti introdotti dal governo in materia di istruzione pubblica. Tra gli altri in corteo l´assessore all´istruzione regionale Gianfranco Simoncini, l´assessore di Palazzo Vecchio Daniela Lastri, il segretario della Cgil toscana Alessio Gramolati.
Un fiume in piena. Almeno ventimila persone, secondo gli organizzatori, hanno sfilato ieri sera a Firenze per la scuola. Una fiaccola per padri e figli, una protesta che accomuna due generazioni, da piazza Santissima Annunziata fino a Piazza della Signoria contro il decreto Gelmini e i tagli alla scuola pubblica. Striscioni e cartelli coloratissimi, davanti il più grande "La scuola non è una spesa ma un investimento" e dietro tutti gli altri "Le luci della protesta contro l´ombra dell´ignoranza" e poi quello firmato dai ragazzi della Vittorio Veneto "I nostri insegnanti sono unici" o "Il futuro dei bambini non fa rima con Gelmini". Il più fantasioso è di un´elementare "Sotto il grembiule, niente". La manifestazione indetta dai sindacati confederali della provincia, da Gilda e dal comitato genitori-insegnanti richiama un sacco di studenti da fuori Firenze, molti arrivano in pullman da Sesto, Campi, Empoli. Sfilano accanto bambini, insegnanti e tanti studenti delle scuole occupate: davanti al Galileo il corteo è accolto dal cartello "Galileo pre-occupato". Ci sono delegazioni di precari e tanti cori indirizzati a Napolitano per invitarlo a non firmare la legge.
Salgono intanto a quattordici le scuole occupate o autogestite dagli studenti, ma il numero è in crescita. In alcune si fa lezione, in molte no. Allo scientifico Castelnuovo la protesta era cominciata sabato, con l´occupazione della succursale, ieri si è estesa alla sede di via Lamarmora, con qualche tensione. Duecento studenti si sono presentati all´ingresso tentando di organizzare un´assemblea mentre all´interno, trincerati come in una fortezza, alcuni dei loro compagni facevano lezione. Finite le lezioni, i ragazzi sono riusciti a entrare. Nello stesso momento, l´occupazione veniva decisa anche al Galileo, nel corso di un´assemblea molto affollata: «Non avevamo mai visto così tanta partecipazione», commenta Elena. In autogestione (cioè senza pernottamento nella scuola) l´istituto professionale per la moda Tornabuoni-Cellini. Problemi superati anche al classico Michelangelo, dove l´occupazione è ripartita ieri ufficialmente: «Hanno votato a favore l´80 per cento degli studenti: almeno settecento» racconta Marco. Partenza difficile dell´occupazione e con polemiche anche al liceo classico Dante: sabato e domenica una quarantina di studenti hanno dormito nella palestra, ieri invece in duecento hanno votato per l´occupazione mentre altri facevano lezione. Nelle mani degli studenti anche il liceo scientifico Gobetti (a Bagno a Ripoli), il Gramsci, l´Istituto tecnico industriale Meucci, l´Istituto d´arte di Porta Romana, l´Istituto Calamandrei di Sesto Fiorentino, il liceo artistico Alberti, lo scientifico Rodolico e Leonardo da Vinci, il Pascoli, l´Elsa Morante e il liceo Agnoletti di Sesto. E dalla Gandhi un gruppo di insegnanti scrive al presidente della Repubblica Napolitano per esprimere «sconcerto per come viene trattata la scuola pubblica» e per proporre ai politici «di vivere per un mese con lo stipendio di un professore».

La Repubblica Firenze 14.10.08
Le assemblee. Se ne organizzano dappertutto: per non criticare senza essere informati. E si invitano anche gli insegnanti
Macché scialo, questa è politica
Gli studenti: parliamo di tasse e futuro, prendeteci sul serio
di Gaia Rau


Senza targhe di partito. Lo ripetono appena possono ed è quasi un´ossessione: «Questa protesta è solo nostra». Lo scrivono anche sugli striscioni: «Uniti contro la 133 senza bandiere né partiti». Ci credono, passano ore a organizzare gruppi, a discutere di come si può difendere la scuola pubblica e l´università. Torna la politica nell´occupazione, tornano frasi che sembravano dimenticate. Del tipo: «protestiamo perché la cultura non sia un privilegio, ma un diritto per tutti». Viaggio nel movimento studentesco, anno 2008: quelli di internet, piercing, ipod, parlano di politica. Sì politica, impegno, assemblee, sigarette, discussioni. Vogliono «l´abrogazione della legge Gelmini, che non significa soltanto il grembiule, ma taglia i fondi all´istruzione, vuole mettere in ginocchio la scuola pubblica a favore di quella privata». Soprattutto si preoccupano per il futuro dell´università, il loro futuro, «perché non possiamo accettare la privatizzazione degli atenei». Perché: «Scusa io sono figlio di un impiegato e già duemila euro all´anno in tasse sono tante per la mia famiglia. Studio al liceo per andare all´università, ma se poi non me la posso permettere?» racconta Carlo, 18 anni, liceo da Vinci.
Ci sono «le okkupazioni scialo» («quelle che facevamo fino all´anno scorso, magari perché non funzionavano i termosifoni») e poi c´è questa. Senza la doppia "k", ma con tanti buoni motivi. Una protesta «che non è né di destra né di sinistra, e che non riguarda solo noi, ma anche i nostri professori e i nostri genitori». E´ come un tormentone che risuona nelle aule del liceo scientifico Castelnuovo e si propaga in quelle del Galileo, del Michelangelo, nella palestra del Dante e nei cortili delle altre scuole occupate: la cosa più importante, per i ragazzi che si organizzano per la notte con i sacchi a pelo, fanno la colletta per pagare la cena ma anche il giornale d´istituto, improvvisano laboratori informatici con i computer portati da casa, è essere presi sul serio. «Basta raccontare che chattiamo o che mandiamo sms - racconta Francesca del Dante - scrivete cosa diciamo nelle riunioni di istituto piuttosto».
Ovunque si formano comitati e gruppi di lavoro, dappertutto si organizzano «assemblee per non criticare senza informazione» (come recita lo striscione che ieri mattina sventolava appeso ai muri del Castelnuovo). A partecipare sono invitati i professori («non ce l´abbiamo con loro, sono vittime come noi»), e poi studenti universitari e ricercatori. Come Marcello Colocci, direttore del Centro di ricerca di Fisica a cui domani è stato chiesto di intervenire al Castelnuovo. L´università è il tema che appassiona e preoccupa di più: «Quello che ci preme sono i tagli che la riforma impone agli atenei italiani - scrivono i ragazzi del liceo artistico Alberti - questa legge, che le spinge alla trasformazione in fondazioni di diritto privato, porta come diretta conseguenza una forte limitazione delle prospettive di noi studenti. Innanzitutto molti non potrebbero permettersi il pagamento di una retta che, senza limiti dettati dalla legge, aumenterebbe sicuramente. Per non parlare di quelle facoltà che, non producendo cultura commercialmente sfruttabile (filosofia, storia dell´arte) avrebbero sicuramente grosse difficoltà a trovare finanziamenti, fino a rischiare la chiusura». Al liceo classico Dante i ragazzi si sono organizzati in cinque comitati interni, uno è il «comitato stampa» e si occupa di leggere, ritagliare e sottolineare tutto quello che i giornali scrivono sulle occupazioni, un altro si occupa della sicurezza (se non sei uno studente di quel liceo non entri) un altro si occupa di produrre i documenti da sottoporre all´assemblea, fra questi i punti della protesta, cinque in condotta compreso e «tagli che qui da noi già si vedono infatti la sperimentazione di storia dell´arte è stata cancellata per carenza sul numero degli iscritti. E vi sembra giusto?».

Repubblica 14.10.08
Se l´Italia arretra tra condotta e grembiulini
di Francesco Merlo


Un sistema di istruzione, un tempo tra i migliori d´Europa, declina tra velleità pedagogiche, tagli e riforme nostalgiche. Perché le scelte dell´attuale governo sono un ritorno al passato
Le idee del ´68 contro l´autorità scolastica sono finite. I ministri si sono scelti un nemico che non c´è più
L´educazione del prof di italiano che faceva imparare a memoria la Divina Commedia, tre terzine al giorno

