giovedì 31 luglio 2008

l’Unità 31.7.08
Tremonti, giacobino alla rovescia
di Michele Ciliberto


All’interno del governo sono presenti linee molto diverse perfino contraddittorie tra loro. Quella di Tremonti, ad esempio destinata a cozzare prima o poi
con quella della Lega. E non solo

Il governo Berlusconi, in queste settimane, sta dando una prova di ostinazione della quale occorre prendere atto. Sarebbe però sbagliato, a mio giudizio, sottovalutare la compresenza nel governo di linee molto diverse l’una dall’altra, potenzialmente contraddittorie e perfino dissolvitrici dell’attuale assetto governativo. Vale la pena, in questa prospettiva, di commentare brevemente l’intervista di Giulio Tremonti apparsa su Libero, domenica 27 luglio.
Si tratta, infatti, di un testo importante, perché esprime in forma piena e articolata il punto di vista dell’attuale ministro dell’Economia.
Ciò a cui occorre mettere mano - questo è il centro del ragionamento di Tremonti - è una riforma radicale dello Stato: «Lo Stato - dice il ministro - deve tornare a fare solo l’essenziale. Deve ritirarsi nel suo perimetro di competenze storiche». Ed è precisamente in questo quadro strategico che si pone la manovra finanziaria in corso di approvazione alle Camere. «In una fase in tutto e per tutto non ordinaria», essa si pone l’obiettivo di «rilanciare l’economia e di rifare lo Stato», in modi e forme radicali: «non c’è mai stato come questa volta - insiste Tremonti - un cambiamento tanto radicale, su una pluralità di fronti e concentrato in così breve tempo».
Non è il caso,in questa sede, di verificare se quello che dice il ministro corrisponda a verità: conta sottolineare la nettezza e il vigore del suo ragionamento. Quello che Tremonti ha in mente è una riforma organica dello Stato e dell’amministrazione pubblica italiana che si pone in antitesi diretta con quella che è stata la politica dell’Italia nell’“epoca democristiana” (uso io questo termine, per comodità): rigore economico, controllo della spesa, lotta al clientelismo, polemica frontale contro «tutte le ipotesi “deficiste”, tutti gli inviti ad accendere maggiore spesa pubblica finanziata con coperture fittizie o, peggio, inesistenti».
La lotta contro i “deficisti” (un lemma nuovo, se non m’inganno) - e le conseguenze delle loro politiche economiche (da ultimo l’estendersi delle pensioni di invalidità al Sud come al Nord) - è un leitmotiv di tutta l’intervista; né è difficile capire con chi se la prende il ministro. In termini schematici: se la prende con il compromesso tra “capitale” e “lavoro” realizzato in Italia,sul piano politico, dalla Democrazia Dristiana da un lato, dal Partito comunista dall’altro (procedo anche qui in modo sommario). Per Tremonti, è necessario mutare totalmente strada, puntando su nuove politiche europee e nazionali e su nuovi strumenti economici a cominciare da quel «gigante finora addormentato», che è la Cassa depositi e prestiti. Ma, in primo luogo, bisogna lavorare a una nuova definizione della figura e del ruolo dello Stato, il quale deve essere il vero dominus della vita economica del Paese, dell’uso delle risorse,delle politiche di spesa: «Occorre decidere al centro - dice Tremonti - per andare sul grande,non dalla periferia perdendosi nel piccolo come sinora è avvenuto». Stabilite le linee generali, poi è opportuno «sentire la voce delle Regioni come di tutti coloro che operano nel settore delle infrastutture» e questo sarà, appunto, fatto, dopo aver concentrato tutti i Fondi europei di sviluppo presso il Cipe. È un ragionamento complesso, quello svolto da Tremonti ma i nuclei centrali appaiono netti: neo-centralismo, federalismo, privatizzazioni, conservatorismo compassionevole...
Sarebbe sbagliato non riconoscerlo: si tratta di un disegno di «modernizzazione, già sperimentato per altro in europa, da altre forze di destra», imperniato però in primo luogo - ed è questo il punto da sottolineare - su un neo-centralismo dello Stato, al quale vengono affidate le funzioni di direzione economica fondamentali, mentre le politiche sul territorio sono assegnate, nei gangli centrali, alle Regioni, rilanciando il federalismo, il quale ha il compito di «raddrizzare la pianta storta dello Stato, caricato di troppe cose da fare e di troppi debiti». Per come viene presentato - va sottolineato anche questo - è un disegno di modernizzazione essenzialmente dall’alto, di tipo “giacobino” (come del resto dimostra, in modo esemplare, proprio la vicenda della manovra finanziaria). Nè, di per sé, è un fatto sorprendente: il “giacobinismo”, in modi ovviamente diversi, è un tratto tipico degli intellettuali italiani di matrice laica, permanentemente protesi a “riformare” ab imis fundamentis società e Stato. E Giulio Tremonti, come si sa, “nasce” come intellettuale, quale professore di Diritto tributario all’Università di Pavia né, pur essendo sceso in politica, ha mai rinunziato alla sua attività di saggista, di professore...
I “giacobini” però - e Tremonti lo sa bene - senza “consenso” sono destinati al fallimento. Nella sua intervista discorre perciò a più riprese di “spirito repubblicano”, cioè della necessità di coinvolgere larghe forze politiche e sociali nel suo progetto, arrivando addirittura a sostenere che chi non dialoga con il governo «va contro l’Italia». Sono battute un po’ eccessive, ma non vanno ascritte, a mio giudizio, solo al genere letterario dell’intervista. Tremonti sa bene da dove gli viene il “consenso”, ma per diretta esperienza è altrettanto consapevole che Berlusconi è, al tempo stesso, la forza e la debolezza del suo disegno di modernizzazione. In effetti, è grazie al Popolo della libertà che Tremonti è riuscito a varare una manovra economica assai dura su una “pluralità di fronti”, spossessando di fatto tutti gli altri ministri e senza prestare ascolto a nessuna voce di protesta, qualunque fosse la sua autorevolezza. Ma, come dimostra tutta la sua vicenda imprenditoriale e politica, Berlusconi è figlio diretto della storia che Tremonti vorrebbe chiudere una volta per sempre; e, se mira a qualcosa, pensa a ricostituire un moderno partito “interclassista” che estenda ed rafforzi con nuove forme di “consenso” l’interclassismo di matrice democratico-cristiana. Per Berlusconi, il “consenso” politico e sociale delle corporazioni che fanno capo al suo partito è il primum obiettivo della sua azione di governo,decifrabile come una forma di “dispotismo dolce” mediaticamente imposto, il contrario preciso del “giacobinismo”; né è difficile prevedere le tensioni,e anche le contraddizioni, che si apriranno nel governo, quando le misure di Tremonti cominceranno a toccare pezzi del blocco sociale che si raccoglie intorno al Popolo della libertà, nel quale sono confluiti - sulla base di interessi corporativi precisi - forze e ceti che facevano capo alla Dc e allo stesso Partito Socialista. A quel livello, le politiche compassionevoli di Tremonti - compresa la social card - non serviranno a niente; si riveleranno per quello che sono:un espediente buono solo per chi - a differenza dei “deficisti” - non è in grado di far sentire la sua voce. Le tensioni non si apriranno però solo su questo terreno: nonostante le tante dichiarazioni di accordo e di empatia, il neo-centralismo di Tremonti è destinato a cozzare anche con le politiche della Lega, la quale ha una idea del federalismo - e della funzione dello stato centrale - assai diversa da quella del ministro dell’Economia. È difficile che la Lega continui ad accettare che i fondi europei siano concentrati nel Cipe o che le stesse Regioni si rassegnino ad essere convocate dal ministro, con gesto napoleonico, quando gli sembrerà più opportuno. Anche qui, al fondo ci sono due concezioni strategiche assai diverse. Non sono invece rilevanti,a mio giudizio, i contrasti - posto che ci siano - con Alleanza Nazionale, che non è più, ormai, un attore politico autonomo, effettivo.
Su tutto questo le opposizioni al governo avranno, penso, ampia materia di intervento. Ma il discorso è più complesso, e va fatto con chiarezza. Tremonti dà risposte conservatrici a una serie di problemi reali, con cui le forze riformatrici devono confrontarsi, senza complessi, come hanno già cominciato a fare col governo Prodi. L’esigenza di una riforma dello Stato e dell’amministrazione pubblica è centrale; ed altrettanto decisiva è la battaglia per un diverso uso delle risorse, per definire nuovi criteri di spesa e di intervento pubblico, in dura contrapposizione con le politiche di tipo clientelare che hanno afflitto - e rovinato - il nostro Paese (con tutto quello che ciò comporta sul piano dei rapporti con il sindacato). Il federalismo è una esigenza reale e va soddisfatta, senza, naturalmente, cadere in forme di neocentralismo dello stato. Il primato del merito - nel pieno riconoscimento del dettato costituzionale - è decisivo in una moderna democrazia, e deve essere la bandiera delle forze che vogliono riformare l’Italia. Valorizzare il merito non significa, certo, privilegiare la strada della privatizzazione, come si fa nel decreto del 25 giugno: l’università pubblica va salvaguardata come principio di libertà e di eguaglianza. Ma proprio per questo occorre anche sapere intervenire drasticamente nei guasti che cattive politiche di governo e perverse pratiche accademiche hanno introdotto in questo ganglio centrale della vita scientifica e civile del Paese. Se si ha a cuore il futuro dell’università pubblica, è necessario battersi per una sua riforma radicale, mettendo fine alle degenerazione di questi ultimi decenni. Altrimenti si fa una battaglia, pur importante, ma di retroguardia.
Ma questo è solo un esempio; a me preme, anzitutto, sottolineare che quello che abbiamo di fronte è un percorso assai più mobile e dinamico di quanto si potrebbe pensare. Sta al Partito Democratico usare le possibilità che la situazione gli offre: tanto più lo farà quanto più svilupperà un’azione limpidamente riformatrice.

l’Unità 31.7.08
Cento matti in seconda classe
di Gabriella Gallozzi


Un paziente si chiede: perché cancellare la malattia mentale visto che dà lavoro a tanta gente? C’è chi fa la radiocronaca in diretta

IL DOCUMENTARIO Questo «Cimap!» di Giovanni Piperno va a Locarno. L’abbiamo visto ed è formidabile. Racconta la gita lunghissima di un gruppo numeroso tra pazienti e operatori che, in treno, vanno da Venezia a Pechino. E si ride di noi...

