venerdì 18 luglio 2008

l’Unità 18.7.08
«Alla Diaz fu macelleria»: chieste 28 condanne per agenti e capi della polizia
di Maristella Iervasi


L’accusa chiede 109 anni, la pena più alta al poliziotto che portò due molotov nella scuola

Per la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel luglio 2001, i pm hanno chiesto 28 condanne - per un totale di 109 anni - per gli agenti e gli attuali vertici della Polizia. Solo per uno di essi è stata richiesta l’assoluzione. Pene di 4 anni e 6 mesi per Gratteri (Direzione Anticrimine) e Luperi (Servizi Segreti).

I FATTI della Diaz sono «violazioni gravi, perchè minacciano la democrazia molto più del lancio delle bottiglie molotov». Quella notte del 2001 a Genova, nella scuola Diaz dove dormivano i partecipanti al Social Forum, «non è stata solamente usata la ma-
no pesante». C’è stata, anche, «la diffusa violazione di norme considerate d’impiccio allo svolgimento dell’azione delle forze dell’ordine». In pratica la sospensione dei diritti. «I generali «sono scesi in campo con casco e manganello a fianco della truppa», senza alcuna premeditazione. Così i pubblici ministeri Erico Zucca e Francesco Cardona Albini a conclusione della requisitoria hanno spiegando le ragioni della richiesta di condanna per 28 dei 29 poliziotti che il 21 luglio di sei anni fecero irruzione alla scuola dove vennero pestati 93 no-global, poi rinchiusi a Bolzaneto. 109 gli anni di carcere in totale, con richieste che variano da 3 mesi a 5 anni di reclusione; tra cui gli attuali vertici della polizia: Francesco Gratteri, all’epoca direttore dello Sco e oggi alla Direzione anticrimine centrale, e Giovanni Luperi, Servizi segreti, ex vicecapo dell’Ucigos. Le accuse vanno da falso ideologico a lesioni, calunnia, arresto arbitrario (che ha ha sostituito il reato di abuso di ufficio)e falso. Per un solo poliziotto, Alfredo Fabbrocini, - difeso dall’avvocato Alfredo Biondi, è stata chiesta l’assoluzione. La sentenza del tribunale, presieduto da Gabrio Barone, è prevista in autunno. La richiesta delle attenuanti generiche accorcerà però i tempi della prescrizione. Nei giorni scorsi la sentenza di Bolzaneto contro agenti e medici accusati di abusi su 200 no-global. Un verdetto «mite»: 15 condanne e 30 assoluzioni.
La pena più alta, 5 anni, è stata chiesta per il vicequestore dell’epoca, Pietro Troiani: accusato di aver piazzato due molotov come tentativo di farle passare come armi trovate in possesso ai no-global. Per lo stesso reato sono stati chiesti 4 anni per il poliziotto Michele Burgio. Per Gratteri e Luperi i pm hanno chiesto 4 anni e 6 mesi ciascuno per falsi verbali sottoscritti, calunnia e falso. Per questi ultimi due reati sono accusati anche Gilberto Caldarozzi, all’epoca vice dello Sco, e Massimiliano De Bernardini, vice questore aggiunto. Poi ci sono i presunti «picchiatori», come Vincenzo Canterini, all’epoca comandante del I° reparto Mobile di Roma con una richiesta di condanna di 4 anni e 6 mesi; il suo vice Michelangelo Fournier per il quale è stata invece chiesta una pena leggermente più bassa: 3 anni e 6 mesi, e otto capisquadra. Fournier è il poliziotto che in aula trovò il coraggio di rompere quello che i pm hanno descritto come un sistema di omertà: fu proprio Fournier a descrivere come «una macelleria messicana» i pestaggi fatti dentro la scuola. Il poliziotto urlò «basta, basta» - come riferito da alcune parti lese - mentre si toglieva con rabbia il casco. Per Spartaco Mortola, invece, ex numero due della Digos del capoluogo ligure sono stati chiesti 4 anni di carcere. Stessa richiesta contro Massimo Nucera, il poliziotto che sostenne di essere stato accoltellato durante il blitz. Infine, la condanna più iù lieve è stata chiesta per l’agente Luigi Fazio.
Scontento il giornalista free-lance inglese Mark Covell, picchiato dai poliziotti: «I pm hanno fatto un ottimo lavoro ma capisco la situazione politica che c’è adesso in Italia». Mentre Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum ai tempi del G8, dice: «Richieste proporzionate all’estrema gravità dei fatti contestati». ma.ier.

l’Unità 18.7.08
Gianclaudio Bressa: «Fu una spedizione punitiva. E si sospesero i diritti civili e umani»
di Maristella Iervasi


«Quello che si è intravisto nel 2001 al G8 di Genova sta diventato legge in questi giorni con il governo Berlusconi». Gianclaudio Bressa, vicepresidente dei deputati del Piddì commenta così le richieste di condanne ai 28 poliziotti per la sanguinosa irruzione alla scuola «Diaz». E sottolinea: «È in atto la sospensione dei diritti per motivi di sicurezza».
Si spieghi meglio.
«Nel 2001 a Genova ci fu la sospensione dei diritti umani, ignorando le più elementari norme di diritto penale e diritto penitenziario. È quanto si può vedere in trasparenza in questi giorni con la sospensione del diritto umano e lo stravolgimento del diritto penale».
Si riferisce forse alla spinosa questione dei nomadi e della loro identificazione?
«Esattamente. Si prendono le impronte ai Rom, si vogliono identificare i campi, si vogliono spogliare di ogni forma di diritto e di statuto politico i nomadi».
Restiamo al G8 di Genova. Il pm ha chiesto il processo per l’assalto alla Diaz. Pensa che finirà come Bolzaneto?
«La Diaz fa un po’ il paio con Bolzaneto. Quella sentenza di pochi giorni fa, pur essendo molto, molto brutta, ha sancito che nella democraticissima Italia c’è la sospensazione dei diritti. Le pene sono state leggere anche perché non c’è il delitto di tortura, pur essendo stato ratificato fin dal 1988 il trattato internazionale».
E per la Diaz?
«Al di là delle gravissime richieste per i poliziotti indagati: falso, calunnia, arresto illegale, lesioni, c’è anche qui il riconoscimento di spedizione punitiva. Esattamente come per Bolzaneto».
Lei si spese molto per una Commissione d’inchiesta sul G8, poi negata dal Parlamento. Ha qualche rammarico?
«Ho un rammarico politico. La Commissione non voleva indagare le responsabilità personali di quello che era successo a Genova: per fare questo c’è la magistratura; ma arrivare ad atti di chiarimento politico. Così ecco che quello che si è intravisto nel 2001 sta diventando legge: la sopensione dei diritti per motivi di sicurezza».
Il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri ha detto dallo schermo di La7 che «la manifestazione di Firenze è andata meglio di quella di Genova perchè i manifestanti violenti hanno capito che lo Stato non scherza». Come commenta?
«È la riprova che Gasparri ha gli occhi foderati di prosciutto. Il suo tasso di ideologia è tale che non riesce a distinguere. Furono il sindaco e l’allora prefetto Achille Serra a far sì che le manifestazioni fossero controllate e che la polizia si comportasse a dovere: cioè, tutelare la sicurezza pubblica. Ma non mi meraviglia: Gasparri non è la prima volta che sui fatti relativi alla sicurezza mostra una cultura di impronta fascista».
Ha ragione il Guardian nel dire: «La polizia italiana è fascista»?
«La nostra polizia non è fascista. Ci sono stati episodi che possono essere inquadrati come squadrismo. Abbiamo bisogno di polizia credibile».
I poliziotti coinvolti nel sanguinoso assalto alla Diaz, dovrebbero chiedere scusa o quantomeno dimettersi?
«L’Italia esce svergognata da queste vicende. Il problema è politico. Quei poliziotti portano una responsabilità personale che non gli consente di essere credibili: le forze di polizie, da subito, avrebbero dovuto prendere provvedimenti disciplinari».

l’Unità 18.7.08
Il Guardian: «Al G8 di Genova poliziotti fascisti sospesero la legge»


Picchiati senza pietà, in modo sistematico, non per ottenere confessioni ma per ritorsione. Un’inchiesta lunga sette pagine del Guardian - titolo «La sanguinosa battaglia di Genova» - il giornale britannico accusa la polizia italiana: «Questo non è il comportamento di un gruppo di esaltati. Questo è fascismo». I pestaggi nella scuola, le torture nel carcere di Bolzaneto. E non solo: i poliziotti parlavano in modo enfatico di Mussolini e Pinochet. I loro cellulari avevano suonerie con le tradizionali canzoni del ventennio. E i prigionieri furono costretti a dire più volte «Viva il Duce» o «Un, due, tre, viva Pinochet».
«Senza il lavoro del pubblico ministero - scrive il Guardian - senza la posizione rigorosa della magistratura, la polizia avrebbe potuto sfuggire alle proprie responsabilità. Tuttavia la giustizia è stata compromessa. Nessun politico è stato indagato, nonostante ci fossero forti sospetti che la polizia avesse agito con la sicurezza dell'impunità».
Il quotidiano non dimentica il ruolo di Gianfranco Fini, «Un tempo segretario nazionale del partito neofascista Msi e poi vice premier, Fini - secondo quanto scrisse in quei giorni la stampa - era presente nel quartier generale della polizia. Non gli è mai stato chiesto di spiegare che ordini avesse dato».
Sconsolato il giudizio dei giornalisti britannici: giustizia non sarà fatta. La maggioranza dei poliziotti coinvolti nei fatti della Diaz e di Bolzaneto non ha avuto nemmeno un richiamo disciplinare. Nessuno è stato sospeso, nessuno è stato accusato di torture, alcuni sono stati addirittura promossi. «Anche il processo ai 28 agenti è a rischio perché il premier Silvio Berlusconi ha voluto una legge che ritarda tutti i processi che riguardano fatti avvenuti prima del 2002».

l’Unità 18.7.08
«Rispettate Eluana» Un coro di no a Schifani
La Consulta di bioetica: si rispetti la famiglia di Eluana
di Luca Sebastiani


Coro di no contro il Senato che sul caso Englaro ha sollevato il conflitto di attribuzione. Alla famiglia è arrivata la solidarietà della Consulta di bioetica, che dice: si rispetti la famiglia di Eluana. Per i Valdesi «il Parlamento non deve censurare i giudici»

SENZA PACE Il caso di Eluana Englaro ha innescato un dibattito feroce e a volte decisamente sopra le righe. Tanto che la Consulta di Bioetica è intervenuta per invitare ad abbassare i toni di una polemica che sta alimentandosi sulla testa di una persona in carne ed ossa e del dramma di una famiglia. Per questo «la Consulta è vicina alla famiglia Englaro che - recita il documento diffuso ieri - gelosamente custodisce la volontà di Eluana, e invita i critici ad abbassare i toni e diminuire l'insistente pressione ad un ripensamento».
«Giudici necrofili», «prima esecuzione capitale della storia repubblicana», «condanna a morte per fame e per sete», «crimine assurdo di mercanti di morte», «martirio sulla strada della legalizzazione dell'eutanasia«, «omicidio di Stato». In queste ore si sono sentite parole di ogni sorta, a volte al di là della decenza o della semplice «educazione». Parole di, scrive la Consulta, «opinionisti devoti e rappresentanti del clero mossi da sacri furori che s’ingegnano a costruire le più macabre formule per tenere in caldo un'opinione pubblica ritenuta forse ghiotta solo di emozioni forti e colpi di teatro». In realtà, la questione sarebbe anche semplice di per sé, se solo si mettessero «da parte i vecchi schemi vitalisti legati alla sacralità della vita». In Italia infatti, ricorda la Consulta agli smemorati «è riconosciuto anche su base costituzionale il diritto delle persone coscienti e capaci di rifiutare le cure mediche. Riconoscere questo diritto ai capaci e negarlo agli incapaci o a chi abbia definitivamente perso la coscienza è in contrasto col principio di eguaglianza». Ecco perchè la Corte di Cassazione prima e la Corte d'Appello di Milano poi, non hanno fatto che colmare un vuoto e ristabilire un diritto, quello di Eluana, «in stato vegetativo da oltre 16 anni, di non prolungare la propria esistenza, ridotta a mera vita biologica, in conformità all'idea che ella nutriva di dignità personale e alle volontà espresse quando ancora era cosciente».
Stesso discorso da parte di un gruppo di una quarantina di neurologi del Gruppo di studio di Bioetica e cure Palliative della Società Italiana di Neurologia che afferma in una nota di non condividere l'appello presentato da 25 neurologi al procuratore generale di Milano per bloccare il provvedimento che autorizza l'interruzione della cure a Eluana. Tra i firmatari figurano oltre al professor Alberto Defanti, Giandomenico Borasio dell'università di Monaco, Alberto Primavera dell'università di Genova, Mariolina Congedo dell'università di Trieste. Anche Erika Tomassone, del Comitato bioetico delle chiese metodiste e valdesi, si augura che tutti coloro che in questi giorni utilizzano «la situazione coraggiosa e sofferente della famiglia Englaro, per i propri fini ideologici o politici, sappiano fare un passo indietro, perché le questioni in gioco non possono essere oggetto di battaglie ideologiche, ma piuttosto di un serio lavoro legislativo».
E invece politicamente il dibattito è di diverso genere, molto più involuto rispetto a quello auspicato dalla Tomassone. Il Parlamento infatti discuterà, lunediì al Senato e mercoledì alla Camera, il conflitto di attribuzione con la Cassazione. Una discussione che ha fatto reagire il senatore del Pd Enzo Bianco, secondo cui, invece, il caso di Eluana avrebbe meritato un «rigoroso e rispettoso silenzio». Anche per questo è contrario alla discussione del conflitto d’attribuzione, perchè, spiega, «La decisione della Corte suprema è ineccepibile» in quanto «non sostituisce al legislatore».
Dello stesso avviso, ma più deciso, il senatore Stefano Ceccanti, secondo cui il conflitto d’attribuzione non appare neanche «uno strumento percorribile».

Repubblica 18.7.08
Malati da rispettare
di Ignazio Marino


Caro direttore, la dignità della vita non si discute. Che si tratti di un neonato, di un giovane ammalato, di un anziano disabile o di una persona in stato vegetativo permanente, il valore di quell´esistenza va sempre riconosciuto e rispettato. Tuttavia, di fronte a malattie incurabili che segnano il destino di un essere umano, o di fronte ad una condizione irreversibile come quella di Eluana Englaro, non c´è un solo modo di rapportarsi, non c´è chi ha ragione o chi ha torto, c´è solo un drammatico bisogno di rispetto dei diritti e della dignità.
Le due testimonianze pubblicate nei giorni scorsi su Repubblica dimostrano proprio questo: due donne con la stessa malattia, con il medesimo ineluttabile destino a cui hanno reagito in maniera diametralmente opposta. Una ha scelto di liberarsi dalla sofferenza ponendo fine alla propria esistenza in tragica solitudine. La seconda ha scelto invece di continuare a vivere e ci ricorda, con una forza che obbliga a riflettere, le carenze organizzative di un sistema che non le garantisce tutti i supporti medici e tecnologici che oggi esistono. A questa donna, e a tutti coloro che vivono in situazioni drammaticamente simili, va detto che non c´è nessun motivo per cui il diritto a continuare a vivere non debba essere affermato e difeso. Ci mancherebbe altro! Allo stesso tempo è difficile non riconoscere che un paziente possa sentirsi abbandonato quando deve lottare per ottenere quegli strumenti e quelle attrezzature mediche indispensabili a garantire il proseguimento della vita in maniera dignitosa.
Ma le responsabilità non vanno attribuite solo e genericamente allo Stato, piuttosto il dito va puntato anche contro l´inerzia delle amministrazioni sanitarie regionali che sono spesso all´origine di gravi disfunzioni e della mancata assistenza a questi malati. I responsabili hanno un nome e cognome, sono quasi sempre i funzionari di un assessorato che non portano avanti le pratiche con la dovuta celerità, che non hanno la sensibilità di capire che dietro alle carte c´è la vita di una persona che attende una firma, un´autorizzazione. Non c´è una strategia nelle loro azioni, la chiamerei piuttosto imperdonabile e gravissima sciatteria. Ciò di cui si dovrebbe dibattere, per arrivare ad una legge che regolamenti la materia in modo chiaro, è il rispetto delle volontà dell´individuo di fronte alla malattia. C´è chi, per motivi personali, culturali, religiosi o altro, afferma la propria volontà di ricevere ogni cura di fronte ad ogni circostanza avversa. Sono persone coraggiose che devono essere ascoltate, sostenute e assistite con ogni mezzo e sostegno economico possibile. Ma c´è anche chi preferisce rinunciare a terapie che considera sproporzionate per se stesso. Ci sono persone che non giudicano accettabile l´idea di trascorrere la propria esistenza in stato vegetativo permanente perché ritengono che la vita sia soprattutto relazione con il mondo e se la relazione non c´è più, per loro la vita perde di significato. Anche questa posizione va rispettata senza esprimere giudizi.
Nessuno dei due diritti, alle terapie o alla rinuncia delle terapie, può essere negato. È questo ciò che lo Stato deve garantire: parità di diritti a tutti i cittadini, nel caso specifico il rispetto dell´autodeterminazione dei pazienti nelle decisioni terapeutiche. Le due situazioni mettono dunque in luce problemi gravissimi, sono entrambe importanti, ma non sono direttamente collegate. Il rispetto della vita e della persona non è in contraddizione con il rispetto delle volontà del malato, ma per fare in modo che ognuno possa esercitare un diritto è necessaria una legge che si occupi di tutti gli aspetti che riguardano la fine della vita, dal testamento biologico alle cure palliative alle terapie del dolore. Non serve una legge per staccare la spina, ma una legge perché ogni cittadino, sulla base dei propri principi e dell´articolo 32 della Costituzione, possa liberamente decidere ciò che vuole o non vuole nel momento di passaggio dalla vita alla morte.
(L'autore è senatore del Pd)

il Riformista 18.7.08
Parla monsignor Fisichella «quella ragazza è viva, e morire non dà mai la felicità»
«Rispetto il papà di Eluana, ma non c'è un diritto alla morte»
di Paolo Rodari


È cappellano di Montecitorio, rettore della pontificia università lateranense, membro della dottrina della fede e, da qualche settimana, responsabile della pontificia accademia per la vita, il ministero vaticano che si occupa di promuovere e difendere la vita umana. Monsignor Rino Fisichella parla col Riformista delle vicende che riguardano Eluana Englaro e spiega che, se oggi incontrasse Beppino, il padre di Eluana, probabilmente non direbbe «nulla».
Starebbe zitto?
«Penso che non direi nulla. Vorrei soltanto stringergli molto forte le mani. Nessuno, infatti, può mettersi nei suoi panni in questo momento. Lui sta portando avanti una sua convinzione, che è quella di far rispettare un desiderio di libertà della figlia. Io credo che, più che il rispetto di questo desiderio di libertà, debba esserci il profondo senso di amore per la vita della figlia. Ma mi rendo conto che ci vuole una sorta di eroismo per sostenere una simile posizione. Un eroismo che può essere realizzato con un sostegno molto forte. In questo caso, il sostegno della fede è determinante».
Insomma, innanzitutto ci vuole rispetto per la posizione del padre di Eluana?
«Ogni caso ha una sua peculiarità, una sua storia, mostra un'esperienza che merita rispetto. Personalmente apprezzo i toni sempre molto pacati, rispettosi, che il papà di Eluana sta usando in questi giorni nei confronti di chi gli suggerisce altre possibilità, altri punti di vista. Inoltre, ritengo che nessuno debba permettersi di essere giudice nella coscienza altrui».
Però, nel merito, la Chiesa non condivide la scelta di Beppino.
«Nel merito rimane il fatto che la sentenza della Corte d'appello non sia, a mio avviso, condivisibile. Anche se non è mia intenzione entrare nelle questioni giuridiche, voglio dire che ho ammirato l'intelligenza politica e l'acutezza di Francesco Cossiga, il quale ha giustamente mostrato come vi sia un conflitto di attribuzione. Io, fin dal primo giorno, ho detto che questa sentenza merita di essere impugnata, anche perché di fatto apre la strada a un'azione di eutanasia».
Molti parlano di accanimento terapeutico…
«Da quello che ho letto con attenzione sui giornali e dalle dichiarazioni fatte in tv, mi sembra che qualcuno giochi a carte truccate. Non si può, ad esempio, giocare sui termini di eutanasia dicendo che questa è semplicemente un modo per dare la morte a chi soffre. Il termine eutanasia è oggi usato in modo troppo ambiguo. E la stessa cosa vale per altre terminologie».
Eluana ha una vita?
«Eluana vive. Da quello che ci dicono le suore e le persone che la accudiscono, Eluana è una persona che ha una sua vita. Viene portata a passeggiare nel giardino. Si addormenta e si sveglia. Viene nutrita e le viene dato da bere. C'è chi dice che il suo non sia altro che un coma vegetativo. Io dico, invece, che l'esistenza di Eluana è un mistero che merita stupore e rispetto. Quello stupore che ci impone di guardare a lei con criteri nuovi. Mi rifiuto, ad esempio, di pensare che una persona in coma vegetativo sia priva di emozioni. Nessuno può dire che non abbia emozioni. Il nostro cervello è ancora, nella maggioranza delle sue funzioni, sconosciuto. Dobbiamo quindi avere l'umiltà di riconoscere i limiti della nostra conoscenza e riconoscere che siamo davanti a una persona. C'è una ragazza. C'è una donna che sta vivendo. Che viene nutrita e a cui viene dato da bere».
Se Eluana davvero avesse detto prima dell'incidente che non avrebbe voluto vivere se si fosse ridotta nello stato in cui è ora, la sua libertà non andrebbe rispettata?
«Qui viene invocata la libertà di morire. Io sostengo che c'è un diritto alla vita e non alla morte. C'è un diritto a essere curati. Un diritto a non soffrire, secondo quanto la scienza riesce a fare. Ma non esiste un diritto e una libertà a scegliere di morire. Tra l'altro, è l'intero ordinamento giuridico che si fonda sul diritto primario alla vita e non su quello della morte. Non c'è libertà di scelta quando questa è contraria ai valori, contraria al bene. In questo senso, anche la sentenza su Eluana è contraddittoria. Dice di togliere il nutrimento e l'idratazione a una persona e poi, con la stessa sentenza, stabilisce che questa persona deve essere accudita. È una contraddizione profonda, perché implica il riconoscimento che, togliendole il nutrimento, le viene provocata una sofferenza ingiusta».
La posizione della Chiesa su Eluana può essere accettata da chi non crede?
«Non ho mai parlato di fede. Non sto facendo un discorso come credente o come vescovo. Il mio è un richiamo a dei princìpi etici che non hanno una colorazione né laica né cattolica. Sono solito distinguere tra etica e morale. Noi stiamo facendo un discorso etico. Stiamo facendo un discorso che segue dei princìpi che sono prodotti dalla ragione che pensa e non dalla ragione che crede. E la ragione, quando vuole riflettere su come essere felice, sceglie di darsi alcuni orientamenti, alcuni princìpi. La morte non può dare felicità a una persona. È la vita che dà felicità perché la vita è relazione, è amore, è progettazione di sé e del futuro. Non la morte. In questo senso, i princìpi di cui sto parlando possono essere condivisi da persone che non credono. Certamente, potremmo discutere sul tema della libertà e cioè se esista una libertà a togliersi la vita, a lasciarsi morire. Se, in sostanza, il suicidio sia un gesto di libertà. Se veramente una ragazza, nel momento in cui è in piena salute e dice che se dovesse trovarsi nello stato in cui è oggi Eluana vorrebbe morire, espleti un'opzione veramente libera. C'è, infatti, anche la libertà di cambiare opinione. Nessuno può dire se, nel momento in cui ci si trovi in una condizione come quella di Eluana, si voglia morire. Di questo dovremmo discutere. Ma l'abc del diritto lo conosciamo tutti. La legge italiana vieta che si possa favorire la morte di una persona. Chi favorisce la morte è colpevole».
Secondo lei una legge sul testamento biologico non è necessaria?
«Quando si parla di testamento biologico, si parla di una scatola vuota. Il problema è come questa scatola viene riempita. Nella legislatura precedente c'erano nove proposte di legge in proposito e ognuna diversa dall'altra. Penso che sia giusto che il parlamento trovi una formula legislativa nuova, perché questi temi toccheranno sempre più il nostro futuro. Ma questa legislazione non può essere in alcun modo invasiva della sfera personale. Deve cioè rimanere inviolabile la concezione del mistero della vita. Non sto parlando della sacralità della vita, ma del mistero della vita, dell'inviolabilità del mistero della vita. Inoltre, non si può legiferare sull'onda dell'emozione di un caso specifico. Si deve legiferare a mente fredda, in un contesto di condivisione, di partecipazione e di non conflittualità, in contesti di amplissima maggioranza».
Il segno lanciato dalla campagna "acqua per Eluana" come lo giudica?
«Credo sempre al valore dei segni e questo segno è molto espressivo. Ho insegnato per vent'anni semiologia e, dunque, capisco l'importanza di certe azioni. Penso che davanti a casi come questi anche la Chiesa debba ricordarsi che non serve la diplomazia ma la chiarezza delle posizioni. Da questo punto di vista, comunque, mi pare che la Chiesa sia stata chiara».