Chiudete gli occhi e cercate di ricordare quell´idea di scuola che negava la scuola e che tutti insieme abbiamo faticato a seppellire. È contro quell´idea morta e pietrificata che i ministri Gelmini e Brunetta ferocemente combattono, e sono un caso di estremismo "di scuola" che "fa scuola": ultimi giapponesi di una lunga guerra ideologica consumata e finita.
Sforzatevi di acchiappare le memorie che ancora fluttuano dense di slogan, di utopie, di scontri. I decreti delegati per esempio. Inventati per sottrarre il governo della scuola agli insegnanti repressivi che, ancora negli anni sessanta, punivano con la bacchetta sul palmo delle mani, essi realizzarono la più goffa delle semplicionerie pedagogiche, quella di voler trasformare genitori e studenti in direttori didattici.
Provate a rievocare l´illusione che la scuola dovesse "liberare" gli istinti invece di educarli per esempio con l´imparare a memoria la Divina Commedia � tre terzine al giorno domeniche comprese, 21 la settimana, 30 al mese � al punto che al professore di Italiano bastava accennare «Ed el mi di�» perché l´allievo, indicato a dito, continuasse: «Ed el mi disse: Volgiti! Che fai? / Vedi là Farinata che s´è dritto...».
Oppure riportate in vita l´esame collettivo di Architettura che sostituiva l´"individuale" di Scienza delle costruzioni. Certo, c´erano professori arroganti e capricciosi, e ne ricordo uno di Filologia, con occhi sporgenti come uova sode, la cui collera bocciatrice, dinanzi allo studente che si impappinava, cominciava con una lieve agitazione dell´aria: «Uffa!». E poi: «Parli più svelto, per Dio. Uffa!». Ma forse fu più devastante la pretesa che la promozione, la laurea, la lode, e persino il Nobel sarebbe stato giusto darli a tutti o a nessuno.
Quando ormai in tutta Europa sono state archiviate quelle corbellerie, a partire dalla convinzione che correggere gli errori di grammatica fosse di destra, ecco spuntare in Italia due estremisti di governo che di nuovo rimandano la scuola in piazza. E provocano spavaldamente il conflitto sociale e offendono i meridionali, i maestri, i professori tutti, rischiando seriamente di farci regredire e di far (ri)diventare la scuola proprio come la vogliono, con i vecchi manifesti, con l´utopia di formare senza deformare, di "scarcerare" la mente. Rischiamo insomma di rispondere con l´ideologia morta all´ideologia morta di questi "cattivi maestri". Eccoci infatti di nuovo con don Milani e la scuola di Barbiana, con i cortei e la rabbia che, negli studenti, è pronta a tutti gli azzardi e a tutte le avventure, perché scuola � scholé � significa tempo libero, "otium": il tempo appunto della libertà e dunque anche delle scorciatoie del pensiero di piazza, che è la scuola che insegna ai manifestanti a fare le cose contro le quali manifestano.
Tutti sanno che basta una scintilla per incendiare la scuola. E infatti già si parla di "rivolta degli studenti". E gli eterni esperti di gioventù, grati alla Gelmini, lucidano ricordi senza denti e senza artigli. Vecchi instupiditi ripropongono l´ennesimo nuovo Sessanotto, rievocando superbe turbolenze e già celebrando, nelle prossime occupazioni dei nipoti, le proprie invincibili stanchezze. E´ anche questo il significato moderno della parola "scuola": l´eternità di una rivolta che riproduce sempre la stessa crisi, l´agonia di un´istituzione che gira in tondo e in perenne corteo, i furori impotenti dell´immensa fabbrica italiana delle lauree dequalificate.
E che si tratti di reliquie di un mondo perduto lo si capisce dall´insensata accusa di guadagnare troppo che Brunetta ha sfrontatamente lanciato ai professori che meno guadagnano in Europa. Com´è possibile? Sono "proposte" queste? Attaccato come un ragno al filo della sua idea vuole entrare a tutti i costi in un paesaggio di cinquant´anni fa, quando pensavamo � non schola sed vita � di abbattere la memoria e le nozioni e magari perché avevamo fatto esperienza di vecchi insegnanti come il mio che sintetizzava così la letteratura italiana: «Duecento: religione; trecento: allegoria; quattrocento: imitazione; cinquecento: mondo fantastico; seicento: barocco; settecento, spaccalo in due: ragione e sentimento; ottocento: Manzoni».
Eppure abbiamo tutti ritrovato, per dirne una, il diritto a punire lo scolaro, al punto che il laburista Tony Blair cadde forse nell´ecceso opposto estendendo le punizioni anche ai genitori che «fanno finta di non sapere e di non vedere». E nella Francia di dieci anni fa nacque il movimento in difesa del calcio nel sedere con il ministro socialista e migliaia di madri in piazza a Rouen per solidarizzare con la pedata che un prof esasperato aveva rifilato a uno studente. «Il castigo meritato è una fiaccola che illumina e un balsamo che risana» si insegnava una volta, prima dell´utopia di Bettelheim al quale noi genitori moderni dobbiamo tutte le teorie e le pratiche educative di tolleranza, sul modello (presunto) della famosa "scuola" di Chicago, spietatamente smontato nel 1998 da un feroce libro di testimonianze: «Avveniva nella scuola il contrario di quel che il maestro scriveva e predicava: violenze, abusi, plagi». Proprio come ai tempi del Manzoni che ricordava la sua scuola (cattolica) come «sozzo ovil». La verità è che mai la scuola è l´antimondo, ma è lo stesso mondo visto da un´altra prospettiva.
E oggi che tutti lo abbiamo capito e dibattiamo, per esempio, sul grande recupero del Latino (Stati Uniti), o sull´obbligo di studiare Cinese (Inghilterra), o sui supercontratti agli insegnanti di eccellenza, ecco che una coppia di fanatici italiani si mette a raccontare il presente al passato creando un mondo strano di morti viventi, come quelle maschere di carnevale che diventano spaventose solo quando uomini veri le portano sul viso.
E dunque attaccano la scuola come fosse la Comune di Parigi o la Moneda di Allende. E vedono in ogni insegnante un Gramsci straccione. Pensano che nelle aule si siano arroccati il potere sindacale e la sinistra. Hanno l´idea che il libro è di sinistra e che i processi formativi siano in mano alla sinistra.
E sono, anche dentro il governo, i più estranei al mondo della scuola. Non hanno, per dire, la rispettosa familiarità che ha Bondi con la cultura che contesta, né la sensibilità o l´idea di Stato di Tremonti, e neppure il decoro formale del pur durissimo Sacconi, o quel passato di complicità con i libri del faziosissimo Cicchitto. Distanti e diversi, sono il gruppo di fuoco di quel vecchio rancore ideologico che si batte contro il morto e intanto uccide il vivo, vale a dire l´idea stessa di scuola che non è solo il bene primario di un nazione, ma è anche il tempio attorno al quale si organizza qualsiasi comunità: senza le madrasa, per esempio, l´Islam non esisterebbe; e anche Cristo faceva scuola ai suoi discepoli.
La scuola è l´uscita dallo stato di egoismo sfrenato, è l´aprirsi al mondo per stare al mondo. Ma è anche il luogo dei primi fantasmi e delle prime violenze tra compagni che oggi hanno la forma spettacolare (tatuata nel corpo) del bullismo e ieri avevano la forma soffocata (incisa nell´anima) dei turbamenti del giovane Törless.
Nei paesi primitivi, senza scuola non riuscivi né a cacciare né a difenderti dagli animali. In quelli moderni ci sono scuole di seduzione e di ballo, di cucina e di polizia, di scrittura e di portamento, di sesso e di castità... La scuola è "studium" che vuol dire amore, passione e dunque vita, ma ci sono anche scuole di morte contro le quali la scuola statale è l´ultimo presidio nelle zone di mafia.
La scuola è l´anima di una comunità, il luogo di tutti gli interrogativi. Ma è anche quella mobilità sociale che tiene in piedi la democrazia, la possibilità cioè di dare scacco ad un destino e cambiare classe: meglio del gioco del lotto. E infatti sopportiamo tutti i sacrifici economici e siamo devoti della scuola «ad ogni costo»: "primum docere, deinde lucrari" è il pensiero di tutti. Tranne della Gelmini che, se si esclude il voto in condotta e il grembiulino, soltanto taglia, contabilizza, chiude e, insieme con l´agitatissimo Brunetta, umilia e caccia via. E mai nella scuola investe o reinveste: "primum lucrari�". Anche questa è scuola: la scuola che insegna a fare a meno della scuola.

Repubblica 14.10.08
Com´era l´educazione ad Atene e Roma
La lezione dell’antichità
di Maurizio Bettini


Protagora chiedeva a ogni studente diecimila dracme per un corso completo. Naturalmente si poteva trovare anche a meno. Pochi anni dopo, Isocrate chiederà solo mille dracme

Siamo nel V secolo a. C., sulla scena ateniese sono comparsi da poco i cosiddetti sofisti. Si chiamano Protagora, Gorgia, Antifonte, Prodico, Ippia. Chi sono? Nientemeno che i primi professori dell´insegnamento superiore che la storia della nostra cultura possa registrare. I sofisti riuniscono intorno a sé i ragazzi che accorrono alle loro lezioni, o che vengono affidati loro dalle famiglie. Il corso dura dai tre ai quattro anni, e i professori/sofisti si fanno pagare bene. Protagora, abile "imprenditore" della cultura, chiedeva a ogni studente diecimila dracme per un corso completo. Considerando che a quel tempo un operaio qualificato guadagnava ad Atene una dracma al giorno, se ne deduce che, alla scuola di Protagora, il costo di un corso equivaleva a circa ventisette anni del lavoro di un operaio. Naturalmente si poteva trovare anche a meno. I sofisti offrivano anche, a quel che pare, "segmenti formativi" più brevi e a minor prezzo. Lezioni specifiche, in cui il professore si impegnava a trattare a fondo un soggetto per quaranta dracme a persona.
Che cosa insegnavano i sofisti? Il loro progetto educativo era il seguente: formare cittadini capaci di amministrare bene gli affari propri e quelli dello Stato. Il loro insegnamento, dunque ha finalità essenzialmente pratiche. Non si tratta di formare degli uomini buoni e saggi, ovvero dei filosofi che pratichino la virtù, ma delle persone "efficaci", anche e soprattutto sul piano della parola e del discorso pubblico. Quello che importa non è trovare la verità, ma avere la capacità di persuadere un uditorio. I sofisti insegnano l´arte della persuasione, fondamentale nella politica e negli affari. Oggi, probabilmente, dedicherebbero la loro attenzione anche alla pubblicità.
La cosa più interessante, comunque, è vedere il modo in cui questi sofisti insegnavano. Per attrarre studenti il sofista si dà molto tono. Pretende di essere onnisciente, infallibile. Platone racconta che, quando fa lezione, il sofista siede addirittura su un seggio più elevato di quelli su cui seggono i suoi uditori (ah, il fascino eterno della cattedra!), e può perfino indossare il grande mantello di porpora tipico del rapsodo: ossia il poeta tradizionale, che canta le gesta degli eroi sull´onda dei versi di Omero. Anche noi abbiamo conosciuto docenti la cui strategia didattica consisteva, principalmente, nel darsi importanza. Dalla parte degli studenti, poteva invece manifestarsi il fenomeno del rapimento giovanile per l´intellettuale affascinate, che crea attorno a sé un circolo di adepti o di prediletti. Di questo entusiasmo giovanile ci resta un quadro indimenticabile datoci da Platone nella scena iniziale del Protagora. Il giovane Ipparco è pieno di emozione per l´arrivo in città del celebre Protagora, un sofista straniero da cui ci si attendono lezioni straordinarie; mentre Socrate si fa un dovere di smontare l´ingenuo entusiasmo del ragazzo con una serie di argomentazioni razionali. Nella sua strategia didattica, come ben sappiamo, Socrate non ha mai fatto ricorso all´arte del darsi importanza. Forse per questo continua a essere considerato il modello ideale del maestro.
Spostiamoci adesso a Roma. Svetonio, il biografo degli imperatori, ci racconta quanto segue: «Vespasiano fu il primo a stanziare una somma annua di centomila sesterzi, prelevata dalle casse dello Stato, da destinare all´insegnamento della retorica greca e latina». Anche se le cattedre istituite furono solo due, e riguardarono esclusivamente la città di Roma, si tratta di una novità importante. Con questa decisione di Vespasiano, nel I secolo d. C., lo Stato crea infatti delle cattedre di insegnamento a proprie spese. In altre parole, nasce l´istruzione superiore a carattere pubblico.
A coprire il primo insegnamento di retorica latina fu il grande Quintiliano, un professore dal curriculum impeccabile. Risultato del suo insegnamento fu infatti quella Istituzione dell´oratore che ha costituito per secoli uno dei pilastri dell´educazione occidentale. Ci si può stupire del fatto che l´investimento statale di Vespasiano riguardasse solo la retorica, e non altre discipline a carattere più tecnico o scientifico. Il fatto è che per l´imperatore, così come per tutta la civiltà antica, istruzione superiore era sinonimo di formazione alla vita pubblica, un campo in cui la retorica esercitava un predominio indiscusso. La cosa interessante, comunque, è che Svetonio ci racconta anche un aneddoto che costituisce quasi una giustificazione emblematica del comportamento dell´imperatore.
Pare dunque che un ingegnere (mechanicus) avesse proposto a Vespasiano il progetto di una macchina, tramite la quale si sarebbero potute trasportare enormi colonne con poca spesa e con il minimo sforzo. L´imperatore lo ricompensò, ma non volle realizzare il progetto: «Lasciami dar da mangiare al popolino!» fu la sua spiegazione. Che bisogno ci sarebbe stato di formare dei tecnici, sia pur capaci di costruire macchine meravigliose, quando c´era "il popolino" a disposizione?

Repubblica 14.10.08
Fenomenologia del corpo insegnante
Quei docenti nelle trincee
di Marco Lodoli


Gli insegnanti arrancano per ottenere un minimo di credibilità, schiacciati tra l’indigenza e il disprezzo, davanti a studenti che pensano ad altro

Dopo anni e anni di riforme scolastiche fondate su incerti presupposti pedagogici, dopo Berlinguer, la Moratti, Fioroni e il progressivo smarrimento di insegnanti e allievi di fronte ai nuovi programmi e ai nuovi criteri di giudizio, alle Siss e ai moduli, alla metamorfosi costante degli esami di Stato e alla sistemazione dei precari, ecco che in un attimo tutto si semplifica: finalmente si è trovato il principio regolatore del marasma, era l´uovo di Colombo, ma ci voleva l´accoppiata vincente Tremonti-Gelmini per pervenire a tanta brutale chiarezza. La scuola sarà riorganizzata secondo i pochi soldi che restano.
Certo, non è un discorso che si può fare apertamente, va mimetizzato dietro le frasche dei grembiulini e del voto in condotta, dietro il velo della nostalgia dei bei tempi che furono, ma la sostanza ormai è evidente. Il piatto piange, dunque si mandano a casa tante maestre, si riducono gli anni scolastici, si congelano i precari in un freezer mortale. Non basta ancora, dalla torre di comando, coi conti della spesa in mano, scende il ministro Brunetta per bacchettare gli insegnanti: per quello che fanno guadagnano benone, in fondo il corpo docente è fin troppo pingue e sotto sotto se la intende mollemente con le armate invisibili dei fannulloni. E ancora: si auspica lo sbarco nella scuola delle fondazioni, addirittura degli sponsor, denaro privato, fresco, produttivo, denaro che produrrà altro denaro, se tutto va bene, e viene quasi da immaginare i nostri bambini con il loro bravo grembiulino azzurro e il nome dell´azienda finanziatrice sulla schiena, come accade ai giocatori di calcio.
Insomma, ci spiegano Tremonti e la Gelmini, lasciamo stare Rousseau, Steiner e la Montessori, non perdiamoci nella nebbia delle teorie, cancelliamo ogni patetico e rovinoso sessantottismo e andiamo al cuore del problema: la scuola è una ditta sull´orlo del collasso, e allora come nella più feroce tradizione neoliberista, subito forbici e tagli, poi si vedrà. Del resto già da qualche anno, con il varo solenne dell´autonomia scolastica, è difficile per un insegnante parlare dei problemi didattici con il suo dirigente scolastico. «Il preside è corso in banca a firmare carte», «Il preside sta rivedendo le entrate e le spese con la segretaria», «Il preside non sa dove sbattere la testa per pagare i supplenti». Il mondo dell´economia, reale o immaginaria, preme sempre più sulla scuola: gli stessi allievi da molto tempo sentono che in fondo Aristotele o la trigonometria non serviranno un granché, che la vita di oggi ruota attorno ad altri assi cartesiani, soldi e divertimento, soldi e successo, come un luna park eccitante al quale le biblioteche non possono insegnare un bel nulla.
Il paradosso è proprio questo: il nuovo governo berlusconiano dichiara di voler restituire serietà e autorevolezza alla scuola, contro il lassismo di insegnanti lazzaroni, quando chiunque lavori in un´aula sa che lo sfacelo è figlio proprio della trasformazione antropologica elaborata dalle reti Mediaset, negli studi pubblicitari, nei centri commerciali, in una sottocultura biecamente edonista che ha illuso i più deboli e i più giovani privandoli persino di un senso di dignità e di una colonna vertebrale. Così gli insegnanti arrancano per ottenere un minimo di credibilità, schiacciati tra l´indigenza e il disprezzo, davanti a studenti che pensano ad altro, che neanche fingono più di credere ai valori della conoscenza e dell´apprendimento.
Un esempio clamoroso è il film La classe, Palma d´oro a Cannes, incensato da tutta la critica. La figura dell´insegnante appare nella sua versione più desolata, il povero Bégaudeau, autore del libro e protagonista principale del film, è davvero uno sciagurato, quasi un inetto, che non ne fa una giusta neanche per sbaglio. Tutto l´anno scolastico perduto dietro una sola idea, far scrivere a ogni studente il suo autoritratto. Mai osa proporre ai ragazzi un brano di Shakespeare, una poesia di Baudelaire, qualcosa di alto e nobile che possa modificare le loro sensibilità: non crede più alla potenza dell´arte, del pensiero, della bellezza, si accontenta di aderire timorosamente alla vita degli studenti, di certificare l´esistente, lo status quo, la vita così com´è, ed è una brutta vita. Finirà a insultare due allieve e a farsi minacciare dal bullo della classe, poi espulso a forza dalla scuola. Un insuccesso totale, una catastrofe. La scuola rischia sempre più di diventare un mondo in cui la cultura conta poco o niente, dove imperano il presente, il disagio, i soldi sognati o tagliati.