Altro che la «gita» in barca dei pazzerelli capitanati da Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cucolo. Qui è una cosa «seria». Vera «roba da matti». Che fa davvero sganasciare dalle risate. Del resto come definireste un viaggio in treno da Venezia a Pechino con 200 passeggeri tra malati mentali, psichiatri, familiari ed operatori... E, per ingannare il tempo, corsi di uncinetto, astrologia, gioielli ed artigianato, pure yoga e buone dosi di pasticche.
A raccontarcelo, con grande ironia e straordinaria sensibilità, è Cimap! Cento matti italiani a Pechino, il nuovo documentario di Giovanni Piperno in «partenza» per il festival di Locarno (dal 6 al 16 agosto)dove è stato selezionato nella sezione «Ici & ailleurs», insieme a Sognavo le nuvole colorate di Mario Balsamo, di cui parliamo qui accanto.
Abituato a «maneggiare» temi sociali (l’ultimo è This is my sister, una produzione Amref sull’emergenza Aids in Africa) Giovanni Piperno, classe ‘64, non ha esitato, anche in questo caso, a seguire con la sua telecamera questo «viaggio da folli» organizzato lo scorso anno dall’associazione Anpis e dal movimento «Le parole ritrovate» che da sempre si occupano del disagio mentale all’interno del servizio sanitario pubblico. Evidentemente, alla base del viaggio, è l’intento di infrangere l’emarginazione che circonda la malattia mentale, raccontando anche come le associazioni stiano accanto alle famiglie. Ma, in realtà, quello che viene fuori da Cimap! è di più. È materia «umana pura», è commedia e dramma allo stesso tempo. È, consapevolezza, infine di come la «normalità» davvero sia un concetto relativo. Anzi relativissimo.
In questi 20 giorni di treno, toccando Ungheria, Ucraina, Russia e Mongolia conosciamo piano piano un gruppo di «protagonisti», non certo tutti e 200 i passeggeri. Andrea, per esempio, uno dei circa 100 «pazienti» del treno, ha un talento comico naturale da far invidia a qualsiasi teatrante. Lui sa spararle grosse davvero, ed è tutto lì. E, infatti, fa il «corrispondente», armato di cellulare, per una radio che segue via via il loro viaggio. Eccolo allora in Cina, davanti alla Grande muraglia, raccontare compito di «trovarsi davanti alla muraglia di Adriano che si estende per un chilometro ed ottocento metri». Oppure parlare di «tende piene di cavalieri» davanti allo sterminato paesaggio della Mongolia o, ancora, raccontare a qualche operatore della sua «carriera psichiatrica», come dice lui, «cominciata nell’80, gli anni di piombo». E metterci in mezzo pure «il ‘68 quando sparavo per le strade con mio padre e mio nonno» . Ed, aggiungere, perché no, anche un po’ di Ventennio, nonostante non abbia più di cinquant’anni: «a scuola mi vestivano da balilla», racconta.
E Vincenzo, poi, anche lui è un grande personaggio: capelloni neri e sigaretta sempre accesa, commenta sornione dietro alla sua barbona: «Questo viaggio è una follia», mentre si lamenta del suo psichiatra: «sono qui perché l’ho dovuto accompagnare... ma lui mi fa impazzire». «E poi - prosegue - perché abbattere la malattia mentale? Ci lavora tanta gente...». Immaginatevi i duetti tra lui ed Andrea: pura comicità. Intanto il finestrino del treno, come un televisore, rimanda paesaggi, fiumi, ponti, città. Ma il racconto è soprattutto dentro, così come «chiuso» in un interno fisico è il disagio mentale. Che non è certo tutta «commedia». C’è la madre di Jacopo, per esempio, che racconta di questo ragazzino completamente incapace di comunicare, muoversi ed esprimersi. Oppure Olga, «amica» di Andrea; di lei, ci dice la sua psichiatra che ha disturbi molto gravi e sente le voci. Eppure la vediamo sorridente, passeggiare sotto braccio e scambiarsi bacetti col suo compagno. Ma è quando parlano e si raccontano anche gli psichiatri, gli operatori che il confine del «nostro lume della ragione» si fa sempre più labile. C’è lo psichiatra di Vincenzo che si lamenta sonoramente: «parla sempre male di me», dice. E poi l’operatrice che si interroga sul perché non riesca a smettere di fumare: «che problemi ho in fondo? Ho un bel lavoro, una bella famiglia... Certo una storia d’amore finita male, ma chi non ne ha?». Insomma, alla fine del viaggio è difficile dire chi sia il paziente, chi lo psichiatra, chi l’operatore. Tutti insieme appassionatamente si sono scambiati la loro «normalità».

l’Unità 31.7.08
I buoni, i cattivi e l’audience
di Lidia Ravera


Leggo su la Repubblica che «fu AnnaMaria Franzoni a uccidere, con “razionale lucidità” il figlio Samuele di tre anni, la mattina del 30 gennaio 2002». Si tratta del responso della Cassazione a proposito del mai troppo chiosato “delitto di Cogne”. Il movente, come in un delitto “passionale”, non esisterebbe se non in un eccesso del sentimento, oppure sarebbe da ascriversi ad un micidiale istinto di repressione per un estemporaneo capriccio. I sedici anni di reclusione risultano, pertanto, confermati e la signora dovrà stare lontana dai teleschermi per un decennio, amenochè Bruno Vespa non ci conceda una seratina settimanale di diretta dalle patrie galere: «Dietro le sbarre», speciale di «Porta a porta», in onda tutti i venerdì, giornata dedicata, decenni fa, alla penitenza (non si mangiava carne) e oggi alla partenza per il weekend. Non ridete, non mi stupirei affatto. Nel nostro Paese non si nega una ribalta a un inquisito, a un condannato, anche per gravi reati. È lo show business: i buoni sono noiosi, i cattivi sì che ti alzano l’audience. Ma la Franzoni, si interrogano i milioni di italiani bersagliati dall’immagine dei suoi occhioni tristi e delle sue lacrime telegeniche, è cattiva o no? Se avesse davvero ucciso con “razionale lucidità” si dovrebbe rispondere: sì, è cattiva. Perché una donna adulta che spacca il cranio a un bambino di tre anni è cattiva. Ma siamo sicuri che fosse «lucida e razionale»? È capace di intendere e di volere, d’accordo, perché ha fatto sparire l’arma del delitto, ha proclamato la sua innocenza, ha accusato a vanvera, si è fatta propaganda in tivvù, ha sostituito il figlio morto con un nuovo figlio, partorendolo a tempo di record, neanche si trattasse di sostituire il gatto di casa. Ma si può “intendere” il male e “volerlo” momentaneamente, eppure non essere “razionali” e “lucidi”, bensì emotivi e confusi? La malattia mentale è un territorio misterioso e in continuo mutamento. Quali sono i parametri secondo i quali, oggi, si stabilisce che una persona è sana di mente o disturbata? Mi viene in mente una storia che ho studiato per un libro, «Il freddo dentro»: un altro delitto efferato , in cui l’assassina era legata alle sue vittime da rapporti di stretta parentela, il cosiddetto delitto di Novi Ligure (quante graziose cittadine marchiate per sempre perchè teatro di crimini efferati!) in cui una ragazzina, Erika de Nardo, uccise, con 120 coltellate complessive, sua madre e il suo fratellino. Anche in quel caso: nessun movente ragionevole, nessun pentimento, innocenti accusati, armi occultate, e una faccia tosta incredibile nel proclamare la propria purezza e perfino il proprio affetto per la mamma massacrata. Anche allora un verdetto di «capacità di intendere e di volere», di sana e robusta organizzazione mentale.
Ma davvero Erika e Annamaria sono “normali”? Certo... sono capaci di esprimersi correttamete, sono belle, sono pulite, sono eleganti, non sbavano, non cincischiano, non credono di essere Napoleone, non hanno le allucinazioni. Sono due perfette rappresentanti dei moderni ceti medi. Egocentriche, narcisiste, autoreferenziali, immature. Hanno ucciso per futili motivi. I loro non sono delitti passionali. Sono delitti inspiegabili, se non provando a indovinare, a intuire, il futuro verso cui stiamo marciando: una società incapace di empatia, dove ciascuno concede a sé stesso ogni eccesso, prima non si reprime, e , subito dopo, si perdona, mentendo o dimenticando. Forse bisognerebbe rivedere un po’ gli schemi su cui si basano le perizie psichiatriche, e inserire, nell’elenco, qualche malattia nuova. E, a proposito di novità, leggo sul Corriere della Sera: «Una spia nel taxi, arriva la telecamera» e scopro che «il Comune di Milano finanzia con un milione di euro i tassisti che mettono un apparecchio di registrazione in auto». Pare che lo facciano per il nostro bene. Ce n’è già a Firenze di videotaxi e presto ce ne saranno anche a Roma. E il diritto all’immagine? E se io non volessi che la mia faccia sia filmata e trasmessa, usata a mia insaputa per scopi che non posso controllare? Dicono che è per evitare i crimini. Per lo stesso motivo le nostre città saranno piantonate dall’esercito (grazie, sindaco Alemanno, per aver ridotto l’impatto visivo dell’occupazione, tenendo i soldati fermi davanti agli obbiettivi sensibili): dobbiamo stare sicuri. Non dobbiamo avere paura.
E se avessimo paura di tutto quello che si sta organizzando per la nostra sicurezza?
www.lidiaravera.it

l’Unità 31.7.08
Vladimir Luxuria. Dopo la sconfitta è sbagliato cercare rifugio nelle ideologie. Le identità forti hanno dubbi, si aprono alla società, dialogano con i movimenti
Il congresso di Rifondazione? Un brutto «compagnicidio». Così ha perso tutto il partito
di Simone Collini


Prc si spacca, i Verdi si fischiano, nel Pdci non si aspetta il voto finale. Meglio resettare e rifare il centrosinistra

«Una brutta lotta compagnicida». A Vladimir Luxuria non ha fatto una bella impressione il congresso di Rifondazione comunista. «Ero presente quando, dopo il discorso di Ferrero, una parte della platea ha intonato Bandiera rossa, come per far passare l’idea che c’è chi difende il comunismo e chi invece vuole annacquarlo». A Chianciano è andata come osservatrice esterna, visto che la tessera del Prc non l’ha mai presa: «La mia non è una storia di militanza nel partito. La candidatura è stata frutto della decisione di aprire a personalità esterne. Io mi considero un’espressione del movimento lesbo gay trans, e ho continuato a mantenere questa mia autonomia». Però dice: «Le storie dei partiti vanno calate nel contemporaneo, le ideologie non vanno viste come rifugio ma bisogna essere pronti alle contaminazioni, a mettersi in discussione. Le identità forti sono quelle capaci di avere dei dubbi, di assorbire i cambiamenti che avvengono nella società e anche di dialogare con i movimenti che lottano per la libertà».
Sperava in un esito diverso?
«Ho sperato fino alla fine che si evitasse la spaccatura. Alla fine a decidere è stata una manciata di voti. Per me non ha né vinto Ferrero né perso Vendola. Ha perso tutto un partito, che ha fatto quanto di peggio potesse fare dopo una batosta elettorale: una lotta compagnicida. E agli altri non va meglio. Mi sembra siamo in pieno divide et impera, stiamo attraversando davvero un deserto: il Prc con questo congresso di spaccatura, i Verdi con i fischi, il Pdci con una parte dei delegati che non è rimasta fino alla votazione finale. Per non parlare di come si stanno muovendo Pd e Di Pietro. Ci sarebbe da resettare tutto, per sperare di poter davvero riconsegnare l’Italia a un centrosinistra».
Come si può rilanciare la sinistra, secondo lei?
«Sicuramente non con un dialogo privilegiato tra comunisti, tenendo fuori le altre forze politiche e i movimenti. Io continuo a credere in un forte partito della sinistra unita, che abbia anche interessi ambientalisti e animalisti».
Ferrero pensa a un’immersione nel sociale, evitando operazioni politiciste. Che ne pensa?
«È giusto immergerci nel sociale. Ma non bisognava aspettare una batosta elettorale per farlo. Ognuno dovrebbe mantenere i rapporti col proprio elettorato e la propria storia. Io sono stata applaudita in tutti i Gay pride, non ho ricevuto fischi. Forse perché, io che provengo dal movimento lesbo gay trans, in questi due anni ho continuato a mantenere questo rapporto».
Cosa è mancato in questi congressi, secondo lei?
«La solidarietà, la coesione, il rimboccarci le maniche e invece di cercare i capri espiatori di lottare e coalizzarci. Credo fosse anche quello che si aspettava il nostro elettorato».
Ferrero ha detto: meno televisione e più popolo. È la ricetta giusta?
«La televisione è un grande strumento, come lo sono i comizi, le feste di partito. Io ho fatto e continuerò a fare tv, ma in questi giorni sono stata alla Festa di Liberazione a Osnago, in provincia di Lecco, al campeggio dei Giovani comunisti a Pineto, sabato sarò alla Festa di Liberazione di Chioggia, poi a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia. Non mi sembrano incompatibili le due cose. Bisogna parlare alla gente che già ci vota e anche alla gente che o non vota o preferisce altri a noi».
È per questo che ha deciso di partecipare all’Isola dei famosi, scelta che ha creato anche dei malumori nell’elettorato Prc, per veicolare messaggi?
«Io spero di poter fare un’Isola dei famosi civile, nella quale cioè a prevalere non siano le risse e l’idea che per vincere bisogna essere lupo tra lupi, ma l’idea che si possa essere coesi e che si possa anche parlare di argomenti interessanti».
Non sarà facile, visti format e precedenti, non crede?
«Si devono rispettare coloro che vedono questa trasmissione. Io mi auguro di vincere questa sfida. Si può essere vittime di momenti trash anche in luoghi importanti. L’episodio con la Gardini (la deputata forzista l’attaccò perché aveva usato il bagno delle donne, ndr) è avvenuto dentro un Parlamento. Magari invece all’Isola dei famosi potremo dimostrare una convivenza con le donne più da sorellanza. È una sfida. Magari la perdo, magari avrò fame e andrò subito fuori di testa. Però più le sfide sono difficili e più mi stuzzicano».