l’Unità 18.7.08
Congressi. Si celebrano da oggi quelli di Pdci e Verdi


ROMA I partiti della sinistra usciti malconci dalle elezioni politiche si affidano alle cure termali per ritrovare almeno un po’ dello smalto perduto: già a giugno Sinistra democratica si era affidata ai ben noti benefici per il fegato delle acque di Chianciano, poi è toccato alle assise dei socialisti a Montecatini. Da oggi a domenica tornano in scena gli ex Arcobaleno: i Verdi e i Comunisti italiani celebrano i loro congressi nazionali rispettivamente a Chianciano e a Salsomaggiore. Chiuderà la serie dei congressi termali Rifondazione comunista, sempre a Chianciano ma dal 24 al 27 di luglio.
Il 55-60% dei circa 550 delegati dei Verdi, che si riuniranno al Palamontepaschi, sostiene la vecchia maggioranza, riunita nella prima mozione congressuale. È il patto che teneva insieme i centristi di Alfonso Pecoraro Scanio e Angelo Bonelli e la sinistra di Paolo Cento. Orfana di qualche spezzone significativo, quest’area candida Grazia Francescato, ambientalista storica, proveniente dalle fila del Wwf, già leader della Federazione tra il 1999 e il 2001. Ma sarà una soluzione ponte: una modifica statutaria sancirà la scelta di eleggere un portavoce invece che un presidente e rinvierà a dopo le elezioni europee i nuovi gruppi dirigenti più stabili.
Oliviero Diliberto gode di una maggioranza larga e la sua riconferma alla guida del Pdci non è in discussione: con l’86% dei consensi la mozione di maggioranza ha vinto il congresso, e al suo interno gli equilibri sono cambiati, con un ridimensionamento, a livello locale, del peso della componente più radicale di Marco Rizzo.

il Riformista 18.7.08
A' Ferrero, facce Tarzan!


N ell'indifferenza generale si sta svolgendo l'acceso dibattito pre-congressuale di Rifondazione comunista. È evidente che hanno torto gli italiani a non dar peso a ciò che si dice e si decide nell'assise del più importante partito politico desaparecido. Ma bisogna capirli, gli italiani, sono fatti così, non colgono. Ieri su "Liberazione" Alfonso Gianni scriveva che è stato giusto non partecipare alla manifestazione di Di Pietro a piazza Navona, mentre prima della rivoluzione in Russia era opportuno andare alle adunate del pope Gabon. Di fronte a argomenti di così stringente legame col presente, gli italiani hanno torto marcio a ignorare i Bertinotti boys. Soprattutto, gli italiani, sottovalutano l'orizzonte tematico limpidissimo che propone Paolo Ferrero, sempre su "Liberazione", quando scrive che «il nodo è come ricostruire un conflitto efficace che ponendo il tema della trasformazione sociale, politica e culturale permetta la costruzione di una nuova soggettività» per «rimettere al centro il tema della ricostruzione del comunismo, cioè della ricostruzione di un universo simbolico in grado di rappresentare la volontà di trascendimento dello stato di cose presenti». Come vedete è tutto chiaro e solo così, per usare le parole dell'anti-Vendola, si può «evitare che il comunismo diventi folclore». Chiaro, no? A questo punto le cose sono messe definitivamente a posto, la linea è tracciata. Resta una sola richiesta che inoltro a nome di tutti: «a' Ferrero, facce Tarzan!».

l’Unità 18.7.08
Festival. A Carpi e Sassuolo, oltre che nel capoluogo di provincia emiliano, il Festival di tre giorni sulla« fantasia»
Modena, la filosofia è un menù del Pensiero
di Bruno Gravagnuolo


La kermesse organizzata dai tre comuni presentata ieri a Roma alla «Stampa Estera»
Tra gli ospiti Marramao, Augé, Givone, Galimberti, Stenger e Rizzolato

Fantasia a prima vista è termine banale. A tutti si richiede fantasia per vivere, scrivere un articolo, dipingere, giocare al calcio, progettare una vacanza etc. Eppure, a guardar bene, non c’è parola più intimamente filosofica di questa paroletta logora. Stante che l’etimo ha a che fare con «phainomai», fantasma, apparire, apparenza, fenomeno, epifania e quant’altro.
La fantasia insomma è l’arte di produrre immagini, e come tale sta tra l’esperienza immediata e il pensiero vero e proprio. Anzi, per molti filosofi era l’anima del pensare stesso. «Facoltà dell’immaginazione per Kant», «memoria dilatata e composta» per Vico, autoriflessione rammemorante per Hegel (e per Heidegger) e «presupposto» del Logos per Aristotele. Dunque è ben scelta la parola per il Festival della filosofia di Modena Carpi e Sassuolo, in scena dal 19 settembre al 21 nelle tre città. Per la supervisione di Remo Bodei, e con oltre 200 appuntamenti gratuiti in piazza, al coperto, in teatro, persino in treno, con filosofi e scienziati vaganti su rotaia, in dialogo col pubblico.
Certo ci vuole la «spiega» per illustrare il senso dell’iniziativa, giunta ormai all’ottava edizione. Per evitare - e il rischio c’è col «turismo filosofico» e liquido diffuso - che il Festival appaia o divenga una specie di sagra. Come quella della melanzana o della salama da sugo (siamo in Emilia). Ma gli emiliani ci sanno fare, e hanno organizzato le cose per benino. Con percorsi e personaggi di tutto rilievo. Dalla scienza, all’arte, all’utopia, ai deliri ideologici dell’immaginazione (la Padania celtica!), alle creature fantastiche del mito e delle favole. E con gente come Isabelle Stenger, allieva di Prigogine, il neurologo Giacomo Rizzolato, quello dei «neuroni a specchio», Giacomo Marramao, Roberto Esposito, Marc Augé, Sergio Givone, Carlo Sini, Emanuele Severino, l’immancabile Galimberti, Jean-Luc Nancy, Silvia Vegetti-Finzi, il grande mitografo dei Greci Marcel Detienne, e tanti altri ancora. Idea di fondo, ci pare, «il potere dell’immaginazione». Indagato come costituente di base del pensare. E propellente dell’agire, delle relazioni umane. Nel bene e nel male. Nella convinzione che tutto quel che esiste è frutto di quel potere immaginifico. Demiurgico e connaturato all’uomo come animale progettante. Del resto, lo spiegava bene nel 900 il grande antropologo conservatore Arnold Gehlen. L’uomo è animale debole, con scarsa coordinazione naturale tra istinto e reattività operativa. Al contrario degli animali. Sicché per reagire l’uomo deve inventarsi delle protesi, degli strumenti progettanti. A cui delegare lo sforzo, e su cui scaricare la fatica, nel differire il perseguimento delle mete. Differimento che Gehlen chiamava «Entlastung», esonero. Qui dunque si apre la sovranità della fantasia: simulare un altro mondo, per afferrare quello reale. Senza artigli veri e propri, ma con artigli inventati. E allora ci si potrebbe anche chiedere: che il pensiero sia nient’altro che una protesi o un artiglio? Qualcosa che nasce dal vuoto, dalla debolezza, e in fondo dalla morte, esperita o temuta? Grande tema questo per la psicoanalisi, presente in forze negli attrezzi scientifici dei relatori, oltre che nella relazione dalla Vegetti-Finzi, che parlerà delle «proiezioni inconsce e immaginative che riempiono l’attesa della maternità». Nonché della generazione di «senso» in termini più ampi.
Domanda: ma non c’è il rischio che così il mondo sia tutto ridotto a simulazione? Oltretutto in un momento in cui non ci si salva proprio dalle simulazioni virtuali, divenute di fatto la sostanza vera e propria di un mondo ormai ridotto a «immaterialità». Speriamo che i 200 incontri ci offrano qualche antidoto a riguardo. Evitando che il Festival si riduca a mimesi allegra di un reale già privato di senso, e ridotto a spazio del festoso consumo omologato. Nel frattempo possiamo gustare, virtualmente, i menù filosofici di Tullio Gregory, gran studioso di Cartesio: 40 ristoranti e 9 liste. Protagonista il maiale, «animale encinclopedico» di cui non si butta niente. E tanti fritti misti. Dai quali distillare «universali categoriali» sarà dura, anche per i fegati filosofici più allenati.

Corriere della Sera 18.7.08
Praga 1968: il Pci alla prova, la sorte di Jiri Pelikan
di Sergio Romano


Ho letto l'intervento di un lettore sulla posizione del Pci di fronte agli interventi sovietici in Ungheria e in Cecoslovacchia. A proposito dell'invasione della Cecoslovacchia, faccio presente che la posizione del Pci al riguardo fu radicalmente diversa da quella assunta 12 anni prima a proposito dell'Ungheria.
Le riporto di seguito un paio di frasi delle dichiarazioni di Ingrao nel dibattito alla Camera del 30 agosto 1968 (riportate dalla Civiltà Cattolica - Civ. Catt. 1968, III, 517-518). Dopo un attacco alla maggioranza, che aveva bollato come strumentale la condanna dell'intervento fatta dal Pci nel Comitato centrale di pochi giorni prima («la goffaggine e i richiami all'indipendenza da parte di chi ha manifestato comprensione e si è fatto corresponsabile del genocidio in Vietnam»), Ingrao proseguì (seguo il riassunto della rivista dei gesuiti) osservando che «il nuovo corso non era esente da pericoli: il dissenso manifestato dal Pci non nasceva e non nasce dall'ignorare questi pericoli, ma dalla convinzione che l'intervento militare non è la via giusta per combattere quei pericoli». Come ho detto sopra, la posizione del Pci era quindi radicalmente mutata dall'adesione acritica sull'Ungheria.
Piero Stagno

Caro Stagno,
Come ha ricordato Enzo Bettiza in occasione dell'uscita del suo recente libro sugli avvenimenti della Cecoslovacchia («La primavera di Praga», edito da Mondadori), il Pci «deplorò»: espressione ambigua che poteva valere per gli invasori come per gli invasi. La stessa ambiguità riappare nelle dichiarazioni di Pietro Ingrao alla Camera che lei ricorda nella sua lettera. Ingrao sostiene anzitutto che il corso inaugurato da Alexander Dubceck e dai riformatori «non era esente da pericoli». E non condanna l'intervento, ma sostiene che «non è la via giusta per combattere quei pericoli». Insomma i riformatori sarebbero stati troppo imprudenti e l'Urss troppo impetuosa. Lei ha ragione quando osserva che fra le posizioni del '56 e quelle del '68 corre una grande differenza. Ma non sarebbe neppure giusto dimenticare che la vicenda di Praga fu sin dagli inizi molto diversa da quella di Budapest. Si trattò di una riforma, non di una rivoluzione e, per di più, cadde in un periodo della guerra fredda durante il quale il rischio di un scontro frontale in Europa era considerevolmente diminuito. Mosca avrebbe potuto affrontare il problema cecoslovacco con altri strumenti.
Quello che maggiormente mi colpisce nelle dichiarazioni di Ingrao, caro Stagno, non è la differenza dei toni rispetto ai tempi di Budapest, ma l'evidente disagio dell'esponente del partito comunista italiano. Ingrao non può approvare la violazione della sovranità cecoslovacca, ma è costretto a trovare qualche giustificazione per l'intervento. Vi è un altro episodio, del resto, che conferma questo disagio e mette in maggiore evidenza il grande imbarazzo del Pci in quel periodo.
L'episodio concerne Jiri Pelikan, amico e collaboratore di Dubceck, direttore della televisione all'epoca degli avvenimenti, personalità di spicco del blocco riformista. Nei mesi che precedettero la crisi e nei giorni cruciali dell'invasione, Pelikan fu probabilmente la persona che maggiormente contribuì, con i suoi programmi televisivi, a riscaldare il cuore dei riformatori. I sovietici lo detestavano. Quando Dubceck ritornò a Praga dall'Unione Sovietica, dove fu sequestrato per alcuni giorni, Pelikan era già in clandestinità, ma ne uscì, come ricorda Bettiza, per registrare il discorso umiliante che il segretario generale del partito fu costretto a pronunciare in quella occasione. Il leader riformatore era «spento, svuotato, privo di energie, come se avesse subito mesi di torture». Ma prese in disparte Pelikan per dirgli che i sovietici non lo avrebbero mai perdonato per ciò che la televisione aveva fatto nei sette mesi della «primavera» e nei sette giorni dell'occupazione. Fu questa la ragione per cui Pelikan, qualche giorno dopo, arrivò in Italia. Una delle sue prime iniziative fu l'invio di una lettera a Enrico Berlinguer da cui sperava di ricevere simpatia e aiuto. Quella lettera non ebbe mai risposta. L'aiuto venne dai socialisti e in particolare da Bettino Craxi che lo volle candidato del partito socialista alle prime elezioni del Parlamento europeo.

Corriere della Sera 18.7.08
Lettera aperta al ministro
Caro Tremonti, corregga quei tagli: la ricerca è l'investimento più prezioso
di Luciano Canfora


Signor ministro Tremonti, pur non amando affatto il genere letterario definibile come «querimonia dei dotti» e ben sapendo quanto sia arduo tener conto degli interessi generali e non soltanto di quelli di un singolo comparto, per quanto importante, unisco la mia voce alle molte, di schietto e fondato allarme, levatesi in questi giorni in merito ai «tagli» incombenti sull'Università italiana. Lei lo sa bene, l'università non è un lusso, è il più importante investimento sul futuro.
Circolano in questi giorni le notizie più allarmanti relative ai risultati del lavoro del Comitato direttivo preposto alla attribuzione dei finanziamenti Prin (ricerca universitaria: progetti di rilevante interesse nazionale), comitato presieduto dalla professoressa Clelia Mora dell'Università di Pavia.
Se mi permetto di scriverle, è per chiederle se, nonostante le scelte dissennate compiute in questo campo dal precedente governo (fondi per la ricerca stornati verso il «prestito-ponte» Alitalia!), non sia possibile, prima che sia troppo tardi, stanziare una ulteriore, anche limitata, «tranche» di finanziamento per la ricerca. Ciò consentirebbe di finanziare almeno in parte la classe «B» (come contemplato dal regolamento vigente, al punto 11).
Siamo infatti quest'anno al paradosso per cui solo la classe «A» (le cosiddette, ahimé, «eccellenze») risulterebbe finanziabile.
Faccio un solo esempio degli effetti aberranti della selezione risultante da un tale restringimento. Tra le «vittime» della falcidia finirebbe con l'esserci persino l'Istituto Papirologico Vitelli di Firenze, fiore all'occhiello della scienza antichistica italiana e «biglietto da visita» della scienza italiana nel mondo!
E tralascio di ricordare insigni colleghi, «falcidiati» anch'essi: chi già richiesto ad Harvard (ma, a quanto pare, non degno del Prin), chi tradotto nelle principali lingue del mondo.
Forse c'è un limite in basso che non andrebbe mai valicato per il buon nome del nostro Paese.

Corriere della Sera 18.7.08
Il debutto di Houellebecq come regista e l'omaggio a Moretti
Locarno, la nascita delle Br nel film «Il sol dell'avvenire»
di Maurizio Porro


MILANO — Presentato a Milano il 61˚Festival di Locarno, dal 6 al 16 agosto, giudicato ribelle e impertinente sia dal suo presidente Solari, che si definisce «non di sinistra», sia dal direttore Frédéric Maire che invece dichiara la propria fede. Si annuncia la retrospettiva Nanni Moretti come autore, attore, produttore che porta una sua mini cineteca di film del cuore: «Lo so che per voi è più un personaggio, ma per noi svizzeri è soprattutto un regista».
Tra le novità — The Eternity Man, opera moderna di Julien Temple; il film tratto dal libro di Chuck Palahniuk; il debutto al cinema di Michel Houellebecq e Lezione 21 di Baricco sulla
Nona di Beethoven — Maire tiene a dichiarare quest'anno la presenza dell'Europa, che parla della crisi di pubblico e privato, e in particolare dell'Italia nelle varie sezioni. Cose curiose e vite vissute: un bel documentario di Giovanni Piperno sul viaggio Venezia-Pechino di un gruppo di malati di mente con dottori e parenti; Sognavo le nuvole colorate
di Mario Balsamo, è storia di un bambino albanese emigrato da noi; Mar Nero di Federico Bondi ci parla del rapporto tra una donna (Ilaria Occhini) e la sua badante rumena. Ma c'è anche un film sociologico di Bruno Oliviero Napoli Piazza Municipio e la novità di Elisabetta Sgarbi Non chiederci la parola, girata al Sacro Monte di Varallo, musica di Battiato; e breve incontro cinematografico tra il poeta regista Nelo Risi che parla con Andrea Zanzotto. Atteso documentario Petites historias das criancas, girato in 7 Paesi e firmato da Guido Lazzarini, Gabriele Salvatores e Fabio Scamoni sul progetto Intercampus:
in 90 minuti si racconta il potere integrativo sociale del gioco del calcio salvavita dei bambini delle periferie più infelici del mondo, lungo progetto- lavoro in fieri voluto da Moratti per l'Inter. Al Festival, che costa 6 milioni d mezzo di euro, omaggia Anjelica Huston e decora il regista israeliano Amos Gitai, sarà presentato l'atteso documento italiano sulle brigate rosse Il sol dell'avvenire
di Giovanni Pasanella e Gianfranco Pannone, in cui Franceschini parla del movimento e dell'Italia di ieri e d'oggi, baricentro la trattoria toscana sull'Appennino emiliano dove nacquero le Br nell'estate 1970.
Infine una lieta sorpresa offerta dalla Cineteca Italiana che ha restaurato un film inedito in Italia che Luigi Comencini girò nel '59 in Germania, ...e questo di lunedì mattina, che sarà accompagnato dal libro Appunti di un cineasta con foto del regista, già attento ai bambini, realizzate dal '45 al '48.

Repubblica 18.7.08
Il nuovo "baby-boom" d'America mai tanti neonati dal 1957
Dietro al record del 2007 l'aumento degli emigranti e delle mamme ultra-quarantenni
di Arturo Zmpaglione


NEW YORK - La cicogna ha «consegnato» l´anno scorso nelle culle degli americani un numero record di bebè. Ne sono nati 4 milioni e 315mila, superando la cifra raggiunta mezzo secolo fa, nel 1957, all´apice del baby-boom. «È una pietra miliare» annuncia Stephanie Ventura, dirigente del National center for health statistics, l´organismo del ministero della sanità che ha pubblicato i dati sulle nascite nel 2007.
Le statistiche del National center sono ancora provvisorie (quelle definitive usciranno a settembre), ma hanno già mobilitato gli esperti di demografia: da un lato, infatti, preannunciano l´inizio di un mini-boom delle nascite; dall´altro nascondono un fenomeno nuovo. È quello che Arthur Nelson chiama una "tempesta perfetta": «Dietro ai numeri record del 2007 - dice il professore dell´università dello Utah - c´è la concomitanza di tre fattori». Il primo è la forte crescita negli States degli emigranti, che hanno tassi di fertilità più alti: del resto i due stati che hanno registrato il maggior numero di bebè sono stati California (566mila) e Texas (405mila) dove c´è una forte concentrazione di messicani. Il secondo elemento è la "tenuta" delle donne che si trovano nella fascia d´età tradizionale per la maternità, cioè dopo i 20 anni e prima dei 40. La terza componente, che poi è la vera novità dell´ultima fotografia demografica, è l´aumento dei bebè nati dalle ultra-quarantenni che avevano posticipato la maternità soprattutto per ragioni professionali e ora, favorite dai progressi della medicina riproduttiva, hanno deciso di diventare mamme.
Per la prima volta nella storia americana un paio di generazioni di donne hanno voluto (e potuto) mettere al mondo dei figli. Già negli anni scorsi c´era stato un aumento dei bambini: nel 2000, dopo anni di declino, era stata risuperata la soglia dei 4milioni, ma ora il trend si è consolidato. Certo, in termini percentuali le nascite del 2007 sono ancora al di sotto di quelle del più celebre baby-boom della storia, che nel clima euforico del dopoguerra, tra il 1946 e il 1964, sfornò 78,2 milioni di bambini. Adesso infatti la popolazione degli Stati Uniti è di 303 milioni, quasi il doppio dei 157milioni di americani del 1957. Ma anche se i tassi di natalità sono più bassi di allora, Nelson è convinto che il record dell´anno scorso indichi l´inizio di un mini-baby-boom destinato a durare e sociologicamente diverso dal passato.
Per una strana coincidenza l´impennata delle nascite nel 2007 è avvenuta mentre Kathleen Casey-Kirshling, considerata la prima baby-boomer della storia americana, perché era nata a Filadelfia a mezzanotte e un minuto del primo gennaio 1946, si apprestava ad andare in pensione: il 15 ottobre dell´anno scorso.
Così come i vecchi baby-boomers creeranno problemi per le casse dello stato, la nuova ondata di bebè avrà bisogno di scuole, strutture, assistenza sanitaria. «Ed è bene cominciare a pensarci sin tempo» ha dichiarato a Usa Today un altro professore di demografia, Ronald Rindfluss dell´università della Carolina del Nord. Non è facile capire come aumentare la spesa pubblica in un momento così difficile per l´economia per colpa della recessione, del prezzo della benzina e della crisi immobiliare; ma per fortuna, a differenza del maxi-boom del dopoguerra, il mini-baby-boom appare molto più graduale.