l’Unità 14.10.08
Scuola, pioggia di e-mail al Colle
Napolitano: decidono le Camere


«Scrivi al Capo dello Stato, fermiamo il decreto Gelmini. Servono 20mila firme, facciamo numero». Il popolo degli insegnanti, dei genitori e degli studenti si mobilita come può, inviando Sms o scatenandosi in Rete, pur di bloccare la riforma della scuola. È proprio Napolitano il destinatario di una pioggia di mail inviate al sito del Quirinale per bloccare il maestro unico. Ma il Colle precisa: «Il Presidente della Repubblica non può esercitare ruoli che la Costituzione non gli attribuisce. Decida il Parlamento». Sullo sciopero del 30, dopo la Cisl, frena anche la Uil mentre la Ugl aderisce alla protesta. Polverini: «La riforma Gelmini? Una scure sulla scuola». E intanto si allarga a macchia d’olio la protesta negli atenei italiani contro i tagli. Occupazioni a Milano e Firenze, proteste a Torino e Roma.
LA PAURA che dopo la Camera anche al Senato venga messa la fiducia al decreto Gelmini corre via web. Così ecco che insegnanti e genitori non lasciano niente di intentato. Da tre giorni il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è diventato il destinata-
rio delle loro ultime speranze per fermare il maestro unico dal momento in cui la legge sarà approvata in maniera definitiva dal Parlamento. «Diffondi questo messaggio è importantissimo! Chiediamo al Presidente della Repubblica di non firmare il decreto. Vai sul sito www.quirinale.it, clicca su “Posta” e manda una mail a Napolitano. Servono 20mila firme.... facciamo numero». Il messaggino corre da un telefonino all’altro e riempie le posta elettronica dei cittadini di tutto lo Stivale, saltanto da un blog a un forum. Ci sono anche molte lettere spedite da singoli (come la scrittrice Dacia Maraini) ma anche gruppi di docenti e organizzazioni. Così in serata il Quirinale precisa: «Il Capo dello Stato non può esercitare ruoli che la Costituzione non gli attribuisce. È il governo che si assume la responsabilità del merito delle sue scelte politiche e dei provvedimenti di legge sottoposti al Parlamento, che possono essere contrastai e respinti, o modificati, solo nel Parlamento stesso. Il presidente - conclude la nota - ha in ogni caso l’obbligo di promulgare le leggi, qualora le stesse siano nuovamente approvate, anche nel medesimo testo».
L’idea di chiedere il «soccorso» di Napolitano era partita da una insegnante di una scuola statale che nelle settimane scorse ha partecipato al Colle all’inaugurazione dell’anno scolastico e scritto una lettera aperta al presidente pubblicandola sul sito del coordinamento romano anti-Gelmini. «Ho ascoltato il suo discorso con attenzione, signor Presidente - ha scritto la docente - e ho riflettuto su quanto ha detto riguardo alla necessità che anche la scuola si faccia carico delle difficoltà economiche del Paese. Ma non sono d’accordo». E l’insegnante motiva i 5 perchè, invitando il Capo dello Stato ad «esperire» tutte le azioni possibili «per impedire che un tale disastro per il paese trovi concreta attuazione».
Non solo il Quirinale, anche il presidente delle due Camere, Fini e Schifani, sono in questi giorni sommersi da petizioni popolari, ai sensi dell’art. 50 sulla Costituzione. E nel paese non cessa la mobilitazione: ieri un sit-in sotto palazzo Madama (con replica quotidiana), notti bianche, fiaccolate e occupazioni di scuole elementari. Poi il via agli scioperi generali: prima i Cobas, venerdì prossimo, poi il 30 dei confederali. E proprio su quest’ultima chiamata alla piazza si registra il continuo «balletto» della Cisl. Mentre il leader del sindacato Bonanni domenica scorsa si è detto pronto a revocarlo, ieri sera Francesco Scrima, segretario generale della Cisl-scuola ha detto: «Il silenzio e le posizioni del governo esigono inevitabilmente una risposta forte, massiccia e compatta. Ribadiamo con forza le ragioni di uno sciopero che vuole dare voce all’intero mondo della scuola». Nella stessa giornata anche la Uil ha mostrato dei tentennamenti. Luigi Angeletti, si è detto pronto a fermare la «serrata» che nella scuola non avviene da anni, qualora il governo si decidesse ad avviare la «conclusione dei contratti e quindi degli aumenti salariali». Irremovibili per lo sciopero Cgil e Gilda.
ma.ier.

il Riformista 14.10.08
Il colle: «Decide il parlamento»
Perde pezzi il fronte anti-Gelmini
di Alessandro De Angelis


«Ci risiamo. Non bastava la riforma del modello contrattuale. È ora che i sindacati si mettano insieme su una piattaforma riformista»: Giorgio Tonini, fedelissimo di Walter Veltroni, registra la nuova spaccatura della triplice. La scintilla è arrivata da una dichiarazione del leader della Cisl Bonanni: «Pronti a revocare lo sciopero sulla scuola - ha detto Bonanni a Domenica in - se il governo convoca noi e gli enti locali». Quanto basta per allarmare il quartier generale del Pd, spiazzato anche dalla presa di posizione del Colle (la manifestazione del 25 ottobre è vicina e la scuola uno dei pochi propellenti rimasti...). Inondato di messaggi a favore della protesta anti-Gelmini, Giorgio Napolitano si è sfilato dalla contesa: «Sulla riforma decide il Parlamento».
Veltroni ha in mente di uscire dall'impasse con una proposta forte. Tonini un'idea già ce l'ha: «Don Milani nella "Lettera a una professoressa" scriveva: io pagherei a cottimo tutti gli insegnanti, un tanto per ragazzo, che riescono a far diventare colto uno studente». Detta in altri termini, Tonini immagina una doppia linea di intervento: «I tagli devono essere reinvestiti nella scuola e gli insegnanti premiati secondo un criterio meritocratico. Una specie di salario di produttività».
Il fronte caldo però è quello sindacale. Dopo lo strappo del leader della Cisl, ieri anche Angeletti si è mostrato possibilista: «Se il governo ci chiamasse rapidamente e trovassimo anche una soluzione lo potremmo revocare facilmente». La Cgil, invece, non ha alcuna intenzione di fare retromarcia. Anzi. Dice il segretario generale della Cgil scuola Domenico Pantaleo: «Noi, ovviamente, confermiamo lo sciopero. Anche perché non vedo un fatto nuovo di merito per revocarlo. Sul metodo poi è vero che andrebbe ristabilito un rapporto tra governo e sindacati, ma a partire dall'atteggiamento di questo governo che marcia in modo autoritario e considera i sindacati un impiccio». La Cgil il 30 ottobre sarà in piazza comunque. A via Po invece aspettano un segnale. Spiega un fedelissimo di Bonanni: «Quella sulla scuola è stata un'apertura tattica che non pregiudica la mobilitazione. Ma se il governo vuole rompere l'assedio deve aprire un canale di dialogo con chi ci sta. Solo con la linea della piazza si rischia di non portare a casa niente». Lo schema si ripropone al tavolo più delicato: quello della riforma del modello contrattuale. Finito il confronto con Confindustria, domani inizia quello con Confcommercio, e poi con le altre associazioni di categoria. Appuntamento finale è col governo. Tradotto: i prossimi quindici giorni saranno decisivi. Oggi Bonanni chiederà al suo consiglio generale (il parlamentino della Cisl) piena fiducia per continuare sulla linea scelta, anche a costo di rotture:«Se a questo giro non prevale il senso di responsabilità significa che non c'è limite a niente» ha detto ieri ai suoi. Anche Angeletti vuole chiudere in tempi brevi: «L'impianto del documento con Confindustria è definitivo. Ora dobbiamo andare alla conclusione. Non vedo le ragioni di un no della Cgil. Ma se dice no non finisce il mondo».
A Corso Italia invece c'è aria di rottura. Ieri Epifani ha convocato prima la segreteria, poi un esecutivo ad hoc sui contratti. Nell'introduzione il leader della Cgil è stato drastico: «Il documento di Confindustria è autoritario e programma la riduzione dei salari» ha detto. Per mezza Cgil (Fiom , Funzione pubblica, le principali Camere del lavoro) su queste premesse non solo non ha più senso stare al tavolo ma bisogna iniziare un ciclo di lotte per fronteggiare un accordo separato, che in molti - a Corso Italia - danno per scontato. Come il leader della Fiom Gianni Rinaldini che ieri ha annunciato per il 31 ottobre lo sciopero generale dei metalmeccanici. Gli epifaniani doc per ora rimangono al tavolo, sia pur "con riserva". Spiega il segretario confederale Agostino Megale: «Non credo che Confcommercio, Confagricoltura si vogliano sentire ospiti in una tavola imbandita per altri. La linea di riforma tracciata da Confindustria e da Cisl e Uil non può essere l'accordo conclusivo. L'obiettivo è un nuovo modello unico recuperando lo spirito ciampiano del '93». Nel momento in cui scriviamo l'esecutivo è ancora in corso. Dice confederale di rango: «Epifani sta difendendo il tavolino con le categorie per prendere tempo fino al tavolone col governo. Ma è chiaro che si sta lacerando tutto».

l’Unità 14.10.08
Renata Polverini. Il segretario dell’Ugl: certo che bisogna innovare e premiare il merito, ma se a rimetterci è l’occupazione degli insegnanti tutto il progetto si svuota
«Finora è solo una riforma di tagli, se non cambia scioperiamo»
di Maristella Iervasi