Corriere della Sera 31.7.08
In difesa dell’Europa
di Massimo Franco


Un tempo si diceva che gli italiani erano europeisti ma non europei. Adesso, sembrerebbe che il nostro amore per il Vecchio Continente si stia progressivamente raffreddando; e che le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo, alle quali si guardava come fonte di sostegno e perfino di identità, siano diventate distanti e ostili: il sospetto dichiarato del governo è che stiano congiurando contro il Bel Paese berlusconiano. Il risultato è una sorta di braccio di ferro permanente fra Roma e Ue. Si tratti di Parlamento, Commissione o Consiglio d'Europa, che pure non ha legami istituzionali con i primi due e si occupa di diritti umani, lo scontro è garantito.
Da quando il centrodestra è tornato al potere in Italia, sta calando una coltre di diffidenza reciproca alimentata dai primi provvedimenti in materia di immigrazione e di sicurezza. In passato, anche con la coalizione di Romano Prodi, i contrasti si consumavano in prevalenza sui temi economici. Ora si registrano su un piano più delicato e scivoloso perché mettono in discussione il livello di democrazia del nostro Paese. A volte, le critiche riflettono un buon tasso di pregiudizio. Vengono suggerite e gonfiate da alcuni settori della sinistra, che brandiscono l'antiberlusconismo come una bandiera della libertà. Ma liquidare il problema così sarebbe miope.
Anche perché le reazioni indignate del governo italiano alla reprimenda del Consiglio d'Europa sul trattamento riservato ai rom si sono indirizzate subito ai «burocrati di Bruxelles». Che si tratti della Corte europea dei diritti dell'uomo, della Commissione o del Parlamento, evidentemente basta la parola «Europa» a far scattare nella maggioranza una reazione che finisce per risultare pregiudiziale almeno quanto alcune delle critiche rivolte al governo di Roma. È come se l'Italia fosse convinta di essere diventata una sorta di capro espiatorio continentale.
Forse nelle file dell'opposizione qualcuno vede in questo pericoloso avvitamento una prospettiva da incoraggiare: la quarantena italiana sarebbe la conferma del «male» rappresentato dal Cavaliere. E chissà, magari un calcolo simile viene fatto anche in settori della maggioranza: si pensa che fomentare l'ostilità contro l'Europa serva a costruire un'identità conflittuale con un potere sovranazionale ritenuto incombente e impopolare. Ma di tensione in tensione, si perde la dimensione europea dei problemi. Si pratica un'autarchia legislativa che ha come unico referente e giudice il consenso elettorale.
Il risultato è che lo status di Paese «sorvegliato speciale» viene alimentato proprio dal modo sbrigativo col quale è rifiutato dal governo italiano. Pochi sembrano consapevoli che uno scontro del genere può delegittimare l'Europa; ma indebolisce soprattutto l'Italia, non riducendo ma dilatando la percezione di una nostra «anomalia». Per questo, conviene ancorarsi all'Ue nonostante le difficoltà vistose; e tentare di ricucire strappi politici e insieme culturali, figli di stereotipi inaccettabili ma anche di scelte discutibili che non si possono difendere solo con l'idea del complotto antiitaliano. Altrimenti, si risponde ad un'immagine falsata dell'Italia con luoghi comuni speculari.

Corriere della Sera 31.7.08
Duello dentro Rifondazione
Lella Bertinotti: pure Ferrero va nei salotti La compagna: io e lui non imitiamo i ricchi


ROMA — (g.fre.) Oltre ai modi di lotta al patriarcato e al capitalismo, il dopo Bertinotti porta dentro Rifondazione anche un altro quesito, non più lieve: si addice ad un leader comunista frequentare tv e salotti? Sottinteso: la sovraesposizione del leader in questi anni — le foto davanti a casa Angiolillo, i racconti dei frequentatori del salotto Verusio, i weekend a Cernobbio — ha fatto male al partito? Non a caso al congresso Ferrero ha annunciato: «Con me, più popolo e meno tv».
Lella Bertinotti, intervistata dal Riformista, risponde a nome dell'ex terza coppia dello Stato: «Basta con questa storia, certo ci sarà stata qualche cena in quelli che lei chiama salotti. Ma non eravamo gli unici». E cioè, nei salotti c'è stato anche l'ex ministro Paolo Ferrero: «A casa di Carlo De Benedetti c'era anche Ferrero con la sua compagna...». Salotti o non salotti? «Se per salotto si intende un posto dove si elaborano idee, perché no?», replica Angela Scarparo, la compagna di Ferrero, che anzi a sorpresa annuncia: «Mi piacerebbe metter su un salotto per parlare di letteratura». E quelli che già ci sono? «Il problema non è bere un bicchiere di vino con i ricchi. Anche Ned Ludd (l'operaio inglese da cui il luddismo) l'ha fatto. Paolo, il mio compagno, è una persona cortese e usciamo anche noi».
Insomma, nei salotti ci andiamo. «Il punto è come ci si sta: se poi si torna a casa e si pensa alla ridistribuzione della ricchezza, è un conto. Altro è se ci si apposta nel tinello per cercare di adeguarsi allo stile di vita dei ricchi». Un riferimento all'ex segretario?
«No, mi riferisco ai leader del Pd», si affretta a precisare la Scarparo.

Corriere della Sera 31.7.08
C'è il Papa in vacanza Spostata la rana crocifissa
di L. Ac.


BRESSANONE — La «rana crocifissa» è stata spostata dall'ingresso del Museo di arte moderna di Bolzano al terzo piano dell'edificio anche a seguito della presenza del papa a Bressanone. Il compromesso non soddisfa il presidente del consiglio regionale Franz Pahl che prosegue lo sciopero della fame. Una guerra, quella sulla scultura dell'artista tedesco Martin Kippenberger, che ha ripreso vigore dopo l'arrivo di Benedetto XVI. La decisione di spostare l'opera sarebbe stata accelerata dal vescovo di Bolzano e Bressanone, Wilhelm Egger. Negli ambienti della diocesi che ospita il papa c'è soddisfazione: «Nessuno contesta la libertà degli artisti, ma una cosa è fare spazio a ogni opzione e un'altra è mettere quella provocazione a emblema di una mostra», dice Josef Gelmi, direttore del Museo diocesano.

Repubblica 31.7.08
Bertinotti diventa docente a Perugia insegnerà politica all´Università


ROMA - Fausto Bertinotti si prepara a salire in cattedra. Lasciati ormai gli incarichi politici, l´ex presidente della Camera ha accettato l´invito dell´Università di Perugia a tenere un ciclo di lezioni alle facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche. Le lezioni inizieranno a settembre e saranno ad ampio raggio, avendo solo come spunto la politica. L´approdo universitario rientra nell´ambito del lavoro politico di approfondimento, teorico e culturale che Bertinotti ha intrapreso dopo aver lasciato ogni incarico pubblico. Nei prossimi mesi l´ex leader di Rifondazione comunista darà vita anche a una Fondazione culturale.

Repubblica 31.7.08
Anoressica, interdetta a trent´anni
I giudici a Torino: patologia nervosa, sarà la sorella a farle da tutore
È arrivata a pesare ventotto chili l´intervento della giustizia chiesto dalla famiglia
di Lorenza Pleuteri


TORINO - È arrivata a pesare solo 28 chili, a spendere una fortuna nei supermercati per riempire frigoriferi e dispense di cibo lasciato andare a male, a tiranneggiare i familiari stremati. Adesso, a 33 anni, non può firmare un assegno, acquistare una casa, sottrarsi alle cure che per metà della sua vita ha ostinatamente contrastato. Una giovane donna torinese - dall´adolescenza malata di anoressia nervosa, patologia psichiatrica diagnosticata da un perito durante la causa chiusa ieri - è stata interdetta dai giudici civili della settima sezione del tribunale torinese su richiesta della famiglia, affiancata in una battaglia legale durata tre anni dagli avvocati Patrizia D´Antona e Marco Porcari. È stata ritenuta incapace di provvedere ai propri interessi, a stessa, come le persone con altre malattie mentali gravi. La sorella maggiore, nominata tutore definitivo, deciderà tutto o quasi al posto suo, concordando i percorsi terapeutici con specialisti pubblici e sanitari privati. «L´interdizione per altre malattie mentali - commenta il professor Ugo Fornari, docente di psicopatologia forense nel capoluogo piemontese e studioso di fama internazionale - è relativamente diffusa. Ma credo che questo sia il primo caso di applicazione di un provvedimento così estremo, a mio parere legittimo, legato alla anoressia nervosa». Un caso che potrebbe aprire la strada ad altre cause simili. O che potrebbe far discutere e dividere.
Nel fascicolo del procedimento c´è la storia di una ragazza alla deriva e di una famiglia costretta ad una scelta estrema, dopo 18 anni di peregrinazioni da un ospedale all´altro, trattamenti sanitari obbligatori, soluzioni che mettevano una pezza provvisoria, rifiuti, fughe. Nel 2005, dopo l´ennesima crisi, dopo l´ennesima dimissione da una casa di cura, i genitori e la sorella della giovane donna sempre più magra e sofferente hanno deciso di promuovere una causa. «Non sappiamo più che cosa inventarci per impedire che nostra figlia si faccia del male - hanno spiegato agli avvocati - Vogliamo solo che lei venga curata, assistita, che non possa autodistruggersi. Non possiamo vederla morire sotto i nostri occhi. Ma non siamo più in grado di tenerla in casa con noi». Il giudice cui è toccato il caso ha accolto il ricorso d´urgenza per l´interdizione, nominando tutore provvisorio la sorella della malata d´anoressia nervosa. Poi un perito ha scavato nella storia e nelle paure della donna, in due riprese, a distanza di sei mesi, concludendo che «non è in grado di fare fronte alle proprie esigenze, non ha una consapevolezza costante della malattia, non è sempre in grado di esprimere un consenso informato alle terapie mediche». Incapace di intendere, dunque. E messa sotto tutela definitiva, da ieri. «So che potrebbero sorgere delle perplessità, che qualcuno potrebbe dissentire - commenta ancora il professor Fornari - ma dobbiamo sgombrare il campo dagli equivoci. L´interdizione non è più come ai tempi dei manicomi, quando era un castigo di Dio e rappresentava l´emarginazione e la esclusione. Va esattamente nella direzione opposta, nell´esclusivo interesse della paziente. È non è un provvedimento irrevocabile, definitivo. Capisco anche la famiglia. Andare da un giudice, per loro, deve essere stata l´ultima possibilità».

