Cosa rossa. La crisi vista da sinistra
di Nicola Tranfaglia
La settimana abbondante di consultazioni del Quirinale ormai vicina alla fine ha generato, dopo la caduta del governo Prodi, un curioso stato d’animo a sinistra. Tra editoriali e interviste (penso in particolare a quella, brillante ma disperata, di Vauro sul Giornale di ieri) si palesa un atteggiamento che francamente non capisco. Da una parte si dimentica che, in questi diciotto mesi, il governo Prodi non è stato con le mani in mano. Ha compiuto nel suo intenso lavoro alcuni errori che io stesso e questo giornale hanno sempre sottolineato.
Penso al numero dei ministri e sottosegretari, all’indulto con un grande accordo trasversale, tutti insieme, e a molti altri minori... ma, in compenso, ha risanato i conti dello Stato e ha varato alcune buone leggi e una legge finanziaria 2008 che garantirà un inizio di redistribuzione sociale a vantaggio dei lavoratori e dei ceti economicamente più disagiati.
D’accordo, un’esperienza non esaltante, e per molti aspetti inferiore alle attese come alle speranze degli italiani, con alcune assenze imperdonabili come la legge sul conflitto degli interessi e quelle sulla riforma della Rai e del riassetto radiotelevisivo.
In politica estera, molte buone cose ma, almeno sulla missione in Afghanistan, l’incapacità di convincere gli alleati sulla necessità di modificare il registro e le caratteristiche della missione. Ma in definitiva è stata la politica americana di Bush che ha impedito a Prodi risultati migliori.
Insomma, possiamo dire che Prodi non è riuscito a realizzare il programma dell’Unione sia per la maggioranza minima al Senato sia per i poteri dei veti di alcuni alleati, a cominciare da Mastella.
Ora dovrebbe esser chiaro a tutti che sono stati i centristi, e non la sinistra cosiddetta radicale, a indebolire il governo e, alla fine, a distruggerlo soprattutto per l’imminente referendum e la nuova legge elettorale vicina alla “bozza Bianco” e non tanto per le disavventure giudiziarie del leader di Ceppaloni, del senatore Dini e dei suoi pochi seguaci.
Semmai si deve ricordare che la strategia adottata da Veltroni per il Partito Democratico ha (forse al di là delle intenzioni) a sua volta indebolito il governo in quanto ha avvertito tutta la sinistra che il maggior partito della coalizione di centro-sinistra correrà d’ora in poi “da solo”, senza i suoi alleati tradizionali dell’ultimo quindicennio.
Del resto, quasi nessuno ha ricordato (guarda caso) in questi giorni che i leader centristi come Mastella e Dini hanno fatto negli ultimi quattordici anni un cammino costante tra centro-destra e centro-sinistra e non c’è da stupirsi se l’andare e venire prosegue di fronte ai grandi cambiamenti in vista e all’origine eminentemente personale di simili forze politiche.
Se questa è una diagnosi attendibile sulla crisi politica in atto, non ha molto senso - mi pare - cadere in uno stato di disperazione che equivale all’antico e tradizionale “tanto peggio tanto meglio”, che prevede come sicuro il ritorno al potere di Berlusconi (sicuramente probabile ma non ancora avvenuto) e tira quasi un respiro di sollievo di fronte all’eventuale rientro nei ranghi dell’opposizione dopo le deludenti esperienze di governo.
Un simile atteggiamento ha due gravi inconvenienti che vale la pena segnalare.
Il primo è che non facilita una visione equilibrata del passato recente come del presente. Anche se il giudizio sul governo Prodi non è soddisfacente, a me sembra sbagliato equiparare l’ultima nostra esperienza del 2006-2008 a quella del lungo governo Berlusconi del quinquennio precedente.
Abbiamo già dimenticato le leggi-vergogna del Cavaliere, la grande evasione fiscale permessa dal governo Berlusconi e finita con il centro-sinistra, l’esaltazione della illegalità mafiosa e così via?
Se questo è vero, come si può considerare il probabile ritorno di Berlusconi come qualcosa che ci lascia più o meno indifferenti? E come si può ritenere inutile tentare una battaglia contro il centro-destra e per la ricostruzione di una nuova alleanza di centro-sinistra? Del resto il “programma realistico” che Berlusconi ha rivelato al Giornale che metterà il bavaglio definitivo ai giudici e farà leggi reazionarie sulla criminalità e contro gli immigrati. Si può restare indifferenti di fronte a simili prospettive?
L’altro inconveniente è che quell’atteggiamento può condurre a una sconfitta particolarmente rovinosa e consentire a un Berlusconi vittorioso nelle urne tentazioni antidemocratiche diffuse nel suo partito come in quelli con cui si è sempre alleato.
Di fronte a una simile prospettiva occorre, a mio avviso, evitare un’altra tentazione che mi sembra diffusa in queste settimane.
È ormai chiaro che il Partito democratico si sta collocando in una posizione di centro nello schieramento complessivo ed aspira a dialogo con forze che sono ora nel centro-destra come l’Udc di Casini piuttosto che con quelle di sinistra. Preso atto di questa situazione, i partiti della sinistra, oggi assai frammentati, dovrebbero, a mio avviso, non dimenticare che soltanto se affretteranno i tempi della Confederazione e si presenteranno uniti alle elezioni con un nuovo programma potranno attrarre nuovi elettori. E che, peraltro, il Partito democratico resta per la sinistra l’unico possibile alleato. O c’è qualcuno a sinistra che pensa a una possibile vittoria della sinistra senza alleanze con il centro? O si rassegna a restare in eterno all’opposizione? E quale sarebbe il vantaggio di questa posizione per i milioni di elettori che possono e vogliono seguirci?
Finora nessuno, mi pare, ha risposto a questi interrogativi.
l’Unità 30.1.08
Carlo Leoni. Il vicepresidente della Camera (Sd): noi, Rifondazione e Verdi correremo con lo stesso simbolo, spero si unisca anche il Pdci
«Lanciamo una sfida al Pd, si allei con la Sinistra arcobaleno»
di Andrea Carugati
Nei giorni più neri della crisi di governo, Carlo Leoni, vicepresidente della Camera ed esponente di Sinistra democratica, su un punto è ottimista: «Noi, Rifondazione e i Verdi siamo andati al Quirinale a dire le stesse identiche cose: un governo di scopo per fare la legge elettorale e la redistribuzione sociale. Nel caso di elezioni, siamo tutti e tre d’accordo di correre uniti sotto il simbolo della Sinistra arcobaleno. Come abbiamo visto con il Pd, quando ci si presenta alle elezioni con lo stesso simbolo, e su quello si viene votati da alcuni milioni di persone, poi il processo unitario è irreversibile».
Già, ma il Pdci non ci pensa proprio...
«Al loro interno c’è una opposizione molto identitaria, quelli dei manifesti con la falce e martello e la scritta “Cosa Rossa? No grazie”. Io mi auguro che prevalga chi vuole l’unità a sinistra. E che anche i socialisti decidano di unirsi a noi».
E l’alleanza col Pd?
«Al Pd lanciamo una sfida di governo, non ci candidiamo all’opposizione e reagiamo all’ipotesi di correre ognun per sé, che vorrebbe dire regalare la vittoria a Berlusconi. Sono d’accordo con Veltroni che le alleanze si fanno su un programma davvero condiviso e che la formula dell’Unione è alle nostre spalle. Per questo vogliamo lavorare a un nuovo centrosinistra a due gambe, con il Pd e una sinistra unita».
Eppure anche il Prc sembra volersi sganciare dal Pd...
«Non mi risulta. Ho visto che Giordano non esclude l’ipotesi di un’alleanza. Non credo a una formula in cui la sinistra si presenta alle elezioni per perdere, e l’unica alternativa alla destra è il Pd».
Eppure Veltroni sembra puntare proprio a questo...
«Se la sinistra è unita, l’ipotesi di fare una coalizione -caravanserraglio non esiste più, perché le forze alleate sono solo due. Per questo sono d’accordo nel rivedere i regolamenti parlamentari: chi si presenta unito agli elettori poi non si può dividere in Parlamento. In questo caso, il rifiuto a priori del Pd a lavorare a un’alleanza sarebbe solamente ideologico, e sono certo che lo pagherebbe».
Gli elettori del Prc sembrano molto delusi da questa esperienza di governo...