«La riforma Gelmini? Sarebbe giusta se non mettesse al centro che c’è da risparmiare». Vale a dire, i tagli alla scuola che si abbattono come una mannaia su docenti e personale scolastico, ore di lezione e più studenti per classe. Renata Polverini, segretario generale dell’Ugl, è per una «scuola a misura di bambino, che guarda al merito e alla centralità dello studente». L’Unione generale del lavoro è quindi per il ritorno del maestro unico ma anche per il mantenimento del tempo pieno, «che va applicato e reso applicabile». E non solo: «Siamo in mobilitazione per i livelli occupazionali. Come per Alitalia anche i precari della scuola e gli insegnanti di ruolo che resteranno senza classe devono essere ricollocati all’interno degli istituti. Viceversa - sottolinea Polverini - senza un segnale nel merito da parte del governo, anche noi siamo pronti per lo sciopero generale del 30 ottobre».
La scuola ha bisogno di una riforma?
«Da anni sostengo che il Paese ha bisogno di tante riforme, la madre di tutte è a mio avviso quella del sistema scolastico: dalla materna all’università. Accettando la sfida del merito e della competitività».
La controriforma Gelmini va in questa direzione?
«Sarebbe giusta se non mettesse al centro che c’è da risparmiare, penalizzando l’occupazione. Bisogna invece far conciliare le due cose».
E come, se si procede con la fiducia sul decreto e nessun dibattito nel merito nel paese?
«La riforma della scuola è necessaria e dev’essere condivisa. Discussione preventiva e poi assegnare le risorse. Procedere come si sta facendo con il solo risparmio e basta non mi piace. Tutte le indicazioni contenute all’interno della riforma Gelmini così perdono valore».
Occupazione: il ritorno del maestro unico «licenzia» molti docenti. Per non parlare dei precari della scuola: rischiano di restare al palo.
«Occorre ridare autorevolezza agli insegnanti: quindi ben venga il maestro unico. Ma con accanto altre figure: inglese, informatica, religione, insegnante di sostegno. Per quanto riguarda i posti di lavoro, Berlusconi ha detto che nessuno verrà licenziato».
E questa rassicurazione secondo lei ha trovato concretezza?
«Finora no».
Dunque, cosa intedete fare?
«Nessuno deve restare fuori dalla scuola. I docenti di ruolo in esubero e i precari che per anni si sono visti rinnovare annulmente i contratti devono essere ricollocati. Magari consentendo a queste persone di restare nelle classi per insegnare materie diverse: religione, informatica, sostegno ai bambini diversamente abili e di supporto ai bimbi stranieri».
Altro punto di forte incertezza: il tempo pieno. Non le pare che l’elementare a 40 ore è lasciata alla creatività delle singole scuole?
«Esattamente. La Gelmini mi ha detto che non ci saranno penalizzazioni ma finora non ho visto una discussione al riguardo».
In calendario ci sono 2 scioperi nazionali della scuola: il 17 dei Cobas, il 30 dei confererali. L’Ugl a quale parteciperà?
«Lo sciopero generale è l’estrema ratio. Ma se si gioca questa carta solo per una questione ideologica si spreca un’occasione. In questo momento bisogna fare uno sciopero per garantire a tutti un’occupazione. L’Ugl è in forte mobilitazione per questo. Se entro questa settimana non otteremo risposte, anche noi il 30 scenderemo in piazza a Roma».

Corriere della Sera 14.10.08
L'invecchiamento Secondo le Nazioni Unite nel 2028 ci saranno 14 lavoratori ogni 10 over 60. Invece il rapporto resterà di 21 a 10
Gli ingressi Tra il 1999 e il 2004 sono entrati nel nostro Paese 300 mila stranieri ogni anno. Cifra confermata per il futuro
Italia, la rivoluzione demografica
60 milioni e 300 mila abitanti, tre milioni in più del 1998 Sbagliate le previsioni dell'Onu. Il ruolo dell'immigrazione
di Gian Antonio Stella


Ve lo immaginate cosa sarebbe oggi il Piemonte con quasi due milioni di abitanti in meno? Cosa sarebbero Torino, le Langhe, le campagne vercellesi? Certo, gli anziani abitanti saprebbero cantare certe canzoni di Gipo Farassino con tutti gli accenti giusti: «Ciau Turin, mia bela tera, / che tristessa, che pensé…» E magari i più colti potrebbero recuperare le poesie di Angelo Brofferio e lanciarsi con accorato sentimento ne «I bogianen»: «Lo san s'al é nen vera / Guastalla e San Quintin, / Pastreng, Goito, Peschiera / Palestro e San Martin. / Gëneuria farisea, / veule accertev ne ben? / Lo san fin a 'n Crimea / che noi bogioma nen». Ma sarebbe un Piemonte vecchio. Spopolato. Economicamente ammaccato. Raggrinzito.
Senza l'immigrazione di veneti e pugliesi, calabresi e romagnoli, Torino e la sua regione, coi tassi di natalità di questi ultimi decenni, avrebbero oggi solo il 56% degli abitanti attuali. E non avrebbero conosciuto il boom economico che intorno alla Fiat strappò i piemontesi al loro destino secolare di emigrazione (un milione e mezzo di esodi tra la crisi contadina di fine Ottocento e il 1915) e di povertà, che fino a pochi decenni fa aveva visto la val Cannobina vendere bimbi agli spazzacamini.
Fu una rivoluzione, quella immigrazione dalle altre regioni italiane. Una rivoluzione anche traumatica, con quei cartelli «non si affitta a meridionali». Ma consentì all'antica capitale d'Italia e alle sue terre di rinnovarsi, di trovare una nuova spinta, di rinascere grazie a nuovi torinesi che di cognome facevano Zanon e Musumeci, Trapani e Scapin. Torinesi trevisani come il cardinale Severino Poletto, figlio di contadini immigrati da Salgaredo. Torinesi romani come lo scrittore torinesissimo Carlo Fruttero. Torinesi friulani come il sindaco Valentino Castellani. Torinesi salernitani come gli storici Nicola Tranfaglia o Giovanni De Luna, che coltiva la piemontesità come fosse nato sotto i portici del caffè Neuv Caval 'd Brôns.
Vale per il Piemonte, vale per l'intero Nord-Ovest. Che senza immigrazione e coi tassi di natalità di qualche anno fa avrebbe oggi dieci invece di quindici milioni di abitanti. E uno su tre (invece che poco più di uno su quattro) avrebbe oltre 60 anni e peserebbe come un macigno sulla ricchezza, l'efficienza, la rete di garanzie sociali di quella che è l'area più ricca d'Italia. Certi numeri non lasciano scampo: col nostro tasso di natalità del 1995 (1,19 figli a donna) una popolazione si dimezza in 38 anni. E questo, senza i nuovi arrivi, sarebbe stato probabilmente il destino di noi italiani.
Il tema del saggio in uscita nelle librerie di Francesco Billari e Gianpiero Dalla Zuanna è questo: la realtà va guardata così com'è. E descritta senza sconti. Senza rimpianti. Senza invettive ideologiche. Senza schemini. Nel tentativo di capire davvero cosa sta succedendo. Per fare i conti sul serio (compresi i rischi che si corrono e le cose che si devono fare) con il panorama demografico che via via si è delineato anche a dispetto delle previsioni degli stessi demografi.
Ma certo, lo sanno anche loro che spesso le proiezioni sono scritte sulla sabbia e i numeri in questo campo vanno presi con le pinze, come dimostrano i calcoli sulla evoluzione della popolazione italiana fatti dalla stessa la Divisione per la Popolazione dell'Onu. Per non dire dell'Istat, che nel 1988, anche a causa della diffusa riluttanza a mettere nel conto anche gli stranieri non solo clandestini ma perfino regolari, «previde per l'inizio del 2008 appena 57 milioni e 400 mila residenti in Italia, ben due milioni e 700 mila in meno di quelli effettivi, che oggi possiamo contare con certezza». Insomma: se è vero che neppure la matematica è una scienza esatta, guai a fidarsi troppo della demografia.
Certe tendenze, però, sono così nette che una classe dirigente seria e responsabile non può non tenerne conto. A partire dal nodo: il problema del declino demografico, in Italia, «non esiste ». E' in corso, come spiega il titolo «Rivoluzione nella culla», un cambiamento epocale. Ma non c'è più un problema demografico. A meno che, si capisce, non si ragioni in astratto ignorando i «nuovi italiani» e tenendo conto solo di una immaginaria «purezza etnica» di una altrettanto immaginaria «razza italiana». Razza da tenere al riparo da ogni contaminazione «straniera», immigratoria, «impura».
Quale «razza», poi? Non sono stati i fruttivendoli pugliesi o le maestre meridionali, come vogliono certe leggende, a «infettare» la purezza del sangue ambrogino: «In occasione del censimento del 1881, gli statistici dell'epoca notarono con stupore che il 52% delle persone residenti a Milano non erano nate a Milano ». Una «purezza» stravolta già centotrenta anni fa!
Insomma, da che mondo è mondo sono state le immigrazioni, interne o esterne, ad arricchire ora questo e ora quel paese. E la parola «arricchire» non è una concessione buonista alle tesi sul «meticciato di civiltà (con l'accento sulla parola civiltà)» di uomini come il cardinale veneziano Angelo Scola. E' successo agli Stati Uniti, al Brasile, all'Australia, all'Argentina, alla Francia… Era terrorizzata la Francia, dopo la sconfitta di Sedan del 1870, dal proprio declino demografico e dalla prorompente fertilità della Germania: «per ogni nato francese nascono due tedeschi!» E chi la risollevò? Leon Gambetta, che rifiutò di firmare il trattato di pace incitando il paese a risollevarsi. Era figlio di un immigrato ligure, Gambetta: ma a nessun francese verrebbe mai in mente che non fosse francese. E lo stesso vale per il pittore Paul Cezanne, che se avesse conservato il nome dei padri si sarebbe chiamato Paolo Cesana perché la sua famiglia veniva dall'omonimo paese piemontese. O per lo scrittore Emile Zola, di origine trevisana. E giù giù, fino ai giorni nostri, a nessun francese verrebbe in mente che Nicolas Sarkozy, figlio di un immigrato ungherese (benestante, ma immigrato) non sia francese. Come a nessun americano è mai passato per la testa che non fossero americani Frank Capra o Joe Di Maggio, Frank Sinatra o Angelo Rossi e Fiorello La Guardia, i sindaci più amati di San Francisco e New York, nonostante quei nomi irreparabilmente italiani.
Certo, un'immigrazione massiccia, tumultuosa e inaspettata come quella che per anni ha quotidianamente colto di sorpresa l'Italia, va gestita. E il libro di memorie «All'ombra della libertà» di Edoardo Corsi, nominato nel 1931 direttore di Ellis Island dove era sbarcato bambino, spiega come occorrano insieme rispetto e mano ferma, pietas e durezza nell'applicazione della legge. Massima severità con chi spaccia, chi rapina, chi delinque. Ma sprecare la risorsa immensa dell'immigrazione, vedendola solo come fonte di problemi, sarebbe un delitto.
Ed è qui che il lavoro dei due demografi si rivela un pozzo prezioso di numeri e dettagli e collegamenti e rivelazioni da cui attingere per capire «come» vivere questi anni di forte immigrazione. Così da rovesciare tutto: l'irruzione di forze per la gran parte giovani, fresche, motivate, non va subita. Va colta come un'opportunità di cui approfittare. E non solo perché, per non impoverirci, arretrare, rassegnarci al declino abbiamo bisogno di trecentomila nuovi arrivi l'anno. Ma perché proprio questa scossa può aiutarci a interrompere un progressivo «affaticamento» della società italiana, sempre più anziana, stanca, pessimista. O addirittura rassegnata.
Vale per il Sud dove, al contrario di quanto dice un luogo comune sulle donne meridionali che fanno più figli, c'è il più pericoloso punto di crisi. Vale per il Veneto, dove secondo il rapporto di Bruno Anastasia di «Veneto Lavoro» (dossier con prefazione di Giancarlo Galan, che guida una giunta dove svetta la Lega) servono 20 mila nuovi immigrati l'anno per mantenere i livelli di oggi. C'è chi dice: «Pochi ma buoni»? Può darsi. Purché chi lo teorizza sia disposto a perdere pezzi del suo benessere e ritornare un po' più povero. Lo è davvero? Mah…

Corriere della Sera 14.10.08
Tanti errori nei conti Così l'onda straniera travolge gli scienziati
La questione che ha modificato tutte le cifre è quella relativa agli irregolari. Che producono ricchezza
di Francesco Billari Gianpiero Dalla Zuanna