Repubblica 18.7.08
L’offensiva della destra in Europa
di Marc Lazar


La destra francese proclama orgogliosamente di aver vinto la battaglia delle idee. Come riferisce Le Monde del 15 luglio, il primo ministro François Fillon ha insistito con fierezza su questo tema: «La Francia ha voltato pagina e ha cambiato i suoi valori, la sua cultura e la sua politica». Che pensare di dichiarazioni del genere? Sono semplici millanterie, o hanno una reale consistenza? E poi: la Francia è un caso a parte, oppure quest´offensiva della destra riguarda anche altri Paesi, primo tra tutti l´Italia?
È facile intuire le intenzioni dei capi della destra francese che parlano a voce alta. Si tratta di inculcare all´opinione pubblica l´idea che l´esito della lotta contro la sinistra sia ormai deciso inesorabilmente in loro favore. Ma sarebbe un errore vedere in questo una semplice mossa di comunicazione. Per oltre un decennio, la destra francese ha lavorato moltissimo. In Francia l´UMP, il partito di Nicolas Sarkozy, ha dato vita a numerosi gruppi di lavoro, colloqui e convegni su tutti i temi più scottanti. Si sono consultati intellettuali ed esperti, si è provveduto alla formazione degli addetti. E intanto la sinistra francese ha continuato a riposare sui suoi allori, convinta di possedere per sempre l´egemonia culturale. Quale è precisamente il sistema di valori di Sarkozy? Si tratta di un mix di diverse tematiche: l´ordine, l´autorità, il lavoro, l´impresa, il merito, la responsabilità individuale, l´identità nazionale, l´Europa, la libertà, la protezione, la sicurezza, la riforma dello Stato, la competitività, la laicità, la religione. Il candidato Sarkozy è stato tanto abile da conferire a tutti questi ingredienti un´apparente coerenza. E soprattutto ha utilizzato alcune formule a effetto, ben cesellate da lui stesso e dai suoi collaboratori e consiglieri in materia di comunicazione. Un esempio per tutti è una frase divenuta un leitmotiv ossessivo della sua campagna: «Lavorare di più per guadagnare di più». Vari fattori concorrono a spiegare questo corpus di valori, spesso in contraddizione tra loro. Innanzitutto, se Sarkozy è riuscito a unificare la maggior parte delle destre francesi, ha dovuto, come contropartita, usare riguardo alle diverse sensibilità: statalista e liberista, egualitaria e libertaria, moderata e conservatrice. Peraltro, Sarkozy non è un ideologo, bensì un pragmatico che rivendica il suo pragmatismo. Non propone una dottrina, ma mobilita un insieme di valori che servono da argomenti elettorali suscettibili di rispondere alle attese degli elettori su vari problemi cruciali: la globalizzazione, l´occupazione, la sicurezza, l´individualismo, l´immigrazione. È questa la forza della destra. Vivendo in un periodo di paure, inquietudini ed incertezze, gli elettori sono alla ricerca di significati e di riferimenti. Da qui la necessità di fornire risposte di fondo. Ma al tempo stesso è essenziale saper fare buon uso dei simboli e nutrire l´immaginario collettivo, soprattutto attraverso incessanti iniziative mediatiche.
Ma questa politica di Nicolas Sarkozy ha il suo rovescio. Le sue ambivalenze si sono immediatamente ripercosse sulla sua azione di governo. Certo, il presidente ha aperto un gran numero di cantieri, ed è riuscito così a far ammettere ai francesi la necessità di un cambiamento. D´altra parte però non ha saputo scegliere tra liberismo e colbertismo; e quest´ambiguità gli si è ritorta contro, anche perché ha commesso numerosi errori. Non basta: tutti i sondaggi dimostrano che i francesi, ancorché consapevoli dell´imperativo delle riforme, davanti a quelle proposte dall´esecutivo hanno posizioni diverse: se approvano il controllo dell´immigrazione e una repressione giudiziaria più dura, sono però assai più divisi sulle misure nel campo dei servizi pubblici, e largamente ostili alla nomina governativa diretta del presidente delle Tv pubbliche. Infine, continuano a mostrare un forte attaccamento alla tutela sociale e alla solidarietà. I record di impopolarità riportati da Sarkozy dall´inizio del 2008 confermano i limiti contro i quali si scontra la destra. Una destra vincente nella battaglia sui ma non ancora in grado di convincere completamente.
Quali insegnamenti si possono trarre dal caso francese per l´Italia? La destra italiana è più che mai vicina a quella francese, e porta avanti idee analoghe su un liberismo temperato da protezionismo, sull´impresa, sullo Stato, sulla religione. Sono vicine anche nella loro visione del capitalismo manageriale e morale, come ha ben dimostrato Pierre Musso nel suo recente libro dal titolo «Le sarkoberlusconisme». Con ciò non si vuol dire che Berlusconi sia uguale a Sarkozy o viceversa, ma solo rilevare una serie di convergenze, che peraltro sono in atto in tutta la destra, nel crogiolo formato dal Partito popolare europeo. Da tutto ciò emerge una volta di più quello che oggi è il compito del Pd. Indubbiamente questo partito è tenuto a denunciare le leggi ad personam che il presidente del Consiglio sta facendo approvare. Ma deve anche ricostituire a sua volta un corpus di valori alternativo e saper fare del proprio riformismo una narrativa mobilitante. A forza di voler essere moderato, il Pd sembra dimenticare la propria natura riformista. Deve dunque prendere decisioni nette e agire. È quanto meno sorprendente che sia stato proprio Sarkozy a dichiarare di aver meditato sugli insegnamenti di un certo Antonio Gramsci.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 18.7.08
L’arma dei Masai contro l´Aids il mistero delle erbe magiche
di Alessandra Viola


In uno sperduto villaggio della Tanzania alcuni guaritori curano con foglie e radici E qualcuno giura di aver sconfitto anche il cancro. Adesso l´Italia studia quelle piante
Sotto esame 41 germogli e cortecce conservati da cinque "stregoni"
Il ministero degli Esteri ha allestito un laboratorio con l´aiuto del governo e l’università locale

NGARENANYKI (TANZANIA) Sembra un cellulare che trilla lontanissimo. Un suono familiare, eppure talmente incongruo nel cuore della Tanzania e di questa savana gialla e polverosa in cui rumoreggiano solo le capre, che pensi di essere colto da un´allucinazione. Intorno alla capanna alcuni ciuffi d´erba secca si piegano silenziosi nel vento caldo, e nell´aia persino i bambini sono ammutoliti dal tormento delle mosche. Eppure avvicinandoti all´abitazione giureresti che sia proprio un telefonino che squilla, anche se il suono artificiale si diffonde malamente nella stanza col pavimento di terra battuta in cui Elias sta ricevendo i suoi pazienti, seduto dietro a un tavolo ingombro di barattolini di plastica.
È venerdì, giornata di visita, e la stanza è stipata di gente. Sono donne, uomini, bambini, arrivati a piedi anche da molto lontano, malgrado tutti siano malati. Arusha, la terza città della Tanzania, poco più che qualche sbaffo d´asfalto costeggiato da edifici di cemento e pochi alberi, dista in auto oltre due ore. Ma qualcuno è arrivato anche da lì, come una donna con il suo bambino, entrambi sieropositivi. La fama di Elias, il guaritore più noto del villaggio di Ngarenanyki, uno dei traditional doctors che a partire dal 2002 sono stati ufficialmente riconosciuti dal governo della Tanzania e ammessi ad esercitare la loro professione alla luce del sole, è giunta fino in città. «Posso curare la malaria, il diabete, l´asma, il cancro e anche l´Aids», assicura in un dialetto swahili questo masai alto e dinoccolato. Vestito di stoffe colorate, le orecchie bucate e le guance scavate da due grandi cerchi che indicano la sua appartenenza alla tribù dei pastori, non ha esattamente l´aspetto di uno specialista dal quale andresti a farti curare il cancro, e forse nemmeno un raffreddore. Eppure ogni settimana decine di persone vanno a trovarlo per chiedergli aiuto, e tra loro anche alcuni occidentali.
Una terapia per il cancro e l´Aids a base di foglie, cortecce e radici? Tutto è talmente inconcepibile che quando Ze-Elias, come lo chiamano qui, estrae un cellulare ultrapiatto di ultima generazione, in realtà ci si stupisce appena. È la Tanzania: un paese in cui modernità e tradizione convivono nel rispetto reciproco, in cui 120 diverse tribù e una decina di religioni danno luogo a una pacifica repubblica presidenziale e in cui guaritori tradizionali e medicina moderna collaborano per migliorare il servizio sanitario nazionale, scambiandosi i pazienti per diagnosi e terapie. «Devo andare», si scusa Elias finita la telefonata, indicando un punto lontano, dietro al monte Meru. Oltre il suo dito, a una distanza moltiplicata da buche e fango, sassi e torrenti da passare al guado, avvolto da una foresta tropicale fresca e verdissima, c´è il villaggio di Ngongongare. Lì la cooperazione italiana ha costruito e attrezzato un laboratorio di ricerca, con tanto di stanze per i ricercatori e collegamenti wi-fi, coinvolgendo la comunità locale, le università e il governo della Tanzania. Obiettivo: catalogare e salvaguardare le piante usate dai guaritori tradizionali creando una piccola attività commerciale, un vivaio gestito dalle donne del villaggio in cui coltivare e vendere le piante che oggi i guaritori raccolgono in natura, percorrendo anche centinaia di chilometri. Elias è uno dei cinque esperti selezionati dal progetto finanziato dal nostro ministero degli Esteri e portato avanti congiuntamente da Cins (Cooperazione Italiana Nord Sud) e Aaf (Associazione Africa Futura). Insieme a lui ci sono Leizar, un altro masai, e tre donne: Mama Mathilia, Mama Lucy e Mama Fatume, nota agli ospedali di mezza Tanzania per la sua ricetta delle 41 piante capace, dicono, di curare l´Aids.
Nei verdi germogli del vivaio di Ngongongare infatti c´è molto più che un piccolo business di villaggio: c´è la potenziale soluzione dell´Africa ai suoi più gravi problemi. Perché i rimedi capaci di curare l´Aids o il cancro, se esistono, valgono cifre inestimabili. «Prima di vedere i test ero molto dubbioso sulle capacità di questi medici tradizionali e pensavo che le guarigioni fossero dovute a suggestione - afferma Josih Tayali medico e docente dell´università di Arusha coinvolto nel progetto - ma mi sono dovuto ricredere sia sulle loro capacità diagnostiche che su quelle curative: scelgono piante che contengono gli stessi principi attivi utilizzati in farmacologia, e anzi ne usano direi più di quanti ne conosciamo. Molti guaritori sono analfabeti, ma hanno nozioni approfondite di anatomia e fisiologia: conoscono gli organi e il loro funzionamento e sono in grado di diagnosticare anche malattie complesse, tra cui alcune forme di cancro. Ormai persino gli ospedali consigliano ai pazienti terminali di rivolgersi ai guaritori. È una pratica non ufficiale, ma molto diffusa».
Tayali sta studiando il caso di due sieropositivi che si sono rivolti a Mama Fatume poco dopo essersi ammalati di Aids. In 3 mesi il virus è regredito, il CD4 (un indicatore delle difese immunitarie) è salito da 400 a 750 e le persone stanno di nuovo bene. E se le 41 piante di Fatume (o le due di Elias, gli unici guaritori che si dicono in grado di curare l´Aids, mentre gli altri lamentano di non aver trovato la cura adatta) fossero davvero capaci di produrre dei risultati? «Se muoio porto la mia conoscenza con me - dice Mama Fatume - ma se la divulgo perdo il mio lavoro. Non so decidere cosa fare. Per ora ho scelto una via di mezzo: non ho consegnato le mie piante all´università di Dar Es Salaam, che me le chiede da molto tempo per analizzarle. Però le ho date agli italiani, che hanno firmato delle carte in cui dicono che se dalle mie piante si può ricavare una medicina io avrò molti soldi, nessuno potrà rubare la mia ricetta e potrò anche continuare a lavorare».
«Le 41 piante di Fatume ora sono in Italia - dice Paola Murri, coordinatrice del progetto - ma il nostro coinvolgimento non prevedeva fondi per questo tipo di analisi. Si cerca quindi una struttura che effettui gratuitamente i rilievi (lo hanno già fatto per altre piante il Cnr, l´università di Firenze e quella di Pavia, ndr), per poi lasciare in ogni caso al governo della Tanzania i benefici di ogni scoperta».
Per il progetto sono stati spesi oltre due milioni di euro. Fino a qualche tempo fa l´Occidente ricco, con una cifra del genere, finanziava una parte del suo senso di colpa, ma oggi le cose sono cambiate. Oggi, i risultati economici di una ricerca scientifica possono diventare un´opportunità per tutti.

Repubblica 18.7.08
In esilio con Omero. Rachel e la forza della guerra
di Nadia Fusini


Nei guerrieri greci non vede né buoni né cattivi, ma il segreto dell´esistenza. Una visione che non le bastò: morì suicida nel ´49

La pensatrice ebrea Bespaloff sbarcò a New York nel ´43, come Simone Weil. E, come lei, trovò nell´Iliade la chiave per capire le tenebre
Se il conflitto distrugge ciò che tocca, restituisce alla vita suprema importanza
La poesia omerica e quella biblica avevano la facoltà di ricostituire il cuore umano

Due donne negli stessi anni leggono lo stesso libro, l´Iliade. Fatto di per sé interessante, osserva Laura Sanò nel suo bel libro Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici). È così: in un libro, l´Iliade, che non cancella, ma accompagna l´altro, la Bibbia, Simone Weil e Rachel Bespaloff, trovano la luce per comprendere le tenebre dei loro giorni.
Due donne, entrambe ebree, entrambi esuli, entrambe destinate a una morte precoce, entrambe in procinto di lasciare l´Europa, fissano lo sguardo su un testo che è all´inizio della civiltà e tradizione in cui le donne si riconoscono: la coincidenza, ripeto, non può passare inosservata. E la nota difatti l´amico caro Jean Wahl nella prefazione a De l´Iliade, che viene pubblicato in francese a New York nel 1943. Nel 1947 appare la traduzione in inglese On the Iliad, ad opera di Mary McCarthy, con introduzione di Hemann Broch. In italiano il testo esce per Città Aperta Edizioni nel 2004. Simone Weil e Rachel Bespaloff non si conoscono. Ma si sfiorano più volte. Nella primavera del 1938 Rachel viene a curarsi nella stessa clinica svizzera per malattie nervose, dove l´anno precedente era stata ricoverata Simone. A Ginevra entrambe sostano a lungo a una mostra di quadri di Goya.
Negli stessi giorni del maggio 1942 sono entrambe a Marsiglia in attesa di un visto per fuggire dalla Gestapo, e dunque dall´Europa, direzione New York, dove giungono nella medesima estate.
Ma non viaggiarono sulla stessa nave, né capitò loro di incontrarsi in terra americana. Simone ripartì presto per Londra, perché voleva che il proprio destino si compisse nel bel mezzo della lotta; Rachel si trasferì al College di Mount Holyhoke, dove Jean Wahl le aveva trovato un incarico di insegnamento. E lì rimarrà, fino alla morte che si diede di sua propria mano nell´aprile 1949.
Le due donne, ripeto, non si incontrano, e tuttavia una trama di coincidenze le avvicina. Prima di partire per gli Stati Uniti Simone aveva consegnato ai Cahiers du Sud il saggio su L´Iliade, poema della forza, che uscirà a Marsiglia nel numero del dic.1940-genn.1941. Aveva iniziato la stesura dello scritto nel ‘39. Nello stesso anno Rachel rileggeva l´Iliade insieme con la figlia, che seguiva con materna sollecitudine negli studi. Una passione la prese per quel libro meraviglioso, e cominciò a prendere appunti, ad accumulare note su note; sentiva in Omero il tono, l´accento della verità. Sì, l´Iliade è davvero, come la Bibbia, un libro ispirato, disse.
Scoprì tardi, quando ormai il suo testo nelle sue linee fondamentali era quasi compiuto, il saggio di Simone. A spedirlo al suo indirizzo fu un amico, che lei ringrazia con impeto, grata e meravigliata. Confessa: «Vi sono intere pagine delle mie note che potrebbero sembrare un plagio». Ma non si tratta di plagio. Né di identità di vedute.
E´ qualcosa di più straordinario: è la corrispondenza misteriosa e profonda di due intelligenze e sensibilità diverse, ma della medesima qualità rabdomantica, che leggendo un testo del passato rispondono del loro presente.
Sì, anche per Rachel il mondo di Omero è il mondo della forza. Attenzione, però: la forza, così come la legge Rachel, non è né bene né male. Non si tratta di condannare né di assolvere la forza. Essa è, come la vita è. Gli eroi di Omero non sono né bellicisti né pacifisti. La forza di Ettore, come la forza di Achille sono rami del medesimo tronco. Achille e Ettore sono una sola cosa agli occhi di Zeus, come di Omero. Nel mondo di Omero, come in quello di Platone, l´ingiustizia o la si impone o la si subisce.
Non c´è in Omero, né tantomeno in Rachel, nessuna apologia della medesima; Omero, al contrario, è «il poeta dell´infelicità», dichiara Rachel. Non dei trionfi, né delle apoteosi.
Amarezza, vi aveva trovato Simone: «il tono non cessa mai di essere intriso di amarezza»; proprio questo sentimento della «miseria umana», aveva dichiarato sicura, suscita un «amore doloroso» per ciò che è minacciato dalla forza. Di «tenerezza verso le cose periture» parla Rachel. Entrambe intuiscono in Omero una compassione "che conosce".
Sì, è vero, continua Rachel, l´eraclitea: Polemos è padre e re di tutte le cose. La guerra non dà tregua. Si nutre dell´infelicità degli uomini. Ha questo solo e unico appetito e di questo appetito prospera. Gode del proprio abuso. Enorme il sacrificio umano che Ares esige.
Ma è anche vero che Ares è, a suo modo, imparziale, e uccide chi ha ucciso. E alla fine la guerra arriva a consumare le differenze; tanto che il vincitore assomiglierà a tutti i vincitori, il vinto a tutti i vinti. E non si può nascondere che v´è una certa qual "bellezza della forza", un suo «fascino ipnotizzante», addirittura narcotizzante, come la stessa Weil aveva riconosciuto. Si potrebbe addirittura dire, anzi Rachel lo afferma, che Omero «divinizza la sovrabbondanza di vita che massimamente rifulge nel disprezzo della morte, nell´estasi del sacrificio». Nella violenza, insomma. Ma anche: come non accorgersi nello stesso momento della fatalità che muta quella stessa forza in inerzia, in impulso cieco, maligno?
Non bisogna né stupirsi, né indignarsi, continua Rachel: non ci sono buoni e cattivi; nessuna falsa e semplicistica dicotomia servirà a rincuorarci. Chi si appassioni alla giustizia, dovrà convivere con il lutto della medesima. Si badi bene: non stancarsi di piangerla, di evocarla, ma nel riconoscimento che la vita non si lascia giudicare, misurare, condannare o giustificare dal vivente.
In altri termini, Rachel scopre (è qui che Omero le "serve") che "polemico" è il carattere costitutivo dell´essere. La realtà è polemos. La contraddizione è principio ontologico. Il dolore non è accidentale. In questo senso, la guerra tra Ettore e Achille non decreta un vincitore: l´uno non può togliere l´altro. Rachel è anti-dialettica, il suo pensiero è radicalmente tragico. Ha inoltre un temperamento melanconico. Per lei la contraddizione non potrà mai essere superata, non si darà sintesi dialettica delle differenze che Achille e Ettore sono.
Ma se la guerra distrugge ciò che tocca, al tempo stesso restituisce alla vita che divora un´importanza suprema: questo la poesia di Omero dimostra. Nella poesia di Omero si risolvono e pacificano i contrasti. E´ la poesia di Omero a trasportarci altrove, in quei momenti di smarrimento in cui avvengono le scelte morali e religiose, anche quando siano dettate dal destino, e perciò inevitabili; quei momenti, o quelle svolte della vita, quelle crisi, in cui l´uomo incontra se stesso, anche quando la decisione sia imposta. E´ in quella spazio di interiorità, in quell´istante che si manifesta per tutti e ciascuno il segreto dell´esistenza. A sorprendere questo segreto è la poesia, per Rachel: una poesia che abbia, come quella omerica, come quella biblica, la suprema facoltà di ricostituire quel cuore umano.
Per Simone, era l´amore, ricordate? l´amore di Dio, naturalmente; l´amore che l´uomo prova per Dio. E di Dio per lui. Mentre per Rachel è la poesia. In quanto «la poesia rapisce alla bellezza il segreto della giustizia vietato alla Storia».
Come ho detto, Rachel non tornò dall´esilio americano. In un certo senso Rachel era Ettore: provava affetti di un´esigenza terribile che le si imponevano come a Ettore la patria; sentiva responsabilità che la legavano al paese in cui l´esilio le si confermò come un destino - "cronico" lo definì. «Vivere qui» disse «è come un´amputazione». «La guerra vista da qui non ha realtà».
Ma la guerra dové viverla dentro di sé, e la violenza l´assaporò fino in fondo, quando all´età di 55 anni si suicidò. Sigillò bene le porte e le finestre e aprì il gas.
Quanto a Simone, lei era Achille. Tornò in Europa e fino alla fine dei suoi giorni non pensò ad altro, se non a come combattere l´infamia nazista. La morte le giunse per fame. Nel chiasmo della violenza, il cui cuore di tenebra entrambe avevano illuminato, le loro esistenze alla fine si strinsero. Perché se «uccidere è sempre uccidersi», non vale anche il contrario?