«Conosco gli elettori della sinistra: non vogliono che governi la destra, vogliono un centrosinistra che si occupi della gente che soffre. E poi c’è una questione di identità della sinistra: non siamo e non vogliamo essere una forza minoritaria, di testimonianza».
Lei ritiene che l’alleanza tra le due sinistre, moderata e radicale, abbia funzionato male?
«Non lo credo. Il governo è stato bombardato dal centro, non dalla sinistra. Il governo ha risentito di queste pressioni dal centro, ma con l’ultima finanziaria c’è stato un giro di boa a favore di lavoratori e pensionati».
Eppure anche la sinistra ha posto problemi: Tav, Afghanistan, Vicenza, ministri e sottosegretari a manifestare contro...
«Ma i nostri voti non sono mai mancati, abbiamo solo espresso delle opinioni».
Veltroni non vuole più questo frammentazione...
«E noi non vogliamo più scrivere sul programma delle cose, sulla legge 30 o sulle unioni civili, e poi vedere che non si fanno. Per questo Walter ha ragione: sul programma bisogna essere molto chiari e coerenti».
Eppure il Pd sembra sempre più orientato a correre da solo...
«Non credo che vogliano consegnare l’Italia a Berlusconi, e neppure che questa ipotesi di una lunga traversata del deserto affascini i loro militanti. Il Pd è nato come forza di governo, non di opposizione. E poi ci sono le elezioni amministrative di primavera, a Roma, in Friuli: se si dice che il caravanserraglio è impresentabile a livello nazionale, con quale coerenza lo presentiamo a livello locale?».
Se ci sarà un governo Marini lo sosterrete?
«Se gli obiettivi saranno la legge elettorale e la redistribuzione sì».
Ma quale legge elettorale?
«A noi la seconda bozza Bianco va bene, ma siamo disponibili a discutere ancora, anche con l’Udc».
l’Unità 30.1.08
Il trionfo degli assassini
di Antonio Gramsci jr
Non sono molto incline ad abbandonarmi ai ricordi. Preferisco piuttosto fantasticare le realtà parallele e sognare il futuro lontano. Tuttavia in questi giorni non posso liberarmi di un ricordo dell'infanzia che ritorna con ostinazione ad occupare la mia immaginazione. Nell'epoca sovietica la nostra famiglia passava tutte le estati in villeggiatura a Kratovo, a quaranta chilometri da Mosca, che apparteneva al dipartimento economico del Pcus. Era un insieme di dacie che costeggiavano il fiume in mezzo al bellissimo bosco di pini. Tutte le dacie erano diverse. In quelle ben collocate e più attrezzate abitavano i funzionari più importanti, in quelle periferiche e con alcuni servizi mancanti - il personale tecnico. Ma tra tutte le dacie spiccava una alla quale tutti i villeggianti guardavano con invidia e bramosia. Negli anni settanta ci abitava un signore anziano che fino ai suoi sessant'anni conservò bell'aspetto e portamento altero. Era un mito - quarant'anni prima con il colpo preciso della piccozza aveva spaccato il cranio del teorico della rivoluzione permanente, nemico mortale di Stalin, Lev Trotckij. Il suo nome esotico, Ramon Mercador, veniva pronunciato sottovoce e con ammirazione, soprattutto dalle donne, ovunque: in mensa, sulla spiaggia, nel cinema. Poco prima di ritornare a Cuba Mercador fu decorato della stella dell'Eroe dell'Unione Sovietica, l'onorificenza più prestigiosa dello Stato.
Perché mi vengono in mente questi strani ricordi? Naturalmente non in occasione del trentesimo anniversario della morte di Mercador, avvenuta appunto nel 1978. Mi sembra che la Russia attuale nel suo strano desiderio di contrapporsi ai cosiddetti valori europei ha ripreso il gusto di glorificare i nuovi eroi che si distinguono nel calpestare quelli stessi valori. Il primo caso è la nomina di Vitalij Kalojev, recentemente liberato da una prigione svizzera, a viceministro di edilizia e architettura nella Repubblica dell'Ossezia del Nord. Questo signore perse nel 2002 figlia e moglie nello scontro frontale fra un aereo russo e un cargo, avvenuto in Germania a causa della disattenzione del controllore del volo. In seguito questo controllore negligente fu ammazzato a coltellate nella sua casa in Svizzera, davanti agli occhi esterrefatti della moglie, dallo stesso Kalojev. Con questo gesto disperato diventò subito eroe nazionale non già perché ha vendicato la famiglia ma perché si è fatto quella giustizia che, trattandosi di problemi russi, il tribunale svizzero e insomma europeo, non avrebbe certamente fatto. Un altro caso apparentemente non collegato con quello precedente ma che rispecchia la tendenza generale è il caso dell'ex-ufficiale dei servizi segreti russi, Andrej Lugovoj. Questo personaggio tetro emerse recentemente in relazione alla morte misteriosa di un suo collega, un altro ex-ufficiale del FSB, Alexandr Litvinenko, avvenuta a Londra alla fine del 2006. La polizia inglese ha avuto serie ragioni per sospettare proprio Lugovoj dell'avvelenamento di Litvinenko e chiese alla Russia la sua estradizione. Per tutta risposta il Partito liberal-democratico, la finta opposizione (che non c'entra né con il liberalismo, né con la democrazia ma piuttosto rispecchia le tendenze nazionaliste del Paese) durante l'ultima campagna elettorale ha incluso Lugovoj come numero due nella lista elettorale, subito dopo il leader del partito, il buffone della politica russa Vladimir Zirinovskij. Non nutro la minima simpatia per Litvinenko, traditore ignobile della Patria e dei suoi compagni, ma non riesco a capire perché l’essere stato suo assassino, anche solo come sospetto, ha permesso a Lugovoj di fare una carriera politica così brillante. Più precisamente capisco ma non realizzo.
Intanto aspetto l'avvento di un altro Ercole che combatterà qualche idra «dell'Occidente marcio» per la gloria della Grande Russia.
l’Unità 30.1.08
Spielberg e la Shoah: tante storie che vanno raccontate
di Steven Spielberg
IL REGISTA a Firenze interviene al convegno Sterminio e Stermini e ribadisce l’importanza di continuare a narrare e ascoltare le vicende di ogni sopravvissuto: «Possiamo così condividere le loro vite e il loro messaggio di pace»
Pubblichiamo in questa pagina il saluto del regista Steven Spielberg ai 7500 studenti toscani riuniti ieri al Mandela forum di Firenze per la Giornata della Memoria. In basso alcuni stralci del dialogo tra lo scrittore David Grossman e gli studenti toscani.
La storia ci ha insegnato molte dure lezioni e spesso quelle più dolorose sono le più facili da dimenticare, ma anche le più importanti da ricordare. È per questo motivo che non dobbiamo mai dimenticarci dell’Olocausto e delle sue vittime.
Ognuno di noi vuol essere riconosciuto individualmente, a volte, però, siamo pronti a generalizzare nei confronti degli altri in base alla loro apparenza, alla loro religione o al loro background culturale. Generalizzare in questa maniera è di per sé innocuo, ma scegliendo di ignorare le caratteristiche uniche ed individuali di una persona facciamo un passo verso il negare la sua umanità. Questo è quello che è successo a milioni di persone durante l’Olocausto. Quello che era iniziato come uno stereotipo divenne genocidio. E se ogni stereotipo non si trasforma in genocidio, alla base di tutti i genocidi ci sono gli stereotipi.
Non possiamo disfare i fallimenti del passato ma possiamo evitare di ripeterli imparando a capire che le vittime dell’Olocausto erano persone come noi che vivevano la vita con le sue gioie e i suoi dolori. Un piccolo ma prezioso numero di loro è sopravvissuto al tentativo di sterminio e ha vissuto abbastanza a lungo da poter raccontare la loro storie alle macchine da presa ed ai microfoni della Shoah Fondation.
Nel 1994 ho creato appunto la Shoah Fondation con lo scopo di dare ai sopravvissuti dell’Olocausto e ad altri testimoni la possibilità di condividere con il mondo intero le storie delle loro vite. Abbiamo visitato 56 Paesi ed intervistato decine di migliaia di persone di cui più di 400 qui in Italia. Ogni testimonianza è preziosa perché racconta una storia unica. Al tempo stesso, però, le testimonianze nel loro insieme trasmettono un messaggio di grande forza: per quanto orribile e tragico sia stato l’Olocausto il messaggio dei sopravvissuti è anche un messaggio di pace. Un messaggio che afferma la dignità dell’individuo, il valore del coraggio tra la compiacenza ed il potere della vita sulla morte.