Repubblica 31.7.08
Eluana e la legge che non c’è
di Ignazio Marino


In questi giorni il Parlamento discute di un ipotetico conflitto tra il potere legislativo e quello giudiziario. Si discute cioè se la Corte di Cassazione abbia travalicato il proprio ruolo invadendo il campo del Parlamento in merito alla drammatica vicenda di Eluana Englaro.
Non essendo un esperto di diritto costituzionale non mi permetto di entrare nel merito, ma penso di non essere smentito affermando che il ruolo del legislatore non è solo quello di affrontare le questioni in punta di diritto, il Parlamento dovrebbe occuparsi dei problemi reali delle persone e, se vengono individuate delle carenze nell´ordinamento giuridico, dovrebbe colmarle.
La legge che manca, e che crea tante discussioni, è quella sul testamento biologico. Una legge grazie alla quale ognuno, se lo vuole, possa indicare quali terapie intende accettare e quali rifiutare se un giorno si trovasse nelle condizioni di non poter più esprimere le proprie volontà.
Il tema non è una novità legata a Eluana Englaro, in Parlamento se ne discute da almeno dieci anni. Ci sono state molte proposte, audizioni, dibattiti e convegni ma non si è mai arrivati ad una legge, alla fine è sempre prevalso un atteggiamento lontano dalla sofferenza delle persone. Io penso che invece di concentrarsi sui conflitti tra poteri, ci si dovrebbe interrogare su Eluana e sulle migliaia di persone che vivono in situazioni simili.
Chi ha potuto osservare una persona in stato vegetativo permanente sa che le cure non si limitano a fornire l´acqua e il pane, come è stato detto.
La nutrizione e l´idratazione artificiale avvengono attraverso un sondino che introduce nello stomaco elettroliti, microelementi, proteine, farmaci e altre sostanze. Inoltre, un corpo in quelle condizioni deve essere mantenuto libero da infezioni, dal rischio di embolie polmonari, da decubiti, da alterazioni metaboliche che possono causare la morte. Per non parlare della manipolazione da parte di mani estranee che devono lavare, massaggiare, spostare e anche svuotare l´intestino una o due volte la settimana.
Le tecniche che si utilizzano oggi solo poche decine di anni fa non esistevano e le persone in queste condizioni si spegnevano naturalmente. Chi di noi vorrebbe essere sottoposto a tutte queste terapie per anni senza avere alcuna percezione del mondo e senza una ragionevole speranza di recuperare l´integrità intellettiva? Io non lo vorrei, lo confesso.
Ma se qualcuno invece lo volesse, può essere sicuro che la sua volontà sia rispettata? La risposta è no, perché ogni giorno nelle rianimazioni si pone il dilemma se interrompere o meno alcune delle terapie che, grazie ai progressi della medicina, permettono di mantenere in vita esseri umani altrimenti destinati alla fine naturale. E chi prende la decisione se interrompere o meno le terapie? Decide il medico di guardia che non conosce l´intimità del paziente, conosce le sue condizioni cliniche e decide esclusivamente in base a queste. Sono gli stessi rianimatori che spiegano che nel 62 per cento dei casi applicano la cosiddetta desistenza terapeutica, ovvero sospendono tutte le terapie e avviano così il paziente verso la fine naturale della sua esistenza.
La loro scelta è fatta in scienza e coscienza, eppure non possono documentarla in cartella clinica e la decisione non tiene conto del punto di vista del paziente, il quale non può lasciare delle indicazioni scritte attraverso il testamento biologico.
Ed ecco perché i cittadini, oltre al Presidente della Repubblica e alla magistratura, chiedono con insistenza che il Parlamento legiferi sulla materia per raggiungere una legge che permetta di non demandare decisioni tanto definitive al giudizio altrui.
Mi auguro che finalmente si riuscirà a fare questa legge. Ci sono riusciti gli Stati Uniti nel 1976, anche lì dopo una sentenza della magistratura e una decisione della Corte Federale. Ci sono riusciti in Francia, in Danimarca, in Germania, in Belgio, in Svezia, in Australia, anche in Spagna recentemente.
In Senato già diverse proposte di legge, una di queste è stata sottoscritta da cento senatori del Pd, dell´Italia dei Valori e del Pdl. E´ una proposta che affronta i problemi della fine della vita nel loro complesso perché tratta non solo di testamento biologico ma anche di cure palliative e delle terapie del dolore.
L´obiettivo è di offrire ai malati inguaribili e alle loro famiglie sollievo e sostegno durante le fasi che accompagnano i momenti terminali della vita. Ma per realizzare questo progetto è necessario avviare un programma assistenziale di cure palliative, rafforzare la rete degli hospice e semplificare la prescrizione dei farmaci per il dolore. Sono anche questi gli argomenti che definiscono il grado di civiltà di un paese, il rispetto dei diritti e, dal momento che riguardano tutti nessuno escluso, dovrebbero essere trattati con la dovuta celerità.
(l´autore è chirurgo e senatore del partito democratico)

Repubblica 31.7.08
Fermarsi a pensare riavvia il cervello ecco tutti i segreti per la pausa ideale
di Michele Bocci


Il candidato alla presidenza Usa Obama ha ammesso di mettere in agenda l’appuntamento con la riflessione Secondo gli esperti l´esplorazione della propria mente aiuta a non ingolfarla con gli affanni quotidiani

Per i filosofi la meditazione è l´ascetica metropolitana da esercitare anche nei luoghi del quotidiano
Isolarsi per dedicarsi ai propri pensieri, a casa e al lavoro, ci salva dallo stress "Ed è ciò che ci rende umani"

C´è voluto uno degli strumenti principe della comunicazione globale, per giunta puntato sul personaggio oggi maggiormente esposto nei media, per rilanciare il valore della solitudine, del quarto d´ora di pausa da dedicare tutti i giorni a se stessi per pensare e ricaricarsi. Il lungo microfono dell´emittente americana Abc che sabato scorso ha rubato una conversazione privata tra il candidato premier americano Barack Obama e il capo dei conservatori inglesi David Cameron ha rivelato al pianeta che anche gli uomini politici più impegnati ambiscono a tenere ogni giorno uno spazio bianco nell´agenda. Per smettere di lavorare e riflettere.
Quella mezz´ora di solitudine assoluta può rivelarsi una risorsa straordinaria per chiunque, non solo per i leader politici, ma bisogna saperla vivere al meglio. Come? Intanto spegnendo tv, computer e telefonino e magari facendo una bella passeggiata. Per dedicarsi esclusivamente a pensare. «Io la chiamo ascetica metropolitana. Perché si può esercitare anche nei luoghi del nostro quotidiano, nelle nostre città», spiega Duccio Demetrio, professore di filosofia dell´educazione a Milano Bicocca, tra l´altro autore di due libri intitolati "La vita schiva" e "Filosofia del camminare". «Ritagliarsi spazi per pensare - prosegue Demetrio - fa anche bene da un punto di vista neurologico, perché aiuta la mente a non fare cortocircuito, a non ingolfarsi di vita affannata, quotidiana. E fa bene perché ci decentriamo dalle occupazioni più consuete per esplorare altre possibilità della mente e del pensiero, assicurandoci una ricarica di energia vitale».
La Bbc, in un servizio, ha indicato cosa fare e cosa evitare per permettersi ogni giorno una pausa di riflessione. Il rapporto con il lavoro è la prima cosa su cui intervenire e il pranzo il momento clou dei comportamenti autolesionisti. La maggior parte delle persone saltano la pausa di mezzogiorno, qualcuno la comprime in dieci minuti piazzandosi con un panino in mano davanti al computer. «Dobbiamo fare in modo che i lavoratori escano all´ora di pranzo - dice David Hunter, della Lifelong learning Uk, un grande centro inglese di consulenza per operatori del settore dell´istruzione - Se lasci la tua scrivania per andare a farti un giro in strada, torni con la mente più fresca e meglio disposto al lavoro». Non è importante mangiare fuori, al ristorante, si può anche consumare il pranzo velocemente, ciò che conta è appunto farsi una passeggiata. «Va bene anche andare al parco a guardare i passeri - dice ancora Demetrio - Sedersi al tavolo di un bar, magari scrivere una pagina del proprio diario, su carta ovviamente. Non bisogna fare niente di eccezionale. L´importante è essere soli». Secondo Giorgio Maria Bressa, docente di psicobiologia del comportamento umano a Viterbo, non è tanto importante essere soli e nel silenzio quanto essere capaci di ritagliarsi spazi a propria dimensione. «Anche durante la riunione di un cda - dice - Sapersi isolare per pensare ha a che fare con il controllo dell´ansia. Chi ha un rapporto ansioso con il tempo non riesce a staccare. Già nel primo, agognato, giorno di ferie lo vedrete mettere mano al cellulare per controllare se è acceso».
Riguardo ai luoghi e alle situazioni migliori per pensare, Tony Buzan, cognitivista che ha inventato le mappe mentali, forme di rappresentazione grafica del pensiero, spiega di aver chiesto a molte persone dove fossero quando hanno avuto grandi idee. «Al di là dell´età, della razza e dell´educazione hanno tutti indicato le stesse cose: nella doccia, sempre in bagno ma a farsi la barba, nella natura a passeggiare, a letto prima di addormentarsi o appena svegli, in viaggio, in un momento d´ascolto di musica classica». Tom Hodgkinson, fondatore della rivista inglese Idler, che da quindici anni esplora modi alternativi di vivere e lavorare, mette invece in guardia sui comportamenti da evitare. «La tendenza delle grandi aziende - spiega - è quella di tenerci sempre impegnati. E quando non abbiamo nulla da fare ci distraiamo con una quantità infinita di media, come la tv, le e-mail e internet in generale». E così si finisce per non staccare mai, per non riflettere. «È necessario invece capire - prosegue Hodgkinson - che pensare è importante. È ciò che ci rende umani».

Repubblica 31.7.08
A una settimana dalle Olimpiadi, un libro di Renata Pisu sulla metropoli simbolo della globalizzazione
La fine di un mondo. Storia Millenaria di Pechino


La città si è lasciata fare importando di volta in volta modelli urbanistici del socialismo reale negli anni Cinquanta Di Tokyo, Osaka, Los Angeles e Atlanta dagli anni Ottanta ai nostri giorni

PECHINO è stata definita il più grande palcoscenico del mondo, per gli avvenimenti politici che vi sono stati messi in scena: dalla Rivoluzione culturale maoista (1966-76) al movimento di Piazza Tienanmen. Con quale dei suoi tanti volti Pechino accoglierà i visitatori che fra pochi giorni affluiranno per le Olimpiadi? E per cominciare, quanti saranno davvero i turisti stranieri in arrivo per i Giochi: un milione, o soltanto la metà per via delle improvvise restrizioni ai visti d´ingresso imposte dal governo? Già queste incertezze danno la misura di quanto Pechino possa essere imprevedibile, a seconda di quale delle sue «anime» sia destinata a prevalere: la capitale cosmopolita, metropoli-simbolo della globalizzazione; oppure la capitale nazionalista, che negli ultimi mesi (dopo la rivolta del Tibet e le polemiche con l´Occidente) ha visto serpeggiare umori sciovinisti, perfino xenofobi. Questi cambiamenti repentini, Pechino li ha già vissuti tante volte nella sua storia millenaria.
Marco Polo la conobbe in una delle fasi di apertura verso il mondo esterno (sotto la dinastia mongola dei Kubilai Khan), che furono le più feconde; si alternarono a epoche di superbo ripiegamento isolazionista, spesso foriere di decadenza per la Terra di Mezzo.
Gli occidentali in genere s´innamorano a prima vista di Shanghai, che sembra una New York asiatica. Invece la prima reazione del visitatore europeo a Pechino è un misto di delusione («così poche tracce del passato»), orrore (per la bruttezza del 90% delle sue costruzioni moderne), e infine sgomento: per le dimensioni assurde di una megalopoli che ormai punta verso i 20 milioni di abitanti e occupa un territorio largo quanto il Belgio.
Pechino non è una seduttrice da amore a prima vista. Però è una città più autenticamente cinese di Shanghai: è impossibile capire questo paese senza vivere nella sua capitale, centro del potere politico.
Renata Pisu ci ha vissuto a lungo, quando era studentessa all´università Beida, e da allora non ha mai smesso di frequentare questa città. Nel suo ultimo libro, Mille anni a Pechino (Sperling & Kupfer, pagg. 250, euro 17), la Pisu attinge al suo album di ricordi personali, e alla sua notevole erudizione, per offrire ai lettori un´introduzione alla storia della città, un itinerario di viaggio attraverso le sue vicissitudini, e una chiave d´interpretazione della sua anima odierna.
I capitoli dedicati alla storia antica sono preziosi perché il visitatore trova effettivamente pochi resti visibili delle epoche più remote, e anche i musei locali deluderanno chi si aspetti un Louvre o una National Gallery. La colpa di questa distruzione del passato non è solo delle Guardie Rosse né tantomeno della più recente modernizzazione urbanistica. La Pisu ricorda quanto scrisse il sinologo belga Simon Leys: «La Rivoluzione culturale potrebbe facilmente apparire come l´ultima manifestazione di un antichissimo fenomeno, il ripetersi di ondate di violenta iconoclastìa nella storia del paese». L´altra faccia di questo fenomeno è la capacità di mimesi di Pechino, la sua flessibilità nell´assorbire le influenze degli invasori esterni. Che nel XX e XXI secolo non sono i mongoli o i mancesi: siamo noi. Infatti la storia della Cina dalla metà dell´Ottocento in poi è segnata dal trauma delle disfatte subìte nel confronto con l´Occidente (e col Giappone, la nazione asiatica più veloce nell´adeguarsi al progresso tecnico-economico dell´Occidente). Le élite cinesi hanno cercato disperatamente di adeguarsi: il repubblicano Sun Yat-sen guardava all´Europa e all´America, Mao Zedong al comunismo russo, Deng Xiaoping un po´ al Giappone e un po´ all´America; tutti cercavano all´esterno un modello per la modernizzazione.
Pechino si è lasciata fare, importando di volta in volta modelli urbanistici del socialismo sovietico negli anni Cinquanta, di Tokyo e Osaka e Los Angeles e Atlanta dagli anni Ottanta ai nostri giorni. Per misurare gli strappi che ha dovuto accettare questa città rispetto alla sua identità e alle sue tradizioni, è utile ricordare che per un millennio Pechino si sviluppò solo orizzontalmente. Nessun edificio poteva superare l´altezza della Città Proibita e anche le case signorili erano a un solo piano. La Pisu ricorda ciò che scriveva il gesuita Jean-Denis Attiret nel XVII secolo: «Volete sapere cosa ne dicono quando vedono delle stampe che rappresentano i nostri edifici? I grandi corpi di case li spaventano. Considerano le nostre case quali vie scavate in mezzo a orride montagne e le nostre case quali rupi a perdita d´occhio con pertugi, come fossero abitacoli d´orsi e di altre belve feroci. I nostri piani ammucchiati destano la loro meraviglia, e non capiscono come ci possiamo arrischiare di romperci il capo cento volte al giorno salendo a un quarto o a un quinto piano».
Oggi Pechino ha spregiudicatamente verticalizzato la propria concezione dello spazio. Per la facilità con cui spuntano dalle viscere della terra e raggiungono in pochi mesi la stratosfera sembra che i grattacieli siano nati qui. La Pisu ricorda i costi umani che questa modernizzazione accelerata ha imposto. Gli anziani espulsi dai vecchi quartieri «non hanno punti di riferimento, luoghi di incontro: li scorgi che si danno convegno sotto le arcate delle circonvallazioni aeree, tra un massiccio pilone e l´altro, e ballano. Sì, d´inverno anziane coppie mettono su un po´ di musica, dei lisci perlopiù, e volteggiano tra il fragore e le esalazioni mefitiche del traffico». È un´immagine che si può interpretare in tanti modi.
È la malinconica fine di un mondo. Oppure è la rivincita dell´anima eterna di Pechino, che sopravvive a ogni cambiamento di pelle di questa città, riaffiora indomabile e irriducibile, s´infila a occupare tutti gli interstizi, si riprende alla chetichella il territorio che volevano rubarle.