Repubblica 18.7.08
Franz Kafka. Il mistero delle carte perdute
Diventa un caso la storia della donna di Tel Aviv che custodirebbe manoscritti dell´autore del "Processo"


Hava Hoffe ha ereditato l´archivio, tramite la madre, da Max Brod, amico dello scrittore. Ma nessuno ha visto il materiale. Che in parte è stato anche venduto
Nel 1973 Esther Hoff fu fermata in aeroporto mentre stava partendo per l´estero con le valigie piene di preziosi materiali
La legge israeliana impedisce di esportare materiali importanti per la storia del popolo ebraico. E anche su questo è polemica

TEL AVIV. L’ultimo mistero nella tragica storia della vita di Franz Kafka è nascosto in una casetta nel centro di Tel Aviv. Viene custodito come un tesoro da cui ricavare benessere da Hava Hoffe, la donna di 74 anni che ieri per la prima volta il fotografo del quotidiano Haaretz è riuscito a ritrarre dopo un appostamento degno delle vicende dello spionaggio israeliano. Da qualche settimana la storia ha iniziato a interessare chi in Israele, in Germania, a Praga ha seguito la vicenda del più interessante scrittore in tedesco del Novecento. Articoli, manoscritti, disegni, lettere di Kafka sono in quell´appartamento.
Hava Hoffe li ha ereditati dalla madre Esther, che è morta l´anno scorso e che a sua volta li aveva ricevuti dall´uomo col quale aveva lavorato come segretaria. L´uomo era Max Brod, un grande amico di Kafka, anzi il suo più grande amico; giornalista, scrittore, musicista, Brod fu anche medico di Kafka, provò per esempio ad indirizzarlo al sanatorio di Kierling, vicino Vienna, nel tentativo di fermare la tubercolosi che inarrestabile uccise Kafka a 41 anni, nel 1924. Kafka aveva lasciato a Brod tutto il suo archivio, le lettere, soprattutto le opere incompiute, con il compito di bruciare tutto.
Brod non poteva rispettare quell´impegno, e anzi la pubblicazione delle opere non terminate di Kafka contribuì a completare proprio il disegno di «incompiutezza» dello scrittore praghese. Nel 1939, incalzato dal nazismo, Brod, anche lui ebreo, decide di spostarsi a Tel Aviv, in quella che era la Palestina del mandato britannico. Lì lavorò all´archivio, e quando morì nel 1969 passò tutto ad Esther Hoffe. In cambio di milioni di dollari, Esther riuscì a vendere negli anni alcuni dei manoscritti, riuscendo addirittura in un´occasione a organizzare un´asta in Svizzera. Nel 1973 il direttore degli archivi di Stato israeliani fece fermare dalla polizia la Hoffe all´aeroporto di Tel Aviv mentre stava partendo per l´estero con le valigie piene di carte. Oggi Yehoshua Freundlich è il nuovo capo dell´Archivio ebraico: «La nostra legge impone che tutto quanto riguardi la storia del popolo ebraico possa essere ispezionato e fotocopiato dallo Stato prima di lasciare Israele. Per questo abbiamo scritto per anni alla signora Hoffe, e adesso abbiamo scritto alla figlia Hava e anche a sua sorella Ruth». Il problema è che da quando la notizia dell´esistenza dell´archivio Kafka è stata ricordata da Haaretz all´inizio di luglio, i giornalisti, gli studiosi e anche le università di mezzo mondo sono corsi in Israele. Il più titolato è forse l´Archivio letterario tedesco di Marbach, la maggiore organizzazione privata tedesca di questo tipo. «Ho letto che anche loro volevano impossessarsi della carte di Kafka», dice Freundlich, «ma ho scritto anche a loro per ricordare che la legge israeliana impedisce di rimuovere liberamente materiali che siano di importanza per la storia e la cultura del popolo ebraico». Ieri Haaretz ricordava che anche la Biblioteca nazionale di Gerusalemme per anni ha provato a gettare uno sguardo su quelle carte: «Dal 1982 abbiamo iniziato una corrispondenza con la signora Hoffe, la speranza era quella di avere le carte conservate da Brod. Niente da fare, lei come minimo era una donna impossibile».
Adesso però un nuovo tema sembra affacciarsi attorno a questo archivio: Kafka scriveva in tedesco, sognava di vivere a Berlino: cosa c´entra con Israele, dice apertamente Shimon Sandbank, il professore che ha tradotto i suoi libri in ebraico «Israele, l´ebraismo non sono talmente decisivi in Kafka da poterci far dire che la sua eredità debba rimanere ed essere preservata qui da noi in Israele, da dover costringere gli studiosi che lavorano a Marbach a fare un viaggio a Tel Aviv solo per vedere parte del lavoro di Kafka».
Per ora comunque, le sorelle Hoffe hanno tutte le intenzioni di tener ben chiuso quell´archivio.

Repubblica 18.7.08
Gli incubi e i fantasmi che assediavano lo scrittore
Quelle opere da mandare al rogo


In una casa nel centro di Tel Aviv è custodito l´ultimo mistero della vita di Franz Kafka. Viene custodito da Hava Hoffe, la donna di 74 anni che per la prima volta il fotografo del quotidiano Haaretz è riuscito a ritrarre dopo lunghi appostamenti. Articoli, manoscritti, disegni, lettere di Kafka sono in quell´appartamento. Hava Hoffe li ha ereditati dalla madre Esther, che a sua volta li aveva ricevuti dall´uomo col quale aveva lavorato come segretaria. L´uomo era Max Brod, giornalista, scrittore musicista, e grande amico di Kafka.
Già a metà ottobre Kafka scriveva a Brod che «i fantasmi notturni» l´avevano scovato.
Quando componeva lettere o libri, gli spettri notturni, le potenze malvagie, che aveva evocato per amore della letteratura, dominavano con un piacere intollerabile la sua esistenza. Dunque, anche lì, a Berlino, era stato sconfitto.
Come combattere contro i fantasmi? Abbiamo un solo indizio. Kafka pensò a una specie di rogo rituale, dove ardere tutto quello che aveva scritto sotto il dominio degli spettri notturni: quasi tutta la sua opera. Se avesse bruciato tutto avrebbe riacquistato quella che chiamava la sua libertà diventando un altro scrittore. Si accontentò di meno. Un giorno, quando era malato, fece bruciare a Dora alcuni manoscritti, tra cui alcuni racconti e un lavoro teatrale: non sappiamo assolutamente di cosa si tratti.
Intanto parlava continuamente a Dora dell´arte nuova libera dai fantasmi, che dopo di allora avrebbe cominciato a scrivere. Ma noi non conosciamo nessun «nuovo Kafka»: il grande racconto La tana è, per esempio, un capolavoro suggerito dai fantasmi.
Tranne diversi racconti giovanili e degli ultimi mesi di vita, e alcuni importanti epistolari, Max Brod pubblicò le opere complete di Kafka. La sua edizione è buona, anche se non perfetta: la recente edizione critica non ha portato innovazioni sostanziali. La notizia data dal giornale israeliano Haaretz, sui manoscritti di Kafka che forse possederebbe la signora Hava Hoffe, solleva molti dubbi ai quali non so come rispondere. Cosa ha la signora Hoffe? Quale materiale kafkiano, ereditato dalla madre e da Max Brod? Non si capisce per quale ragione Brod, così meticoloso, non avrebbe pubblicato tutti i testi narrativi di Kafka che aveva in mano. Esiste, forse, una possibilità. Potrebbe trattarsi di epistolari, che egli non giudicava ancora adatti, per una ragione qualsiasi, alla pubblicazione.

Repubblica 18.7.08
Una storia degna di un suo romanzo
di Siegmund Ginzberg


Brod lasciò Praga nel ´39 poco prima dell´invasione nazista e portò con sé le carte in Palestina

C´è chi parla e racconta, fin troppo. E chi non parla, si tiene stretti ricordi e documenti, resistendo ad ogni sollecitazione. Conosco bene il tipo. La signora Ilse Esther Hoffe, che si è fatta beffe, fino alla sua scomparsa, della caccia mondiale all´archivio di Franz Kafka, mi ricorda mia zia Perla. Entrambe erano vissute nella Praga di Kafka. Quasi coetanee, si sarebbero potute anche conoscere. Entrambe ebree, si sono sempre rifiutate di raccontare, specialmente di quegli anni. Ilse è morta che aveva 101 anni. Senza che nessuno fosse riuscita a scucirle la bocca su quali autografi di Kafka le avesse passato Max Brod, di cui era stata segretaria e intima.
Zia Perla se n´è andata che ne aveva 104, senza mai raccontarmi, malgrado le mie insistenze, della Praga degli anni Venti, di come da entraineuse in un caffè era diventata la moglie di uno degli uomini più ricchi e famosi della Cecoslovacchia di quei tempi. «Sai, non ricordo…», il refrain di zia Perla. Un giorno, quando aveva da tempo superato la novantina, le avevo chiesto, a bruciapelo: «Ma le altre ragazze del caffè, che fine hanno fatto?» «Ah, allora sai tutto…», si era lasciata andare, ma solo per un istante. Non ho mai capito il perché di tanta insistenza sui segreti di famiglia. Perla di chi poteva avere paura? Di mia cugina, che ha passato la settantina, ha cioè pressappoco l´età delle figlie di Esther Hoffe, e che un anno dopo la morte di mia zia mi ha chiesto: «Ma mia mamma era ebrea?». Certa gente semplicemente non parla, nemmeno sotto tortura. O se parla e scrive magari si pente, come Kafka, che aveva chiesto all´amico Brod di bruciare tutti i suoi manoscritti, il quale fortunatamente disobbedì e tradì le sue ultime volontà. Max Brod lasciando Praga nel 1939, giusto poco prima dell´invasione nazista, se li portò in un paio di valigie in Palestina, allora sotto mandato britannico. Per imbarcarsi verso la Palestina potrebbe aver preso lo stesso treno da Praga che, negli stessi giorni, prese mio padre richiamato alle armi nell´esercito turco, ma questa è un´altra storia.
No, non c´entra l´Alzheimer. Non è che Perla ed Esther non ricordassero. Mi piacerebbe essere rimbambito quanto erano furbe, vispe e lucide loro da centenarie. Esther era già ultrasettantenne quando nel 1974 l´arrestarono all´aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, diretta in Svizzera con parte dell´archivio Kafka avuto in consegna da Brod. Brod, morto nel 1968, l´aveva nominata suo esecutore testamentario, esattamente come l´amico Kafka aveva fatto mezzo secolo prima con lui. Ma era Esther a custodire gelosamente tutto il materiale da prima ancora della morte di Brod. L´editore tedesco Klaus Wagenbach è uno dei pochi che possano sostenere di aver preso, negli anni Cinquanta, almeno fugacemente visione di parte di quel materiale, che, secondo la sua testimonianza, oltre ad alcuni disegni e manoscritti autografi di Kafka, comprenderebbe il carteggio di Brod. «Brod mi lasciò visionare il materiale, ma di nascosto da Esther, che non voleva fosse maneggiato o portato via da nessuno», ha raccontato alla Frankfurter Allgemeine. «Esther era ossessionata dall´idea che qualcuno se ne appropriasse, o le venissero rubati», racconta un amico di famiglia dei Brod. C´è chi sostiene che li abbia messi in banca, e quindi non li tenesse affatto nel suo appartamento pieno di gatti e cani. Non c´è dubbio che la vecchia Esther fosse pienamente cosciente del loro valore. Ma si deve pure vivere. Nel 1987 era stata battuta all´asta a New York, per oltre mezzo milione di dollari, una collezione di 327 lettere di Kafka alla "fidanzata" Felice Bauer, l´ispiratrice del personaggio di fraulein Burstener nel Processo (lei, pur non ricambiandolo molto, aveva conservato le lettere di lui, lui aveva distrutto le lettere di lei). L´anno successivo il manoscritto originale del Processo fu venduto al prezzo allora record di quasi 2 milioni di dollari da Sotheby´s. Per conto della signora Esther Hoffe. Aveva pare promesso a un editore tedesco, per una cifra notevole, se non dello stesso ordine di grandezza, anche i diari di Max Brod. Ma a tutt´oggi non si sa che fine abbia fatto la transazione.
Il termine "kafkiano" fu usato per la prima volta in inglese, sulla rivista NewYorker, nel 1947, per indicare un intrico di vicoli ciechi. Da allora è entrato nei vocabolari di tutte le lingue, compresa la nostra, con un significato anche più ricco, che comprende ogni forma di angustia dell´individuo nei confronti degli altri e del potere in generale. Devo fare una confessione: Kafka mi attira e, al tempo stesso, mi spaventa, perché ogni volta che lo ripiglio in mano sono travolto più dall´angoscia che dal piacere, insomma mi viene una voglia irresistibile di buttarmi dalla finestra. Il fascino del kafkiano non è nella sua stranezza, è nella sua ovvietà quotidiana. Come nella vicenda dei manoscritti, come dire, galleggianti. Tutti viviamo nella realtà e negli incubi di ogni giorno storie kafkiane. Non tutti sappiamo raccontarle impietosamente, spietatamente, come faceva Franz Kafka.

Il Messaggero 18.7.08
Arte. Quel ladro del Fürer
di Fabio Isman


Voleva sopprimere quella “degenerata”,
rimpatriare i dipinti tedeschi dispersi,
creare un suo museo. E ordinò razzie
in tutta l’Europa, assicurandosi con la forza
oltre 650 mila opere. Che, 60 anni dopo,
sono al centro di infinite dispute giudiziarie

DOPO oltre 60 anni, Hitler è ancora tra noi. Almeno per ciò che riguarda le opere d’arte che ha prelevato, dal 1938 al ’45, in tutt’Europa: per gli organismi ebraici, erano 650 mila; oltre 5 milioni per un soldato americano, che dal ’43 al ’51 ha lavorato ai recuperi, Harry Ettlinger. Hitler è ancora tra noi perché non sono ancora finite le conseguenze di quella razzia, voluta con mille motivazioni: sopprimere l’“arte degenerata”, rimpatriare le opere tedesche partite dalla Germania dopo il 1500, creare a Linz l’Hitler Museum. Così, s’è da poco scoperto che Cupido si lamenta con Venere della National Gallery di Londra, un capolavoro di Lucas Cranach il Vecchio comprato nel 1963, era nell’appartamento di Monaco del Führer, mai fotografato: a Washington, tra i 1.200 libri della biblioteca di Hitler, la studiosa Birgit Schwartz ha ritrovato un album con i dipinti che erano lì; questo non si sa a chi appartenesse, se ad un ebreo o no, e quindi, non si parla per ora di un’eventuale restituzione.
Come esclude una restituzione, assumendo d’avere acquistato in buona fede, l’ottuagenario Rudolf Leopold, collezionista dei più celebri, che ha aperto un museo a Vienna: vi hanno trovato 12 opere rubate dai nazisti a ebrei; anche Case sul lago di Egon Schiele, 1914. L’obbligo di restituzione, in Austria, riguarda solo le pubbliche istituzioni; ma ora, il ministro della Cultura dice che saranno varate «regole più severe». Dopo 60 anni è invece tornato alla Gemäldegalerie di Berlino il Ritratto di donna con cane di Alessandro Allori, allievo di Agnolo di Cosimo detto il Bronzino, che eterna Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I Medici; era sparito dai depositi durante la guerra, e cela una storia curiosa. Per mezzo secolo l’ha avuto un corrispondente da Berlino della Bbc, Charles Wheeler: ricevuto come regalo di nozze da un amico di Francoforte, che spiegava di averlo comprato da un soldato russo. Ma in questa storia, il clou della singolarità spetta a due album, 110 foto di dipinti francesi proprietà di ebrei essi pure francesi, ritrovato pochi anni fa, in una soffitta americana. Esibiti come prova al processo di Norimberga, 39 album simili sono negli archivi a Washington: se li faceva preparare Hitler, per scegliere cosa prelevare; e ne esisterebbero altri 40. Un soldato americano, nel 1945, ne preleva due dal Berghof, il “nido d’aquila“ sulle Alpi Bavaresi che era la dimora preferita dal Führer: vengono ritrovati dopo la sua morte.
Ma oltre 60 anni dopo, le querelles imperversano. Da Vienna sono partiti, pochi anni fa, cinque Klimt indebitamente prelevati; ma gli eredi di un mercante ebreo tedesco non riescono a riavere due Cranach (i Ritratti di Adamo e Eva) dal Norton Simon Museum di Pasadena, California: giudicata prescritta la loro richiesta. Altri eredi combattono con i musei, per un Otto Dix e un acquerello di Paul Klee. Si è ritrovato in Grecia un carnet di disegni di Van Gogh: un partigiano ellenico l’aveva sottratto da un treno nazista.
Per le sue razzie, Hitler aveva formato reparti speciali: il Sonderraufrtrag Linz, che controllava di persona, per il museo di Linz; l’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg (Alfred era il “guru” ideologico del partito), che ramazzava libri e oggetti ebraici per un futuro istituto di documentazione, s’intende antisemita: a Roma, le biblioteche della Comunità ebraica; poi, c’era il Kunstschutz. Un grande cacciatore di “arte rubata”, Rodolfo Siviero spiegava: «Hitler e Göring senza ritegno andavano accaparrando, anche con complicità italiane». Se a fine ’700 Napoleone nelle sue razzie ha per mentore Dominique Vivant-Denon, creatore del Louvre, Hitler ha al fianco Hans Posse, direttore del museo di Dresda dal ’13; e con lui, Bruno Lohse dell’Einsatzstab Rosenberg, consulente di Hermann Göring, morto, senza avere troppi problemi, a 95 anni nel 2007, la cui ombra ora riemerge.
Gisela Fischer, 87 anni che vive a Zurigo, è partita da Vienna bambina, nel ’38: due giorni dopo l’Anschluss. La casa dei suoi, subito saccheggiata dalla Gestapo. Lei cerca ancora un dipinto di Camille Pissarro, Le Quai Malaquais, Printemps. Interpella l’“Art Loss Register”, un organismo privato di Londra che recupera opere sparite. L’indagine è affidata a Jonathan Petropoulos, storico che insegna negli Usa e dirige un istituto di studi sulla Shoah e ha diretto una commissione creata da Clinton nel ’98 per ridare a chi di diritto le opere sottratte esistenti negli Usa. Questi dice di sapere dove è; la possiede una Fondazione. L’Art Register chiede molti soldi per il recupero. Petropoulos, pure: si presenta con un mercante tedesco, chiedono di più. La signora declina. La polizia di Zurigo irrompe nel caveau di una banca; con un Renoir e un Monet, trova il Pissarro. Il caveau è di una “Anstalt” del Liechtenstein, fondata da Lohse; il mercante ne era l’aiutante: è entrato nel caveau 20 volte dopo il 1988. Petropoulos dice che non sapeva, e si dimette. Indagini sono in corso. Intanto, a Gerusalemme due mostre espongono 40 opere «orfane»: tornate in Israele, ma senza padroni; e 53 francesi in cerca di chi le reclami. Davvero, dopo oltre 60 anni, Hitler è ancora tra noi.

Il Messaggero 18.7.08
«Contro le ingiustizie mi metto in ballo»
Vanessa Redgrave, accompagnata dai figli, accende il Global Fest e parla
del suo impegno sociale e politico, di povertà, di xenofobia, di bambini
E di cinema: «Amo da sempre quello italiano»
di Giovanni Luca


ISCHIA – E' sera. Luna quasi piena su Ischia, sul golfo, sulle chitarre della Nuova Compagnia di Canto popolare, su una tammurriata che impazza. Un concerto al profumo di bougainvillea e di Arabia: note che incalzano, furiose. E Vanessa Redgrave si mette a ballare. Come se fosse la cosa più normale del mondo. A settantun anni. Una larga tunica bianca, la sua magrezza. La figura dritta. I capelli di argento scintillante, senza mistificazioni. Gli occhi limpidi, da ragazzina. Balla senza esitazioni. E d'improvviso diventa leggerissima. Diventa musica.
E', quella danza, una delle gemme inattese dell'Ischia Global Film and Music Fest, il festival di cinema e musica segnato dalla presenza carismatica di Vanessa Redgrave. Una leggenda del cinema che balla. Non per esibizionismo, o per i fotografi, ma per pura gioia. Lei, figlia di un divo del cinema inglese, sir Michael Redgrave, gentleman amato da Hitchcock e da Welles, cresciuta a luci del set, apparsa nel cinema che conta tra le foto in bianco e nero di Blow Up di Antonioni, per poi correre una cavalcata lunga quarant'anni, attraverso il cinema internazionale e l'impegno politico e sociale. Lei, pasionaria e appassionata. Compagna di uomini di cinema, come Tony Richardson e Franco Nero. Madre, ancora nel segno del cinema. Joely e Natasha, le figlie, attrici di eleganza e sex appeal. Carlo Gabriel Nero, il figlio, regista. Ed è con lui, e con Joely, che Vanessa balla, il calice di vino alto. E quella voglia di perdersi nella musica, di smemorarsi nel sapore delle note che hanno spesso gli inglesi. Specie se offri loro una camera con vista sul Sud.
Poi, però, il mattino dopo, la incontriamo e parla di cose serie. E dure. Bambini, libertà, diritti umani, politica, Unicef. «I bambini sono le prime e autentiche vittime delle guerre. L'Unicef ha un compito: non fare dimenticare i bambini. Sono stata in Bosnia, Serbia, Macedonia, Croazia. Ne ho visti a migliaia. Ci sono bambini vittime delle mine, ma anche degli embarghi, della miseria, della mancanza di medicine. In Africa c'è lo sterminio di un'intera generazione di bimbi e di genitori per il virus dell'Aids». Lei, ambasciatrice Unicef da anni, fondatrice di movimenti per la pace, impegnata da sempre contro le guerre, quella del Vietnam come quella in Iraq, dice: «La convenzione sui diritti dell'infanzia sarà ratificata nel 2009. Spero che diventi un impegno anche per quei governi, come gli Stati Uniti, che ancora non si sono caricati di questa responsabilità». Clinton aveva firmato la Convenzione, dice. Ma nessun governo Usa ha poi ratificato gli accordi.
Vanessa parla di povertà: «C'è una povertà che dilaga in tutto il mondo, di cui siamo tutti responsabili. E non ci sono soltanto i bambini da proteggere. Ci sono le loro madri, gli anziani, gli imprenditori che hanno fallito, gli sconfitti di questa società. E i governi non si occupano di loro». Parla di xenofobia. Non parla direttamente dell'Italia. Ma dice: «Se ti dici cristiano, come puoi chiudere la porta di fronte a un rifugiato? Il diritto di asilo dovrebbe essere riconosciuto a chiunque. Invece c'è una xenofobia pervasiva, che si diffonde per motivi economici. La polizia di Paesi europei picchia i rifugiati stranieri. Tutto questo deve cambiare. Il cinema? Può servire anche a questo: a fare aprire gli occhi. Come il cinema italiano che ho amato. Quello di De Sica, di Rossellini, di Fellini. Ladri di biciclette e La strada hanno acceso in me la passione per questo mestiere».