Conservare le memorie dei sopravvissuti dell’Olocausto e degli altri testimoni è stato un mio sogno. Condividere il loro messaggio è stata la mia passione degli ultimi dieci anni, ed è motivo di grande gioia per me sapere che le testimonianze di 50 sopravvissuti italiani sono state affidate alla Toscana Film Commission, unendosi così ad altre collezioni di testimonianze custodite presso l’Archivio Centrale dello Stato ed in altre parti d’Italia.
Chiunque ne abbia il desiderio può guardare queste testimonianze. E sono grato alla Toscana Film Commission di aver onorato le vite dei sopravvissuti mettendo le loro storie a disposizione del pubblico. Questa Giornata internazionale della Memoria rappresenta una nuova opportunità per tutti noi, per la nostra civiltà. Indica che forse vogliamo finalmente confrontarci con il passato e dimostra che siamo determinati a superare l’intolleranza.
l’Unità 30.1.08
Lo scrittore israeliano parla ad una platea di 7.500 giovani toscani
Grossman: La speranza va creata, l’importante è saper fare la scelta giusta tra il bene e il male
«Vorrei dire come sono stato influenzato dalla Shoah come persona. Quando ero un bambino mio padre mi ha raccontato per la prima volta dell’orrore della Shoah. E mi ricordo che pensavo “non voglio più vivere in un mondo dove una cosa così terribile può succedere, non voglio vivere in un mondo dove le persone possono comportarsi in questo modo con altre persone”. Un po’ più di venti anni dopo, quando il mio figlio maggiore aveva tre anni e cominciava a parlare di queste cose all’asilo, un giorno tornò a casa e mi chiese “papà cosa è successo? È vera questa cosa? Cosa hanno fatto i nazisti? La Shoah che cosa è?”. Io non glielo volevo dire perché avevo paura di contaminare la sua innocenza, la sua purezza. Pensavo che quando lui avesse saputo che queste cose possono succedere qualcosa sarebbe cambiato in lui, non sarebbe più stato la stessa persona. Quando ho cominciato a scrivere pensavo che la cosa più importante fosse scrivere un racconto ambientato nel periodo della Shoah, ma volevo scriverlo dal punto di vista di un bambino. Non è un caso se gli scrittori e i registi che si trovano qui hanno voluto raccontare la Shoah dal punto di vista di un bambino, perché di fronte alle atrocità della Shoah siamo tutti un po’ bambini». È David Grossman che parla di fronte ai settemilacinquecento studenti toscani, che ieri hanno gremito il Mandela Forum di Firenze. Lo scrittore risponde alle domande del pubblico.
«In Toscana ricordiamo il giorno della memoria tutto l’anno - dice un ragazzo - e ogni due anni portiamo un treno carico di ragazzi ad Auschwitz e Birchenau. Lo facciamo ormai da sette anni. Naturalmente abbiamo un problema: riuscire a togliere dalla ritualità questo giorno. Cosa pensa dell’efficacia di quanto facciamo?»
«Certo che è importante e impressionante vedere così tanti ragazzi oggi che ascoltano e raccontano le storie della Shoah - risponde Grossman -. Ma la cosa più importante che vorrei che ciascuno di voi facesse oggi quando torna a casa è riflettere un attimo e pensare: “che cosa avrei fatto io se avessi vissuto in quel periodo?”. Ognuno di voi si fermi a pensare “come sarei riuscito a conservare la mia umanità, sia che io fossi stato la vittima o l’assassino, il carnefice?”. Qual è la cosa più forte dentro di voi che vi avrebbe potuto aiutare a mantenere la vostra umanità in un posto dove l’umanità è stata cancellata? Come avreste fatto ad evitare di partecipare alla forza del male?»
«Abbiamo intitolato questo convegno Sterminio e stermini con un sottotitolo preso da Primo Levi: “È successo, può succedere ancora”. Vorremo da lei qualche parola di speranza perché, se tra mille anni dovesse succedere ancora, tutta la nostra forza non sarà sufficiente», chiede un altro studente. «È successo e può succedere ancora, è nelle possibilità dell’umanità - dice lo scrittore -. La speranza non è una cosa che succede da sé, la speranza va creata. Bisogna stare sempre attenti, è una guerra infinita. Fra la riflessione dell’uomo moderno e il pensiero c’è la barbarie, c’è il male. Per una mattina intera avete visto i film, avete ascoltato i testimoni. Vorrei credere che la prossima volta che vi capiterà di stare in una situazione in cui dovrete scegliere tra l’umanità e il male saprete cosa scegliere. Queste condizioni ci sono in ogni momento della nostra vita. Vi capita in classe, vi capita in famiglia, fra amici, in ogni momento dovete decidere che parte prendete. E vi auguro con tutto il cuore che non sarete mai più qui in Europa dalla parte di quel periodo terribile. Ma dipende solo da voi».
l’Unità 30.1.08
Arbe e Giado. l’italica barbarie
di Bruno Gravagnuolo
Arbe e Giado «Nessun altro luogo, includendo l’isola di Arbe nel Quarnaro, fu teatro di stragi “italiane” numericamente più rilevanti». Così Dario Fertilio sul Corsera, lunedì dell’altra settimana. E il riferimento è a Giado in Libia, dove furono concentrati un migliaio di ebrei libici italiani, come racconta il libro di Eric Salerno, Uccideteli tutti (Il Saggiatore). Dovevano essere uccisi tutti secondo l’ordine di regime nel 1943, prima dell’arrivo degli inglesi, ma l’ordine fu revocato. E i morti di stenti furono circa 560. Solo che ad Arbe nel Quarnaro e in altri campi, i morti furono forse dieci volte di più, su 20mila internati slavi. Per non dire delle migliaia e migliaia di fucilati per rappresaglia dagli italiani che avevano consegnato la Croazia al boia Pavelic. Meglio essere precisi sulle cifre della barbarie italica. Anche in vista del giorno della memoria dalmata-giuliano (10 febraio), nel quale di solito si ricorda solo la barbarie altrui.
Morte a Pecoraro Ha certo colpe, il Ministro, oggetto di tiro al bersaglio. Ma in Campania ne ha meno. Perché a monte di tutto il ciclo smaltimenti rifiuti c’era un baraccone. E i bruciatori avrebbero inquinato e avvelenato con quel tipo di «ecoballe». Diciamola tutta la verità - come ha fatto l’Unità con i pezzi di Fierro – perché le colpe sono tante. Destra, Romiti&Son, sinistra tutta e Pd che non hanno mai eccepito sul piano ereditato e...applicato da Bassolino. Una lunga lista unica...
Terza via Dopo i milioni della Morgan ora Blair incasserà quelli della Zurich. Consulente finanziario di lusso al di sopra delle parti. Che sia questa la terza via?
Scopo senza scopo E ora tutti a far melina, col «governo di scopo». Giusto, ma a condizione che lo scopo ci sia. E sia realizzabile. Ad esempio, una riforma elettorale tedesca, che tiri dentro Casini e lo metta in contrasto col Cavaliere. Ma il rischio è che sia tardi. E andava fatto prima! Mentre sia prima che adesso non c’è una linea univoca a riguardo, né nel centrosinistra, nè nel Pd. Sicché il rischio è di venir accusati di voler menare il can per l’aia, e di subire l’affondo populista della piazza. Eppure era semplice: piazzare un cuneo in mezzo al centrodestra. E invece...