Liberazione 30.7.08
Intervista all'ex ministro degli esteri, ex premier, ex leader Ds D'Alema: «Sinistra radicale, addio senza rancore...»
di Piero Sansonetti


Massimo D'Alema mi accoglie sulla porta del suo studio, a piazza Farnese (sede di Italiani Europei) allegro e scherzoso. Ma non mi sembra ottimista. Ci conosciamo da un po' più di trent'anni e quindi niente diplomazie. Scherza. E canticchia alcuni versi di uno strano inno con parole incomprensibili. Strabuzzo gli occhi, e lui mi spiega che è l'inno del «pionere» in lingua russa. Lo conosce solo lui. Neanche Cossutta, perché non è mai stato tra i pionieri. I pionieri erano i ragazzini comunisti under 14, dopo i 14 anni si passava alla Fgci. D'Alema era un leader dei pionieri ai tempi di Togliatti. Mi prende in giro per la svolta iper-comunista sancita dal Prc al congresso di Chianciano.

Non ti è piaciuto questo congresso?

Lo ho seguito con interesse. Come avevo seguito la discussione prima del congresso. Al di là della crisi politica ed elettorale di Rifondazione comunista, io so che in Italia esiste un'area di sinistra radicale che ha una sua funzione, uno spazio, che è importante. Non credo che questa area sia la continuazione della tradizione del Pci. Il cuore vero della tradizione del Pci, secondo me, è trasmigrato nel partito democratico.Del partito comunista, l'unico filone che regge ancora è quello riformista. Oltre questa tradizione è sempre esistita una sinistra che possiamo definire «massimalista», nella quale hanno confluito diverse aree di pensiero politico, e il destino di questa sinistra massimalista è tutt'altro che irrilevante ai fini dell'equilibrio politico del paese e della forza del sistema democratico. Perciò, dopo la sconfitta elettorale di aprile, mi chiedevo se sarebbe maturata una svolta in avanti, un modo di declinare in forme moderne il massimalismo italiano. Era una cosa molto importante. Aspettavo una risposta dal congresso del Prc. Diversa da quella che è arrivata.

Cos'è che ti preoccupa?

Io speravo che si potesse arrivare a una coalizione di forze diverse, in grado di costruire una sinistra di tipo rosso-verde. Una sinistra cioè che non smarrisse il tema della questione sociale, però si aggregasse attorno anche ad altre istanze: ambientaliste, pacifiste, femministe... la sensazione è che invece ci sia un arroccamento che ricorda più certi gruppi della sinistra extraparlamentare di una volta, di matrice un po' stalinista.

Dai un giudizio così duro su Paolo Ferrero?

No, non su di lui. Ferrero è una persona assolutamente ragionevole. Non dico certo che lui sia un estremista. L'ho conosciuto bene durante l'esperienza di governo: qualche volta avrebbe potuto essere più combattivo. Però mi sembra che nel partito che è stato chiamato a dirigere si delinei un arroccamento identitario. Persino dal punto di vista simbolico: che segnale è la decisione di abbandonare il tema classico dell'unità della sinistra?

E' la fine di una stagione?

Si è chiusa l'era di Bertinotti. Era stata una stagione in cui l'idea di costruire una forza radicale di sinistra aveva un riferimento soltanto simbolico al comunismo. Non era dentro la storia del comunismo e dei comunismi. Bertinotti immaginava una forza di sinistra critica, che però non rinunciasse a misurarsi col tema del governo e della trasformazione. Non si può negare che avesse una sua forte originalità. Oggi il Prc ha deciso di porre fine a questa era, in modo drastico, in nome di qualcosa che a me pare un puro ritorno indietro. Non getta le basi di una possibile convergenza con altri segmenti della sinistra. A me sembrava che solo dalla convergenza dei vari pezzi della sinistra radicale (verdi, sinistra Ds eccetera) potesse nascere una prospettiva nuova.

Una ripetizione dell'Arcobaleno?

L'arcobaleno è fallito clamorosamente alle urne. Però io immaginavo che dal congresso di Rifondazione potesse emergere una proposta unitaria meno aborracciata, una costituente basata su riflessioni politiche più approfondite, su elementi culturali, su analisi e programmi politici...Però non è successo. E quello che è successo è abbastanza preoccupante. Anche perché potrebbe avere conseguenze sul piano dei governi locali. Tra meno di un anno si vota in migliaia di comuni e in moltissime province.

Non credi che la sconfitta della sinistra radicale, e quindi anche le sue reazioni alla sconfitta - le scelte di queste ore - siano in parte dovute all'atteggiamento settario del partito democratico, alla dichiarazione di autosufficienza, alla decisione di rifiutare una alleanza elettorale ad aprile?

Io credo che la sconfitta della sinistra radicale sia dovuta fondamentalmente al modo nel quale ha vissuto l'esperienza di governo. Il rapporto tra sinistra e Pd si è consumato nell'esperienza di governo. La difficoltà di tenuta da parte del Prc è stata evidentissima. E io credo che siano state evidentissime anche le rincorse estremiste tra Rifondazione e Diliberto, sia sulla politica estera che sulle questioni sociali. Penso ad esempio all'assalto di Rifondazione all'accordo sindacale del 23 luglio di un anno fa...

Ma quello era un accordo che non poteva essere digerito..

Non è vero. Era un buon accordo. Era stato approvato da un referendum sindacale con l'85 per cento di consensi. Rifondazione lo ha contestato in quel modo così aspro avendo attenzione più al dibattito interno alla Cgil che non al rapporto con la società italiana. Io avrei capito contestazioni di Rifondazione alla linea del governo, anche molto dure, su altre questioni. Su alcune scelte di politica economica che avevano una impronta tecnocratica, per esempio sulla prima finanziaria, quella da 30 miliardi, che forse era eccessiva...

Sulla politica estera Rifondazione è stata molto leale.

Obtorto collo. Diceva: «Voto per disciplina», ma poi sommergeva di critiche la politica estera. In Parlamento molti vostri deputati e senatori dicevano cose orribili della politica estera. Tanto che io mi chiedevo: ma in che modo il gruppo dirigente di Rifondazione ha scelto i suoi parlamentari? Adesso ho capito che in realtà Rifondazione rappresentava settori politici e di società molto più estremisti di quello che io pensassi. E mi spiego la rottura. E capisco che non era possibile nessun'altra scelta che la fine della collaborazione.

Secondo te dal congresso del Prc sono venuti solo segnali negativi?

Trovo utile la volontà di dar voce ad una questione sociale che si propone in termini sempre più drammatici. Credo che sia una strada che dovremmo percorrere anche noi del Pd. Che su quel terreno, sia noi che voi dovremmo contendere lo spazio alla destra. Questa è l'unica luce che vedo spuntare da Chianciano. Il tema che viene posto è vero, è un tema classico e sacrosanto di tutta la sinistra: l'uguaglianza o perlomeno la lotta alle crescenti e intollerabili diseguaglianze sociali. Ed è un tema che interessa anche noi, che deve interessarci. E comunque penso che se il Prc si mette a svolgere questo compito, se fa un buon lavoro, contribuisce all'equilibrio democratico del paese.

La sinistra radicale è in crisi. Ma Il Pd non è in ottime condizioni di salute, né in grado di indicare grandi prospettive. La destra sta trionfando?

Non mi pare. I rapporti di forza fondamentali sono quelli consolidati. La mia paura è che torni una specie di bipartitismo imperfetto. Con una forza riformista che non trova più la via del governo. Come era negli anni '80, con la Dc che comandava e il Pci che restava fuori. Alle elezioni di aprile il Pd ha subito una sconfitta consistente, raccogliendo 3 milioni e mezzo di voti meno della destra. Il rischio che vedo è che il Pd diventi una minoranza strutturale.

In questo quadro non diventa decisiva la possibilità di alleanza con la sinistra radicale?

Il problema è costruire un nuovo centrosinistra, imperniato sul Pd, che ha un ruolo fondamentale ma non esclusivo. Dopo il congresso di Rifondazione, mi sembra difficile che da quella parte possa venire un contributo a questo progetto. In fondo si sta superando quella anomalia italiana che consisteva nel fatto che in Italia - e solo in Italia - c'era una sinistra radicale interessata a misurarsi con l'ipotesi di partecipare al governo. Ora non è più così. In Italia, come in Europa, c'è una sinistra riformista, che sfida i conservatori per governare, e una sinistra radicale all'opposizione comunque. E' così, da tempo, in Spagna, in Portogallo, in Germania: ovunque. L'Italia costituiva una originalità, che ora è stata cancellata.

Questo vuol dire anche fine della collaborazione nei Comuni e nelle regioni?

Spero di no. Bisogna sempre evitare che meccanismi di politica nazionale si riflettano automaticamente sulle realtà locali.

Si va verso le elezioni europee. C'è il rischio di una riforma della legge elettorale con uno sbarramento così alto da impedire l'accesso al Parlamento della sinistra?