giovedì 17 luglio 2008

l’Unità 17.7.08
Non solo Rom: dal 2010 tutti «schedati»
di Maristella Iervasi


Sì all’emendamento nella manovra economica di inserire i rilievi digitali sulle carte d’identità: dal 2010 le impronte saranno obbligatorie per tutti. Intanto, sui rom è scontro Pd-Maroni. Veltroni attacca: fermare subito la norma sulle impronte ai nomadi. Ma Maroni insiste: «Non ci penso proprio a ritirare la mia ordinanza». Sulla vicenda interviene anche il Garante della Privacy: sì al prelievo, basta che riguardi tutti indistintamente e con adeguate garanzie. E Bucarest avverte: le impronte ai rom, una pratica discriminatoria.
«Sospendere immediatamente la norma sulle impronte ai nomadi. Non ha più senso, visto che è ormai decisione universale». Walter Veltroni, leader del Pd, dopo l’emendamento approvato nella manovra economica (presentato da An e passato anche con i voti del Pd) di inserire i rilievi digitali sulle carte d’identità di tutti i cittadini , lo invoca con forza. Ma è subito scontro con Maroni, il ministro leghista che «vuole» censire i Rom. «Non ci penso proprio a ritirare la mia ordinanza che riguarda il censimento nei campi nomadi per ottenere l’identificazione di chi c’è. Veltroni abbia la decenza di rimanere zitto e l’onestà di vergognarsi e chiedere scusa - ribatte a stretto giro di posta il responsabile del Viminale. E ripete la stessa litania: «Veltroni, si vada a rileggere il patto per la sicurezza a Milano che Amato ha firmato durante il governo Prodi. Lì si parlava di emergenza rom; lì era discriminazione etnica. Noi l’abbiamo corretta con emergenza campi nomadi. Le impronte per tutti ci saranno dal 2010 e va benissimo - sottolinea -. Ma non cambia la nostra azione che serve per dare identità a chi non ce l’ha. Solo a Roma su 7mila minori solo mille hanno una qualche forma di scolarizzazione. Le polemiche - conclude - sono faziose, fasulle, tarocche e non mi stancherò di perseguire in sede giudiziaria». Ma Bucarest valuta così le misure del governo italiano: «Una pratica discriminatoria», fa sapere il premier romeno Calin Popescu Tariceanu. Mentre dal Garante della privacy arriva un invito fermo e chiaro alla «moderazione» nell’uso delle impronte e dei dati biometrici che non vanno usati «secondo criteri discriminatori», perchè «potenzialmente lesivi» della dignità delle persone.
Parla infatti Francesco Pizzetti, nella sua relazione annuale al Parlamento. E osserva: «Sì al prelievo delle impronte ma a condizione che riguardi tutti, indistintamente. Con regole e modalità introdotte dal Parlamento e con adeguate garanzie per i cittadini - precisa il Garante della privacy -. No, invece, alla rilevazione di dati biometrici in chiave discriminatoria». Il Garante affronta quindi anche il delicato tema dei minori e sottolinea che in questo caso «le cautele devo essere moltiplicate». Dev’essere chiarito «al di là di ogni dubbio» che a questo si fa ricorso «solo quando non è possibile usare altri strumenti» e al fine, «dimostrato», di proteggere i minori e la loro integrità. E poco dopo Maroni in Transatlantico commenta: «Il confronto con il Garante è aperto. Delle sue raccomandazioni ne terremo conto, tutto sarà fatto a regola d’arte». Il responsabile del Viminale non fa dunque marcia indietro e ribadisce che il censimento si concluderà in ottobre. Poi, incontrando le associazioni che si occupano di bambini, tra cui l’Unicef, lancia «un’idea» su cui sta lavorando: i bambini che vivono nei campi nomadi e sono senza genitori certi potrebbero avere la cittadinanza italiana. «Un’eccezione alla regola dello “jus sanguinis”, sottolinea.
Intanto, è di nuovo scontro tra la Romania e l’Italia. «Per il governo rumeno il rispetto dei diritti umani è una priorità. Non possiamo accettare che i cittadini rumeni siano soggetti a pratiche discriminatorie che non rispettano la dignità umana», ha detto il primo ministro Calin Tariceanu nel corso della riunione dell’esecutivo a Bucarest. Una preoccupazione lecita e un messaggio di disappunto che è stato fatto arrivare a Roma, attraverso l’ambasciatore Daniele Mancini, proprio incentrato sull’ordinanza Maroni sulla raccolta delle impronte digitali nei campi nomadi e sulle misure per i comunitari previste dal decreto sicurezza. Puntuale la controreplica della Farnesina: «Bucarest ha una conoscenza incompleta delle iniziative legislative recentemente adottate». In Italia - si legge in una nota del ministero degli Esteri - sono senz’altro «apprezzate» le «qualità» professionali ed umane della grande maggioranza dei lavoratori e cittadini romeni che vi risiedono. Tuttavia è noto «come una minoranza di essi si sia resa purtroppo responsabile di reati» che hanno profondamente colpito l’opinione pubblica italiana e che hanno «richiesto misure» per attuare controlli più efficaci, «non certo basati su criteri di nazionalità». Sulla stessa lunghezza d’onda anche il ministro per le politiche europee Andrea Ronchi: «Le preoccupazioni di Tariceanu sono assolutamente ingiustificate e destituite di ogni fondamento».

Punto informatico 17.7.08
L'Italia cede alle impronte digitali


Roma - C'era solo un modo per evitare che le polemiche infraeuropee sull'adozione di strumenti biometrici di controllo si placassero: il Governo italiano che intendeva schedare i Rom ora ha manovrato per estendere dal 2010 questa schedatura a mezzo impronte digitali a tutti i cittadini. In particolare, dal 2010 le carte di identità comprenderanno le impronte digitali dell'intestatario.
Il provvedimento è integrato al decreto legge della manovra voluta dal Governo, una misura che ha già ottenuto un primo via libera ieri notte dalla commissione Bilancio della Camera e che è associata al raddoppio del periodo di validità della carta di identità. "La carta di identità - recita l'emendamento - ha durata dieci anni e deve essere munita della fotografia e delle impronte digitali".
Sul provvedimento c'è un accordo bipartisan: maggioranza e opposizione sembrano andare a braccetto in questa occasione, anche perché - dicono tutti con convinzione - è l'Europa a muoversi in questa direzione. La sensazione nel Palazzo ancora oggi, insomma, è che contro ogni evidenza tecnica e tecnologica, la registrazione delle impronte digitali abbia effettivamente un senso anche quando applicata a tutti indiscriminatamente. Anzi proprio per questo, parrebbe, a sentire le dichiarazioni degli esponenti politici.
Secondo il segretario del Partito Democratico Walter Veltroni, ad esempio, "è giusta la decisione di prendere a tutti le impronte digitali". Veltroni chiede dunque la sospensione della misura rivolta ai soli Rom e sottolinea che "è giusto che sia una decisione universale". Soddisfazione anche di Pier Ferdinando Casini secondo cui è stata accettata la proposta del suo partito, l'UDC, per il quale è necessario "prendere le impronte digitali a tutti i nostri figli e non solo ai minori Rom, che sarebbe stata una misura razzista. Così invece si va sulla strada della giustizia e del rispetto della legalità".
Secondo i presentatori dell'emendamento, i deputati del PDL Marco Marsilio, Fabio Rampelli e Massimo Corsaro, in questo modo si risolvono tutti i problemi. "Grazie a questa norma - ha affermato Marsilio - è stata spazzata via la strumentale e demagogica polemica montata contro il governo in merito alla vicenda delle impronte ai minori nomadi. Questo provvedimento equipara tutti i cittadini nell'esigenza di rendere disponibili tutte le più moderne tecnologie per garantire la sicurezza e rendere certa e inequivocabile l'identificazione delle persone". Secondo Corsaro, "l'archivio tecnologico delle impronte digitali verrà accolto con favore dalla stragrande maggioranza dei cittadini onesti che non avvertirà questa innovazione come una costrizione o una limitazione della libertà personale, ma la interpreterà correttamente come un contributo al controllo del territorio e al mantenimento della sicurezza da parte delle istituzioni".
In realtà una certa prudenza l'ha espressa, invece, il Garante per la privacy Francesco Pizzetti, che ha ieri presentato la Relazione annuale e che a questo proposito ha dichiarato: "Il Garante non può che ripetere un fermo e chiaro invito alla moderazione nell'uso di questi strumenti, in quanto potenzialmente lesivi della dignità delle persone". Pizzetti ha in particolare affrontato il problema della schedatura dei minori ma è in effetti l'unica voce istituzionale che ieri abbia sollevato perplessità su un uso indiscriminato a tappeto di questa tecnica biometrica.
Le polemiche su una questione da lungo tempo dibattuta in sede internazionale non si sono fatte attendere. Falsificare una impronta digitale è a portata di tutti. È dello scorso marzo la clamorosa iniziativa degli hacker del Chaos Computer Club, che hanno pubblicato le impronte digitali del ministro dell'Interno tedesco in una confezione pronta ad essere usata da chiunque per lasciare in giro impronte identiche a quelle del Ministro. Ma è solo l'ultima di una serie di dimostrazioni che negli anni hanno demolito il concetto di impronta digitale come strumento identificativo. Gli howto per realizzare rapidamente kit di riproduzione di impronte altrui sono naturalmente a disposizione su Internet di chiunque abbia interesse a studiarsi questi metodi.
E se i Garanti europei in più occasioni hanno messo in guardia sull'utilizzo indiscriminato della biometria, un approfondimento di Stefano Rodotà, già garante italiano, proprio in questi giorni ha letteralmente fatto a pezzi l'idea di catturare le impronte digitali dei cittadini.
Il furto dell'impronta digitale può rivelarsi gravido di conseguenze, scrive Rodotà: "Se il furto riguarda l'impronta digitale, poiché questa non è sostituibile, l'effetto è drammatico: sarò escluso da tutti i sistemi fondati sull'identificazione attraverso l'impronta". "La tecnica delle impronte digitali - scrive ancora - non solo non è sicura ma, sfidata com'è anche dalle tecnologie della falsificazione, diviene pericolosa, rendendo possibile la disseminazione delle impronte all'insaputa dell'interessato, in occasioni e luoghi che questi non ha mai frequentato". Senza contare, inoltre, che "solo nelle apparenze le impronte digitali possono essere definite uno strumento neutrale. Hanno un forte valore simbolico: chi le raccoglie sembra quasi che si impadronisca del corpo altrui".
Ma le polemiche giungono anche dalla blogosfera. Non appena si è iniziata a diffondere la notizia, sui blog italiani si sono moltiplicate critiche e perplessità. Sul suo blog Alessandro Bottoni, nome già noto ai lettori di Punto Informatico, parla di provvedimento grave: "Questa soluzione - scrive - risolve un problema inesistente ed introduce un rischio molto più grave di quello che pretende di affrontare". Anarcadia invece scrive: "le impronte digitali saranno prese a tutti, così risolviamo la discriminazione su base etnica e troviam la scusa buona per aumentare il controllo dello stato sui cittadini, in un colpo solo".

l’Unità 17.7.08
La ritirata dopo la vergogna
di Paolo Soldini


Il ministro dell’Interno di quello che fu uno dei più prepotenti governi del mondo risale in disordine e senza speranza le valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza. Ci vorrebbe un generale Diaz per dar conto della botta che ha preso Roberto Maroni quando l’altra notte, in sede di discussione della Finanziaria, si è fatto polpette della sua arrogante pretesa di smontare un pezzo di civiltà di questo paese per imporre il razzistico provvedimento della schedatura con le impronte digitali dei piccoli rom. Le impronte digitali verranno prese a tutti quelli che chiederanno la carta d’identità dal 1° gennaio del 2010. Si può discutere se è bene o male, utile o inutile, ma si tratta di una cosa molto, molto diversa da quanto stava scritto nell’ordinanza «sui campi nomadi» e da quanto (contraddicendosi ogni volta che apriva bocca) andava sostenendo da settimane l’improvvido ministro dell’Interno: che la misura non era discriminatoria ma serviva, anzi, a «tutelare» i bambini nomadi. In realtà era discriminatoria in modo odioso e contraria a tutte le norme europee e internazionali sui diritti civili e l’uguaglianza dei cittadini e non tutelava proprio nessuno. Persino il superfluo ministro agli Affari comunitari era in grado di accorgersene.
Un generale Diaz non ce lo abbiamo. Possiamo mettere in fila, però, la truppa che ha contribuito a ricacciare gli invasori oltre le Alpi del buon senso, del diritto delle genti e della morale (morale: che bella parola). La Commissione europea, particolarmente il commissario agli Affari Sociali Vladimir Špidla, ma anche il francese Jacques Barrot (Giustizia e Libertà pubbliche) e lo stesso presidente Barroso, il quale, ancorché politicamente legato a Berlusconi (il quale sua sponte et pour cause gli ha promesso l’appoggio alla ricandidatura), ha comunque fissato, in una intervista al TG1 i paletti del "rispetto delle norme e dei princìpi europei". Poi l’Unicef, quindi l’Onu, con la condanna espressa non "da alcuni funzionari", come scrivevano ieri servilmente "alcuni giornali" (tra cui il Messaggero), ma da Doudou Diene, incaricato speciale sul razzismo per il Segretario Generale, da Gary McDougall, responsabile del comitato per la tutela delle minoranze e da Jorge Bustamante, responsabile per le politiche sull’immigrazione. Il governo italiano ha poco da risentirsi ed esprimere "sconcerto". Si sconcerti piuttosto per il dilettantismo dei suoi ministri e dei loro consiglieri diplomatici. Che hanno fatto rischiare all’Italia anche una crisi diplomatica con Bucarest, dove l’ambasciatore Daniele Mancini è stato convocato perché riferisse alle autorità italiane che il governo romeno "non può accettare che i cittadini romeni siano sottoposti a soprusi e a pratiche discriminatorie che non rispettano la dignità della persona umana". Poi il parlamento europeo, il quale ha votato una mozione di condanna della direttiva che Maroni, sceneggiato con ampi gesti dal suo collega più pleonastico, nella conferenza stampa tenuta qualche giorno fa ha bollato come "manovra strumentale della sinistra". Peccato che la mozione tanto strumentale e tanto di sinistra sia stata votata non solo dai liberal-democratici, ma anche da 21 deputati del Ppe, con altri 77 che si sono astenuti. Intere nazionalità, come i francesi, hanno votato il documento contro il governo Berlusconi. Il che ha aperto un problema politico di prima grandezza nel momento in cui Forza Italia sta cercando di portare dentro il gruppone Ppe gli eurodeputati di An. Infine, dopo il parere negativo di costituzionalisti, giuristi, avvocati, esperti di diritto internazionale, parroci, vescovi, Famiglia Cristiana, è arrivato quello, ufficialissimo anche se un po’ tardivo, del Garante della Privacy Francesco Pizzetti, il quale ha ammonito a non "fare ricorso a queste tecniche (le impronte digitali) secondo criteri discriminatori, specialmente di natura etnica o religiosa, che contrastino con la nostra Costituzione e con le carte dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino che il nostro paese ha siglato". Chiaro, no?
Chissà se qualche giornale, di quelli specializzatissimi in retroscena (qualche volta anche veri), ci racconterà come è maturato l’indietro-marsch di Maroni e soci. La nostra impressione è che abbia pesato, e molto, la rivolta nel Ppe della quale Barroso nella sua visita-lampo a Roma deve aver parlato con qualche preoccupazione a Berlusconi e che in caso di ulteriore incaponimento di Maroni avrebbe rischiato di avere un impatto duro, qui da noi, nei non semplicissimi rapporti tra Fi e An e in quelli ancor meno semplici tra la Lega e tutti e due gli alleati. L’inasprirsi, nelle ultime ore, dei toni sul tema giustizia potrebbe essere un segnale. Ma queste sono impressioni e illazioni. La cosa certa è che dopo uno schiaffone come quello che gli è stato stampato sulla faccia, ancorché di bronzo, il ministro dell’Interno dovrebbe dimettersi. In qualsiasi paese civile, un ministro che non riesce a far passare un provvedimento su cui ha puntato tutto, farebbe le valigie e a casa. Ma siamo nell’ Italia del cavalier Berlusconi e sapete che succederà? Maroni sosterrà che nessuno lo ha sbugiardato, per carità, ci mancherebbe altro. Io quelle cose le ho sempre dette, sono i giornali che non hanno capito. Le impronte digitali per tutti? Ma certo, è proprio quello che volevamo… Ah, come sarebbe bello se almeno per una volta il ministro dell’Interno della Repubblica italiana dicesse la verità. Che volete, ci piace sognare.

il Riformista 17.7.08
Ai bimbi rom no e a tutti gli italiani sì?


Ricapitoliamo. Prelevare le impronte digitali ai soli rom, misura funzionale alla possibilità per lo Stato di poterne tracciare l'identità, è inaccettabile. La stessa misura, estesa dal 2010 a tutti gli italiani, non desta preoccupazione. È davvero bizzarro il ragionamento per cui una lesione delle libertà civili è tanto più digeribile quanto più è estesa. Dietro, c'è un tic politicamente corretto e, per carità, comprensibile. È vero che ci riesce intollerabile l'immagine delle impronte prelevate ai bambini rom, contro cui si è scagliato anche Veltroni. Ma cosa rende più accettabile lo stesso prelievo agli adulti italiani?
Ieri il presidente dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali, Francesco Pizzetti, ha pronunciato un cauto ammonimento contro questa tendenza alle schedature generalizzate. Che già impazza nel privato. Quanti dati sono «concentrati», nei software di Google? Come valutare la campionatura di noi tutti, come consumatori che acquistano on line, che fanno i grandi negozi alla Amazon? C'è una perdita di privacy, ed è chiara. Certo, può anche essere utile, dal momento che il mio libraio informatico impara i gusti di mio gradimento. Finché i dati non sono concentrati in un unico luogo, si possono trarre i vantaggi che un po' di riservatezza in meno può produrre, abbastanza a cuor leggero.
Altra cosa quando si parla dello Stato. Noi viviamo in un paese nel quale le richieste delle assicurazioni di costituire un'Authority contro le frodi, da loro finanziata, sono cadute nel vuoto. Sarebbe un esercizio abbastanza semplice, un database degli imbroglioni, che hanno dimostrato di meritarsi meno rispetto per i propri diritti. Non si può: per la normativa sulla privacy. O forse perché sarebbe discriminazione: colpirebbe i «moralmente eterodossi».
Invece schedare tutti gli italiani si può, e andrà fatto. Dice Pizzetti che l'utilizzo dei dati biometrici, «anche nella forma del prelievo delle impronte digitali, si va diffondendo a macchia d'olio, sia nel mondo del lavoro sia in altri ambiti. Il Garante non può che ripetere un fermo e chiaro invito alla moderazione nell'uso di questi strumenti, in quanto potenzialmente lesivi della dignità delle persone». Un modesto reminder al nostro reminder. La riservatezza non è solo un fatto d'intercettazioni.


l’Unità 17.7.08
«La destra vuole una magistratura controllata dalla politica»
Preoccupazione al Csm. Cascini, segretario dell’Anm: il loro vero obiettivo è limitare l’indipendenza delle toghe
di Massimo Solani


Ora che Berlusconi ha deciso di caricare a testa bassa contro le toghe al Consiglio Superiore della Magistratura l’aria è tesa e preoccupata. Un po’ per il timore di sentirsi rinfacciata dalla maggioranza qualsiasi pur cauta esternazione, un po’ per la necessità di capire sino in fondo i contorni della nuova operazione giustizia del centrodestra, fatto è che a Palazzo dei Marescialli pochi sono i consiglieri disposti a commentare le nuove iniziative di Berlusconi. Un dato comunque è certo: sono lontani i tempi in cui il ministro della Giustizia Alfano prometteva una riforma condivisa in grado di ridare efficienza ai tribunali. «Lo avevo detto quando il ministro era stato qui: non facciamoci troppe illusioni - commenta il togato Livio Pepino - i fatti ci stanno dando ragione. C’è una mancanza di volontà di dialogo reale». E preoccupano anche le nuove sparate di Berlusconi: «per ora siamo nella fase delle iniziative legislative - prosegue l’esponente di Md - utilizzate come messaggi, profondamente negativi e inutili per l’efficienza del servizio e dannosi per l’indipendenza dei magistrati». Timori condivisi anche da Fabio Roia (Unicost): «Il problema vero è l’efficienza della giustizia - spiega - mentre qui si vuole ritoccare lo status dei magistrati per arrivare a una magistratura più controllabile dalla politica». Nei corridoi di Palazzo dei Marescialli l’agitazione è pesabile, e più di qualcuno adesso ricorda le parole del vicepresidente Mancino quando, dopo le fughe di notizie sul parere relativo alle norme blocca processi, si lasciò sfuggire un profetico «voi non vi rendete conto cosa rischiamo con questa maggioranza». «Sembrava che il ministro volesse concentrare la sua attenzione da subito sui processi - spiegava ieri Giuseppe Maria Berruti, uno dei togati più ascoltati e “di peso” - Prendo atto che l’intento è mutato». Del resto anche ieri si è notato quanto tesi siano i rapporti Palazzo Chigi-Csm, quando Ciro Riviezzo, Mario Fresa e Dino Petralia di Movimento per la Giustizia (corrente “verde” e di sinistra) hanno chiesto l’apertura di una pratica a tutela dei magistrati di Pescara, duramente attaccati da Berlusconi dopo l’arresto del presidente dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco.
Ma gli annunci di riforma del premier preoccupano anche il sindacato delle toghe. «Ancora una volta - spiegava infatti ieri Giuseppe Cascini, segretario dell’Associazione nazionale magistrati - la politica sembra volersi occupare della riforma dei magistrati, avendo come unico obiettivo quello della riduzione dell'indipendenza della magistratura».