Da «La rivoluzione nella culla»
A giugno del 2008 — tenendo conto anche degli stranieri in attesa di regolarizzazione— in Italia vivono stabilmente 60 milioni e 300 mila persone, quasi tre milioni in più rispetto a dieci anni prima. Nell'ultimo decennio, la crescita della popolazione è stata superiore a quella degli anni Settanta. (...) Cosa sta succedendo? Un miracolo, forse, per una popolazione che fra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta stava invecchiando molto rapidamente e sembrava destinata a un declino certo. Un declino che gran parte degli studiosi continuano ancora a vedere.(…) Secondo noi in Italia non esiste, oggi, un problema demografico. Al contrario, ciò che sta accadendo e le tendenze per l'immediato futuro suggeriscono che è nata, e cresce oggi nella culla, una vera e propria rivoluzione demografica. Proprio così: rivoluzione, non declino. Almeno per i prossimi 20 o 30 anni saranno attivi potenti meccanismi che permetteranno alla popolazione italiana di rinnovarsi, senza invecchiare in maniera socialmente insostenibile. La popolazione italiana aumenterà, ma la sua composizione sarà molto diversa da quella attuale.(…) La rivoluzione non è un pranzo di gala. I cambiamenti demografici non garantiscono la nascita del migliore dei mondi possibili. Non garantiscono né un forte sviluppo economico, né la diminuzione delle disuguaglianze. Anche la peste — per dirla con don Abbondio — era una bella scopa, capace di mantenere l'equilibrio fra popolazione e risorse in Europa fra Trecento e Settecento. Convivere con la peste era però spaventoso. La rivoluzione demografica italiana, invece, va cavalcata e orientata. L'azione politica può infatti accentuarne gli aspetti positivi, comprimendo quelli negativi.(...) Ma allora, perché mai oggi tanti pensano che l'Italia sia in declino demografico? (…) Molte delle previsioni funeste sul futuro della popolazione italiana sono basate su scenari ipotetici, che i demografi chiamano proiezioni. Le proiezioni indicano come cambia nel corso del tempo una popolazione quando nascite, morti, immigrazioni e emigrazioni seguono uno scenario, ovvero un andamento definito a priori. Nello scenario ritenuto maggiormente plausibile, la Divisione per la Popolazione dell'Onu — partendo dalla popolazione del 2005 — proietta al 2028, tra 20 anni, una popolazione italiana meno numerosa e molto più vecchia di quella di oggi. Secondo l'Onu, nel 2028 in Italia vivranno poco più di 57,7 milioni di persone, rispetto ai 59,6 milioni iscritti all'anagrafe all'inizio del 2008. Questo calo sarebbe la combinazione della crescita degli over 60 (4 milioni in più) e del drastico calo degli under 60 (6 milioni in meno). Di conseguenza, all'inizio del 2028 dovrebbero esserci appena 14 potenziali lavoratori (tra 20 e 59 anni) ogni 10 over 60, mentre all'inizio del 2008 il rapporto è di 21 a 10(...) Fortunatamente, queste proiezioni sono scritte sulla sabbia, per almeno due motivi. Innanzitutto, la popolazione di partenza (al primo gennaio del 2005) è certamente sottostimata, perché non tiene conto degli stranieri irregolari, ma stabilmente presenti in Italia. Finora gli irregolari sono stati quasi tutti regolarizzati, e prima o poi lo saranno di nuovo (...) In secondo luogo, le Nazioni Unite suppongono che nei prossimi 20 anni entreranno in Italia 140 mila nuovi immigrati l'anno. Ipotesi poco giustificabile, perché negli anni fra il 1999 e il 2004 in Italia la cifra è stata di 300 mila unità l'anno. (..). Se le tendenze di oggi proseguiranno anche nei prossimi vent'anni, di qui al 2028 né i potenziali lavoratori, né gli under 20 diminuiranno. Certo, gli anziani aumenteranno. Per non far saltare i conti sarà inevitabile lavorare tutti un po' più a lungo (…) Ma perché dovreste credere a noi? Per almeno tre motivi. Intanto, già a metà del 2008 la popolazione italiana è di un milione e 500 mila unità più numerosa rispetto a quanto previsto dalle Nazioni Unite appena tre anni prima. L'errore, pari agli attuali residenti delle Marche, è quasi esclusivamente concentrato su quelli che hanno meno di 40 anni. In secondo luogo, errori di questo tipo sono ricorrenti. Nel 1988, l'Istat previde per l'inizio del 2008 appena 57 milioni e 400 mila residenti in Italia, ben due milioni e 700 mila in meno di quelli effettivi. Proiettando ingressi di stranieri molto inferiori a quelli che si sono poi effettivamente verificati, si è prevista la diminuzione della popolazione in età lavorativa. Invece, nel 1988-2008, il numero di lavoratori è aumentato, proprio sulla spinta delle immigrazioni dall'estero.(…) Vi è una grande ritrosia — in Italia e in Europa — a inserire nella stima della popolazione gli stranieri irregolari. Forse non ce ne rendiamo conto, ma così facendo, adottiamo due pesi e due misure che influenzano i nostri conti. Ormai da molti anni nello stimare il reddito, gli istituti centrali di statistica europei e Eurostat considerano l'economia sommersa. In Italia, per esempio, l'economia sommersa costituisce il 20% del Pil stimato dal-l'Istat. Siamo quindi di fronte a un paradosso: le stime del Pil tengono conto anche del frutto del lavoro straniero irregolare, ma gli stessi stranieri irregolari non vengono inclusi nella popolazione, e quindi neppure nella stima del Pil pro capite.
Siamo cioè più poveri, in realtà, di quanto non sembri oggi attraverso la lente del Pil pro capite, poiché una parte di esso è frutto del lavoro degli stranieri irregolari, che non contiamo quando dividiamo per gli abitanti. (..)

Corriere della Sera 14.10.08
Rivisitazioni Da giovedì nel complesso monumentale si discute dell'architettura anni 30 e dei suoi «valori fondanti». Tra i relatori la Meloni
Foro Italico, la destra riscopre lo «spirito del Ventennio»
Convegno con la Rauti sulle «pari opportunità nell'Opera Balilla». Chiude il veltroniano Borgna
di Edoardo Sassi


ROMA — Una tre giorni di convegno con una quarantina di relatori a partire da giovedì pomeriggio, quando la destra celebrerà il suo mito di marmo, il Foro Italico (ex Foro Mussolini), complesso in stile monumental- razionalista degli anni Trenta, realizzato con le firme dei più prestigiosi architetti del Ventennio, da Enrico Del Debbio a Luigi Moretti.
A presentare il convegno, ieri in Campidoglio, anche Giano Accame — decano degli intellettuali di destra, ex direttore del
Secolo d'Italia e giovanissimo volontario della Rsi — che ha così riassunto il senso dell'iniziativa, organizzata dall'Istituto Ieeran: «Il Foro Italico è un capolavoro architettonico studiato e ammirato in tutto il mondo, oggi bisognoso non solo di importanti interventi di tutela e conservazione, ma anche di essere riscoperto nei suoi valori fondanti, come lo sport di massa per tutti».
Tutelare dunque, ma anche riscoprire «lo spirito — parole dello stesso Accame — dell'Opera nazionale Balilla e dell'Opera nazionale dopolavoro. Oggi la ginnastica è troppo spesso appannaggio di cinquantenni benestanti che vogliono buttar giù la pancetta. L'Opera Balilla è stato il primo esempio di pari opportunità tra ragazzi e ragazze, coinvolte nonostante l'opposizione di parroci e famiglie perché scoprivano le gambe ».
E del tema parlerà, come relatrice al convegno, anche Isabella Rauti, in un intervento dal titolo «Pari opportunità nello sport dall'Opera Balilla a oggi». Suo marito, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, inaugurerà con un saluto la tavola rotonda del 17 pomeriggio, in cui è previsto anche l'intervento del ministro Giorgia Meloni sul «Foro Italico come rinnovato motore dell'educazione fisica giovanile ». L'idea del convegno è invece di Marco Perina, assessore nel XX municipio della capitale e fratello di Flavia, deputato e direttore del Secolo d'Italia.
Un'iniziativa di parte? «Un'iniziativa che indubbiamente parte da destra — ha spiegato Accame — ma trasversale. Non abbiamo chiesto a nessuno la tessera e lo dimostra il fatto che la conclusione è affidata a Gianni Borgna, assessore alla Cultura nelle giunte di centrosinistra».
Non solo politici comunque nella Sala della Piscina del Foro, luogo che ospiterà la tre giorni di relazioni. Tra gli interventi, anche quello del presidente del Coni Gianni Petrucci (sull'intero complesso ricadono molte competenze: due municipi, Coni, Stato, Comune...) o di sportivi come Oscar Pistorius. L'atleta sudafricano parteciperà infatti alla manifestazione sportiva nello Stadio dei Marmi che sabato mattina chiuderà il convengo e intitolata «Uomini di Ferro».
Numerosi anche gli interventi di accademici, storici dell'arte e dell'architettura, da Antonella Greco a Giorgio Muratore. L'idea del convegno ruota infatti intorno al tema della valorizzazione, senza stravolgimenti, del complesso che oltre allo stadio Olimpico (radicalmente mutato nel 1990 per i mondiali di calcio) ospita mosaici, statue, pregevoli esemplari di arte applicata di quegli anni e la Palazzina della Scherma di Luigi Moretti, considerata all'unanimità uno dei grandi capolavori dell'architettura del Novecento, edificio per decenni avvilito ad aula-bunker per processi e oggi ancora occupato da una caserma.

Corriere della Sera 14.10.08
Storiografia Chabod, Cantimori, «I re taumaturghi»: maestri e letture del biografo di Mussolini
Quando De Felice per capire il fascismo s'ispirava a Gramsci
di Giovanni Belardelli


La svolta totalitaria del 1936 voluta e avviata dal Duce non raggiunse i suoi obiettivi

Sulla figura e sull'opera di Renzo De Felice, nei dieci anni o poco più che ci separano dalla sua scomparsa, si è scritto moltissimo, a testimoniare della peculiare centralità da lui avuta nella storiografia e più in generale nella vita intellettuale dell'Italia repubblicana. Ma a distinguere il recente volume di Giovanni Mario Ceci Renzo De Felice storico della politica, edito da Rubbettino, è il fatto che per la prima volta ad occuparsi del nostro maggior storico del fascismo sia un giovane studioso, che al tempo delle polemiche che accompagnarono negli anni Settanta le opere defeliciane non era neppure nato.
Dall'esame dell'intera produzione storiografica di De Felice, che Ceci considera per grandi temi, emerge anzitutto una ricchezza di influenze culturali davvero fuori dal comune: da quelle più note, legate ad esempio alle opere e alla diretta conoscenza di Federico Chabod e di Delio Cantimori o successivamente di George Mosse, a quelle più nascoste, legate a un'idea della storia politica come storia delle credenze diffuse, delle illusioni popolari, dei miti e in genere delle rappresentazioni collettive.
Così i suoi studi sul «misticismo rivoluzionario » di fine Settecento avevano dietro la lettura del Bloch de I re taumaturghi, mentre la ricostruzione dell'ondata di miracoli che si verificò in Italia alla vigilia dell'occupazione francese sul finire del XVIII secolo teneva conto della classica opera di Georges Lefebvre sulla «grande paura» nella Francia del 1789. Anni dopo, terminata la fase degli studi dedicati all'Italia giacobina, la sua attenzione, non tanto alla cultura del fascismo come corpo formalizzato di testi e dottrine, ma al mondo mentale dei fascisti come insieme di fantasie, opinioni, rappresentazioni irrazionali, si rifaceva a un'idea ampia della cultura, sulla scia di un grande studioso di scienza politica come Gabriel Almond. Davvero poco nota, nella fitta trama di riferimenti ricostruita da Ceci, l'influenza su De Felice di certe pagine di Gramsci. Del Gramsci che nei Quaderni del carcere
sottolineava l'importanza delle credenze popolari, ma anche di quello che, nel pieno della battaglia contro Mussolini, aveva invitato a considerare il fascismo come un movimento sociale espressione dei ceti medi.
Naturalmente il libro è soprattutto dedicato alla «rivoluzione storiografica » rappresentata dagli studi defeliciani sul fascismo, dall'opera pionieristica sugli ebrei durante il regime alle migliaia di pagine di una biografia di Mussolini che ricostruiva gran parte della vita italiana durante il Ventennio. Una «rivoluzione» che ha certamente prodotto dei frutti, ma forse, sostengono sia Ceci sia Renato Moro nella prefazione al volume, non ha influenzato in profondità la cultura di un Paese che riguardo al proprio passato fascista sembra ancora schiavo di luoghi comuni, pregiudizi, ricostruzioni fantasiose. Così, l'accuratissima esposizione che Ceci fa dei principali temi della ricostruzione defeliciana del fascismo ha anche il risultato di riproporre fatti, interpretazioni, analisi che presentano spesso un carattere di novità non inferiore a quando furono scritti la prima volta.
Si prenda in particolare il capitolo dedicato a ricostruire come De Felice abbia valutato il carattere totalitario o meno del regime fascista, che riproduce giudizi ancora oggi illuminanti. Per tutto il primo decennio del regime e oltre, le iniziali inclinazioni totalitarie del movimento fascista furono congelate dal sistema di compromessi (con il re, con la Chiesa, con i centri del potere economico, con la burocrazia statale) che aveva caratterizzato la costruzione del regime. Le cose cambiarono dopo il 1936, quando fu lo stesso Mussolini ad avviare una «svolta totalitaria » che avrebbe dovuto portare rapidamente alla politicizzazione in senso fascista dell'intera società. Dunque, a partire da quella data, il fascismo fu un regime «ad indirizzo totalitario», anche se — aggiungeva De Felice — non riuscì mai ad esserlo effettivamente.
La «svolta totalitaria» non aveva infatti intaccato realmente il compromesso con i vari, diremmo oggi, poteri forti e si era limitata in gran parte al terreno culturale ed educativo. Soprattutto, una volta illustrati i progetti, le aspirazioni e anche le politiche totalitarie del regime, non si poteva sfuggire, secondo De Felice, ad un confronto con ciò che avveniva alla stessa epoca nella Germania di Hitler e nella Russia di Stalin. Da tale confronto emergeva come mancassero al regime italiano alcuni elementi di fondo perché lo si potesse considerare realmente totalitario: non vi era, scriveva lo storico, «il ricorso sistematico al terrore di massa e, quindi, al sistema concentrazionario»; non era mai stata compiuta davvero «la transizione dallo Stato di diritto allo Stato di polizia»; non si era realizzato, anzi il fascismo neppure l'aveva cercato, un controllo del partito sullo Stato. Sicché De Felice invitava a non «lasciarsi trarre in inganno dal grande uso che (...) il fascismo fece del termine totalitario», con la conseguenza altrimenti di scambiare l'autorappresentazione del regime con «la realtà dei veri totalitarismi ». Che ancora oggi questi giudizi non siano troppo diffusi sembra appunto indicare quanto gli studi di De Felice sul fascismo abbiano avuto un'influenza meno estesa di quanto si crede; ma anche, perciò, quanto quegli studi non abbiano perso di importanza e attualità.