Io credo che uno sbarramento al 3 per cento sia necessario, per evitare un eccesso di frammentazione. L'importante è che lo sbarramento non sia troppo alto, e soprattutto che avvenga su base nazionale e non in ogni circoscrizione elettorale. Cioè che non sia cancellato il recupero dei resti. Altrimenti uno sbarramento del 3 per cento può diventare in realtà del 7 o dell'8. E questo non sarebbe democratico.


il Riformista 31.7.08
Ferrero a D'Alema: «Parliamo»
«D'Alema più realista di Vendola»
«Tremonti fa un'analisi corretta della globalizzazione»
di Alessandro De Angelis


«Voglio dire a Nichi che l'egemonia della destra la vedo eccome». E ancora: «Con questo Pd niente alleanze, non col Pd in generale». Il neosegretario di Rifondazione Paolo Ferrero, in una conversazione col Riformista , manda un messaggio a D'Alema: «A D'Alema dico: non interessa al Pd se riportiamo a votare i nostri?».

Ferrero, Vendola l'accusa di non aver capito la destra.
«È una tesi completamente priva di fondamento. L'egemonia della destra la vedo eccome. E ha due elementi di forza enormi».

Quali?

«Il primo è che Berlusconi ha vinto proponendo un suo immaginario. Per dirla in breve: chi è ricco ha ragione, chi è povero ha torto; o il fatto che i problemi sociali vengano vissuti come problemi individuali e non collettivi. Il secondo è che ha vinto sul terreno concreto: Tremonti è l'unico che fa un'analisi corretta della globalizzazione».

Si spieghi meglio.
«Il movimento no global di qualche anno fa era entrato in sintonia con il senso comune. Poi è andata in crisi la globalizzazione. E dentro questa crisi sono aumentate l'insicurezza e la paura del futuro. Tremonti si è messo in sintonia con questa paura della società e la destra ha vinto. La sua idea, però, è che la coperta è corta e non può coprire tutti. Quindi alcuni non possono essere garantiti: i cinesi, i rom, gli immigrati. È un modello reazionario».
E voi?
«Il centrosinistra su questo ha balbettato. Veltroni ha scimmiottato il kennedismo degli anni Sessanta proponendo, in una società dominata dalla paura, una sorta di mito della "nuova frontiera"».

Invece?
«Invece la vera battaglia per l'egemonia dobbiamo farla veramente con la destra. Vendola e Giordano mi accusano di voler fare l'opposizione più al governo ombra che al Pd. È una sciocchezza».

Quindi niente alleanze col Pd?

«Finché il Pd tiene questa linea politica alleanze organiche per il governo del paese no. Ma non col Pd in sé. Questo Pd non assomiglia nemmeno lontanamente a una socialdemocrazia che vuole le riforme».

E cioè da dove ripartite?
«Il nodo è sociale. Se è vera l'analisi che ho fatto sulla vittoria della destra, noi dobbiamo ripartire dal conflitto. Se lo schema Tremonti ci impone il conflitto tra ultimi e penultimi, noi dobbiamo riappropriarci del conflitto del basso contro l'alto per ricostruire una comunità. E dal punto di vista simbolico dobbiamo ripartire dal comunismo come giustizia sociale e libertà. Dire "siamo tutti uguali" non è anticaglia».

E il Pd?
«Guardi Bersani e D'Alema sono più realisti di Nichi su questo punto».

D'Alema ieri su Liberazione ha parlato di una Rifondazione più isolata e più arretrata.
«Capisco che l'esito di Chianciano scompiglia il suo schema. Tuttavia c'è un punto in cui D'Alema dice: "Trovo utile la volontà di dar voce a una questione sociale che si pone in termini sempre più drammatici". E aggiunge che è l'unica luce che vede spuntare da Chianciano. Io dico: è una grande luce».

Vuole dialogare con D'Alema? 
«Diciamo così: sembrava che alla crisi della società si potessero dare risposte solo partendo dal piano istituzionale. Badi che io sono d'accordo con D'Alema che il riordino istituzionale sia necessario e sono anche d'accordo sul modello tedesco da lui sostenuto. Ciò detto il punto decisivo è un altro».

Quale?
«Il problema della sinistra è tornare nella società. Lo voglio dire anche a D'Alema. Il risultato elettorale mostra come la destra non ha aumentato il suo bacino elettorale, invece soprattutto i nostri sono rimasti a casa. Credo che sia un problema anche della sinistra moderata far tornare a votare qualche milione di persone. O no?».

E le giunte?
«È un'invenzione che usciremo dalle giunte. Vedremo caso per caso. In Abruzzo abbiamo chiesto al Pd di rinnovare le sue liste ed escludere gli inquisiti. In Calabria, dopo che siamo usciti dalla giunta anche sulla questione morale, credo che sia sbagliato rientrare. Guardi che la questione morale è importante».

La combatterete con Di Pietro che, però, tanto di sinistra non è.
«È vero che il dipietrismo ha elementi di destra. Ma non possiamo regalare a lui il tema della questione morale. Sarebbe una follia. È un nostro tema. Basta rileggere Berlinguer o le denunce che faceva il Pci su tanti scandali».

Quindi sosterrete i suoi referendum sul lodo Alfano?
«Se c'è un referendum è giusto sostenerlo. Poi credo che non sia giusto farli solo sul lodo Alfano. Andrebbero abrogate la legge 30, la Fini-Giovanardi. Ma non è che se Di Pietro dice una cosa giusta noi diciamo di no perché è Di Pietro. Il punto è un altro e lo voglio dire a Nichi: noi dobbiamo mettere in campo una Rifondazione in grado di riempire le piazze sulla questione morale».

Lei è sostenuto da una maggioranza dove qualcuno si definisce trotzkista, altri leninisti. Siete un po' extraparlamentari?
«Che siamo fuori dal Parlamento è un dato di fatto, ma noi in Parlamento ci vogliamo tornare. Non sono un estremista. Per un comunista la politica è provare a modificare i rapporti di forza nella società. Anche D'Alema riconosce che in tutta Europa la sinistra radicale è all'opposizione».

Sì, ma la vede come la fine di una anomalia positiva.
«Mettiamola così. La Linke non è fatta di estremisti ma di gente come Lafontaine che è stata al governo e che ora non vede condizioni per un accordo con l'Spd. Io pure sono stato al governo e non vedo le condizioni di un accordo col Pd, con questi rapporti di forza e con questa linea del Pd. Ci ho provato, ma ho visto che Montezemolo e le gerarchie ecclesiastiche contavano più di me, e non solo più di me».

Alle europee andrete con Diliberto?

«Andremo col nostro simbolo. E faremo i diavoli a quattro se mettono lo sbarramento, anche al tre per cento, o se tolgono le preferenze».

Si è sentito con Bertinotti?
«Sì, l'ho chiamato io e ci siamo dati appuntamento a settembre. Sto anche chiamando tutti i segretari delle forze politiche di sinistra e di centrosinistra per incontrarli. Guardi, le do una notizia: mi hanno chiamato anche dal centrodestra».
 Anche il Cavaliere? 
«No. Lui no».

il Riformista 31.7.08
Lettera al nuovo segretario del Prc
Caro Ferrero, tanti auguri per l'incarico
Non possiamo stare senza comunisti
C'è bisogno di un partito che si rifaccia a Togliatti e Berlinguer
di Francesco Cossiga


Caro Ferrero, mi congratulo con te per la tua elezione a segretario di Rifondazione Comunista e ti auguro, e mi auguro!, che tu riesca nel disegno tuo e di altri tuoi compagni di ricostituire una sinistra che renda attuale la tradizione, le idealità, l'esperienza e la passione politiche del Partito comunista italiano in fedeltà all'ideologia marxista-leninista. Vi sarà certamente chi, ma sicuramente non tu, si meraviglierà per questa mia lettera e soprattutto per questi miei auguri, che io non solo formulo a te, ché potrebbe anche essere un semplice atto di cortesia, ma come cittadino della comune Repubblica e come democratico, io formulo a me stesso.
Come più volte ho detto e scritto, io credo che non vi sia e non si possa "fare politica", e quindi governare democraticamente uno Stato che è stato pensato e vuole essere democratico, senza partiti e senza un chiaro riferimento culturale a quelle che in Europa sono state e sono le grandi culture politiche: quella conservatrice democratica, penso al partito conservatore di Winston Churchill, e al conservatorismo antifascista e "resistenziale" di Charles De Gaulle, quella liberale, quella cristiano-democratica, quella socialdemocratica e laburista, e infine quella comunista, e per quanto riguarda il nostro Paese, nella specificità del pensiero gramsciano e dell'iniziativa politica, il partito nuovo di Palmiro Togliatti e il partito nazionale e europeo di Enrico Berlinguer, forza determinante della Resistenza, della costruzione dello Stato democratico e della sua difesa da tentazioni golpiste, anche isolando le sue sparute frange estremiste velleitariamente "rivoluzionarie", e combattendo duramente la sovversione di sinistra e l'eversione di destra. 
In una stagione politica e di pensiero, o meglio, salvo qualche eccezione, di "non pensiero": tra un Partito democratico - per il quale io ho peraltro votato pur non comprendendo in realtà per che cosa mai votassi - strano coacervo di "profughi democristiani", di cattolici integralisti, di socialisti allo sbando e di "comunisti non comunisti", che si rifanno al pensiero kennedyano-clintoniano-obamaniano - e il Popolo delle Libertà, in cui convivono ex democristiani, socialisti, liberali e "missini convertiti", io credo che ci sia bisogno di un partito che si rifaccia al comunismo di Togliatti e Berlinguer e anche di un partito "nuovo" di carattere cattolico e liberale riformista.
Ho stima per Nichi Vendola, un cattolico progressista che si richiama a quel "populismo sociale pugliese" che accomunava Di Vittorio e Tatarella. Da anni sono amico di Fausto Bertinotti che stimo, ma non ho mai compreso la sua "deriva" ambientalista e pacifista e di rifiuto teorico della violenza, come se con il pacifismo e senza violenza ci sarebbe mai potuta essere la Rivoluzione americana, la Rivoluzione francese e la Rivoluzione d'Ottobre, la Guerra Patriottica da Ovest ad Est e la Resistenza contro il nazi-fascismo, perfino da parte di militari, laici e sacerdoti cattolici e protestanti tedeschi! 
Ho deplorato che un iniquo sistema elettorale abbia tenuto fuori del Parlamento la così detta "sinistra radicale" e ho considerato ciò anche pericoloso, in quanto solo una sinistra comunista può essere punto di riferimento istituzionale e "metabolizzare" in senso democratico il "movimentismo" che esiste, volgendolo alla "politica" e distogliendolo da un'utopica "violenza rivoluzionaria", e rifare del sindacato, oggi quasi solo lobby impiegatizia e di pensionati, oltre che di così detti quadri, un soggetto politico-culturale che tuteli i lavoratori ma faccia anche avanzare la democrazia nel nostro Paese. E spero che tu riesca a costituire un polo unico di comunisti democratici.
Spero parimenti e mi auguro che l'amico Massimo D'Alema riesca a portare il Partito democratico, compresa la sua componente della ex sinistra sociale e i cattolici democratici di derivazione sia comunista cattolica che "dossettiana" nel movimento socialdemocratico e quindi nell'Internazionale Socialista e nel Partito socialista europeo: l'era della Democrazia cristiana di De Gasperi, di Moro, di Fanfani e di Andreotti è definitivamente tramontata con la fine della Guerra Fredda e con il Concilio Vaticano II. Questo io affermo e auguro a te e ai tuoi compagni, da cattolico-liberale e quindi "liberal-riformista".


il Riformista 30.7.08
Lella Bertinotti difende il marito: «Sono preoccupata per il futuro del partito»
«A Fausto undici minuti di applausi. E basta con la storia del cachemire»
«Anche Ferrero frequenta i salotti»
di Alessandro De Angelis