l’Unità 17.7.08
Vita: troppi tagli all’editoria, si attacca la libertà


«Nel provvedimento eufemisticamente chiamato “Disposizioni urgenti per salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie” vengono tagliati almeno 300 milioni di euro a cultura, attività sportive, attività scolastiche universitarie e editoria: un provvedimento nato sotto un titolo economico, in verità dà un colpo ferale e terribile alla cultura italiana nei suoi vari aspetti, in particolare all'attività editoriale». È il grido di allarme del senatore del Pd Vincenzo Vita. «In Italia abbiamo tante attività non immediatamente di mercato come quotidiani, fogli di diversa periodicità, emittenze, ambiti che non hanno un tornaconto finanziario, ma che certo contribuiscono a quella straordinaria libertà che è la libertà di informazione - prosegue - Ebbene, da oggi al 2010 si prevede un taglio sulla voce specifica di bilancio del 6,8%. Un taglio talmente grave che è un vero e proprio attacco, forse inaudito e mai visto, alla libertà di comunicare».

l’Unità 17.7.08
Tagli alla sicurezza, Veltroni: sarà opposizione dura
Il leader del Pd: fanno decreti urgenti sull’ordine pubblico e poi tolgono le risorse. Oggi in piazza con le forze dell’ordine
di Maria Zegarelli


«O ci sarà un intervento per ripristinare le condizioni prima del taglio di 3,2 miliardi per la sicurezza o noi utilizzeremo tutti gli strumenti di opposizione per impedire che la sicurezza dei cittadini sia messa a repentaglio». Il segretario del Pd Veltroni promette battaglia in aula dopo aver denunciato i tagli previsti nella manovra sulla sicurezza. E annuncia: oggi sarò in piazza con i sindacati delle forze dell’ordine.
«Forze dell’ordine umiliate dal governo»
La denuncia di Veltroni: tagli incredibili, a rischio la sicurezza dei cittadini. Via al tesseramento

«O CI SARÀ un intervento per ripristinare le condizioni prima del taglio di 3,2 miliardi per la sicurezza o noi utilizzeremo tutti gli strumenti di opposizione per impedire che la sicurezza dei cittadini sia messa a repentaglio». Walter Veltroni lancia l’affondo contro i tagli previsti nella manovra su sicurezza, sanità e scuola. Il segretario del Pd - che oggi parteciperà alle 11 a piazza Montecitorio, alla protesta indetta dai sindacati delle forze dell’ordine - durante una conferenza stampa a Montecitorio ricorda il leit motiv della campagna elettorale del Pdl, tutta centrata sull’emergenza sicurezza per i cittadini e il taglio delle tasse e sottolinea come alle parole corrispondano atti di ben altro contenuto. «È incredibile - dice - che, mentre siamo impegnati al voto sul Dl sicurezza, si corrisponda nella manovra a misure assolutamente in contrasto per garantire la presenza delle forze dell’ordine sul territorio».
I tagli previsti per sanità e scuola arrivano in una «situazione gravissima, come non era da decenni. C’è una stagnazione che si va configurando come una recessione e come tale viene già percepita dalle famiglie italiane». Il Paese «rischia di avvitarsi in una spirale drammatica perché nella manovra del governo non c’è nessuno stimolo alla crescita», ma solo tagli che «graveranno sulle tasche dei cittadini». Il ministro ombra dell’economia Pierluigi Bersani, cita le forze della natura: «La manovra triennale è stata fatta in modo pericolosamente confuso e, con questo modo di impostare la politica economica, lo tsunami dell’inflazione si abbatterà sui cittadini». Una manovra, quella che arriva in Parlamento, assolutamente diversa da quella licenziata dal Consiglio dei ministri due settimane fa, ricorda Soro, dopo nove minuti e mezzo di discussione, come ebbe a vantarsi il premier. È evidente che l’opposizione si prepara a un ostruzionismo in aula, anche se questa è una maggioranza che pur avendo un largo respiro sui numeri ormai si muove a suon di fiducia per impedire qualunque dibattito parlamentare. Il Pd guarda alla battaglia parlamentare ma, come ha sottolineato lo stesso segretario durante la Direzione martedì scorso, punta anche e soprattutto alla mobilitazione sul territorio e alla grande manifestazione di ottobre, proprio sui temi dell’emergenza economica e sociale in cui versa il Paese. E quanto sia sentito il tema lo dimostra il fatto che il videoappello «Salva l’Italia», lanciato dal segretario sabato scorso in rete sia già stato visto da oltre 35mila persone, mentre la petizione in cinque giorni conta oltre 12.500 firmatari, con una media di oltre duemila firme ogni giorno. E ieri, durante una conferenza stampa Veltroni ha presentato la campagna di tesseramento 2008-2009 il cui slogan sarà «La differenza la fai tu». La tessera numero 1 ha già un titolare: il segretario, che ieri l’ha mostrata davanti alle telecamere. Sarà la «carta d’identità» dei militanti che per averla dovranno recarsi presso un circolo o un luogo pubblico, come le Feste democratiche in giro per l’Italia, firmarla e dare un contributo di 15 euro. «Ci rivolgiamo innanzitutto agli elettori delle primarie - dice Veltroni - ma anche a chi crede nella nostra alternativa riformista per la guida del Paese e pensa che sia l’unica alternativa a Berlusconi».
A settembre partirà anche la prima Summer school che non «sarà una scuola di partito ma un luogo di discussione, ascolto, riflessione non solo per i partecipanti ma anche per i politici che avranno modo di ascoltare una parte consistente della migliore cultura italiana e non solo». Il tema generale sarà «Globale-locale, le sfide della democrazia nell’era della globalizzazione». Tra i «docenti», Jeremy Rifkin, Mauro Ceruti, Valdana Shiva, Bernard Spitz, Andrea Riccardi.

Corriere della Sera 17.7.08
D'Alema: sulle riforme serve un colpo di reni Sì a ragionevoli convergenze
L'ex premier: ognuno deve assumersi le sue responsabilità Il sistema tedesco? Ha più consensi, nessuna lite con Walter
intervista di Maria Teresa Meli


Non ho alcun interesse a mettere in discussione la leadership di Veltroni né sono candidato ad alcuna leadership
L'enormità della crisi viene sottovalutata. Se andiamo avanti così la gente reagirà mandandoci tutti a quel paese

ROMA — Onorevole D'Alema, lei ripropone il sistema elettorale tedesco e tutti pensano male. Un sistema contro Veltroni?
«Innanzitutto non sono io: sono 15 istituzioni e fondazioni culturali, con il concorso di prestigiosi giuristi e costituzionalisti, tra cui tre ex presidenti della Corte, che hanno elaborato una proposta organica di riforma della legge elettorale e della forma di governo, allo scopo di disegnare un assetto più efficiente e democratico per le nostre istituzioni. È ridicolo che tutto questo venga letto nella chiave di un conflitto D'Alema- Veltroni».
Dicono che lei usi la riforma ai fini congressuali...
«Non ci sarà alcun congresso né alcuna resa dei conti, ma una conferenza programmatica per mettere a punto le nostre proposte ed è esattamente a questa riflessione che io cerco di dare un contributo».
Fatto sta che il Pd non si è schierato per il tedesco.
«Noi non abbiamo scelto un sistema. Abbiamo sempre detto che preferiremmo il sistema francese a doppio turno, ma sappiamo anche che in Italia nessuno lo sostiene. Il francese è una posizione di scuola».
Anche il tedesco.
«Non è così. Nella scorsa legislatura abbiamo partecipato a un confronto parlamentare sulla base di proposte di tipo proporzionale a partire dal modello tedesco o dal modello spagnolo: non mi pare che ci siano diversità tali da giustificare una guerra di religione».
A Forza Italia non piace...
«Quel che noi abbiamo proposto ha trovato il consenso di tutte le forze di opposizione: è una proposta condivisa dalla sinistra e dall'Udc, e accettata da Di Pietro. Se è vero che è venuta una reazione negativa da parte di Cicchitto, è anche vero che la Lega ha detto: "Noi non siamo contrari". Allo stato delle cose nessuna proposta è condivisa in modo prevalente, ma il tedesco è quello che ha il maggior numero di consensi o di accettazioni. Potrebbe essere veramente la riforma che alla fine si fa».
Sicuro che il tedesco non serva a destabilizzare il Pd?
«La verità è l'opposto. Del resto, il 24 febbraio del 2007, quando non c'era il Pd e Veltroni non era il leader, io feci una lunga intervista per spiegare perché il sistema tedesco poteva essere un modo per portare a compimento la transizione italiana. Quindi pensare che io lo abbia tirato fuori adesso strumentalmente per dare fastidio a Veltroni è evidentemente falso».
Insomma, non sta pugnalando alle spalle il segretario?
«Non ho alcun interesse a mettere in discussione la leadership di Veltroni, né sono candidato a nessuna leadership. Non pugnalo alle spalle: posso apparire spigoloso ma sono diretto e leale: se pensassi che ci deve essere un cambio di gruppo dirigente e di leadership lo direi innanzitutto al diretto interessato. Ma non è questo il problema, abbiamo semmai il bisogno di rafforzare la leadership, di coinvolgere più persone rispetto al rischio di un certo restringimento...».
Tornando al tedesco, nel Pd c'è chi ha storto il naso.
«Il Pd deciderà quel che deve fare nelle sedi proprie, le fondazioni culturali non sono un partito ma servono per approfondire i problemi e mettere la politica in contatto con il mondo della cultura e con la società civile: guai se un partito come il Pd non interloquisse in modo aperto con questa proposta. E non mi riferisco a Veltroni che comunque ha interloquito, e non in modo negativo ».
Be', questo lo dice lei...
«No, è quello è quello abbiamo ascoltato al convegno di lunedì».
Il tedesco non dispiace alla sinistra. Come sono ora i rapporti con Rifondazione?
«Vedo che stanno discutendo e spero che escano da questa riflessione critica e autocritica rinnovandosi e mettendo in campo una proposta politica compatibile con una prospettiva di governo».
Ferrero non sembra volere questa prospettiva, mentre Vendola non la esclude.
«Non voglio entrare nel merito della loro discussione ma auspico che si possa riaprire un dialogo tra la sinistra e i riformisti. Tra di loro ci sono alcuni che lo vogliono fare, vedremo chi prevarrà...».
Ma questa riforma, secondo lei, aiuta il dialogo con il centrodestra? E questo dialogo è poi tanto necessario?
«La parola dialogo è foriera di equivoci. Il problema è che noi siamo in Parlamento e dobbiamo confrontarci per trovare soluzioni ai problemi del Paese. E la legge elettorale è un problema: è un sistema cattivo, incostituzionale e oggetto di un referendum popolare, perciò va cambiata. Quindi non si tratta di volere l'inciucio. Facciamo un esempio che non riguarda il centrosinistra: il federalismo fa parte del programma di governo, ma mica si può pensare di innestarlo su questo sistema, senza che prima sia stato fatto un riordino completo del sistema istituzionale ed elettorale. Che ci si confronti su questi problemi è la normalità della vita democratica. Non so se si raggiungerà un accordo, perché questo non dipenderà solo da noi. Ma se Berlusconi dovesse impedirlo si assumerebbe un'ulteriore, grave, responsabilità di fronte al Paese».
C'è chi sostiene: «Si dice tedesco perché si pensa alla grande coalizione»...
«La grande coalizione è una scelta politica che si può realizzare con qualsiasi sistema elettorale. Comunque oggi in Italia non ci sono le condizioni per una coalizione di questo tipo, anzitutto per responsabilità della destra e delle sue scelte per il governo del Paese. Anziché fantasticare sulle grandi coalizioni sarebbe necessario cercare di trovare un accordo per le riforme indispensabili al Paese».
Il tentativo di riformare il sistema istituzionale ed elettorale va avanti da anni senza risultati.
«Il fatto è che l'enormità della crisi del Paese viene sottovalutata. O noi usciamo con un colpo di reni da questa situazione, creando le condizioni, sia pure nella diversità dei ruoli, per dare risposte e dimostrare che siamo in grado di tirare l'Italia fuori da una fase drammatica, o rischiamo alla fine di pagare tutti un prezzo. La destra si illude se pensa che ci sarà solo la crisi della sinistra e la sinistra si illude se pensa che ci sarà soltanto la crisi della destra. Lo ripeto da tempo: siamo di fronte a una crisi ben più profonda e complessiva del sistema politico. L'Italia sta male e vede che la politica è incapace di accordarsi per trovare soluzioni utili: se andiamo avanti così la gente reagirà mandandoci tutti a quel paese. Ci si adopera più a distruggere quel che propongono gli altri che a cercare prospettive su cui ci può essere una ragionevole convergenza, come è giusto fare in una situazione come questa».
Fa la Cassandra, onorevole D'Alema?
«Voglio mettere in guardia dal rischio di far fallire di nuovo un disegno di riforma costituzionale ed elettorale perché questo darebbe veramente il senso dell'impotenza del sistema politico. E siccome stavolta ci misuriamo con una crisi economica e sociale molto grave, come dimostra anche l'analisi di Bankitalia, questo fallimento potrebbe avere effetti molto pesanti nel rapporto tra cittadini e istituzioni. Tant'è che vedo il calo della popolarità di Berlusconi nei sondaggi, che potrebbe farmi contento in quanto esponente dell'opposizione, come un ulteriore elemento di scollamento del Paese, perché alla fine la gente dirà: «La sinistra non ce l'ha fatta, Berlusconi pensa agli affari suoi»... Il rischio è che si determini veramente una frattura nel rapporto tra cittadini e sistema politico».
Nel frattempo il Pd torna ad agitare la questione morale proprio quando esplode il caso Del Turco.
«Per quanto riguarda le concrete vicende giudiziarie, come lei sa, sono garantista e nello stesso tempo rispettoso della magistratura e del suo lavoro. Tuttavia è evidente che questi scandali, in particolare quando toccano il sistema sanitario, creano un grande e comprensibile turbamento tra i cittadini e un grande allarme sociale. Anche in questo caso è la politica che deve tornare a dare delle risposte, mettendo mano a tutto il meccanismo del rapporto tra il pubblico e il privato nel sistema sanitario. Altrimenti, poi, non ci si lamenti della pervasività del potere giudiziario».

l’Unità 17.7.08
Figli in provetta, tra speranze e pregiudizi
di Carlo Flamigni


Quando nacque Louise Brown, nel 1978, Robert Edwards aveva già patito tre delusioni: una gravidanza era terminata spontaneamente, una seconda era stata interrotta per una anomalia genetica del feto; della terza non so niente, immagino che si sia trattato di un altro aborto. Poi il primo successo, destinato a cambiare la storia della medicina della riproduzione e non solo quella. Sia Edwards che Steptoe si aspettavano discussioni e critiche, ma sono convinto che pettegolezzi e malignità che salutarono l’annuncio della nascita della prima bambina concepita in vitro li abbia sorpresi.
Ci fu chi scrisse che si erano inventato tutto, ci fu chi alluse a sperimentazioni immorali e illegali di vario tenore. Pochi anni dopo i coniugi Jones, negli Stati Uniti, dovettero difendersi in tribunale da analoghe accuse infamanti.
Per avere un’idea delle reazioni italiane alla notizia basta scorrere i giornali del 27 luglio 1978 (Louise era nata intorno alla mezzanotte del 25). A eccezione di Adriano Buzzati Traverso, che sul Corriere della Sera salutava l’evento come «Un grande passo avanti della scienza», tutti gli altri giornali mettevano in primo piano le perplessità e i timori, lasciando senza repliche le critiche subito mosse dai cattolici a Buzzati Traverso. Questi era stato molto esplicito nel lodare la nuova tecnica e aveva detto, tra l’altro: «Purtroppo molte persone colte di questo scorcio di XX secolo sono tuttora vittime della irrazionale “sacralità” di tabù d’antichissima origine. Il sacerdote o lo stregone che influenzano il comportamento sessuale dei loro simili lo fanno perché consapevoli del potere che essi possono così esercitare».
Ma lo stesso Corriere della Sera - il giornale che dovrebbe essere espressione della «borghesia illuminata» - subito moderava gli entusiasmi con un articolo di cronaca che era tutto teso a dar voce alle preoccupazioni e alle riserve suscitate dalla nuova tecnica. Gli aspetti critici erano preminenti anche nel Giornale di Indro Montanelli, dove Geno Pamploni, studioso cattolico, dopo qualche positiva affermazione di rito, sottolineava i pericoli: «E se nella provetta si volessero “programmare” gli uomini “alfa” o altri tipi di selezionati prodotti umani, sovvertendo il misterioso equilibrio della natura, condizione e limite della nostra libertà? E se un nuovo Hitler ordinasse che alle donne ebree fossero iniettate uova fecondate di donne ariane, attuando un raffinato e lento genocidio razziale?». Il giorno seguente veniva dato grande risalto alle critiche di James Watson, premio Nobel, che non condivideva «alcun entusiasmo: il mondo è sovrappopolato. Altre dovrebbero essere le applicazioni del progresso scientifico». Nel servizio si registrava anche l’atteggiamento «possibilista» di un alto prelato cattolico ed era esposto il ragionamento sostanzialmente favorevole di molti anglicani: «Dio ci ha creati intelligenti e responsabili: è naturale che impieghiamo queste qualità per vincere la sterilità». Ma il messaggio dato dal Giornale era complessivamente negativo.
Ancora più dura e critica era l’uscita della Repubblica, che nella pagina della cultura titolava: «Piacerebbe anche a Hitler questa fecondazione». Nel servizio, avevano grande rilievo le posizioni di Leo Abse, esponente della sinistra laburista, fortemente impegnato contro le discriminazioni sociali: «insieme a una settantina di parlamentari (Abse) sta lanciando una grande offensiva contro la cosiddetta fabbricazione artificiale dei bambini», perché convinto che «questo metodo sia incompatibile con i “diritti civili”». Un’intervista al teologo cattolico romano Dionigi Tettamanzi sottolineava il grave rischio di arrivare «alla totale e radicale separazione tra l’esercizio della sessualità nel contesto matrimoniale e la trasmissione della vita».
Più duro ancora il Tempo di Roma, che in prima pagina, sotto il titolo «Non è lecito violare la natura», offriva un commento del gesuita Virginio Rotondi in cui si affermava che «la fecondazione artificiale - anche quando non raggiunge quest’ultimo grado di aberrazione - è assolutamente e indiscutibilmente immorale».
Rispetto a questi toni accesi, il quotidiano cattolico Avvenire manteneva una buona dose di sobrietà. Il 27 luglio dava in prima pagina la notizia con un misurato commento di Tettamanzi che poneva le seguenti domande: non è la fecondazione artificiale una «sostituzione indebita» del potere che l’uomo ha sulla vita umana? Dio ha affidato agli sposi la missione di trasmettere la vita «perché l’avessero a realizzare solo mediante l’incontro coniugale o anche mediante il ricorso a procedimenti artificiali? Sono interrogativi che chiedono di essere ampiamente approfonditi». Il 28 luglio, sempre in prima pagina, sotto un occhiello che sottolineava l’aspetto commerciale della vicenda («Grossi e loschi affari dietro la nascita “in provetta”») e un titolo grande più conciliante («Ma la bimba almeno è innocente»), veniva inserita una secca replica a Buzzati Traverso: mentre tutti sono perplessi, «uno solo non ha dubbi», e ciò sebbene proprio il giornale che gli ha dato spazio sottolinei che «nella spartizione del largo bottino si sono impigliati i due scienziati e gli stessi genitori». Nessuno scese in campo a difesa di Buzzati Traverso e della nuova tecnica, avallando implicitamente la generale condanna comminata dai critici.
Nemmeno l’Unità scelse di farlo, anche se il 28 luglio pubblicava un breve e pacato commento del genetista pisano Nicola Loprieno: «Il successo di questa realizzazione dipenderà dall’uso che la società sarà in grado di fare, rendendola possibile in tutti i casi ed accessibile a tutte le coppie. Non credo che quanto realizzato in Inghilterra costituisca un pericolo per l’umanità».
Sin dall’inizio, in Italia c’è stato dunque un atteggiamento di condanna della Fivet, sebbene questa posizione fortemente critica non sia riuscita a fermare la diffusione della tecnica.
In realtà, la procreazione medicalmente assistita ha fatto giustizia di queste critiche e di queste perplessità in tutto il mondo civile, ma non nel nostro Paese: inutile chiedersi perché.
Oggi, 17 luglio, il sottosegretario Roccella farà ricordare i 30 anni di PMA da un gruppo di eccellenti esperti, che vale la pena di citare: l’Onorevole Renato Farina (proprio lui, non vi stupite); due giornalisti che scrivono su quotidiani (Il Foglio e Libero) noti per il loro laicismo; Francesco D’Agostino, egli stesso noto laicista. C’è poi Josephine Quintavalle, che ascolterei volentieri, ma che parla di compra-vendita di oociti senza contraddittorio. La perla del convegno è rappresentata da Massimo Moscarini, punto di riferimento costante della ginecologia italiana, che in una intervista ad Avvenire (17/6/2008) ha dichiarato nell’ordine che:
- la legge 40 ha consentito al nostro paese di mantenere gli stessi risultati del sud d’Europa:
- le coppie sono soddisfatte del trattamento ricevuto in Italia;
- il turismo procreativo riguarda una minima percentuale di coppie;
- gli operatori del settore sono finalmente soddisfatti;
- le diagnosi pre-impianto si possono fare anche da noi, ricorrendo allo studio del globulo polare.
Temo che siano tutte dichiarazioni non corrispondenti alla verità, il prof. Moscarini è stato mal informato. Del resto basta leggere la relazione del ministro Turco: i dati non migliorano, nascono 1000 bambini in meno rispetto al passato, siamo il fanalino di coda dell’Europa.
E quanto al turismo, tutti i centri europei contattati ci confermano che è in continua crescita rispetto all’ultimo censimento (2005), che riguardava 29 laboratori che ricevevano circa 5000 coppie all’anno; le indagini sui globuli polari sono pura fantasia, gli addetti ai lavori - tranne le poche pinzocchere in attività eticamente discutibile - sono sempre più arrabbiati. Per il resto, sono compassionevole, lascio perdere.
Questo è quanto ci offre la signora Roccella, e se le dico che dovrebbe vergognarsi mi risponde che manco di stile. In realtà, ho finito il senso dell’umorismo: e poi 30 anni di fecondazioni assistite meritavano qualcosa di più serio.

l’Unità 17.7.08
Eluana, Senato contro
La famiglia: andiamo avanti
Schifani dà l’ok a sollevare il conflitto di attribuzione contro la Cassazione
Sondaggio Swg: l’81% degli italiani dice sì allo stop dell’alimentazione
di Anna Tarquini