l’Unità 30.1.08
Fiera di Torino. Il Libro del dialogo
di Fulvio Abbate
Approfitto di questo spazio per esprimere il mio punto di vista sulla questione della presenza di Israele come ospite d’onore alla Fiera del libro di Torino. Dico subito che sono fra coloro che non condividono l’idea del boicottaggio, nel senso che la ritengo discutibile e riduttiva, se non qualcosa di assai peggiore. Frutto, in questo caso, di un principio che esclude ogni forma di confronto dialettico. La ritengo, ora l’ho detto, una posizione acefala. Non credo infatti che si tratti del modo migliore di porre in primo piano i diritti del popolo palestinese e la questione drammatica della vita e delle garanzie fondamentali che dovrebbero essere assicurati alle persone che vivono nei territori occupati dall’esercito dello Stato israeliano, a cominciare dai bambini. E il discorso, per quanto mi riguarda, potrebbe perfino finire qui. In realtà c’è anche dell’altro che prescinde dalla semplice opportunità di ragionare sulla legittimità di negare il diritto di parola a chiunque. Confesso ancora di non avere più, e ormai da molti anni, un’opinione “militante”, “eroica”, assoluta sull’intera questione palestinese. Credo insomma, e assai banalmente, che la politica soluzione debba contemplare, in prospettiva - chissà però quanto lunga e praticabile - la coesistenza di due Stati sovrani, ma non mi scaldo più, come invece mi accadeva un tempo, al pensiero appunto dell’eroismo dei “feddayn”. Nel tempo, al contrario, sono pervenuto alla convinzione che Israele, la società israeliana, al di là d’ogni limite e deficit che possa giungere dai suoi uomini politici, rappresenta comunque un luogo dove il dibattito democratico è garantito, dove si possa affermare lo stesso principio di laicità, di libertà. Posso sbagliarmi, ma la sensazione che provo è proprio questa. Temo di non poter dire le stesse cose, temo di non provare la medesima sensazione davanti alla gestione, la trasparenza dell’Autorità nazionale palestinese. Se devo dirla tutta, non serbo affatto un buon ricordo neppure della gestione politica ed economica dei fondi gestiti da questi ultimi. Gli ultimi giorni della vita di Arafat mi rimandano al racconto della morte di un satrapo. Dove non c’era modo di intuire trasparenza. Ma questo è già un altro discorso. Estremizzando ancora di più il discorso, laicamente ritengo che se vivessi in Israele mi sarebbero garantiti sia il diritto al dissenso sia, estremizzando ancora di più, il mio bisogno di sognare l’assalto a ogni genere di cielo, fosse anche quello religioso.
Tornando alla Fiera del libro di Torino, e qui parlo anche da scrittore, ritengo che l’occasione della presenza degli scrittori israeliani insieme a quella dei loro colleghi d’ogni altra parte del mondo possa costituire un momento di dialogo necessario, cancellando possibilmente quel senso di muffa conformista commerciale che è propria d’ogni fiera, perfino di quelle dove si parla di libri, quindi di idee, di sogni, di strumenti destinati al pensiero, ergo a cambiare il mondo. Mi torna in mente a questo proposito il giorno della morte di Falcone e della sua scorta, era il 1992 e mi trovavo proprio lì al Lingotto, un gruppo di scrittori chiedemmo di fermare ogni dibattito in segno di lutto, anzi, chiedemmo di dare vita a un presidio permanente sulla legalità, non ci fu verso di ottenere una risposta positiva. I soldi, innanzitutto.
Una pessima pagina, da allora non ho più messo piede in quello che, almeno inizialmente, si chiama Salone del libro.
Non nutro molte speranze sulla possibilità che quest’anno, in occasione della presenza degli scrittori d’Israele, le cose possano migliorare, mi piacerebbe però che da questa storia a mio parere sbagliata del boicottaggio possa nascere un momento di sosta, una riflessione generale sulla necessità della parola scritta, oltre le esigenze di cassa e perfino oltre l’intollerabile forma di divismo che investe ormai da tempo anche l’ambito dei libri, della parola scritta che continuo a immaginare come rivoluzionaria, laica, e non bene esclusivo di una cerchietto chiusa di anime belle sotto contratto esclusivo. So che non andrà così, ma avendolo detto personalmente mi sento meno ottuso.
f.abbate@tiscali.it
Repubblica 30.1.08
Secondo l'Ipr il partito di Veltroni in solitudine raggiungerebbe il 30 per cento, nell'Unione solo il 24 per cento
Il Pd da solo vale di più che con gli alleati
ROMA - Per il Pd è meglio correre solo contro la Cdl piuttosto che pensare ad un´alleanza con quello che resta del centrosinistra. Lo rivela un sondaggio sul possibile voto politico condotto dall´Ipr Marketing per conto di Repubblica.it. Il risultato è molto variegato perché l´istituto di ricerca ha elaborato quattro scenari diversi. Il partito di Veltroni nello scenario numero uno, confronto fra centrodestra e centrosinistra come nel 2006, - vincerebbe la Cdl 55,7% contro il 44% - otterrebbe solo il 24 %. Nello scenario numero due, - il Pd da solo contro la Cdl unita, raggiungerebbe il massimo dei risultati: il 30 per cento. Le elezioni le vincerebbe il centrodestra con il 53,7% contro un 46% (virtuale) ottenuto sommando tutte le forze del centrosinistra. Il terzo scenario prevede il Pd da solo, una Lista Grillo e la Cdl. Vincerebbe sempre la Cdl con i risultati dello scenario numero due. Ma la presenza della Lista Grillo, accreditata del 7%, porterebbe il Pd al 28 per cento. Infine l´ipotesi del Pd solitario, una Lista Grillo e la Cosa Bianca in campo darebbe come risultato la Cdl al 46% contro un 43% del centrosinistra più Grillo. La Cosa Bianca otterrebbe un 10,7% mentre il Pd crollerebbe al 24%.
Repubblica 30.1.08
Boris Pahor. Il lager visto dal bosco
di Paolo Rumiz
Esce solo ora, a quarant´anni dalla prima edizione, il libro di uno scrittore triestino di lingua slovena: si intitola "Necropoli" ed è noto e esaltato in tutto il mondo
"Il trauma più grave insorse quando i maestri sloveni vennero cacciati via"
L´autore, scrive Claudio Magris nella prefazione, è uscito dall´inferno integro e vitale
Quarant´anni ci son voluti perché un autore simile fosse conosciuto appieno nel suo Paese. Ci sono voluti decine di libri stampati all´estero, una Legion d´Onore, premi negli Stati Uniti, traduzioni in inglese, tedesco, francese, persino esperanto e finlandese. E´ il destino di Boris Pahor, triestino di lingua slovena, noto quasi ovunque tranne che in Italia. Per troppo tempo ha fatto comodo non si sapesse che nella città italianissima c´era un grande capace di scrivere in un´altra lingua - la stessa che il fascismo aveva negato a suon di manganello, sputi e olio di ricino - e mettere con i suoi capolavori il dito sulla piaga.
Necropoli - Fazi, pagg. 270, euro 16, prefazione di Claudio Magris e traduzione di Ezio Martin - è dedicato alla prigionia nei Lager nazisti e salda il conto con molte cose: l´oppressione fascista che - si voglia o no - fu la premessa dei forni crematori; la scandalosa anticamera di questo autore ormai novantacinquenne (il libro è del 1967); con la sua umiltà, la sua onorata cittadinanza e la sua limpida passione civile. Ma soprattutto con la bellezza di un testo che si situa a pieno titolo accanto ai capolavori di Primo Levi e Imre Kertész sullo sterminio.
Per Pahor il Muro cade solo ora, ma il ritardo si riscatta con una perfetta scelta di tempo, col libro che esce nel Giorno della Memoria, il primo celebrato dopo la definitiva cancellazione della frontiera tra Italia e Slovenia. E chissà che questo bel rilancio non serva a esorcizzare gli ultimi fantasmi in circolazione sulla Cortina di Ferro che non c´è più, offrendo una base nuova di conoscenza reciproca alle sospettose comunità che la abitano. Un libro importante, perché non recrimina ma guarda al domani, e perché l´Autore - scrive Magris - è uscito dall´inferno integro e vitale, ricco di una «confidenza con la fisicità elementare della vita».
Il libro ha una forte anima slava e non indulge in autocommiserazioni. Non rimane imbrigliato nemmeno nel «tortuoso senso di colpa» di chi è ritornato e sente il peso di essere sopravvissuto ai compagni. Pahor sa di appartenere al suo Lager sui Vosgi, di essergli legato per sempre, ma quando, vent´anni dopo, vede due giovani baciarsi vicino alle camere a gas, anziché indignarsi, sente il richiamo potente del sentimento. Dice: «Noi eravamo immersi nella totalità apocalittica della dimensione del nulla», e quei due ora «galleggiano su qualcosa di altrettanto infinito e che altrettanto incomprensibilmente signoreggia sulle cose».
Il richiamo della natura - indifferente ma consolatrice - è presente nel mutismo del bosco cui egli, durante la prigionia, non riesce affatto a guardare come simbolo partigiano di libertà.