l’Unità 14.10.08
L’analisi di Fidel Castro: è la crisi peggiore per i governi ma i popoli si ribelleranno
«Non ci volevano insegnare la ricetta per lo sviluppo?». Dall’America Latina chi ha fatto scelte diverse guarda con ironia alle difficoltà di Washington
di Gabriel Bertinetto


I dirigenti cubani non si mostrano sorpresi per la crisi finanziaria mondiale. Nei commenti ufficiali, ricorre sovente l’argomento che si tratti sostanzialmente di un naturale sviluppo di un sistema, di cui improvvisamente appare svelata l’irrazionalità che Marx ed i marxisti denunciano da tempo. Traspare a volte quasi la soddisfazione di trovare nei fatti la conferma delle proprie convinzioni. Una volta tanto, l’isola caraibica non sente su di sé il peso dell’accerchiamento ideologico.
Il «lider maximo» Fidel Castro la settimana scorsa era stato lapidario: «La stampa internazionale parla dell’uragano economico che sconvolge il mondo. Molti lo presentano come un fenomeno nuovo. Per noi non è così. Era previsto». Ieri Fidel è tornato più diffusamente sul tema in una «riflessione» pubblicata sull’edizione online di Granma, il giornale del partito comunista cubano. Il titolo, «la legge della jungla», fa riferimento alle «differenze a volte abissali tra nazioni ricche o povere», prodotte dal «sistema capitalista sviluppato». Oggi questo sistema si trova «in piena crisi», non quella ciclica che si ripete «ogni certo numero d’anni» e nemmeno quella già «traumatica degli anni trenta». Per Fidel essa è «la peggiore da quando il mondo si è messo a seguire questo modello di crescita». Una crisi in qualche modo salutare però, perché, da un lato «i mezzi brutali che il governo degli Stati Uniti userà per tirarsene fuori, porteranno più inflazione, più svalutazione delle monete nazionali, più disuguaglianze commerciali», ma dall’altro i popoli ne usciranno con «maggiore conoscenza della verità, maggiore consapevolezza, maggiore spirito di ribellione».
Per Jorge Gomez Barata, Lenin aveva già previsto tutto quando studiò «la concentrazione del capitale finanziario e il carattere parassitario di questa nuova classe di capitalisti di denaro che ammassano enormi fortune distanziandosi sempre più dal lavoro e dalla gestione economica concreta». Abituato forse a incassare accuse di dogmatismo e di astrattezza, Barata conclude l’articolo intitolato «Strumenti per capire la crisi» con una nota ironica: «A quanto pare, Lenin non era poi così fuori strada come ho sentito dire».
Meno interessata a trovare nel disastro creditizio globale conferme alle analisi lette sui sacri testi è Nidia Diaz, che analizza piuttosto l’impatto che il caos finanziario avrà sull’America latina nel suo insieme. E spiega come la parte sud del nuovo continente abbia prodotto adeguati anticorpi per resistere al marasma originatosi al nord. «La debacle noeliberista -scrive Diaz- avviene quando, già da un certo numero di anni, alcuni Paesi hanno intrapreso nuove strategie e hanno cominciato a distaccarsi da quello che Hugo Chavez descrive come sistema internazionale perverso».
Diaz cita Brasile, Argentina, Ecuador, Cile, come esempi di Paesi che possono a ragione sentirsi «fiduciosi di mantenere la solida crescita economica degli anni recenti». E questo proprio perché hanno compiuto scelte «contro i dettami di Washington e le prescrizioni delle agenzie di credito che operano sotto la sua protezione». I governi sudamericani «prendendo le distanze dalla disastrosa via neoliberista che il potente vicino del Nord aveva imposto loro» hanno salvato se stessi, e sono oggi «un esempio per altri meno sviluppati Paesi nella regione e nel Terzo mondo». L’analista cita con gusto il capo di Stato brasiliano Lula, che nota «con tristezza quante importantissime banche che ci dicevano cosa fare e cosa non fare, e consigliavano gli investitori sull’affidabilità o meno del Brasile, ora vanno in bancarotta». E riporta pure il giudizio della presidente argentina Cristina Fernandez: «Stiamo assistendo al più robusto intervento statale in economia da quando gli Usa ci dissero che lo Stato non era necessario».

l’Unità 14.10.08
Maurizio Zipponi. L’esponente vendoliano di Rc: dobbiamo parlare con i Democratici che manifesteranno
«La Sinistra? Con il Pd bisogna fare i conti. O c’è rischio catastrofe»
di Andrea Carugati


Maurizio Zipponi, dirigente di punta di Rifondazione durante la segreteria Giordano, e ora nella minoranza di Nichi Vendola, apre al Pd in vista della manifestazione del 25 ottobre. E si dice anche disposto a sfilare accanto ai democratici «purché quella non sia una manifestazione tutta centrata sull’identità di partito, ma il punto da cui partire per costruire una piattaforma di alternativa alla destra».
Partiamo dal vostro corteo dell’11 ottobre. È stato un successo?
«Ha dimostrato che esiste una sinistra che si mobilita contro il governo, è chiaro chi sia l’avversario e quali sono i temi, la scuola, i salari, la precarietà. Però c’erano due anime: chi ricerca l’identità, l’unione dei comunisti e chi invece chiede alla sinistra unita un progetto di governo. Parlo di governo nel senso in cui lo intendeva il Pci, che pure stava all’opposizione: governo dei processi del Paese».
Che rapporto immagina tra la sinistra e il Pd?
«Se bisogna porsi il governo dei processi reali, bisogna anche pensare alle alleanze. E con il Pd bisogna fare i conti. Nessuno pensa a un ritorno al passato, all’Unione o alla Sinistra arcobaleno. Ognuno ha le sue proposte e il suo profilo, ma si possono individuare dei punti di contatto: scuola e sanità pubblica e sostegno alla Cgil sul contratto nazionale. Sono grandi spartiacque tra destra e sinistra che assumono significati nuovi alla luce della crisi finanziaria che stiamo vivendo. È questo il messaggio che lanciamo al Pd in vista del 25 ottobre: le due piazze devono parlarsi. Io mi auguro che la piazza del 25 sia grande, ma il giorno dopo vorrei che chi ha manifestato senta di non aver fatto solo testimonianza, ma innescato un cambiamento reale. Moderati o radicali, tutti abbiamo il dovere di parlare al conflitto sociale».
Come si parlano queste due piazze?
«Il modo migliore è trovare tre punti su cui mobilitare insieme il Paese: ho detto scuola, sanità e contratto, ma il punto è trovare le parole d’ordine da contrapporre al Dio, Patria e Famiglia di Tremonti. Propongo libertà, democrazia, lavoro».
Lei parteciperà al corteo del 25 ottobre?
«Ogni luogo che ambisce ad opporsi al centrodestra deve essere frequentato, nessuno deve avere timore di perdere qualcosa. Senza avere chiaro l’avversario rischiamo tutti la catastrofe. Purtroppo Veltroni sta puntando su una manifestazione di identità, ma la nuova fase richiede un passo in più: una manifestazione che parli all’intera opposizione. Se il Pd farà un passo in questa direzione, parteciperò volentieri».
Sa molto di vecchia Unione, tutti contro la destra...
«Io credo che ci siano almeno tre punti su cui è possibile proporre un’azione comune, senza pasticci. Ripeto: la crisi in atto rende tutto questo paradossalmente più semplice. Quando D’Alema dice che lo Stato può affrontare la crisi allentando i parametri di Maastricht, io vedo un punto di contatto. La destra usa lo Stato per coprire i buchi e le sconfitte del sistema finanziario, io credo invece che lo Stato debba sostenere l’economia reale: ricerca, università, innovazione».
Dentro Rifondazione vi accuseranno di essere troppo morbidi col Partito democratico...
«In tanti anni nella Fiom ho imparato che contano i risultati che porti a casa, non quanto ti definisci radicale o moderato. Oggi una operazione tutta identitaria, di gruppi ristretti che si danno ragione fra loro, per me è semplicemente destra. Comunismo di destra. Sinistra, al contrario, è capire le trasformazioni, starci dentro, guardare alle alleanze sociali possibili. Non sono moderato, ma guardo ai rapporti di forza reali, anche alleandomi con chi non la pensa come me. Il 14 aprile si è chiusa definitivamente una fase, per non essere tutti travolti bisogna tirare fuori analisi, proposte e alleanze».
Per lei è più facile dialogare col Pd che con Ferrero?
«Ferrero ha vinto il congresso, e gli auguro ogni successo. Ma abbiamo idee diverse. In questo momento è difficile il dialogo con i lavoratori e i pensionati che hanno votato centrodestra: è complicato spiegare loro che hanno votato contro se stessi».

l’Unità 14.10.08
Rosario Crocetta. Il sindaco di Gela: a sinistra c’è chi si contende la nicchia che non porta da nessuna parte
«Diliberto addio. Il 25 ottobre starò accanto a Walter»
di Maria Zegarelli