STOP «I giudici non potevano decidere su una materia così delicata. Meglio il Parlamento». E così, a una settimana dall’assenso a smettere il «mantenimento in vita» di Eluana in coma vegetativo da 16 anni (non è attaccata alle macchine, ma solo idratata e
alimentata) il presidente Schifani ha trovato la quadra per fermare la sentenza che le dava ragione. Accolto l’appello dei parlamentari ha chiesto al Senato di sollevare un conflitto di attribuzione. Cosa vuol dire? Vuol dire appunto che la Corte di Cassazione - secondo alcuni - non poteva decidere su un caso per il quale non c’è una legge specifica. E che il caso è deferito alla commissione Affari Costituzionali che dovrà sollevare un eventuale conflitto di attribuzione alla Consulta. Dopo il pronunciamento della Commissione Affari Costituzionali la decisione definitiva, spetterà all’aula di Palazzo Madama.
Si ferma tutto? Può essere. Il papà di Eluana ha sempre sostenuto che ogni decisione, ogni atto estremo, dovesse essere eseguito nel nome della legge. Dopo sedici anni di calvario non si può certo accusarlo di essere l’uomo dei blitz, difficile che voglia farne adesso. Però ieri ha fatto parlare il suo legale: «Per il momento non cambia niente. Noi andiamo avanti, e la famiglia di Eluana porrà in atto la sentenza della Cassazione, sospendendo l’alimentazione della figlia quando lo riterrà opportuno, anche se c’è una sentenza che lo autorizza a pensare la fine di sua figlia». Inoltre se il Senato decidesse effettivamente di sollevare conflitto di attribuzioni con la Cassazione davanti alla Corte Costituzionale, si tratterebbe di un’iniziativa senza precedenti. Perché la Cassazione non è mai stata parte di un conflitto sollevato dal potere legislativo per una sua sentenza.
La decisione arriva il giorno nel quale un sondaggio della Swg rivela che l’81 per cento degli italiani è favorevole alla sospensione dell’alimentazione per Eluana. Che questo però non si traduca in politica non è una sorpresa perché molti, nella sentenza dei giudici d’Appello di Milano, vedono lo scardinamento di un sistema che fino ad ora ha vietato l’eutanasia e chiuso un occhio sulle «dolci morti» che sono prassi nel privato. Proprio ieri 26 neurologi hanno chiesto alla Procura generale di impugnare la sentenza. Ma arriva, con grande tempestività, all’indomani dell’altolà del cardinale Bagnasco sul caso Englaro: «Non si può procedere a una consumazione di una vita per sentenza». Dice il ministro il ministro del Welfare Sacconi: «Meglio un dibattito parlamentare. Sul caso di Eluana è più corretto un sereno dibattito parlamentare senza pregiudizi». Sono 16 anni che Beppino Englaro domanda alla Politica, ai Giudici, alla Sanità un sereno dibattito che dia ragione dei tanti casi come quello di Eluana. Più di duemila in Italia. E sono sedici anni che a ogni domanda - rivolta ai giudici - di rispettare la volontà espressa da sua figlia di rifiutare l’accanimento terapeutico gli viene risposto di no. Questo fino a una settimana fa.
In Italia ci sono almeno 4 norme, alcune espressione della Carta Costituzionale, che tutelano al massimo la libertà scelta nel dire sì o no alla cura. La legge però non c’è e in Parlamento ci sono 8 proposte di legge sul testamento biologico che giacciono in commissione ormai da anni. Nessuno le guarda. Nessuno si impegna a discuterle. Poi arriva un magistrato come Lamanna al quale viene chiesto di prendersi una responsabilità su ciò che altri non decidono, e allora si chiede quel dibattito mai messo all’ordine del giorno. Il giudice Filippo Lamanna è l’uomo che materialmente ha scritto il decreto che autorizza Eluana a morire. Intervistato dall’Ansa ieri ha spiegato due cose: la prima è che un giudice quando decide deve rispondere solo alla legge e alla propria coscienza e non preoccuparsi delle reazioni anche se queste vengono dalla Chiesa. La seconda è che nella concreta situazione di Eluana Englaro, i magistrati sono stati chiamati a valutare se la decisione del tutore (cioè il padre) fosse o meno conforme alle scelte che avrebbe fatto la stessa Eluana in vita e la risposta è stata affermativa.

il Riformista 17.7.08
Monsignor Sgreccia: la chiesa deve dire la verità
«Eluana è come un neonato da nutrire»
di Paolo Rodari


Oggi ha ottant'anni e, fino a un mese fa, era il massimo esperto di bioetica in forza alla curia romana. Il vescovo Elio Sgreccia, dopo la nomina di monsignor Rino Fisichella alla guida della pontificia accademia per la vita, si è «ritirato» all'Istituto di Bioetica della Cattolica di Roma dove dirige, insieme ad Angelo Fiori, la storica rivista Medicina e Morale fondata nel 1951 da padre Gemelli. Molte università gli hanno offerto ruoli di docenza ma lui, per il momento, si gode un po' di relax dopo anni di lavoro.
Parliamo del caso Eluana Englaro e partiamo dal catechismo. Al numero 2278 si dice che «l'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima». È il caso di Eluana?
«Assolutamente no. Qui si tratta di interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione e quindi non si può parlare di procedure straordinarie».
Di cosa si deve parlare?
«Di omissione colpevole dell'alimentazione».
La Corte di cassazione milanese ha sbagliato? Ieri sono state aperte le procedure per sollevare il conflitto di attribuzione tra Senato e Corte di Cassazione…
«Dico solo che con questa sentenza viene leso il diritto alla vita. Viene leso il diritto per cui la vita non è un bene disponibile».
Lo stato vegetativo di Eluana non conta nulla?
«La sua situazione è paragonabile a quella di un neonato in braccio alla mamma. Anche Eluana deve essere nutrita. Non mi sembra che quando si dà il latte a un neonato si parli di accanimento terapeutico. È semplice nutrizione».
Però Eluana è da sedici anni che non comunica col mondo…
«È simile a un neonato o, se vogliamo, a un handicappato grave o a un infermo. Farla morire di fame e sete significa farla morire di stenti e questa è una pena aggiuntiva, né più, né meno».
Non significa smettere di accanirsi inutilmente?
«No. Qui, come in altri casi in passato, siamo davanti a una trasformazione epistemologica tipica del giornalismo. Non si toglie l'accanimento terapeutico perché di accanimento terapeutico non si tratta. Semplicemente si dà a una persona inferma una pena aggiuntiva».
Se rimanesse in vita, che vita sarebbe?
«Nessuno può dire il grado di coscienza di Eluana. Tra l'altro, ci sono stati casi di persone svegliatesi da situazioni simili dopo molti più anni di coma».
Il padre dice che Eluana non avrebbe mai voluto una vita simile.
«Anche se Eluana in passato avesse detto o addirittura scritto "Io voglio morire", nessuno né eticamente né giuridicamente è legittimato a farla morire. Il rifiuto delle terapie di cui parla la Costituzione non è applicabile in questo caso. Qui non ci sono terapie, ma cure ordinarie. Un esempio a cui chiedo sempre di guardare è quello di Emmanuel Mounier».
Cioè?
«Il filosofo cattolico francese aveva una figlia che si trovava più o meno nella stessa situazione di Eluana. Solo che vi si trovava dalla nascita. Era nata con una malattia neurologica. Riusciva a mala pena a percepire le carezze. Mounier, per sostenere la moglie, le scriveva delle lettere in cui le diceva che la fragile presenza in casa della figlia era come la presenza dell'eucaristia. Anche Cristo, nell'eucaristia, è muto, ma cambia la realtà».
Se Eluana muore, qualcuno la uccide?
«La responsabilità è condivisa. È di più persone. Di chi chiede la morte e di chi la autorizza».
Tre giorni fa, su Avvenire, del caso Eluana ha parlato il cardinale Tettamanzi. Come giudica il suo intervento? Secondo Giuliano Ferrara spesso la Chiesa soffre di una sorta di «afasia del pulpito»: non è sicura delle proprie ragioni e per questo arretra, risponde in modo intimidito…
«È sempre difficile parlare in questi casi. Anche io, come credo Tettamanzi, soffro quando devo intervenire su tali questioni. Da una parte occorre dire la verità (non si può dire che due più due è uguale a cinque), e dall'altra occorre avere comprensione di chi soffre. Tettamanzi, comunque, non ha negato che qui si lede il diritto della vita. Però è vero: la Chiesa non deve mai dimenticare che la verità va sempre detta».
Cosa dice dell'iniziativa "acqua per Eluana"?
«È un segno politico. Nel senso che è un modo per influenzare l'opinione pubblica. Si porta l'acqua per ricordare che non c'è accanimento terapeutico».



Corriere della Sera 17.7.08
Aborto, anestesista obiettore rifiuta di ridurre il dolore
di Paola D'Amico


MILANO — Il medico anestesista di turno, dichiarandosi obiettore di coscienza, si rifiuta di alleviare il dolore a una giovane donna ucraina, che ha subito un aborto terapeutico per malformazioni del feto. È accaduto nei giorni scorsi all'ospedale milanese Niguarda.
La donna viene ricoverata e l'8 luglio entra in sala parto. È quasi alla 22esima settimana della sua prima gravidanza. Le vengono somministrati i farmaci per indurre il travaglio abortivo. Lei urla per il dolore. Soffre molto, chiede aiuto. Ma l'anestesista si fa da parte: il feto è ancora vivo. «Non posso somministrare analgesia, sono obiettore», si giustifica.
La Cgil, che ha raccolto la denuncia del marito della paziente, parla di «omissione di atto dovuto per l'assistenza» e chiede che l'ospedale apra una commissione d'inchiesta. Ma sollecita anche l'intervento dell'Ordine dei medici e della Regione, perché si arrivi alla definizione di un codice etico di comportamento.
«L'obiezione di coscienza — sottolineano le responsabili della Cgil milanese, Marzia Oggiano e Fulvia Colombini — non può essere invocata in questo caso, perché alleviare il dolore è un preciso dovere di ogni medico».
Ma i primi a chiedere chiarezza sono i medici dell'ostetricia finita nel ciclone. «Alla donna è poi stato dato un antidolorifico dai ginecologi — spiega il primario Maurizio Bini —. Personalmente, avendo noi a disposizione 24 ore su 24 il servizio di parto-analgesia, ritengo che la procedura sia da estendere anche alle pazienti sottoposte ad aborto terapeutico, che viene fatto da sveglie, non in anestesia totale come gli aborti del primo trimestre ». Ma, nel gruppo di specialisti che conta 19 medici, di cui 14 obiettori, ci sono opinioni diverse. «Per questo abbiamo chiesto al Comitato bioetico del nostro ente di chiarire se l'obiezione di coscienza si possa estendere anche all'analgesia durante l'aborto». Le responsabili della Cgil milanese si dichiarano «indignate e addolorate per quanto è avvenuto » e mettono a disposizione della donna la struttura legale del sindacato. La direzione di Niguarda, interpellata, incassa il colpo e promette un'indagine interna.

l’Unità 17.7.08
Diliberto ora vuole riunire i comunisti
Dopo anni di lotte fratricide fa un congresso con questo progetto


Tutti i comunisti italiani potrebbero presto convivere sotto il tetto della stessa «dacia». È questo l’auspicio formulato da Oliviero Diliberto a poche ore dall’apertura del quinto congresso del Pdci che si terrà a Salsomaggiore Terme (Parma) da venerdì a domenica. In realtà, per il leader dei Comunisti Italiani non si tratta solo di una speranza, ma di una importante scommessa politica sulla quale il congresso verrà a chiamato a pronunciarsi. Bisogna archiviare la brutta pagina della scissione del ’98 del Prc di Fausto Bertinotti e della conseguente caduta per un voto del primo governo Prodi. Diliberto sa bene che si tratta di una strada in salita, resa difficile dai rancori passati oggi ravvivati dalla clamorosa sconfitta della Sinistra Arcobaleno. È la batosta che ha riaperto il dibattito sul rapporto con le stanze del potere. Il segretario dei Comunisti italiani ora non transige sulla necessità di archiviare il «partito di lotta e di governo», formula che bolla come un «clamoroso errore». Ma gli eredi di Bertinotti, alle prese con il difficile congresso del Prc, non dimenticano i vecchi contrasti che sfociarono in spaccatura in quel voto di fiducia dell’ottobre di 10 anni fa.
Forse è per questo che il docente di diritto romano ha proposto un collante infallibile: la comune lotta al governo Berlusconi per il quale «si pone una grave questione democratica e sociale». Entrambi i temi stimolano una ovvia sensibilità per un vero comunista. E per rendere più stretta la presa sul Prc, Diliberto ha sfoderato oggi un affondo all’ex alleato comune, Walter Veltroni: «È l’uomo degli slogan postum».

l’Unità 17.7.08
Togliatti ’48, l’Italia che non tradì se stessa
di Adriano Guerra


L’ATTENTATO DI LUGLIO È ancora giallo sui colpi sparati da Pallante al segretario del Pci? Oggi conta di più questa verità storica e politica: partito e sindacato, da un lato, e De Gasperi, dall’altro, seppero fare diga

L’ultimo mistero quello della borsa è stato sciolto: conteneva una lettera di Stalin sulla Jugoslavia
L’argomento sul piatto quindi non era un piano di insurrezione nella penisola ma Tito
Il rischio fu grande: ci fu guerriglia urbana. Di questo non si è ancora detto abbastanza

Sono le 12 del 14 luglio 1948. Togliatti, al quale un giovane siciliano, Antonio Pallante, ha sparato quattro colpi di pistola, esce in barella dall’infermeria di Montecitorio per essere traportato all’ospedale. Accanto a lui c’è Nilde Iotti ed è a lei che il segretario del Pci chiede con un fil di voce di cercare Pietro Secchia, vicesegretario del partito insieme a Luigi Longo e capo della Commissione d’organizzazione. Ma Secchia non c’è. C’è invece Mauro Scoccimarro, e c’è la moglie, Rita Montagnana. A chi dunque Togliatti ha detto quelle parole, «State calmi, non perdete la testa», che nei giorni successivi centinaia e poi migliaia di comunisti ripeteranno bloccando un’ondata di protesta che aveva assunto in più punti caratteri insurrezionali? C’è da tempo il dubbio che Togliatti quelle parole non le abbia pronunciate. O comunque - la testimonianza è di Longo raccolta da Giorgio Bocca - le abbia pronunciate più tardi nello studio del professor Valdoni che lo aveva operato. È invece certo che, appena ferito, Togliatti abbia invitato la Iotti a raccogliere da terra la borsa che all’uscita da Montecitorio teneva tra le mani. Che ci poteva essere in quella borsa da spingere un uomo tanto gravemente ferito a usare le poche forze rimastegli perché le sue carte non cadessero nelle mani di estranei? Forse i piani di insurrezione di cui tanto si era parlato nei giorni precedenti quando aveva detto alla Camera che ad una «guerra imperialista» si sarebbe risposto «con la rivolta, con l’insurrezione per la difesa della pace e dell'indipendenza»? Alle parole di Togliatti il quotidiano socialdemocratico rispose con un editoriale che, dopo l’attentato, potè essere letto come un’istigazione all’omicidio: qualora si dovesse arrivare alla rivolta scatenata dal «russo Togliatti» - si poteva leggere infatti sulla prima pagina dell’Umanità - «Il governo della repubblica e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l’energia, la decisione sufficiente per inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti e i suoi complici. E non solo metaforicamente».
Sulla «rivolta» evocata da Togliatti e bollata come tradimento dai socialdemocratici, la discussione - come si sa - non si è ancora chiusa. Ma forse un contributo ad una lettura più tranquilla di quei giorni può venire se utilizzando le carte oggi disponibili si cerca di individuare quel che poteva esserci nella borsa raccolta dalla Iotti. Alla domanda è possibile infatti fornire una risposta che, con tutte le cautele del caso, può essere accolta. Perché proprio quel mattino il segretario del Pci aveva ricevuto «per conoscenza», come oggi sappiamo, copia di una lettera che Stalin aveva inviato al segretario del partito cecoslovacco Klement Gottwald sulla questione di Tito (nel giugno 1948 si era - va tenuto presente - nel pieno della campagna scatenata dal Cominform contro la Jugoslavia). Maurizio Zuccari che in un libro appena uscito sul Pci e la rottura fra Stalin e Tito (Il dito sulla piaga, Mursia, 2008) ha pubblicato il testo del documento, ha aggiunto che proprio per via dell’attentato Togliatti non aveva avuto modo di leggere quella lettera. Cosa che potrà fare solo successivamente, al Policlinico. Quel che si può aggiungere è che la lettera di Stalin non era certo destinata alla pubblicazione. Del tutto comprensibile dunque la preoccupazione di Togliatti: il documento conteneva infatti un invito a Gottwald a non farsi illusioni su una possibile sconfitta di Tito al congresso della Lega jugoslava e a non rendere pubblici materiali compromettenti sui dirigenti jugoslavi.
La questione sul tappeto all’interno del movimento comunista era insomma non l’insurrezione in Italia ma la campagna contro Tito. Può però succedere che quattro colpi di pistola aprano la via a processi del tutto imprevisti. Di fatto nel pomeriggio del 14 luglio si giunse, come ha scritto Aldo Agosti nella sua biografia di Togliatti, «ad un passo dall’insurrezione» e dunque due questioni si pongono: quelle relative alle ragioni della rivolta e all’atteggiamento del Pci. Su entrambe le questioni le testimonianze a disposizione - ultime quelle raccolte da Carlo Maria Lomartire, in una documentata ricostruzione di quei giorni (Insurrezione. 14 luglio 1948. L’attentato a Togliatti e la tentazione rivoluzionaria, Mondadori, Milano 2006) sono imponenti. Esse intanto dicono che le spinte alla protesta avevano la loro origine da una parte nella drammatica situazione economica e sociale del paese e dall’altra nell’esistenza all’interno della sinistra di un malessere antico che si manifestava come confusa aspirazione ad una rivincita che veniva dalla visione della Resistenza come «rivoluzione tradita» e dalla sconfitta elettorale del 18 aprile 1948. Così mentre la Cgil, nel tentativo di controllare e gestire l’ondata di rivolte, proclamava uno sciopero generale (che veniva a spezzare quel che era rimasto in piedi della vecchia unità sindacale) in vari punti del paese le iniziali manifestazioni di protesta tendevano a mutare di segno. Questo soprattutto a Genova, Torino (ove operai armati di mitra entrarono nell’ufficio di Vittorio Valletta per informarlo dell’avvenuta occupazione della Fiat…), Napoli, Taranto, ma anche in molte aree agricole, e in primo luogo ad Abbadia san Salvatore, teatro dei «fatti» più gravi e sanguinosi. Per una serie di ragioni, forse non tutte giustificabili, nel dibattito politico-culturale, ma anche negli studi sull’Italia repubblicana, si è di fatto steso un velo su quel che è avvenuto dopo l’attentato a Togliatti in un’Italia ove si sono susseguiti momenti di vera e propria guerriglia urbana con la nascita di barricate e posti di blocco, assalti alle prefetture e a depositi di carburante e anche a caserme e a depositi di armi. Sono stati quelli i giorni - si pensi alle decine di vittime degli scontri a fuoco, alle centinaia di feriti, e poi alle migliaia di arrestati - più tragici della storia della nuova Italia.
Ma come è stato che nel giro di pochi giorni la strada dell’insurrezione e della guerra civile sia stata abbandonata? A chi darne il merito?
Sicuramente - come è stato detto - alla decisione, ma anche alla saggezza, di De Gasperi che nonostante venisse da più parti invitato a usare maniere sempre più forti per far fronte alla «insurrezione comunista», operò , pur scegliendo la via della repressione del movimento, perché non venisse imboccata la via della guerra civile. E un merito va certamente attribuito, come è stato fatto, alla straordinaria impresa portata a termine in quei giorni di fuoco da Gino Bartali al Tour di Francia. Non da oggi sappiamo che le vittorie, e le sconfitte, sportive, possono avere un grosso peso nella vita degli uomini. Non si può però mettere in secondo piano il ruolo giocato sin dal primo momento («State calmi. Non perdete la testa») dal Pci. E questo va detto nel momento in cui c’è ancora chi continua a mantener viva l’idea di un Pci fermo nell’attesa dell’«ora X» . Certo non era assente nelle fila comunista quella che Lomartire ha chiamato la «tentazione rivoluzionaria». Ed è altrettanto vero che coll’attentato a Togliatti siano scattati e per qualche tempo siano poi sfuggiti di mano - lo ha rilevato Agosti - quei meccanismi di difesa che il partito aveva predisposto nella prospettiva di dover far fronte ad un colpo di stato. D’altro canto era inevitabile chiedersi in quelle prime ore se dietro all’attentato vi fosse soltanto un giovane siciliano convinto che «per il risorgere della patria» fosse bene assassinare il capo dei comunisti. Naturale che si pensasse all’ipotesi di un complotto anche internazionale. Si aggiunga ancora che all’interno del gruppo dirigente del Pci c’erano, insieme alle debolezze e alle contraddizioni che porteranno nei decenni successivi alla crisi e alla sua uscita di scena, valutazioni diverse sulla situazione politica. C’era in particolare chi pensava di poter utilizzare la protesta per ottenere se non la caduta del governo almeno l’uscita di scena del ministro degli Interni Mario Scelba. Sin dal primo momento però già col comunicato della Direzione del Pci diffuso nello stesso pomeriggio del 14 luglio la grande scelta era compiuta. Si chiedevano le dimissioni del governo «della discordia, della fame e della guerra civile», ma per difendere la «pace interna» e la «legalità repubblicana». Nell’ora della verità insomma (e - si può aggiungere - prima ancora di sentire gli orientamenti, del resto noti, di Mosca, ove, così come a New York, si seguivano con apprensione le notizie che giungevano dall’Italia) - il Pci ribadiva che la sua linea continuava ad essere quella che lo aveva portato a respingere la «prospettiva greca» e a diventare coautore della Costituzione repubblicana.