Durante l´esecuzione di un centinaio di giovani prigioniere francesi, egli al contrario gli rimprovera «di offrire, fitto com´è, un nascondiglio alla dannazione». A guerra finita poi, durante una visita guidata al campo della morte, Pahor si sente selvaggiamente respinto da quella buia massa resinosa che a distanza di vent´anni si rivela come una massa di ombre trapassate pronte a difendere «il proprio territorio dalla curiosità di un uomo che passeggia, vestito decentemente, con i suoi sandali estivi».
Il bosco è un incubo che svela il nulla cosmico, sveglia inquietanti presenze ostili, «feti» coscienti del fatto che «il loro sterminio collettivo si era legato all´infinito isolamento della natura e dell´universo». Ma, a viaggio finito, è pur sempre il bosco ad accogliere e consolare il sopravvissuto nell´angolo di un camping solitario, concedendogli di infrattarsi, diventare «libero pellegrino» e assaggiare in un pentolino bollente un sorso di buon latte dei Vosgi che gli riporta alla memoria il profumo di quello munto prima della catastrofe in Slovenia. Un latte mitologico, che «sembrava sapesse di Nigritella» e - sogna Pahor - con «la linfa dei nostri monti ci rafforzava nella lotta contro il terrore nero».
Il libro offre grandiose immagini collettive. Il «formicaio zebrato», la «massa multicefala», le «ossute zanzare acquatiche, ragni bruciacchiati con i sederi a X», le file di «tartarughe che di quando in quando sollevano le teste nude nello sforzo di guardare fuori dal regno delle tenebre». Intorno, un orrore che svela la sua tremenda dimensione acustica: «l´ululato dei cani nel ventre della montagna nera», la tempesta di urla rauche, quando sembrava che la paura «fosse diventata un vento impetuoso che investisse tutte insieme le corde vocali tedesche». Sopra di tutto, il Camino: il suo rosso tulipano acceso nel cielo di piombo, l´odore dolciastro, la cenere che si mescola alle nubi, genera polipi, piovre apocalittiche, elefanti fuligginosi.
Quando arriva al campo di Natzweiler-Struthof, Pahor ventenne non ha già più illusioni. Il manganello delle camice nere le ha già spazzate via dalla sua coscienza, contribuendo però a creare, nella scorza dell´Autore, un «sistema di difesa» che non permette ai sentimenti di penetrare fino al nocciolo dove è «concentrato l´istinto di sopravvivenza». Ricorda i fascisti che incendiano il teatro sloveno di Trieste, il loro danzare «come selvaggi attorno al grande rogo», la sua incredulità di fronte alla soppressione della lingua con cui ha «imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo». Una soppressione, durata un quarto di secolo, che «raggiungeva lì nel campo il suo limite estremo, riducendo l´individuo a un numero».
«Il trauma più grave insorse quando i maestri sloveni vennero cacciati dalle scuole di Trieste». Diventai, scrive Pahor, «razza condannata, un negro». Ecco perché nel campo sui Vosgi gli slavi della costa, pur portando la «I» sulla casacca a strisce, si dicevano «yugoslavi» davanti al kapò. Non volevano essere confusi con gli oppressori, ma anche non subire le conseguenze del disprezzo tedesco verso un popolo che per due guerre mondiali aveva tradito l´alleato. In una scena memorabile verso la fine del libro, degli istriani riescono a scampare al gas semplicemente dichiarandosi «austriaci», per il fatto di esse stati fino al 1918 sudditi di Francesco Giuseppe.
Ma il fascino del Bel Paese riesce egualmente a sfondare il muro del sospetto, anche lì nel Lager, davanti all´occhio di Medusa.
Quando il giovane Boris trova un vecchio giornale italiano, basta «il fruscio della carta» a dar luogo a «un´ondata di calore, quasi un´ondata di luce». Il cima alle colonne degli articoli c´erano nomi di città che «sorsero all´improvviso davanti a me con tutte le loro volte medievali, con gli archi gotici, i portali romanici, gli affreschi di Giotto, i mosaici di Ravenna». E poi la foto dell´attrice Alida Valli, bellissima sotto la luce della lampada a carburo, che evoca la memoria di un amore perduto e si fa ritagliare per essere incollata accanto al pagliericcio gelido.
Quella foto italiana è forse l´unica deroga all´inflessibile comandamento degli internati: non pensare mai al mondo dei vivi, perché quella memoria uccide. «La regola era non stuzzicare mai la morte con immagini di vita, perché la morte è una femmina vendicativa». L´istriano Tomaz, un uomo vulcanico e allegro che non smette mai di evocare il suo mare, il suo vino e i profumi della sua terra, non rivedrà mai casa e sparirà di scena con una lunga cucitura verticale dal pube alla gola, simile a una treccia, sul tavolo autoptico della morgue.
Non si deve ricordare, perché tanto i due mondi sono e resteranno incompatibili, anche dopo l´Olocausto. Pahor non sembra trovare rimedio a quella che chiama «la grande apatia dell´uomo standardizzato». L´Europa è una vecchia stanca che nel dopoguerra, anziché «compiere la propria purificazione», si è lasciata applicare occhi di vetro «per non spaventare i bravi cittadini con le sue occhiaie vuote». L´uomo europeo, ogni tanto, prova vergogna per questa sua situazione da eunuco: ma - conclude Pahor - esso ha già abbondantemente «scialacquato in anticipo il patrimonio di onestà e di giustizia che avrebbe dovuto trasmettere alle nuove generazioni».
Corriere della Sera 30.1.08
Coppie, l'Italia mista
Una su sette con partner straniero E' boom anche per i divorzi
di Gaia Piccardi
La crescita Nel 1991 erano appena 58 mila, nel 2005 già superavano le 200 mila Ce ne sono oltre 6 mila nuove all'anno
Le metropoli Tra le grandi città, quella con una maggiore presenza è Bologna (12,2%), seguita da Milano (11%), Firenze (10,8%) e Genova (10,7%)
I nipoti dei nostri figli parleranno due lingue senza doverle studiare, si districheranno con scioltezza tra le sure del Corano e i libri dei Vangeli, trascorreranno un Natale al freddo e quello dopo al caldo, mangeranno d'abitudine salato a colazione e, per strada, non osserveranno più gli incroci interrazziali con occhi da pesci d'acquario perché loro stessi avranno radici frastagliate e profondissime. Saranno, infatti, i figli dei figli di un matrimonio misto.
L'Italia che si trasforma sotto la spinta propulsiva dei flussi migratori cambia il colore della sua pelle, la foggia dei suoi abiti, il sistema di valori in cui credere, le religioni da professare, il modo di mangiare e persino di innamorarsi. E in questo magma sociale incandescente e in continuo movimento, le coppie miste (erano appena 58 mila nel 1991, superavano già le 200 mila unità nel 2005, ora crescono al ritmo di oltre 6 mila all'anno) sono fondamentali nel processo di trasformazione interetnica e interculturale del nostro Paese. Sebbene certi matrimoni finalizzati all'acquisto della cittadinanza siano di comodo e alimentino un vero e proprio mercato, l'Italia del futuro è qui e oggi, leggibile in filigrana nella situazione attuale: un matrimonio su sette coinvolge ormai un cittadino straniero (ma solo il 20 per cento ha come protagoniste le donne italiane rispetto agli uomini), senza considerare le coppie di fatto, di difficile quantificazione.
Più che quadruplicati
I numeri che ci interessano sono ancora lontani da quelli di nazioni di radicata tradizione migratoria come Stati Uniti e Francia, tuttavia anche nel nostro Paese le nuove forme di famiglia, che ben poco hanno a che vedere con quella tradizionale, si integrano nel tessuto sociale anticipando la futura società multietnica. Se all'inizio degli Anni 90 la quota dei matrimoni con almeno uno straniero era il 3,2% delle unioni celebrate in Italia, nel 2005 la percentuale è schizzata al 14,3%. I matrimoni misti, dunque, sono più che quadruplicati. «Una volta erano i grandi viaggiatori o gli intellettuali a concedersi unioni miste — spiega Mara Tognetti Bordogna, professoressa di sociologia all'Università Bicocca di Milano e autrice di libri sul tema —. Oggi, con le grandi migrazioni dall'Est, dall'Africa e dall'Asia, sono alla portata di tutti».
Le province di confine tendono ad avere i tassi più elevati: Imperia (15,4%), Trieste (14,9%) e Bolzano (13,6%) si piazzano tra le prime. Tra le grandi città a distinguersi è Bologna (12,2%), seguita da Milano (11%), Firenze (10,8%) e Genova (10,7%), mentre il Sud sembra refrattario al fenomeno: in Puglia, fanalino di coda, i matrimoni misti sono appena il 2,7%.