«Non mi risulta che Ferrero abbia mai rinunciato a una apparizione televisiva». La signora Lella, moglie di Fausto Bertinotti, non ha tanta voglia di parlare di politica. Ma, ora che non è più la first lady di Rifondazione, in una conversazione col Riformista qualche sassolino dalla scarpa se lo toglie. E l'accusa di Ferrero («Meno televisione, più popolo») la rispedisce al mittente.
Signora Bertinotti, come ha vissuto il congresso di Rifondazione?
«Bene. Io vedo la parte commuovente. Undici minuti di applausi a Fausto sono stati davvero tanti».
È ancora lui il leader?
«Questo non spetta a me dirlo. Ma quell'applauso non è stato fatto a nessuno. È il giusto riconoscimento a chi ha saputo tenere unito il partito per tanti anni. E a Chianciano si è visto quanto è difficile l'unità di un partito con tante anime come il nostro. Ma la cosa che mi ha colpito di più è l'affetto di tanti compagni delle province».
Che vi hanno detto?
«In tanti hanno detto a Fausto "grazie per quello che hai fatto per noi", "ti vogliamo bene", e "grazie per quello che ci hai insegnato"».
Non Ferrero.
«Lei ha scritto articoli cattivissimi. Non è mica vero che Fausto e Paolo non si sono salutati. Si sono anche abbracciati».
Dopo due giorni di congresso, per dare un segnare. Poi Ferrero vi ha accusato: «Meno tv e più popolo».
«Mi risulta che tutte le volte che lo hanno invitato è andato. C'è mai stato un invito in tv che ha rifiutato?».
E i salotti?
«Ora che posso parlare liberamente le dico che non ci sono mai stati. Basta con questa storia. Siamo stati per anni etichettati come snob. Certo ci sarà stata qualche cena in quelli che lei chiama salotti. Ma non eravamo gli unici».
Cioè?
«A casa di Carlo De Benedetti c'era anche Ferrero con la sua compagna. Per il resto io e Fausto abbiamo fatto una vita con gli amici e i compagni di sempre. Anche a casa Angiolillo, per dirne un'altra, siamo andati due volte in ventitré anni. Adesso mi chiederà dei cachemire?».
Visto che ha tirato in ballo l'argomento.
«Non ci sono mai stati tutti questi cachemire. Il primo lo comprammo a via Sagno a 25 mila lire. Un altro ce lo ha regalato una magliaia amica di Ramon Mantovani e ce lo portò lo stesso Ramon».
Lei si sente comunista?
«Certo che sono comunista. Lo sono sempre stata e lo sarò sempre».
Che effetto le ha fatto vedere che una parte dei militanti cantava Bandiera rossa per screditare l'altra?
«È una canzone bellissima. La canto anche io. È patrimonio di tutti».
Dopo il congresso lei e Fausto siete amareggiati?
«Amareggiati? Guardi che noi siamo grandi combattenti. Abbiamo una vita piena e bella comunque. Abbiamo sentito attorno il calore di tanti compagni».
Torniamo alle emozioni.
«Sì. Vale anche per Fausto. Lui si emoziona sempre. Ed è giusto così. Chi non si emoziona ci fa paura. Poi il suo era l'ultimo discorso da leader. Anche Nichi è stato bravo. Il merito di Fausto è di aver tirato su dei ragazzi per bene e bravi. Li ha visti?».
Io ho visto un congresso un po' avvelenato.
«Diciamo che è stato un congresso pirandelliano. Qualcuno ha giocato ad avere tre parti in una. Alla fine ci ha rimesso solo Franco Giordano che dopo la sconfitta ha rassegnato le dimissioni. Gli altri che erano al governo è come se non ci fossero stati».
Che farà ora Fausto?
«Leggerà di più, continuerà a studiare restando, come sempre, a disposizione della causa. Avrà anche un insegnamento all'università e si occuperà della rivista e della Fondazione che sta mettendo su».
E lei?
«Farò quello che ho sempre fatto. La militante di base, la nonna. Finalmente, andrò a teatro senza essere accusata di snobismo. E avrò un marito, che per anni ho prestato al partito. Quando lui era segretario di Rifondazione, infatti, uscivo con una mia amica che è divorziata e una che è vedova. Ma alla sera mi dicevo: io un marito ce l'ho».
Che accadrà a Rifondazione?
«Sono molto preoccupata per il futuro. È un partito diviso a metà. Non voglio e non posso dare consigli. Spero solo che Rifondazione continuerà ad esistere».

il Riformista 30.7.08
Parla Vendola: «Sì al dialogo col Pd. Di Pietro? È di destra»
Vendola: «Chiediamoci perché oggi Cipputi vota Lega e se è in crisi si rifugia nella cocaina e non nel sindacato. Di Pietro esprime valori di destra»
«la politica è interlocuzione, non capisco il feticismo delle formule magiche»
«Col Pd voglio parlare. Ferrero? Un extraparlamentare»
di Alessandro De Angelis


«Ha ragione Bersani, su molti punti a partire dalla questione dell'ideologia». E ancora: «Certo che voglio dialogare col Pd». Nichi Vendola si è concesso, dopo la sconfitta a Chianciano, un giorno di tregua («Dovevo riconciliarmi con i verbi fondamentali della vita», dice). Ieri, in una conversazione col Riformista è tornato a parlare di politica, a partire dall'intervista di Bersani su questo giornale.
Vendola, su quali punti è d'accordo con Bersani?
«Sulla crisi delle ideologie. Non c'è costruzione possibile del consenso e dell'egemonia, se non si ha una narrazione del mondo, una weltanschauung. Questo punto è importante perché l'analisi della sconfitta è dirimente per la strategia. Ferrero non vede l'egemonia della destra, il suo immaginario, il suo linguaggio. Si limita a enfatizzare il tradimento e la subalternità della sinistra moderata ma non analizza come sono mutati i rapporti di forza in Italia e nel mondo».
Quindi serve una ideologia.
«Sì. L'ideologia non è l'ideologismo, il richiamo a cimeli da museo. Al berlusconismo devi contrapporre una critica della globalizzazione. Questo significa, ad esempio, cogliere le mutazioni antropologiche in fabbrica dove Cipputi non c'è più, e se c'è vota Lega. Per non parlare di quando, per solitudine, si rifugia più nella cocaina che nel sindacato. Dico questo perché il lavoro senza classe non è una categoria politologia, è la crisi di una forma di comunità».
È questa la sfida per la sinistra?
«Sì, e non si risolve col proselitismo verbale. L'unità dei comunisti di cui parla Ferrero è un percorso all'indietro. È un'idea nostalgica, liturgica, da accademici della chiacchiera: la realtà deve adattarsi a una dottrina e non il contrario».
Lei ha annunciato una corrente: Rifondazione per la sinistra.
«Rappresentiamo una storia importante che intende comunicare con l'esterno. Siamo la metà del partito. È faticoso racchiudere questo flusso di energie e di storie nel recinto del correntismo. Faremo un lavoro nel partito e nella società rifiutando di gestire insieme la linea avventurista di Ferrero».
Col Pd parlerete?
«Col Pd si deve parlare: con Bersani, con Veltroni. La politica è fatta di interlocuzione, di valutazione lucida e laica delle alleanze da fare. Non capisco il feticismo delle formule magiche. Dire "mai al governo" è una formula simmetrica a quella di tanti pseudoriformisti che dicono "mai all'opposizione". Come se sia l'una che l'altra fossero scelte di fede e non politiche».
La parola alleanze per lei non è un tabù.
«Lo dico a chi esibisce carati di comunismo: da Marx in poi, per non parlare di Gramsci, Togliatti, Berlinguer, c'è una sterminata letteratura su alleanze, compromesso. L'idea ferreriana di un sociale come lavacro dove ripulire le scorie del mondo è una fuga dalla politica».
Ferrero ha logiche extraparlamentari?
«Essere extraparlamentari è un dato di fatto, visto che non siamo in Parlamento. Ma assorbire l'identità extraparlamentare è un altro fatto. Come se le istituzioni fossero terreno di degrado e non di lotta. Al congresso ci hanno pure chiamato "gli istituzionali", categoria nella quale non compariva chi ha fatto il ministro».
E Di Pietro? Il neosegretario considera giusto appoggiare i suoi referendum sul Lodo Alfano.
«Sono molto turbato da questa forma di subalternità al dipietrismo. Noi abbiamo la necessità di essere impegnati in una battaglia contro forme di razzismo e capire, pure attraverso un'indagine nel nostro partito, perché alcuni stereotipi sono entrati anche in noi. Noi dobbiamo avere il senso dell'egemonia nostra e non essere calamitati in quella di Di Pietro. L'attivismo referendario invece porta acqua ad altri mulini».
Di Pietro, per lei, è di destra?
«Certo che il dipietrismo esprime una cultura e dei valori di destra. Manca la connessione tra crisi democratica e crisi sociale. E se noi ci collocassimo nella sua battaglia non riusciremmo ad evidenziare il profilo feroce e di classe di chi ci governa. Per noi è difficile una battaglia a difesa della nostra civiltà giuridica, a difesa dei rom, dei clandestini, delle libertà personali se si abbandona la bandiera del garantismo».
Si spieghi meglio.
«Il garantismo è parte della battaglia sociale di fronte al securitarismo e alla fabbrica delle paure della destra. Per questo è sempre irrinunciabile nella costruzione della sinistra. Non lo si può riscoprire solo quando vanno in galera i ragazzi della rete dei disobbedienti».
Lavorerà per un nuovo centrosinistra?
«Per me l'impegno fondamentale è la ricostruzione della sinistra di alternativa nella società e nella politica. Poi sul fallimento dell'Unione serve un'analisi puntuale. Quello schema è morto, si è frantumato per due ragioni».
Le elenchi.
«La prima è la divisione del lavoro tra i riformisti che governano, e i radicali che fanno testimonianza. Ognuno parlando al proprio bacino elettorale. La seconda riguarda la politica economica che è stata cieca e non ha visto la crisi del lavoro e le nuove povertà. Ma neppure lo sgretolamento del ceto medio».
E il nuovo centrosinistra?
«Si parte dalla critica alla destra e dalla capacita di tessere reti nella società e alleanze politiche, per dirla con un lessico togliattiano. Come si può esorcizzare il confronto col Pd? È chiaro: noi dobbiamo avere la nostra linea del Piave. Se il Pd ha atteggiamenti che si arruffianano le culture razziste, allora litighiamo col Pd, rompiamo. Ma il tema alleanze non è un sofisma».
Vale anche per la vostra presenza nelle giunte in Calabria, a Milano e in Liguria su cui, nel suo partito, si litiga?
«È un peccato che la Calabria diventi la metafora dei rendiconti intestini di Rifondazione. Non c'è una parte del partito più affezionata dell'altra al tema della questione morale. Deve prevalere l'affidamento del partito al territorio, e una discussione non viziata da schemi strumentali. I compagni calabresi faranno la loro scelta se rientrare o meno in giunta. In Abruzzo abbiamo fatto denunce sulla sanità privata ma il Prc, guidato da un ferreriano di ferro, non decise di uscire dalla giunta. Lo stesso vale per la Liguria o a proposito delle ultime dichiarazioni di Penati che non sono certo un documento di civiltà. Si deve discutere laicamente».