Corriere della Sera 17.7.08
L'indagine del biologo Jean-Didier Vincent pone fine a dubbi ed errate interpretazioni
Turisti nei meandri del cervello
Guida ai misteri della mente, fra neuroscienze e luoghi comuni
di Edoardo Boncinelli


Nonostante che tutti parlino del cuore, un organo che non c'entra assolutamente niente né con l'emotività né con la mente, è il cervello quello che attira di più la nostra attenzione. Con il cervello pensiamo, amiamo, odiamo, preferiamo o rifiutiamo, ricordiamo, immaginiamo, desideriamo e talvolta ragioniamo. Con il cervello sbagliamo o trionfiamo, con il cervello ci pentiamo o ci compiacciamo. Con il cervello ci occupiamo del cervello e della mente.
Tutti vorrebbero quindi sapere sempre più cose sul cervello, ma gradirebbero che non si trattasse di un racconto troppo difficile e che fosse magari una lettura leggera e piacevole. Le opportunità non mancano. Sulla scia delle continue novità nel campo delle neuroscienze e seguendo le indicazioni della moda, negli ultimi anni sono stati pubblicati molti libri sull'argomento. Non tutti raccontano però le cose come stanno, né si astengono dal fornire per i diversi fenomeni della mente spiegazioni immaginarie. Su poche cose sono state dette con leggerezza tante sciocchezze come sul cervello e sulle sue funzioni.
Esistono, però, anche opere fatte per chi desidera un'informazione più seria, ma è più difficile che si tratti di letture gradevoli e allo stesso tempo complete. Questo è invece il caso di Viaggio straordinario al centro del cervello di Jean-Didier Vincent (Ponte alle Grazie, traduzione di L. De Tomasi e M. Fiorini), un libro non piccolo e pressoché completo, ma molto agile e che può anche essere letto «a episodi». Si può scorrere, cioè, un capitolo qua e uno là, senza seguire necessariamente l'ordine nel quale sono disposti. È concepito un po' come una guida turistica, attraverso la quale ci si può informare di volta in volta del posto che ci interessa senza doversi necessariamente occupare anche di tutti gli altri.
Ed è una guida sicura. Vincent è un neurobiologo di grande competenza e affidabilità con una decisa propensione per la divulgazione e la riflessione alta sulle diverse implicazioni del nostro modo di funzionare. Egli ha pensato anche di invitare una ventina di esperti esterni perché riassumessero in poche pagine il nocciolo di altrettanti argomenti correlati al cervello e alle sue funzioni. Ne risulta una trattazione distesa e ben distribuita, senza che se ne perda peraltro l'unità e il senso complessivo. Non si fa troppa fatica, quindi, e si imparano con estrema naturalezza un sacco di cose, sulla memoria, sulle passioni, sui desideri, sui riflessi, sul senso del bello, sul movimento, sulla riflessione e via discorrendo.
Ovviamente non si sa tutto di tutto. Quanto si sa della mente? Tanto e pochissimo: tanto rispetto a qualche decennio fa e pochissimo rispetto a quello che ci piacerebbe sapere. Ciò è esaltante e deludente a un tempo. Mi pare qui opportuna una considerazione, partendo dal Camus de Il mito di Sisifo, che dice: «Di chi e di che cosa posso dire:"Io lo conosco!"?» e incalza poeticamente : «Se si potesse dire una volta: "Ciò è chiaro", tutto sarebbe salvo». Da tali constatazioni si deve concludere che se non si sa tutto di un determinato argomento allora non si sa nulla? Assolutamente no, come afferma lo stesso Camus. Conoscere parzialmente vuol dire conoscere parzialmente e niente di più. Oggi poi che le conoscenze scientifiche si sono tanto ampliate, anche dai tempi di Camus, occorre sì evitare di credere che si sappia tutto di un certo argomento, ma anche evitare di credere che non se ne sappia proprio niente e che si possano, perciò, avanzare tutte le spiegazioni possibili. A proposito, anzi, delle cose che non hanno ancora ricevuto una completa e soddisfacente spiegazione in termini scientifici — e non sono poche — si è liberi, ovviamente, di avanzare spiegazioni di altro genere (altrimenti di certi argomenti non si potrebbe proprio parlare), ma si dovrebbe aver cura di evitare che queste spiegazioni siano in contrasto con ciò che si sa scientificamente. La scienza, spesso, non sa dire ancora bene come stanno le cose, ma sa bene come certamente non stanno. Occorre, quindi, grande circospezione e una guida sicura: il libro di cui stiamo parlando fortunatamente lo è.

Corriere della Sera 17.7.08
Riesplode in America la polemica sulle dichiarazioni del premio Nobel James Watson
Dna e talento, lo spettro razziale
«Ebrei più dotati dei neri grazie ai geni» «No, fattori culturali»
di Ennio Caretto


Lo scorso marzo, Henry Louis Gates jr, il celebre docente di Harvard, intellettuale afroamericano di punta, si recò dall'anziano Nobel per la medicina James Watson, il padre del Dna, per discutere del problema razziale. L'autunno precedente, Watson era stato costretto a scusarsi per alcune dichiarazioni controverse sulla intelligenza dei neri, inferiore, aveva dichiarato, a quella dei bianchi. I due uomini conversarono per oltre un'ora, e questo mese Gates ha pubblicato i propri appunti. Su TheRoot, la sua rivista elettronica, ha scritto che Watson non è un racist (razzista) ossia non nutre odi di razza: è un racialist (razzialista), crede cioè nelle diversità razziali, che sospetta abbiano radici genetiche. Il padre del Dna per esempio riscontra negli ebrei un'intelligenza innata, e nei neri una grande predisposizione alla pallacanestro: «Afferma che non sappiamo se i gruppi etnici siano davvero eguali». Gates ha concluso con un commento amaro: «È come se la natura avesse dato agli ebrei un gene in più per il cervello, e ai neri un gene in più per lo sport. Watson ha ragione a parlare di disparità genetiche tra individui, ma dubita che quelle etniche siano innanzitutto socioculturali. Temo che nell'era del genoma la lotta razziale non si svolga più nell'arena politica, bensì nei laboratori scientifici».
Il lamento di Gates, che sta lavorando a un nuovo libro, Razza e ragione nell'Illuminismo, non ha solo riaperto il confronto tra i neri e gli ebrei che periodicamente turba la storia americana. Ha riacceso anche il dibattito sulla superiorità ebraica esploso nel 2005, quando l'Università dello Utah attribuì agli ebrei di origine europea un IQ o quoziente d'intelligenza medio — metro di misura peraltro discutibile — di 115 punti, agli est asiatici di 105, ai bianchi di 100, agli afroamericani di 85, e agli abitanti dell'Africa subsahariana di 70. Quasi contemporaneamente, l'Università inglese di Cambridge pubblicò una classifica dello IQ delle nazioni con dati simili: Giappone 109 punti, Germania e Corea 105, Austria 104, Taiwan 103, Italia, Inghilterra e altre 102, Francia 101, Stati Uniti 100. In entrambi i casi, se ne fece una questione in prevalenza genetica, scatenando le proteste della intellighenzia liberal. Uno dei capitoli più recenti del dibattito è stato scritto nel 2007 dall'American Enterprise Institute, pensatoio neocon di Washington, a una conferenza intitolata «Perché gli ebrei sono così intelligenti?». La riposta di due dei tre relatori: grazie soprattutto al Dna.
Gates non contesta che gli ebrei rappresentino un punto di eccellenza intellettuale, contesta che lo debbano alla natura. «In quanto nero — nota — io sono danneggiato dallo stereotipo dell'ebreo geneticamente superiore: se fosse così, sarebbe inutile cercare di migliorarmi e sarebbe inutile per la società cercare di aiutarmi». La presunta inferiorità degli afroamericani e degli africani non è dovuta al Dna, continua Gates, ma alla classificazione delle razze fatta secoli or sono per giustificare lo sfruttamento della gente di colore. Sono d'accordo con lui Francis Collins, direttore del Progetto americano del genoma umano, e Laurie Zoloth, docente di bioetica alla Università Northwestern. «Riferirsi alla razza nella ricerca e nella pratica medica — tuona Collins — significa conferirle un'importanza biologica che non ha. Quelle razziali sono false distinzioni». «L'idea di una razza ebraica superiore — ammonisce la Zoloth, che è di origine israelita — desta il mio sdegno. È come dire che le altre razze sono inferiori. Ciò viola i nostri valori, che c'impegnano all'eguaglianza, e alimenta l'antisemitismo, che sta crescendo un poco ovunque».
Secondo Gates, Collins, la Zoloth e altri, come Sander Gilman, l'autore del saggio Il multiculturalismo e gli ebrei, è «la selezione culturale, socioeconomica, non naturale» a consentire di eccellere a un'etnia. Ma per la scuola opposta è il Dna. Kevin McDonald, un eugenista, avanzò questa tesi nel 1994, con il libro Il giudaismo come strategia di evoluzione di gruppo, sostenendo che nei secoli gli ebrei in Europa si erano chiusi agli estranei e si erano liberati dei meno intelligenti, affinando la loro «agilità mentale ». Un leader presbiteriano, Charles Murray, l'autore del saggio La curva Bell sulla «chiara inferiorità» dei neri, andò oltre: nell' Europa medioevale, gli ebrei furono costretti a dedicarsi ad attività intellettuali e divennero «una macchina per l'IQ». Uno degli effetti sarebbe stato il sorgere di malattie come la Tay Sachs, che ne avrebbe modificato i geni acuendone l'ingegno. Lo ribadì all'American Enterprise Institute l'ebreo Jon Entine, che stava dando alle stampe
I figli di Abramo: razza identità e Dna del popolo eletto. Noi siamo lo 0,2 per cento della popolazione mondiale ma abbiamo il 28 per cento dei Nobel della chimica, della matematica, della fisica e dell'economia, sottolineò Entine.
Contraddicendo Gates, Watson ha asserito che, se l'intelligenza degli ebrei avesse fondamenta genetiche, «nessuno ne risentirebbe». Ma il dibattito ha suscitato disagio nella comunità ebraica americana, in maggioranza liberal. L'American Enterprise Institute è il nido di Paul Wolfowitz, l'ex sottosegretario alla Difesa, uno dei principali architetti della guerra dell'Iraq. Dopo avere ascoltato Entine, Dana Milbank del Washington Post si chiese ironicamente: «Se noi siamo più intelligenti, come è possibile che Paul, un nostro maestro, abbia sbagliato tutto, proprio tutto, a Bagdad?». William Salaton della National Review fece del sarcasmo sulla «jewsnetics» (eugenetica ebraica) di McDonald e Murray: «Dobbiamo essere contenti di avere più cervello ma anche più malattie e quindi di rischiare di morire prima degli altri?». Reazioni che hanno confortato Gates, il quale ammonisce che la scienza «non deve diventare la nuova frontiera del razzismo» e che gli esseri umani «devono essere giudicati individualmente non come gruppo». E che richiamano l'insegnamento dell'ebreo Elliott Liebow, autore di un libro premonitore del '93: Dite loro chi io sia. La gente, scrisse Liebow «è in grande prevalenza di media intelligenza, determinazione e abilità. La nostra società sarà giudicata dalla sua capacità di fornirle una vita decente, e di fornirla a quanti, per qualsiasi motivo, siano al di sotto della media».

Repubblica 17.7.08
La riduzione di fondi mette a rischio il futuro e la civiltà di un Paese
Attaccato dal governo, ho una sola colpa: tutelo la cultura
Perché dà fastidio chi difende il paesaggio
di Salvatore Settis


Due eventi hanno turbato negli scorsi giorni gli eleganti corridoi del Collegio Romano, sede centrale dei Beni Culturali. Primo evento, i recenti tagli al bilancio del Ministero: il Dl sull´Ici ha cancellato i 45 milioni di euro per il ripristino dei paesaggi degradati; 105 milioni sono stati dirottati a compensare mancati introiti Ici e al "Fondo per la politica economica"; infine, il Dl 112/2008 taglia nel prossimo triennio quasi un miliardo, di cui 761 milioni dalla "tutela dei beni culturali e paesaggistici".
Il secondo evento è assai più banale: sul Sole-24 ore del 4 luglio ho commentato queste cifre, citandole dalla Gazzetta Ufficiale. Non ci vuol molto a capire che il primo di questi due eventi è assai preoccupante, il secondo è irrilevante.
Eppure è sul mio articolo, e non sui tagli che lo hanno provocato, che si sono concentrati quasi tutti i commenti di senatori e deputati (fra cui un sottosegretario), e di molti giornali. Nessuno ha contestato la correttezza dei dati che avevo addotto; in compenso, più d´uno ha chiesto le mie dimissioni da presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Perché? Perché la preoccupazione per questi tagli rivelerebbe «scarso rispetto per le istituzioni» (sen. Amato), «disinvoltura e gusto per la polemica» (on. Giro), «non condivisione della linea di rilancio delle attività culturali del Ministro» (on. Carlucci). Perché, insomma, chi presiede il Consiglio Superiore dei Beni Culturali è tenuto a non manifestare preoccupazioni sui Beni Culturali, che potrebbero suonare critiche verso il governo. Anzi, soggiunge il sen. Amato, il carattere strumentale di tali critiche è dimostrato dall´«assordante silenzio» che avrei osservato all´epoca del governo Prodi.
Il presupposto di queste esternazioni sembra essere: la presidenza del Consiglio Superiore è un incarico politico, e comporta fedeltà al governo; ergo, ogni preoccupazione del presidente non può che essere "strumentale", cioè da oppositore politico. Quanto al mio preteso silenzio durante il governo Prodi, ricordo al sen. Amato solo la normativa sul silenzio-assenso. Quando fu proposta dal ministro Baccini (governo Berlusconi), ne scrissi sulla prima pagina di Repubblica dell´8 marzo 2005 (Beni culturali, ultimo scempio); quando una norma assai simile fu riproposta dal ministro Nicolais (governo Prodi), il mio articolo Per i Beni Culturali ritorna lo scempio, ahinoi molto simile al precedente non solo nel titolo, uscì sulla prima pagina di Repubblica dell´11 settembre 2006 (in ambo i casi, la proposta fu ritirata).
Altri esponenti della maggioranza hanno preso per fortuna la strada opposta: l´on. Granata, per esempio, mentre lo stesso Ministro Bondi ha riconosciuto «l´urgente necessità di intraprendere un cammino comune per limitare il più possibile il temuto ridimensionamento delle risorse», e ha dichiarato di non aver «mai messo in dubbio la legittimità di esprimere liberamente le proprie opinioni da parte del presidente del Consiglio Superiore».
Ma è vero che, come alcuni han detto, chi ricopre questa carica è obbligato al pubblico silenzio su ogni questione che riguarda i beni culturali? No, non è vero. Il Consiglio Superiore dei Beni Culturali è, come altri Consigli Superiori (dei Lavori Pubblici o della Magistratura), uno degli organi tecnico-scientifici (non politici) che l´Italia liberale istituì come mediatori fra il governo, il parlamento e la società civile, convocando competenze dal mondo dell´università, della ricerca, delle professioni. Perciò la presidenza del Consiglio Superiore comporta la massima discrezione sui documenti su cui il Ministro chiede pareri, ma non comporta l´obbligo del silenzio sugli atti ufficiali del governo né il divieto di citare dati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, né tanto meno la proibizione di esprimere opinioni. Il carattere tecnico-scientifico e non politico del Consiglio è stato pienamente riconosciuto dal Ministro Bondi, quando, davanti alle (doverose) dimissioni del presidente e dei membri nominati da Rutelli, ha chiesto a tutti di restare al loro posto.
L´atteggiamento responsabile del Ministro e la sua dichiarazione alle Camere che intende «impegnarsi per una progressiva crescita dell´intervento economico dello Stato a favore delle politiche culturali, attualmente attestato sulla troppo modesta percentuale dello 0.28%» consentono di accantonare le polemiche inutili, per tornare al cuore del problema. Quale che sia la manovra economica del governo, a chiunque abbia una qualche competenza specifica sui beni culturali, o un ruolo istituzionale connesso, spetta non la facoltà, bensì l´obbligo di dire nel modo più chiaro che questo è un settore (come del resto l´università e la ricerca) in cui tagli troppo drastici e non compensati da credibili meccanismi di recupero possono generare conseguenze di lungo periodo. Il deterioramento del patrimonio e del paesaggio per carenza di tutela, così come la forzata chiusura di una linea di ricerca o l´emigrazione di giovani talenti, educati in Italia a caro prezzo, verso Paesi più interessati alla ricerca, innescano processi irreversibili, danni economici e culturali non più sanabili.
Il Paese non può permettersi tagli tanto gravi ai Beni Culturali da mettere a rischio l´obbligo costituzionale della tutela, tanto più d´attualità oggi di fronte alla selvaggia aggressione al paesaggio da parte di comuni e regioni di ogni colore politico. Oggi e non domani è il momento di dirlo, prima che il Dl venga convertito in legge (entro l´8 agosto). Una discussione aperta, trasparente, limpida (dunque pubblica) sui fatti è richiesta dal pubblico interesse e dalle regole della democrazia. E poiché il Ministro (ha ragione l´on. Carlucci) ha una chiara «linea di rilancio delle attività culturali», protestare contro i tagli che ne impedirebbero l´attuazione è segno di rispetto per lui, di condivisione delle sue dichiarazioni alle Camere, e non il contrario. Il Ministro, intanto, sta lavorando per limitare il danno che verrebbe al suo Ministero da quei tagli: infatti, all´assemblea di Federculture ha parlato della «carenza di risorse che attanaglia il Ministero». Dopo gli 80 milioni per il cinema già recuperati, dopo i 20 milioni che verranno da Arcus, non si può dubitare che egli si adoprerà sia per ridurre la portata dei tagli al suo bilancio sia per attivare altre fonti d´introito.
Il Parlamento, al cui esame è ora il Dl 112, non può, non deve sottoscrivere tagli ai Beni Culturali della portata ipotizzata. Lo ha ripetuto ieri all´unanimità il Consiglio Superiore al Ministro, esprimendo il proprio apprezzamento per le sue dichiarazioni e per l´intenzione di promuovere donazioni mediante misure di defiscalizzazione, ma anche «piena solidarietà e appoggio allo scopo di scongiurare la temuta deriva che rischia di annichilire la tutela e il governo del patrimonio culturale e paesaggistico». Una preoccupazione grave che nasce dal massimo rispetto per la Costituzione, per gli interessi del Paese, per i funzionari della tutela, per il Ministro che vi è preposto e per i progetti che egli ha dichiarato alle Camere. Con ostinato ottimismo rivolgiamo al senso di responsabilità istituzionale del Governo e del Parlamento un accorato appello perché le cifre dei tagli previsti dal Dl 112 vengano rivedute sensibilmente al momento della sua conversione in legge; anzi perché, pur nella difficile congiuntura economica, venga avviato un piano per una progressiva, necessaria crescita delle risorse.

Repubblica 17.7.08
Dio, la chiesa e la storia
di Aldo Schiavone


Il rapporto che il Dio dei Vangeli ha con il tempo e la storia – con la nostra storia e con la nostra speranza di salvezza, con la storia delle donne e degli uomini di questa terra – è forse il punto più enigmatico e cruciale di tutto il Cristianesimo. La sovranità di Dio sul tempo è assoluta e unica, e a tutti sconosciuto il suo progetto: «Di quel giorno e di quell´ora nessuno sa, neppure gli angeli che sono in cielo, neppure il Figlio, fuor che il Padre» (Marco,13,32-33). Ma Cristo ha tuttavia deciso di incontrare la storia del mondo, di immergersi totalmente in essa, e ha provato a spezzarla e a rivoluzionarla. La sua vita rappresenta, nel messaggio evangelico, l´intersezione, la giuntura tra l´infinito e il finito; è l´infinito che sceglie, pur non rinunciando a se stesso, di chiudersi in una forma – quella dell´uomo – per riscattarne l´esistenza e il destino. Da allora, ogni giorno, nella simbologia comunitaria della messa, o anche nella solitudine della preghiera, il credente rinnova la sconvolgente luminosità di questo contatto, stabilito per sempre.
Fra le molte ragioni che mi inducono a tenere in grande considerazione l´intervento che il cardinale Ruini ha voluto dedicare (su l´Avvenire del 13 luglio) al mio articolo apparso il giorno prima su "Repubblica", la prima – di carattere più teorico – è la completa consapevolezza che vi traspare di tutta la centrale problematicità di questo nodo (a un secondo motivo di apprezzamento, diciamo più politico, accennerò fra un attimo). Ruini scrive che il fatto che l´uomo sia, per la fede cristiana, "immagine di Dio" rivela la sua non completa "riducibilità alla natura come alla storia". Oltre, continuerebbe sempre a sporgere qualcosa: la scintilla di Dio. Il richiamo a questa dottrina è perfettamente pertinente.
Mi chiedo tuttavia quale sia il significato della rassomiglianza fra uomo e Dio, che incontriamo in un testo della "Genesi" (1,26-27) che non smette mai di inquietare. Anche se la accettiamo come il nucleo di una rivelazione (cosa che un non credente può rifiutarsi di ammettere, ma ora non mi interessa questa prospettiva), a me pare che la sua interpretazione più fondata ci riconduca di nuovo – almeno dal lato degli uomini – alla storia, e solo alla storia. Quale uomo, infatti, riflette l´"immagine" di Dio? A me pare che il paragone non possa essere riferito a questa o a quella figura che l´umano ha assunto nel corso del suo cammino, o a una sua inesistente immutabilità antropologica (anche l´antropologia non è che storia, solo più "fredda", e muta anch´essa, anche se molto più lentamente).
Molto meglio intendere la somiglianza come progettualità e come sviluppo, resi attuali dalla presenza salvatrice di Cristo nel tempo. Essa riguarda il nostro futuro (che è il presente di Dio, cui è concesso di conoscere il tempo come un blocco di ghiaccio, e non come un fiume che scorre). Somigliare a Dio non è dunque una condizione di partenza, ma una potenzialità e una conquista, anch´esse dunque, in qualche modo, storiche: che segnano un ricongiungimento e suggellano un´alleanza all´interno di un principio universale d´amore come morale assoluta del divino. Eminenza, risolvere l´umano nella sua sola storia non è "ridurlo", ma esaltarlo. "Riduzione" sarebbe condannarlo all´imitazione eterna di una natura posta fuori di lui.
E vengo all´apprezzamento politico. Il cardinal Ruini ammette l´importanza di "un atteggiamento più serenamente aperto da parte della Chiesa in ambito antropologico": e non è poco, mi sembra. Egli ne lega la possibilità al superamento di visione materialistica dell´umano. Ma siamo d´accordo. La materia (modernamente intesa) è solo una forma – non certo l´unica – dell´essere: basta la fisica a dirlo, senza scomodare la teologia. La storia – dell´Universo come della nostra mente – è altro. Arriviamo dunque a parlarci, liberi da pregiudizi, da entrambe le parti. Lei conviene che abbiamo bisogno di un´«etica forte» per affrontare i tempi che ci aspettano: per trasformare in opportunità di vita e di salvezza la potenza della tecnica che abbiamo appena iniziato a mettere in campo. Un´etica della responsabilità globale, direi.
Per costruirla servono immaginazione, conoscenza, amore. Nessuna delle culture che la nostra specie ha finora elaborato è pari a questo compito. È necessario pensare insieme. Il cattolicesimo può aiutare in modo determinante. Se noi sapremo ascoltarlo, e se la Chiesa saprà rendersi conto che una intransigente testimonianza d´amore – ama il prossimo tuo più di te stesso – non ha bisogno di proteggersi dietro nessuna pretesa immutabilità della natura e dei suoi principi. Anche l´amore, dal lato degli uomini, è solo storia. Dal lato di Dio, è mistero.