Desiderio di libertà
Qual è la motivazione profonda di un'unione con uno straniero o una straniera? Perché si sceglie di entrare in relazione con il «diverso da sé»? «Per una ricerca di maggior apertura e libertà, di novità e di confronto. Si tratta di una forte sfida alle nostre regole culturali, familiari e alla legislazione — risponde la professoressa Tognetti — perché il matrimonio misto trasforma le istituzioni, rende normale lo scambio tra culture, dà maggiori chance alla società: i figli che nascono conoscono due mondi, più lingue, più religioni. La società si piega e si trasforma, ma positivamente». Osservando la composizione dei matrimoni misti, nella maggior parte dei casi (59,1%) si tratta di italiani che sposano straniere, spesso dell'Europa centro-orientale. E nella metà dei casi l'uomo ha almeno dieci anni in più della compagna, percentuale che crolla (15%) quando sono le italiane (i cui gusti si orientano nettamente verso persone appartenenti alle comunità africane, marocchine o tunisine) a unirsi a uno straniero.
A rischio rottura
Quell'operoso laboratorio culturale chiamato coppia mista, però, per lo scontro tra identità cui dà spesso origine è anche un vulcano perennemente sull'orlo dell'eruzione. «Si discute e si litiga su come spendere i soldi, su come risparmiare, sui regali al partner e ai familiari, sulle vacanze, sull'educazione dei figli — continua la professoressa Tognetti —. Non è la religione, che pure incide, il principale elemento di rottura. È la quotidianità che porta ai grandi scontri e nasce dalla difficoltà di riposizionarsi continuamente nei ruoli di una famiglia atipica. Poi ci sono le diversità legate alla differenza di età e di livello d'istruzione. Ma il vero limite delle unioni miste è il fatto di essere ancora isolate dalla nostra società ».
Non a caso, i dati Istat e Eurispes dimostrano che i matrimoni misti hanno maggiori probabilità di andare in crisi rispetto a quelli tradizionali. Anche quando si tratti di seconde unioni: nel 36% dei casi se lo sposo è italiano e la sposa straniera, nel 19% se la sposa è italiana e lo sposo straniero. Molti, infatti, considerano l'unione mista un matrimonio di riserva, da prendere in considerazione solo dopo il fallimento della forma-famiglia «normale». Il valore percentuale dei divorzi misti e delle separazioni miste si aggira intorno all'80%, con tendenza nettamente più elevata al divorzio: una coppia interraziale su tre, in pratica, si spezza e il tasso di divorzio è circa il doppio di quello italiano. Un dato che sembra suggerire, in base al Rapporto Italia Eurispes 2007, il sospetto che molte coppie non siano all'altezza dell'altissima sfida offerta dal rapporto interculturale.
I matrimoni misti-misti
Se il futuro è già qui, ed è oggi, quale Italia dobbiamo aspettarci negli anni a venire? Un mercato matrimoniale molto fluido e aperto, innanzitutto, nel quale non ci si interrogherà più sul numero delle coppie miste ma, piuttosto, sulle molteplici forme-famiglia a nostra disposizione. Una Repubblica fondata sul lavoro e, forse, sui matrimoni misti-misti, cioè tra individui migranti appartenenti a due Paesi diversi. Italiani d'adozione ma non d'origine. O, per meglio dire, italiani. E basta.
Corriere della Sera 30.1.08
La religione. Ma la Chiesa sconsiglia «Attenti, per i cattolici la vita spesso è difficile»
di M. A. C.
ROMA — Don Valerio Andriano, 70 anni, insegna diritto canonico del matrimonio alla facoltà teologica di Torino, è avvocato rotale e da almeno quaranta si occupa di problemi legati ai matrimoni.
Cosa pensa la Chiesa di quelli misti?
«Cerca di scoraggiarli in ogni modo, soprattutto se non si tratta di matrimoni tra cristiani, ma tra battezzati e non cristiani».
Perché?
«Per i gravi problemi che li accompagnano e per evitare ai cattolici le dure esperienze cui possono andare incontro. Magari all'inizio c'è una buona intesa sentimentale ma i problemi gravi nascono dopo, anche quando non si arriva alle tragedie di cui abbiamo letto negli ultimi tempi. La Chiesa è così convinta di questo, da aver posto un vero e proprio impedimento al matrimonio per la disparità di culto. Un ostacolo che può essere superato solo da una dispensa del vescovo, che la può dare solo a certe condizioni».
Quali?
«La prima è che la parte cattolica deve essere assolutamente libera di professare la sua fede e di partecipare alla vita della Chiesa. La seconda è l'impegno (a cui il coniuge non cattolico deve consentire) di battezzare ed educare i figli nella fede. In ogni caso il matrimonio celebrato in chiesa tra un cattolico e un musulmano pur essendo valido non è un sacramento, perché uno dei due non è battezzato. Tanto varrebbe contrarre un matrimonio civile».
Sono più le donne o gli uomini che chiedono il matrimonio in chiesa con il partner musulmano?
«Le italiane cattoliche. Anche perché per la legge islamica una donna islamica non può sposare un non musulmano, e nei Paesi arabi in base alla sharia potrebbe essere uccisa».
Corriere della Sera 30.1.08
Presidenza del Cnr e politica
Maiani firmò contro il Papa? Nominato, ma con riserva
di Sergio Luzzatto
Uno dei guai dell'Italia (si sente dire spesso, e a ragione) è l'invadenza della politica. Il fatto che i partiti penetrano dovunque, si infilano dappertutto. Anche là dove più che mai dovrebbe prevalere non il criterio dell'appartenenza, ma quello della competenza: per le nomine ai vertici delle grandi aziende, degli ospedali, degli enti di ricerca.
Gli enti di ricerca meritano tuttavia un discorso più preciso. Perché siamo di fronte a uno di quei casi in cui il governo Prodi e il centrosinistra si sono comportati bene, pur «comunicandolo» male. A fronte di una crisi devastante dell'intero nostro sistema di ricerca, il governo uscente e l'ex maggioranza parlamentare sono riusciti a praticare un metodo nuovo nell'investitura delle massime cariche.
Quel che più conta, un metodo buono.
Il metodo è presto descritto. Un «comitato di ricerca» indipendente, composto da esperti nazionali e internazionali, seleziona (motivando) una terna di candidati per la direzione dell'uno o dell'altro ente. E il ministro della Ricerca scientifica sceglie (motivando) nell'ambito di tale terna.
Dopodiché il ministro procede a raccogliere il parere, consultivo ma non vincolante, delle commissioni competenti di Camera e Senato.
Nel corso del 2007, questo metodo è stato applicato con successo a due enti di ricerca che venivano da esperienze travagliate: l'Agenzia spaziale italiana (Asi), oggi presieduta da Giovanni Bignami, e l'Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), alla cui presidenza è stato nominato Tommaso Maccacaro. Sia Bignami che Maccacaro sono scienziati di assoluto valore internazionale. E le commissioni parlamentari ne hanno facilmente riconosciuto i meriti, approvando entrambe le nomine all'unanimità.
Dopo un identico processo di selezione, sembrava destinata a raggiungere l'esito felice di un'approvazione bipartisan anche la nomina di un altro grande fisico italiano, Luciano Maiani, alla presidenza del maggiore fra i nostri enti di ricerca, il Cnr. L'11 gennaio scorso, la prestigiosa rivista americana Science aveva salutato la nomina di Maiani, già direttore del Cern di Ginevra, come un «trionfo del merito sulla politica». Ma la settimana successiva, quando è esplosa l'affaire del Papa all'inaugurazione della Sapienza, si è scoperto che la firma di Maiani figurava tra quelle dei 67 professori di fisica che avevano rimproverato al rettore l'opportunità di quell'invito. E in alcuni ambienti politico-culturali del centrodestra si è cominciato a sostenere che la firma di Maiani «contro il Papa» era una cosa molto grave, così grave da suggerire prudenza rispetto alla sua nomina ai vertici del Cnr.