Gli hanno raddoppiato la scorta, da tre a sei uomini, perché i boss della mafia l’hanno condannato. Eppure proprio annunciando guerra a Cosa nostra e al pizzo quando si è ripresentato alle ultime elezioni, nel 2007, Gela l’ha riconfermato sindaco con una valanga di voti al primo turno: 64,8%. Rosario Crocetta è anche stato il primo sindaco a dichiarare la sua omosessualità. Nel suo curriculum politico c’è l’intero arco della sinistra italiana, dal Pci a Rc, al Pdci. Adesso l’approdo nel Partito democratico.
Sindaco, a quando l’annuncio?
«La mia decisione è presa, il Pd è il futuro, Walter Veltroni è l’uomo del futuro. Ma voglio che la mia adesione al Pd avvenga senza strappi, senza lacerazioni perché non fa parte del mio modo di essere creare fratture, vorrei che tutto avvenisse senza polemiche».
Lei il 25 ottobre andrà alla manifestazione?
«Certo che ci sarò, sarò al fianco di Walter e sfilerò».
Dunque, sarà quello il giorno in cui ufficialmente entrerà nel Partito democratico?
«Diciamo che il 25 sarò a Roma con il partito democratico».
Cosa l’ha convinta ad aderire al partito di Veltroni?
«Mi ha convinto Walter, così come Berlinguer mi convinse ad entrare nel Partito comunista, una decisione, anche quella, sofferta, meditata, perché io sono sempre stato un cattolico praticante, venivo da un’altra esperienza. Anche al Pd ho pensato a lungo perché per mia natura sono fedele ai rapporti e alle idee. Avverto tutta la fatica e la tensione nel fare uno di quegli atti importanti nella vita delle persone, ma Walter è una persona che stimola sempre. Diciamo che sono un veltroniano ante litteram nel senso che ho sempre pensato che lui rappresentasse il nuovo modo di fare politica in Italia, è l’unico uomo contemporaneo, quello che coglie di più il senso di una società che non vuole risposte ideologiche ma centrate sui problemi reali, concreti».
Diliberto potrebbe restarci male, lei sta facendo un vero elogio a Veltroni...
«Diliberto è una persona che stimo moltissimo. Mi è stato vicino nei momenti più difficili, ma sento di voler fare un percorso diverso. Veltroni si muove dentro regole e binari precisi anche quando affronta temi come i diritti civili, i diritti della gente, il lavoro, i salari. Lui rappresenta la novità e come tutte le novità è destinata ad attirarsi polemiche, critiche, consensi, ma alla fine è la novità ad avere successo. Quando è sceso in campo ho pensato che tutta la sinistra facesse un ragionamento complessivo diverso, che questo portasse ad effetti per tutta la coalizione di centrosinistra, invece non è andata così. C’è chi si contende la nicchia, si chiude in un ideologismo che non porta da nessuna parte... ».
Se avesse vinto Nichi Vendola le sue valutazioni sarebbero state diverse?
«Pur essendo del Pdci avrei fatto ragionamenti diversi, perché Vendola avrebbe aperto nuove prospettive. Quando ho aderito al Pdci l’ho fatto perché l’ho visto come un partito che faceva uno sforzo da sinistra verso un’unità nel centrosinistra. Oggi vedo una forza comunista che si chiude in se stessa, che cerca di concentrarsi solo sulla questione identitaria senza il confronto con le altre realtà democratiche: mi sembra una battaglia non solo perdente e minoritaria - che potrebbe essere importante - , ma che non ha nulla a che vedere con me».
Meglio un Pd che su tante questioni si scontra, come sui temi etici e sui diritti civili, anziché questa sinistra radicale?
«Il confronto nel Pd è un confronto serio e alto, a volte anche troppo. Noi non dobbiamo dimenticare che questo è un paese con una profonda tradizione cattolica, dunque, quando si parla di diritti civili non si deve pensare a due fronti contrapposti tra laici e cattolici. Io sono un cattolico e nulla mi ha impedito di portare nella Chiesa la mia esperienza che è sicuramente diversa. A Gela sono legato da profonda amicizia al frate che ha celebrato il funerale del boss mafioso che mi voleva uccidere e al sacerdote che si batte contro la mafia. Non odio i mafiosi, odio la mafia. Lavoro per unire, non per dividere e anche il mio approdo nel Pd dovrà avvenire in questo modo, con rispetto per il Pdci e i suoi leader. Noi dobbiamo costruire una storia diversa in questo Paese. In questi giorni ricevo decine e decine di telefonate di persone che mi dicono che devo andare avanti nella mia scelta. Farà bene alla Sicilia e al Pd siciliano».

l’Unità 14.10.08
Il presidente della Camera: «I datori di lavoro sfruttano gli immigrati»


ROMA «C’è stata un po’ di accondiscendenza nei confronti di datori di lavoro che, lo dico in modo papale papale, a volte sono degli autentici sfruttatori» degli immigrati. Lo dice il presidente della Camera Gianfranco Fini parlando a un convegno della Fondazione Fare futuro, «Donne del Mediterraneo, l’integrazione possibile». «Alla riuscita dei processi di integrazione - ha aggiunto - concorrono diversi fattori: fattori sociali, con in primo luogo la tutela dei diritti unita alla lotta allo sfruttamento e al lavoro nero».
Per favorire i processi di integrazione c’è la necessità di combattere «la tendenza all’isolamento da parte delle minoranze di stranieri» e «impedire il prodursi di fenomeni di razzismo e xenofobia che nel nostro Paese tendono purtroppo ad aumentare per effetto di paura, ignoranza, degrado», ha aggiunto.
«L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la nostra paura». Tra Tucidide e Roosevelt, Gianfranco Fini sull’immigrazione esorta a politiche lungimiranti mettendo in guardia dal vero pericolo che è la nostra paura: «Occorre evitare una certa rappresentazione vecchia, luoghi comuni e stereotipi, che non sempre corrispondono alla realtà». E poi ha aggiunto. «Di propaganda- dice il presidente della Camera- se ne è fatto uso e abuso, però non sempre la propaganda aiuta a risolvere i problemi». e invece, incalza Fini, «sarebbe bello ci ponessimo come obiettivo quello di definire una via italiana all’integrazione, che sia innovativa e anticipatrice». una via italiana per garantire una convivenza dove «l’eliminazione di ogni discriminazione e la realizzazione dell’uguaglianza dei diritti» sia il primo passo, e il secondo la «condivisione di valori e di obiettivi comuni».

l’Unità 14.10.08
L’Argentina finisce sul lettino
di Silvia Garambois


REPORTAGE «Argentina: un paese sull’orlo di una crisi di nervi» indaga su come il paese devastato dal crollo economico ricorra in massa agli psicoterapeuti. Girato da Pietro Suber e Guido Torlai, ha vinto il premio Ilaria Alpi 2008

Argentina. L’incubo che giovedì scorso, con il crollo delle borse, ha attanagliato l’Occidente ricco. Argentina, la prima società al mondo che era ricca e si è trovata all’improvviso povera, sottosviluppata; il quinto Paese al mondo per esportazione di generi alimentari dove ogni giorno 8 bambini muoiono di fame. Argentina, ovvero «un paese sull’orlo di una crisi di nervi»: perché dopo il crollo economico del 2001 c’è stata un’impennata di clienti - soprattutto della classe media - per psicologi e psicanalisti, che oggi solo a Buenos Aires sono 19mila, uno ogni 200 abitanti. E li passa pure la mutua.
Argentina: un paese sull’orlo di una crisi di nervi è il titolo del lungo réportage firmato da Pietro Suber (giornalista di Matrix e a lungo inviato di guerra del Tg5) e Guido Torlai (giornalista di Rainews 24), che ha vinto il «Premio Ilaria Alpi», uno dei più prestigiosi, col patrocinio del Presidente della Repubblica. Unico inedito in una rosa di premi dedicati all’informazione in tv. È infatti un réportage autofinanziato, senza committenti, realizzato per «tenere acceso il cervello», come dicono gli autori: 40 minuti che rapiscono nel gorgo di una storia così lontana e così maledettamente vicina, dove si parla di «cartoneros» che frugano nell’immondizia e di una destra al potere che non li vuole vedere perché, come dice Lalo - il leader dei cartoneros - «non vogliono poveri per le strade, vogliono una cosa diversa dalla realtà». E come non farsi venire in mente i nostri sindaci che agitano divieti, e Alemanno, che aveva proposto persino di agire contro chi fruga nella spazzatura?
«In realtà siamo partiti la scorsa estate incuriositi dall’enorme numero di psicologi e psicanalisti: e siamo finiti tra i cartoneros, nelle favelas costruite sull’immondizia, dove ci sono le cooperative che riciclano artigianalmente i rifiuti», spiega Torlai. Anche i cartoneros vanno dagli psicologi, quelli della mutua, costano più o meno 7 dollari, meno di una notte di lavoro. Perché tra i cartoneros c’è di tutto: chi fa quel lavoro da quattro generazioni, come Lalo, che i genitori sono riusciti a far studiare, e quelli che, travolti dalla crisi del 2001, non hanno più trovato un altro lavoro. «Dicono che siamo ladri, che sporchiamo il quartiere. Che dovremmo essere arrestati»: sembra di sentire le proteste dei rom romani... Sono in 30 mila a frugare ogni notte nell’immondizia di Buenos Aires, accompagnati da tutta la famiglia, anche dai bambini. Sono tanti quanti i «desaparecidi» durante la dittatura. Numeri che ritornano nella tragedia Argentina.
Daniel Lutsky, psicologo a Buenos Aires nel centralissimo Quartiere Palermo, in via Freud - dove c’è la più altra concentrazione di psicoterapeuti - spiega che la classe media è stata la più colpita dal crollo economico di 7 anni fa, anche psicologicamente. «Ha perso punti di riferimento - continua Lutsky-, gli analisti servono a sfogare la propria angoscia», forse anche perché «l’Argentina ha un concetto di identità nazionale molto debole». E come non provare un nuovo sussulto, pensando alla «nostra» identità nazionale, continuamente messa alla prova?
Alla guida di Buenos Aires è stato eletto un italo-argentino, Mauricio Macri, origini calabresi, di destra, che ha fatto la campagna elettorale su «ordine e sicurezza». È stato votato anche dai disperati della città. Un commentatore argentino spiega: «Per capire Macri, dovete pensare a Berlusconi». E Lalo chiosa: «La famiglia Macri ha interessi nel riciclaggio dei rifiuti. Per questo ora vuole toglierci di torno». Conflitto di interessi?
Il réportage - bellissimo e inquietante - di Suber e Torlai (che hanno voluto l’attore argentino Manuel Ferreira, con la sua rabbia, a fare da voce narrante) sarà presentato oggi a Roma in una serata a inviti nella sede di Much Ado e verrà trasmesso prossimamente - in quanto vincitore del Premio Ilaria Alpi - da Raitre e da Rainews24.

l’Unità 14.10.08
Stasera su Rai3 il documentario «Tanos»
Italiani torturati nel lager argentino


Nella puntata di Doc 3 in onda stasera alle 23.45 su Raitre sarà Alessandro Robecchi, giornalista e autore di programmi televisivi, presenta la seconda parte di Tanos. Storie di italiani sequestrati all'Esma di Daniele Cini. Il documentario ha per oggetto l'Esma, la scuola di meccanica della marina militare argentina che fu trasformata da scuola di ingegneria e navigazione in uno dei principali centri di tortura per opera dei militari argentini che presero il potere nel 1976. Da questa piccola Auschwitz argentina sono transitati più di 5000 prigionieri, di cui molti erano italiani. Tanos si avvale delle testimonianze delle vittime, che raccontano la storia del processo tenutosi nel 2006, a Roma, contro i responsabili delle torture e dei sequestri.

l’Unità 14.10.08
Kundera respinge l’accusa di delazione: «Attacco a me come autore»
di Bruno Gravagnuolo