il Riformista 30.7.08
Ma Veltroni dice: «Occupiamoci di noi»
di Tommaso Labate


«Invece di parlare tanto di Rifondazione comunista, da oggi in poi occupiamoci di noi stessi». Basterebbe da sola questa frase, pronunciata dal segretario durante la riunione del coordinamento ristretto del Pd, per capire quando Walter Veltroni sia infastidito dal dibattito che si è aperto nel partito dopo le assise del Prc.
Ai piani alti del Nazareno, per la precisione nell'ala popolare, c'è anche chi ha messo in guardia il segretario affidandogli una maliziosa lettura sull'attivismo dei dalemiani. Della serie: «Walter, e se il loro obiettivo fosse quello di traghettare Vendola e i suoi da noi prima delle Europee?».
Non è dato sapere quanto Veltroni creda all'ennesima versione delle teoria del complotto dalemiano. Ma è certo che il segretario non ha gradito quelli che i suoi fedelissimi - prendendo a esempio l'intervista rilasciata ieri da Pier Luigi Bersani al Riformista - considerano «messaggi in bottiglia». Da qui, l'«occupiamoci di noi stessi», rivolto soprattutto all'ex ministro dello Sviluppo economico. «Lo so - ha scandito Veltroni - che c'è il problema delle giunte regionali, così come so benissimo che vanno costruite delle alleanze per le prossime amministrative. Nessuno ha mai detto che dobbiamo andare da soli. Adesso però dobbiamo occuparci soprattutto del Pd, senza dimenticare che le assise di Rifondazione hanno dimostrato che abbiamo imboccato la strada giusta».
Sulla linea di Veltroni, seppur con qualche distinguo, si è attestato anche Goffredo Bettini. Pier Luigi Bersani, invece, ha tenuto il punto: «Dobbiamo mantenere alta l'attenzione a quel che succede a sinistra. Trascurare quello che accade dopo il congresso di Rifondazione sarebbe un grave errore».
Prima che si passasse oltre, sia Paolo Gentiloni sia Enrico Letta hanno messo a verbale la loro contrarietà all'ipotesi di continuare a cercare un canale di dialogo col Prc. Non a caso, tanto l'ex ministro delle Comunicazioni quanto l'ex sottosegretario di Palazzo Chigi sono i due esponenti del partito che nelle ultime settimane hanno insistito di più sulla necessità di un'alleanza hic et nunc con Pier Ferdinando Casini (il quale ha più volte ribadito il suo «mai con Rifondazione comunista»).
La pratica Prc non è stata l'unica esaminata ieri dal coordinamento ristretto del Nazareno. All'ordine del giorno c'erano anche il caso della Calabria, dove i circoli del Pd non esistono e la situazione - come ha detto Marco Minniti - «rischia di peggiorare se non la affrontiamo come si deve»; e la tattica parlamentare da mettere a punto sul voto del Senato a proposito di Eluana Englaro. Oltre a quella che rappresenterà, almeno così si scommette nei corridoi del quartier generale, «la prossima patata bollente da gestire»: la presidenza della commissione di Vigilanza sulla Rai.
La candidatura di Leoluca Orlando, su cui c'è un veto di tutti i partiti della maggioranza, rimarrà in pista ancora per poco. La novità dell'esecutivo di ieri - stando a quel che riferisce un partecipante - è rappresentata da fatto che «il Pd continuerà a sostenere la sua corsa soltanto se l'ex sindaco di Palermo prenderà nettamente le distanze da Di Pietro». Dal canto suo, il leader dell'Italia dei valori, parlando con l'Agi, ha smentito passi indietro: «Noi diamo atto alle altre forze di opposizione per la coerenza con cui stanno difendendo la candidatura di un esponente dell'Idv alla presidenza della commissione: anche perché se oggi l'atteggiamento della maggioranza è questo con noi, domani potrebbe esserlo con il Pd o con l'Udc».
Per quella poltrona le nomination (vere e presunte) si sprecano: da Nicola Latorre (candidatura caldeggiata non solo dai dalemiani, ma anche da Bettini) a Paolo Gentiloni, da Giovanna Melandri a Giorgio Merlo (è una delle "carte" uscite dal mazzo dei popolari), fino a Emma Bonino (il copyright dell'idea è di Peppino Caldarola, che ne scrive in prima pagina su questo giornale). Come se ne esce?
Tra gli stessi veltroniani c'è chi sospetta che il segretario abbia già in tasca un «piano B». E un nome: quello di Beppe Giulietti, deputato del gruppo dell'Italia dei valori e storico portavoce dell'associazione Articolo 21 . Nella maliziosa ricostruzione che fanno fonti del Nazareno vengono messi insieme la presa di distanza di Giulietti da Di Pietro dopo i fatti di piazza Navona e la sua decisione di rimanere comunque (al contrario dell'onorevole Touadi) all'interno del gruppo parlamentare italvalorista. Se il sospetto si rivelasse fondato, lanciando Giulietti Veltroni manterrebbe "tecnicamente" fede alla promessa di lasciare all'Italia dei valori la presidenza della commissione.
La voce gira già da alcuni giorni ma si è amplificata ieri pomeriggio, quando una delegazione di Articolo 21 ha varcato il portone del Nazareno per annunciare a Veltroni il sostegno dell'associazione alla manifestazione del Pd convocata per il 25 ottobre a piazza San Giovanni. Durante l'incontro, a cui ha partecipato anche Paolo Gentiloni, si è parlato anche di Rai. Il segretario del Pd ha riproposto per viale Mazzini «una fondazione e la figura di un amministratore unico, un manager che la commissione di Vigilanza scelga con maggioranza qualificata». Giulietti ha replicato applaudendo alla «giusta proposta di Veltroni contro i soliti noti».

Duemila costituenti per cominciare

Non aspettiamo che siano i partiti ora esclusi dal Parlamento a far partire un effettivo processo costituente di quella nuova forza politica combattiva e seria a cui aspiriamo.
Siamo interessati e disponibili a impegnarci in prima persona con una quota di tempo e di risorse.
Sentiamo il forte bisogno di una nuova formazione politica che raccolga l'ispirazione e la collocazione di quello che è stato il tentativo della Sinistra Arcobaleno, ma senza quelle caratteristiche di verticistica lottizzazione che ne hanno rovinato la nascita.
Una forza che raccolga per quanto è possibile la sinistra diffusa delle battaglie e delle buone pratiche per l'ambiente, i diritti, il lavoro, la giustizia e l'inclusione sociale, la pace, la legalità costituzionale democratica, la questione morale.
Lo sforzo principale sarà quello di costruire le condizioni di una buona politica, di candidature caratterizzate da effettivo impegno e spirito di servizio, di un rapporto democratico ed efficace tra militanti e dirigenti, tra eletti ed elettori.
Pensiamo e chiediamo che i partiti che avevano dato vita alla Sinistra Arcobaleno mettano a disposizione ciò che resta delle loro risorse, esperienze e reti per un processo costituente che dev'essere abbastanza rapido: in modo da andare di pari passo alla battaglia di opposizione al governo Berlusconi e in modo da preparare per tempo gli appuntamenti elettorali dell'anno prossimo ai quali non si può validamente andare divisi coi vecchi simboli.
Ma in ogni caso facciamo partire un censimento delle disponibilità e una prenotazione delle iscrizioni.
Alla costruzione di una forza politica il cui nome, programma fondamentale e statuto andranno definiti entro l'autunno attraverso consultazioni on line ed assemblee regionali ci sentiamo di impegnare
a) una attenzione di mediamente almeno qualche minuto al giorno di informazione tramite lettura di notizie e risposte rapide in Internet o posta elettronica
b) una disponibilità di mediamente almeno 4- 5 ore al mese di partecipazione a riunioni o iniziative che comportino presenza fisica di contatto coi cittadini
c) il versamento di un contributo pari ad almeno il 3 per mille del reddito annuale e comunque di almeno 30 euro l'anno (15 per under 25, 20 per under 30)
Facciamo circolare questa dichiarazione collettiva e consideriamo che gli impegni sottoscritti e l'iniziativa costituente scattano pienamente nel momento in cui avremo raggiunto le duemila adesioni nazionali, con almeno cento adesioni per regione in almeno dieci regioni italiane. Duemila si intendono al netto dei "politici" ( tipo consiglieri regionali e provinciali, dirigenti nazionali etc). Mandateci i vostri dati a duemilacostituenti@gmail.com
Ovviamente sono valide e gradite iniziative parallele, basate sullo stesso principio di sottoscrizioni di impegni. Il lancio anche pubblicitario della raccolta avverrà il 3 settembre.
Vanda Bonardo, Diego Novelli, Alba Di Carlo, Luciano Pregnolato, Massimo Bongiovanni (Torino), Ilaria Bonaccorsi, Massimo Serafini (Roma), Paolo Hutter (To- Mi), Gigliola Cordiviola, Isa Mariani (Ravenna), Virginio Bordoni (San Giuliano Mi), Paolo Oddi, Irene Pavlidi (Milano), Velio Coviello (Chambery -To), Franco Astengo

SINISTRA: L'OPPOSIZIONE È NELLE NOSTRE MANI
La sinistra deve fare la sua parte nella costruzione dell’opposizione contro il governo Berlusconi. Se la sinistra venisse meno a questo suo elementare compito non vi sarebbe nessuna efficace azione di contrasto alle politiche della destra oggi al comando del paese.
Nel Seminario di Firenze dello scorso 5 luglio “Di chi è la politica? Le diverse forme e modi dell’agire politico” è stata esplorata, da tante e tanti, la questione complessa del rinnovamento delle modalità e dei meccanismi di azione della politica, indispensabile alla ricostituzione di una sinistra unita e plurale nel nostro paese. Si è assunto l’impegno di pubblicare i contributi alla discussione il più presto possibile.
Ma altrettanto vitale è innescare in questo momento drammatico nuove capacità di coordinamento e di lotta, attivando processi di mobilitazione e dando il nostro contributo a quelli che sorgono spontaneamente, rafforzando la loro unitarietà. In pochi mesi di attività il governo Berlusconi sta erodendo gravemente alcuni dei pilastri fondamentali della democrazia: le schedature e le impronte ai rom adulti e bambini e l’introduzione del reato di immigrazione clandestina alimentano direttamente un’ondata di razzismo e di xenofobia. L’uso dell’esercito in compiti di ordine pubblico e antisommossa rende esplicite le pulsioni autoritarie del governo. Vengono definitivamente meno l’universalità dei diritti, il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il carattere personale della responsabilità giuridica, l’obbligatorietà dell’azione penale. Nel mordere della crisi economica che allarga la forbice fra inflazione e retribuzioni il Decreto legge 112 (“manovra finanziaria”) aggrava le condizioni materiali di vita delle persone e lede ulteriormente i diritti del lavoro, mentre fasce crescenti di popolazione sono colpite da pesanti difficoltà economiche che alimentano un senso di rabbia ma anche di isolamento. Si approfondisce la precarietà e l’insicurezza nel lavoro e si attaccano i diritti sindacali. L’ambiente è minacciato dal ritorno di un nucleare pericoloso quanto impotente, i beni pubblici – l’università statale, i servizi sanitari, la scuola pubblica, la tutela dei beni culturali del territorio e del paesaggio – sono minacciati a morte. Si tolgono risorse ai Comuni spingendoli a tagliare i servizi sociali, a privatizzare le municipalizzate ed alienare il patrimonio pubblico senza più alcun controllo urbanistico da parte delle regioni.
Di fronte a tutto questo la sinistra è frantumata e silenziosa, consumata da faide interne. Più si prolunga il silenzio e più l’effetto è devastante e la disgregazione si fa inarrestabile.
Per contrastare questa deriva noi proponiamo l’avvio fin da ora, nel corso dell’estate, di un percorso di estesa attivazione delle forze e delle coscienze, che miri alla ripresa su basi nuove dell’opposizione al governo Berlusconi e al berlusconismo.
Il primo passaggio necessario è proprio costituito dall’opposizione diffusa alla manovra finanziaria (DL 112), con l’impegno a farne scaturire dopo l’estate una grande mobilitazione unitaria della sinistra in tutte le sue varie componenti e sfaccettature.
Crediamo che una simile mobilitazione sia anche il miglior strumento per riprendere il cammino reale del processo costituente dal basso di una sinistra nuova, unita e plurale, che sperimenti un lavoro capillare, decentrato e democratico, in modo che la fiducia di persone provenienti da tradizioni e esperienze diverse cresca insieme con il lavoro comune in un sistema di "autonomie confederate" come forme di associazione e coordinamento, anche ambiziose, fra soggetti differenti, dando voce e casa alle sue tante espressioni diverse tuttora attive sul territorio nazionale – associazioni, partiti, movimenti, singoli individui – che non si rassegnano a sentirsi “esuli in patria” e che ancora (ma per quanto?) rappresentano le forze vive di un’altra Italia.

Anna Picciolini, Massimo Torelli, Andrea Alzetta, Andrea Bagni, Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elio Bonfanti, Paolo Cacciari, Maria Grazia Campus, Giuseppe Chiarante, Stefano Ciccone, Paolo Ciofi, Piero Di Siena, Antonello Falomi, Pietro Folena, Paul Ginsborg, Chiara Giunti, Siliano Mollitti,Andrea Montagni, Fabrizio Nizi, Niccolò Pecorini, Ciro Pesacane, Marina Pivetta, Bianca Pomeranzi, Tiziano Rinaldini, Ersilia Salvato, Mario Sai, Bia Sarasini, Anita Sonego, Aldo Tortorella