Per fortuna, argomenti del genere non hanno risuonato ieri al Senato, durante i lavori della Commissione Istruzione che doveva valutare la scelta del ministro Mussi. È pur vero che i senatori del centrodestra hanno preferito astenersi dal voto, mentre i loro colleghi del centrosinistra si pronunciavano favorevolmente sulla nomina di Maiani alla presidenza del Cnr. Ma l'astensione non è stata presentata dal centrodestra né come un gesto di sfiducia personale verso lo stesso Maiani, né come una contestazione del metodo impiegato per selezionarlo. Piuttosto, come una forma di (garbata) protesta politica, rispetto alla tempistica di una nomina che interviene a governo dimissionario.
Così, tutto è bene quel che finisce bene. O piuttosto finirà bene, quando la nomina di Maiani sarà stata approvata anche dalla Commissione Istruzione della Camera. E la nostra classe politica, una tantum, può felicitarsi con se stessa. Per avere fatto un passo indietro, riducendo i margini della sua discrezionalità. Per avere rispettato l'autonomia della comunità scientifica.
Per avere posto il Cnr nelle mani di un fisico che il mondo ci invidia.
Corriere della Sera 30.1.08
Il lavoro di Ménard è accompagnato da un ricco apparato iconografico. Il confronto con Colombo
La rivincita di Marco Polo, cronista
Due saggi, in Francia e Gran Bretagna, riscoprono la figura del veneziano
di Cesare Segre
Tra le glorie italiane si cita spesso Cristoforo Colombo; molto meno Marco Polo. Ma avere scoperto l'America non è tanto più importante che aver descritto per primo la Cina e i Paesi circostanti, specialmente oggi che la Cina ci è vicina (come diceva il titolo d'un film) ed entra di prepotenza nell'economia mondiale. In più, Marco ci ha descritto in modo sistematico e avvincente il suo viaggio, a differenza di Colombo.
Il Milione di Marco Polo (scritto in verità da un romanziere, Rustichello da Pisa, per incarico e sotto il controllo di Marco, in un francese ricco di italianismi) ha avuto una circolazione enorme, è stato tradotto nelle principali lingue del tempo, a partire dal latino, e da queste traduzioni ha tratto forze per un'ulteriore diffusione, ad uso sia dei commercianti, che si trovavano nelle mani un Baedecker dell'Estremo Oriente, sia degli ordini religiosi, che ne deducevano mappe per il loro apostolato. Nonostante questo, a nostro parere, Marco è poco popolare, persino nella sua Venezia, dove pure si mostra ancora l'abitazione di famiglia. Anche nella recente occasione del settecentocinquantesimo anniversario della nascita, sebbene ci siano stati importanti convegni, non pare che il nome di Marco sia risuonato molto fra i non specialisti.
Proprio alla persona di Marco, e ai suoi viaggi in Cina col padre e lo zio, poi da solo, è dedicato un volume di Philippe Ménard, illustre professore della Sorbona («Marco Polo à la découverte du monde», Glénat, Grenoble). Ménard lavora da anni sull'argomento, e sta portando a termine, con valenti collaboratori, l'edizione di quella redazione dell'opera di Marco che circolava nella Francia medievale. Ma nel volume di Glénat è proprio Marco a farsi protagonista, e viviamo attraverso il suo sguardo il lungo viaggio di due anni e mezzo fino al centro dell'impero tartaro, le visite ai Paesi limitrofi, il ritorno a Venezia, in parte su navi cinesi, accompagnando la principessa Cocacin che andava sposa in Persia (tre anni). Il volume ha un corredo illustrativo che non va considerato soltanto, edonisticamente, per la straordinaria bellezza delle figure, ma anche per l'integrazione dei punti di vista: miniature francesi e disegni persiani (specialmente cavalieri mongoli a cavallo) del Tre e Quattrocento, immagini antiche e magnifiche fotografie contemporanee dei luoghi.
Ménard ricostruisce attentamente tutti i percorsi di Marco, anche quelli da lui battuti nelle vesti di funzionario del Gran Khan Qubilai (1215-1294), successore di Gengis Khan, ed è pure attento ai particolari logistici, come la scelta delle navi e l'organizzazione delle carovane: unico espediente per rendere sicuro il viaggio in luoghi spesso abitati solo dai briganti. Attenta valutazione è data alla testimonianza documentaria del Milione: perché a volte la descrizione di Marco conferma o integra quanto è ancora riscontrabile, altre volte è solo la situazione attuale a rendere comprensibile il racconto di Marco. L'impegno comparativo di Ménard è reso necessario dai pochi ma fastidiosi tentativi recenti di sminuire la testimonianza del veneziano, o persino di contestarla in blocco. In verità Marco descrive con esattezza costumi, tecniche (come l'impiego da noi allora sconosciuto della carta moneta o l'organizzazione delle poste), credenze religiose, talora molto strane, quasi mai criticate con senso di superiorità. Anche alla poligamia dei tartari Marco Polo fa riferimento senza alcuno stupore, semmai con ammirazione per gli appetiti sessuali del Khan (quattro mogli, innumerevoli concubine, quarantasette figli). Naturalmente è aperto, come i suoi contemporanei, anche a invenzioni in gran parte leggendarie, come la sapiente solennità del Prete Gianni o le abitudini del Vecchio della Montagna, e degli assassini al suo servizio, pronti a uccidere pur di restare nel palazzo di delizie che il Vecchio ha creato per loro. Fatto sta che Marco, da uomo dei suoi tempi, traguardava la realtà attraverso i racconti già dedicati a un Estremo Oriente allora quasi sconosciuto, così come Colombo cercherà nel Nuovo Mondo le tracce dell'Oriente descritto da Marco Polo.
il Riformista 30.1.08
Fisica: non è stata intolleranza né integralismo
La visita del Papa alla Sapienza, ecco perché abbiamo protestato
Il diritto alla parola non va confuso con l'ingerenza
di Alcuni studenti di Fisica dell'Università La Sapienza
La protesta dei professori e degli studenti dell'Università La Sapienza di Roma circa la presenza di Papa Benedetto XVI all'inaugurazione dell'anno accademico 2007/2008, è stata vista ed è stata voluta vedere da molti media come una forma di integralismo e di intolleranza. Vorremmo in qualche modo controbattere e spiegare meglio le nostre ragioni che evidentemente non sono state comprese.
Ognuno ha diritto di parola, non è questo che mettiamo in discussione, ma quando si riveste una carica politica o religiosa le cose cambiano. Il potere di una persona esiste perché legittimato. In uno Stato laico e democratico in cui il potere è delegato dai cittadini, una così pesante ingerenza del massimo esponente di una religione la cui legittimazione è del tutto estranea al diritto italiano, è sicuramente da contestare. Per questo siamo stati contrari alla presenza del Papa in veste istituzionale durante l'inaugurazione dell'anno accademico in una Università statale, pubblica e laica.
«Intorno a loro si sente l'odore del diavolo». Con queste parole il direttore di Radio Maria ha descritto - senza che nessuno facesse veglie - quei sessantasette docenti dell'Università La Sapienza di Roma, già da altri pulpiti definiti mediocri, imbecilli e piccoli. La loro colpa? Il loro peccato capitale? Forse aver venduto l'anima al diavolo? Sembra quasi che abbiano fatto qualcosa di peggio. Hanno difatti osato manifestare il proprio dissenso definendo, in una lettera inviata al rettore Guarini alla fine del mese di novembre (si noti la data, importantissima per una veritiera ricostruzione dei fatti), «incongruo» l'invito rivolto al Papa-docente Benedetto XVI di partecipare all'inaugurazione dell'anno accademico della prima università italiana con una lectio magistralis, perché di questo si sarebbe dovuto trattare stando all'invito rivolto al Pontefice, fino a quella data.
Hanno difatti continuato imperterriti a esprimere le proprie opinioni, e da persone pensanti dotate di senso critico hanno applicato l'insegnamento del sociologo Robert Merton per il quale, più che altrove, nelle scienze naturali e umanistiche l'analisi critica è norma assoluta e l'ipse dixit non è valido in alcun caso.
Hanno applicato semplicemente quello che è uno dei principi cardine della democrazia, dichiarando il proprio disappunto al loro rettore. In tutto questo noi non vediamo censura o atteggiamenti integralisti di chiusura: non si legge infatti nella lettera del professor Cini o dei 67 "dissidenti" (che i vari politici di destra e sinistra farebbero bene a leggere prima di parlare a sproposito) una contestazione alla legittimità dell'invito, né tanto meno il ricatto di costruzione di barricate.