Fino a ieri aveva opposto alle rivelazioni uno sdegnato silenzio. In linea con le abitudini di sempre sulla sua vita private: nessuna concessione ai media, tranne i dati della biografia. Scrittore praghese nato nel 1929, emigrato in Francia nel 1975. Ma ieri Milan Kundera ha rotto le sue abitudini. E ha protestato vibratamente contro l’accusa mossagli dalla rivista ceca Prospekt a firma dello storico Adam Hradilek: aver denunciato negli anni 50 il dissidente Mirolslav Dvoracek, fuggito nel 1948 in Germania e poi tornato nel suo paese come agente occidentale. Causandone l’arresto e la condanna a 22 anni, di cui 14 scontati, e 10 in una miniera di uranio.
«Io quell’uomo non lo conoscevo assolutamente - ha detto Kundera all’agenzia Ctk, e questo è un attentato contro l’autore (se stesso,n.d.r) alla vigilia della Fiera del libro di Francoforte». E ancora: «un mistero la scoperta del documento segreto in cui figura il mio nome». I fatti. Miroslava Dovoracek, che oggi vive malato in Svezia, lascia Praga nel 1948, non accettando il corso politico comunista. Torna clandestinamente in patria nel 1950 e va a trovare la sua amica praghese di infanzia Iva Militka. Lascia la valigia nella casa del suo fidanzato e quando va a riprenderla viene arrestato dalla Stb, la polizia politica di allora. Chi lo aveva denunciato? Dai documenti pubblicati ora da Prospekt, il denunciante risulta essere stato proprio lo scrittore dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, amico del fidanzato di Iva, nella cui casa si trovava la valigia. E ad aver messo sulle tracce dell’intera vicenda lo storico Hradilek sembra essere stata proprio Iva Militka, pentita per essere stata coinvolta nella soffiata.
In effetti senza l’aiuto della pentita Iva sarebbe stato difficile scovare quella lontana verità negli archivi della Stb, come l’ago nel pagliaio. Sta di fatto che la rivelazione è imbarazzante, benché Kundera neghi ogni addebito. E malgrado tutte le possibili attenuanti del caso.
Kundera era infatti all’epoca un giovane comunista di 21 anni, molto devoto. C’era la guerra fredda e la psicosi del nemico interno (gli Usa avevano già la bomba termonucleare). E infine il fatto che Dvoracek fosse davvero una spia, un pilota assoldato come corriere dai servizi americani, che lo avevano avvicinato in un campo profughi di Monaco. Frattanto dalla Svezia la moglie di Dovracek, Mareta Novak, conferma tutto. Dichiara la sua stima per il Kudera scrittore, ma non altrettanto per l’uomo. E aggiunge: «molte celebrità nel mio paese sostenevano il comunismo, poi hanno virato dopo il 1968 e predicato la libertà. Ma portandosi dietro nel loro bagaglio quello che avevano fatto negli anni cinquanta». Insomma, una vicenda imbarazzante, forse sepolta con dolore dallo stesso scrittore, stretto dalle circostanze psicologiche e storiche di allora. A meno che non sia falsa, oppure montata, esagerata. Ci vorrà forse un giurì, una perizia. E però quasi nessuna analogia con il «caso Guenter Grass». Che si trovò a 17 anni tra le SS «cacciatori» per caso e non per scelta. Dopo aver tentato invano di entrare nei sommergibilisti.

l’Unità 14.10.08
Beni culturali: lo scippo e il silenzio
di Vittorio Emiliani


La notizia può essere letta, per chi ne dubitasse (trattandosi di una mostruosa quanto micidiale scemenza), nel sito tricolore del governo italiano: il Consiglio dei ministri, nella seduta del 3 scorso, ha approvato, come emendamento al disegno di legge sul federalismo fiscale, un articolo aggiuntivo col quale viene trasferita dallo Stato al Comune di Roma (in futuro Ente Roma Capitale) la «tutela dei beni storici, artistici, ambientali e fluviali». In toto, neppure “in collaborazione col Ministero per i Beni culturali”. Lo stesso vale per «sviluppo urbano e pianificazione territoriale», con la Regione del tutto ignorata.. Ma al ministero per i Beni Culturali non sanno nulla di preciso. Di preciso sanno soltanto che le risorse disponibili da qui al 2011 crolleranno, per via dei tagli, da 625 a 73 milioni di euro. Crollo tale da far supporre che la tutela passerà nel frattempo ad altri organismi. Difatti con la cifra residuale, potranno pagare gli stipendi (a stento) e tenere aperti i musei. Ma sull’articolo aggiuntivo il ministro Bondi tace e tace la presidenza del Consiglio. Soltanto il sindaco Alemanno ha pubblicamente gioito: a ragione o a torto? La cosa è enorme. Fra l’altro la devoluzione della tutela non potrebbe non avere un seguito con altri grandi Comuni, generando quindi una slavina destinata a travolgere l’idea stessa di tutela. Infatti il Comune di Roma diventa - stando al suo sindaco - controllore/controllato in tutta una serie di materie strategiche per il patrimonio storico-artistico e per il paesaggio. «I più importanti processi decisionali», ha affermato Alemanno, «invece di passare per tre livelli diversi Comune-Provincia-Regione, o Stato, sono concentrati nell’Assemblea Capitolina». Divelti in un sol colpo i fastidiosi controlli e gli eventuali veti degli organismi tecnico-scientifici (direzioni centrali e regionali, Soprintendenze territoriali e di settore), il sindaco e i suoi assessori potranno fare quello che gli pare e piace. Già l’assessore Alfonso Antoniozzi ha affermato che, per costruire ex novo le migliaia di alloggi economici indispensabili, si dovrà erodere un’altra bella fetta di Agro Romano e “disboscare” un bel po’ dei vincoli oggi esistenti a tutela di quello straordinario territorio agricolo. Siamo di fronte al più cupo “noir”. Reazioni? Molte e vivaci nelle associazioni per la tutela e fra i tecnici delle Soprintendenze, increduli o sconfortati. Forse sarebbe utile se dall’opposizione si chiedesse con forza a Berlusconi, a Calderoli e a Bondi cosa sta succedendo, quali sono le carte che contano in questa drammatica partita e che sorte essi vogliono per la sopravvivenza di uno dei più grandi patrimoni artistici del mondo.

l’Unità 14.10.08
Le vittime di don Cantini puntano il dito contro chi lo ha protetto in Curia
Papa Ratzinger riduce allo stato laicale l’ex parroco responsabile di abusi
su minori. Il portavoce delle vittime: «Ora si chiarisca il ruolo di Maniago»
di Maria Vittoria Giannotti e Osvaldo Sabato


«SIAMO soddisfatti: le nostre accuse sono state confermate puntualmente ed hanno trovato riscontro» commenta soddisfatto il portavoce delle vittime di don Lelio Cantini. Il giorno dopo la dimissione dallo stato clericale dell’ex parroco della Regina della Pace, decisa da Benedetto XVI, l’attenzione di chi ha subìto gli abusi sessuali si sposta su chi avrebbe coperto per anni nella diocesi fiorentine don Cantini.
«A questo punto mi sembra che siano altri che devono dare delle spiegazioni» aggiunge il portavoce delle vittime, prima di attaccare frontalmente il vescovo ausiliario Claudio Maniago «crediamo che sia ancora inopportuna la sua permanenza in Diocesi». Infatti resta sempre da chiarire il ruolo del vescovo ausiliare Claudio Maniago, uno dei ragazzi della parrocchia della Regina della Pace, chiamato in causa dalle vittime che lo accusano di essere stato messo a conoscenza di quanto era avvenuto e di aver sottostimato il caso. La risposta a queste accuse è arrivata, per la prima volta, ieri pomeriggio quando il vescovo ausiliario ha parlato della vicenda sulle frequenze di Radio Toscana. «Don Cantini ha tradito la fiducia e la stima della comunità ecclesiale e mi hanno sconvolto e sbigottito i fatti che lo hanno riguardato». Queste le sue parole. «I fatti che riguardano don Cantini - spiega il vescovo ausiliario - sono stati per me fonte di sconvolgimento, anzi di interiore sbigottimento». Claudio Maniago risponde anche a chi gli ha contestato il silenzio in questo scandalo «ho voluto mantenere riservatezza non perché ne avessi sottovalutato la gravità, ma perché ho voluto rispettare la discrezione richiesta da un caso così doloroso, sostenendo il delicato lavoro di discernimento che ha impegnato prima il cardinale Antonelli e poi la Santa Sede. La decisione del Papa, così nitida, aiuta a riconoscere il peccato e costituisce per il peccatore un’occasione di espiazione e di richiesta di perdono». Ma quanto dichiarato da Maniago non convince affatto le vittime. Anzi il portavoce rinnova le accuse al vescovo ausiliario «da quanto ci risulta don Cantini ha continuato a vedere la sua perpetua Rosanna Saveri e probabilmente don Claudio Maniago». L’ex parroco, secondo il portavoce delle vittime, nel convitto del Piazzale Michelangelo dove è ospite avrebbe «continuato a fare quello che voleva». Nonostante il divieto di avere contatti con l’esterno imposto a don Cantini dal cardinale Antonelli. Ora dopo il provvedimento del Papa il prete è stato dimesso dallo stato clericale e dimora vigilata: sono le due misure pesanti del Vaticano contro don Cantini. Come pesanti, del resto, sono le accuse a carico del presbitero dell’Arcidiocesi fiorentina, nato a Montespertoli 85 anni fa. La severa sentenza di papa Ratzinger è destinata a porre la parola fine su uno dei capitoli più scottanti di una vicenda senza precedenti nella storia della chiesa fiorentina, cominciata nell’aprile del 2007 con le rivelazioni di alcune parrocchiane, che denunciarono di essere stati vittime di abusi sessuali, quand’erano bambine e poco più che adolescenti. Ora chi è rimasto vittima degli abusi fa appello al nuovo vescovo di Firenze Giuseppe Betori, che a fine ottobre prenderà il posto di Ennio Antonelli, per cambiare realmente pagina. E la sentenza del Papa contro don Cantini è sicuramente un punto fermo. Su questa vicenda sta indagando anche la Procura con i pm Fabio Canessa e Fedele La Terza. Inchiesta che, però, rischia di arenarsi. I fatti risalgono agli anni compresi tra il 1973 e il 1987: i tempi per la prescrizione sono già trascorsi. La Procura è al lavoro su questo fronte. «Bisogna che qualcuno parli, che racconti ai giudici se ha subìto violenze dopo il 1987» è l’appello del portavoce delle vittime..

l’Unità 14.10.08
Firenze è sempre più multicolore
I cittadini stranieri sono oltre 37mila, il 10% dei residenti. In testa rumeni, albanesi e cinesi
di Tommaso Galgani


IMMIGRAZIONE, per la prima volta gli stranieri a Firenze superano il 10% della popolazione. Sono 37.634 i cittadini stranieri residenti al 31 dicembre 2007, con un incremento di 2.695 unità rispetto al 31 dicembre 2006. In un anno è stato registrato un 52% in più di iscrizione anagrafica di rumeni rispetto. I dati sono raccolti nell’ottava edizione del report "Migranti - Le Cifre" (consultabile su comune.fi.it), resi noti dall’assessore all’accoglienza Lucia De Siervo con il presidente della Provincia di Firenze Matteo Renzi.
Nei quartieri il più popoloso è il 5 con 12.007 e il quartiere 1 con 10.629, che registrano la maggiore presenza di residenti stranieri: questo significa che un'alta percentuale della popolazione è concentrata qui. Segue poi il quartiere 2 con 7.287, il quartiere 4 con 4.900 e il quartiere 3 con 2.811 cittadini stranieri.
La popolazione straniera che conta il maggior numero di cittadini è quella rumena, con un totale di 4.453 (11,8%). Segue l’Albania con un totale di 4.230 e la Cina (in sostanziale non aumento) con un totale di 3.811.
Tuttavia, rispetto al 31 dicembre 2006 i residenti nel Comune di Firenze sono complessivamente diminuiti di 1.256 unità (-0,3%) nonostante che l’incremento della popolazione non italiana nello stesso periodo sia stato pari a 2.695 unità (+7,7%).
Gli imprenditori stranieri nella provincia sono 11.872, che si concentrano principalmente in tre rami di attività: attività manifatturiere (27%), commercio (26,3%) e costruzione (20,1%).
L'incremento dei residenti stranieri non è bastato, nemmeno nel corso del 2007, a compensare il saldo negativo riguardante la popolazione italiana. Rispetto al 31 dicembre 2006 i residenti nel Comune di Firenze sono complessivamente diminuiti di 1.256 unità (-0,3%) nonostante che l'incremento della popolazione non italiana nello stesso periodo sia stato pari a 2.695 unità (+7,7%).
De Siervo ha lanciato la proposta di rivedere la legge sulll’immigrazione: «Non deve essere un percorso ad ostacoli per ottenere la regolarità. Rivediamo anche le procedure per il rinnovo dei permessi di soggiorno, che deve prevedere un ruolo dei Comuni». Per questo l’assessore pone l’accento sul decreto flussi del 2007. «Su 15.471 richieste delle imprese a Firenze abbiamo avuto solo 3.793 quote, per cui circa 12mila persone sono rimaste senza lavoro». Nei comuni della provincia, i residenti non italiani sono oltre 84mila, con un’incidenza sul totale pari all’8,7%.
Intanto, ieri a Palazzo Vecchio è stata inaugurata la mostra “Segnaletica invisibile”, sul filone “Immagini per l’accoglienza”: documentate le aree di incontro e di scambio delle comunità straniere, i luoghi aggregativi e di culto, del commercio, le feste e l'arte, la vita quotidiana.
Circa i servizi dell’accoglienza invernale, De Siervo fa sapere che sono confermati i 310 posti complessivi e che al Fosso Macinante è stata anticipata l’apertura per sistemare dei rifugiati somali.