Pare però che non tutti la pensino così, (o fa loro comodo non pensarla così), e che il motto di Voltaire possa essere applicato solo ad alcuni e non ad altri. Pare che l'esprimere liberamente le proprie opinioni in uno Stato laico, cioè anche libero come molto spesso è stato ricordato in questi giorni, quale quello italiano, non sia prerogativa di tutti. Se lo si fa si viene bollati come illiberali, censorei, mediocri, piccoli, imbecilli e chiaramente satanici.
Come scrive Pietro Grasso sull'Unità del 18 gennaio 2008, «non dobbiamo preoccuparci per il giudizio - certo criticabile, ma legittimo nel metodo e ben fondato nel merito, espresso dai 67 - ma faremmo bene a preoccuparci del conformismo di un paese che tratta così sessantasette persone che hanno l'unico torto di aver fatto emergere con ingenua determinazione l'esistenza di un nodo, quello dei rapporti tra Chiesa e società, che negli ultimi tempi si è aggrovigliato e si è stretto fino a diventare a volte doloroso».
È infatti solo di pochi giorni fa l'attacco della Cei alla 194 e alle unioni di fatto, e non è di certo qualcosa di nuovo o sorprendente. Negli Angelus questo Papa parla troppo spesso di questioni che riguardano la politica italiana o altrettanto spesso la ricerca scientifica.
Siamo stati accusati di integralismo, ma sul dizionario sotto la parola «integralismo» si legge: «tendenza ad applicare in modo intransigente ed esclusivo i principi di una dottrina o di un'ideologia». Bene, allora è proprio a questo «integralismo» che ci opponiamo, è proprio per una scienza libera dai principi di qualunque ideologia precostituita.
Secondo la Costituzione italiana «la Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», ma troppo spesso questa indipendenza viene meno, proprio quell'indipendenza che dovrebbe fare dell'Italia un Paese non integralista.
È Benedetto XVI stesso nel suo discorso preparato per La Sapienza, a scrivere che dopo la sua fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l'istituzione era alle dirette dipendenze dell'Autorità ecclesiastica, ma che successivamente lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, come università laica, autonoma e libera da autorità politiche ed ecclesiastiche. Ma poi è lui stesso che ricorda il significato della parola vescovo, ossia sorvegliante, pastore, «colui che da un punto di vista sopraelevato, guarda all'assieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell'insieme», ed è ancora nel suo discorso che si legge: «Se però la ragione - sollecitata dalla sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita».
E allora ci chiediamo, se il messaggio cristiano deve essere «un punto di vista soprelevato», o ancora la radice della ragione, che la guida e la sorveglia, dov'è questa autonomia di cui lo stesso Pontefice parlava prima? Non si rischia di trascendere nello stesso «integralismo» di cui sono stati accusati alcuni tra i più importanti scienziati italiani? La questione del rapporto tra Stato e Chiesa interessa il nostro Paese da anni, e ha profonde radici culturali, e noi proprio partendo dalla cultura, laica e democratica, ci siamo voluti confrontare con questo problema, ribadendo ancora una volta il diritto di ognuno a esprimere le proprie opinioni, ma anche il dovere di ogni potere di rimanere nella propria sfera di competenza e legittimazione.
il Riformista 30.1.08
Sinistra. La separazione consensuale col Pd
La Cosa arcobaleno si prepara a correre da sola
di Alessandro De Angelis
Nell'attesa che si pronunci il capo dello Stato sull'esito delle consultazioni, la Cosa rossa già si prepara alle elezioni anticipate. Modulo di gioco: a quattro gambe (Sd, Verdi, Prc, Pdci), almeno per ora. Simbolo: quello senza falce e martello che, dopo essere stato derubricato a «segno grafico» per mesi, è ora prossimo all'ufficialità (con più di una resistenza da parte del Pdci). E parte pure la ricerca del candidato premier.
I movimenti pre-elettorali ruotano tutti attorno alle implicazioni della corsa solitaria annunciata da Veltroni. La posizione di Rifondazione è speculare a quella del Pd, con cui si sta consumando, in queste ore, una separazione consensuale: nessun accordo né programmatico né di coalizione, ma solo qualche forma di intesa (se possibile) per limitare i danni. Dice il capogruppo al Senato Russo Spena: «Siamo pronti ad andare da soli con la sinistra unita anche se questa legge elettorale obbligherebbe a fare coalizioni. Ciò non toglie che, dopo le elezioni, si possano fare accordi su alcuni punti programmatici in Parlamento».
Il "balliamo da soli" di Rifondazione, dicono a via del Policlinico, ha comunque un carattere strategico. È il punto di arrivo del dialogo tra Bertinotti e Veltroni che mirava - seppur con una nuova legge elettorale - proprio a dividere i propri destini. Con l'obiettivo, per il Prc, di uscire dal bipolarismo coatto e riacquistare margini di manovra, anche (e soprattutto) in caso di opposizione. Ora però, tecnicamente, il quadro si complica. La separazione politica avviene infatti con in campo una legge pensata su misura per agevolare le coalizioni. In ogni caso, dicono a Rifondazione, bisogna fare di necessità virtù e tentare la corsa solitaria. A testimoniare come il Prc si stia attrezzando davvero, è partito anche il totopremier, ovvero la ricerca di colui che dovrebbe avere il difficile compito di fronteggiare Veltroni e Berlusconi. Il candidato naturale, Fausto Bertinotti (per ora) non si è pronunciato e i suoi (per ora) neanche ne parlano. Circola l'ipotesi, assai gradita ai Verdi e a una parte di Rifondazione, del costituzionalista Stefano Rodotà: una figura di alto profilo, e fuori dai partiti, che darebbe il senso della novità. Ma siamo ancora nel campo delle possibilità.
Sul fronte interno, il "partito dell'andiamo da soli" rimette assieme componenti che hanno vissuto negli ultimi tempi più di qualche tensione: i bertinottiani puri (con la subordinata: purché si faccia la Cosa rossa) e le aree più malpanciste, come quella di Ferrero (con la subordinata: è indifferente se si faccia o meno la Cosa rossa). Ed è proprio sul soggetto «unitario e plurale» che la partita elettorale porta ad una accelerazione, costringendo, di fatto, i partiti a presentare liste comuni, pur senza sciogliersi. Su questo punto i rapporti con Diliberto, che alla falce e martello proprio non vuole rinunciare, registrano i minimi storici.
Eppure, nelle pieghe dei dettagli tecnici, si annida qualche problema politico. In queste ore il dossier Porcellum , nella parte che riguarda il capitolo alleanze, è aperto su tutti i tavoli della Cosa rossa. Col Porcellum , infatti, non è possibile fare accordi in singole regioni, dicono a Rifondazione. E non è neppure possibile, se si corre da soli alla Camera, andare in coalizione al Senato. Tradotto: se si presenta un candidato premier alla Camera è obbligatorio presentarlo anche al Senato. Soluzione? L'unica forma di accordo possibile è la desistenza. Dice Russo Spena: «La desistenza non contribuisce alla chiarezza delle posizioni. Ma una formula per evitare lo sfondamento delle destre al Senato va trovata».
E gli alleati? I Verdi, nella direzione svoltasi lo scorso fine settimana, hanno rotto ogni indugio sulla Sinistra arcobaleno, ma hanno pure ribadito che il nuovo soggetto, per loro, dovrebbe essere alleato col Pd. Sostiene Paolo Cento: «Dobbiamo lavorare per una nuova alleanza che sia diversa dalla vecchia Unione. Penso a una coalizione che tenga assieme tre soggetti: il Pd, l'area laica e socialista e la sinistra arcobaleno». Anche per Sd un accordo col Pd è più che auspicabile, ma l'asse tra Mussi e Giordano, dicono gli ex ds, reggerà qualunque sia lo scenario. Afferma Carlo Leoni: «Un nuovo centrosinistra si può fare solo se c'è una convergenza programmatica tra Pd e Sinistra arcobaleno». Per ora ognuno corre da solo.
Liberazione lettere 30.1.08
Destra. Le metafore di An
Caro Piero, trovo veramente deplorevole l'uso che fanno delle metafore i parlamentari di An, suggerendo reiteratamente (forse per scarsa fantasia?) di evitare l'"accanimento terapeutico" riferendosi al Governo caduto. A quanto pare, un anno fa Gasparri non conosceva ancora il significato di "accanimento terapeutico", quando si trattava di lottare con Welby, affinché gli fossero risparmiate ulteriori sofferenze...!
Antonella Pozzi Roma