martedì 29 gennaio 2008

l’Unità 29.1.08
Gandhi, il non violento che leggeva Marx
di Michele Prospero


DOMANI CON «L’UNITÀ», a sessant’anni dalla sua uccisione, tutte le idee del «Mahtma» in un libro di Giuliano Pontara. Il ritratto del leader che liberò l’India dal colonialismo con un nuovo pensiero politico di massa: la «non violenza».

La figura del «Mahtma» Gandhi è certamente una tra quelle più significative ed eclettiche del Novecento. Nel secolo della paura e della violenza di massa, intesa da tutti come grammatica minimale del politico, egli esalta la «non-violenza» declinandola come una condotta politica pacifica e nondimeno efficace per la liberazione dei popoli dalle potenze coloniali, ma anche come un argine protettivo utile persino contro i regimi più totalitari.
Alla ormai sconfitta potenza inglese, che però intende imporre la netta separazione etnico-religiosa del territorio indiano tra musulmani e indù, Gandhi oppone le ragioni laiche della convivenza politico-territoriale comune. Proprio a questo apostolo della nonviolenza, ridotto a pesare 45 chili dai suoi lunghi digiuni, toccò però una morte violenta che lo raggiunse nel corso di una pubblica preghiera, il 30 gennaio del 1948. Domani a 60 anni dall’uccisione di Gandhi per mano di un indù ortodosso, l’Unità propone per «Le Chiavi del Tempo» un ampio volume di Giuliano Pontara (L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, pp. 351, euro 7,50, più il prezzo del quotidiano), uno dei maggiori studiosi della nonviolenza. Sul politico indiano, che postula una nonviolenza capace di operare in profondità determinando mutamenti di mentalità tra i carnefici, non si è mai spento l’interesse, rimasto vivo nel tempo anche al di là dell’effettiva robustezza, sistematicità e coerenza concettuale dell’impianto delle sue riflessioni. Ricorda Pontara che «assieme a Lenin, Gandhi è la figura politica del XX secolo sulla quale è stato scritto più copiosamente». E i loro stili politici non potrebbero essere più diversi. Lenin è un campione del realismo politico che scruta nelle condizioni oggettive la possibilità di un grande evento risolutivo. La conquista del potere fa parte della posta in gioco dell’azione politica, ne è anzi la prospettiva più accattivante. Anche la sua «guerra alla guerra» adotta il lessico della violenza, che è pur sempre uno degli strumenti della politica da soppesare e da impiegare sulla base di una valutazione delle opportunità e della effettiva natura dei rapporti di forza. Gandhi, che pure esalta la «levatura spirituale di Lenin» e «il sacrificio più puro» in nome dell’ideale, è l’esemplare invece di un «politico morale» che esclude la guerra dal novero degli strumenti pensabili dell’agire collettivo. L’opposizione alla ribellione armata è in lui totale e non è collegata alla sua utilità, al suo vantaggio, al suo apporto strumentale al fine. La violenza è dichiarata estranea in quanto tale al corredo della politica, rigettata indipendentemente dalla sua storica efficacia.
Un simile atteggiamento, basato sul principio vincolante dell’unità del genere umano, è molto ostile alle pratiche di sterminio del Novecento e Pontara trova alquanto singolare che «il secolo che ha generato Hitler e il nazismo abbia però generato anche il suo opposto Gandhi e la nonviolenza del forte». Anche rispetto a un regime totale di annientamento, la strada della disobbedienza civile, del rifiuto nonviolento è quella più adatta per indurre gli oppressori a mitigare la repressione e a pervenire a generalizzate forme di non esecuzione di ordini cruenti entro le stesse fila degli eserciti occupanti. Gandhi (lo stesso farà in seguito anche la Arendt) enfatizza il caso danese di disobbedienza civile all’aggressore nazista come pratica in parte riuscita di umanizzazione del nemico. È evidente che su questo piano, quello cioè che misura anche l’efficacia reale del metodo della nonviolenza, Gandhi è costretto a scendere sul versante della pragmatica e, a rigore, ad accettare di valutare la stessa non violenza (con i suoi tipici ritrovati della non-collaborazione) alla stregua di ogni altro strumento d’azione collettiva. L’assolutezza di un metodo che non ha alternative viene di fatto limata se in questo «Machiavelli della nonviolenza», così lo definisce anche Pontara, la stessa nonviolenza entra nel conteggio dei suoi vantaggi operativi riscontrabili in una situazione data. L’alternativa è molto semplice: se la nonviolenza è una assoluta etica della interiorità e della verità, essa va adottata a prescindere dal suo impatto storico, se invece conta anche l’esito effettuale della pratica nonviolenta, allora anch’essa diventa uno degli strumenti dell’agire che vale non già in assoluto ma in quanto sottoposto a un calcolo politico di opportunità, di vantaggio, di efficacia. In questo caso, il principio di responsabilità dell’azione, che valuta cioè la reale ricaduta della mossa adottata, si impone anche al «politico morale» che non può esimersi dal dare conto dell’efficacia oggettiva della sua azione e delle sue empiriche conseguenze. Anche sotto i regimi democratici la nonviolenza conserva la sua piena rilevanza. Gandhi ritiene anzitutto che proprio la democrazia sia la forma politica più coerente con le ispirazioni della nonviolenza nei rapporti intersoggettivi. Aggiunge inoltre che il principio di maggioranza e la competizione elettorale rendono pacifica la contesa tra le parti, anche se l’adozione del metodo non violento di per sé non cancella del tutto la differenza, l’eccentricità, rispetto alle richieste di obbedienza. Tutti i regimi, anche quelli più tirannici, non si reggono senza una base di consenso. E tutti i governi, anche quelli più democratici, suppongono una più o meno modica quantità di violenza. È evidente che entro società democratiche ben strutturate ogni forma di conflitto non potrà che svolgersi con il corredo delle tecniche nonviolente (voto, disobbedienza civile, scioperi, boicottaggio, evasione delle tasse destinate alle armi, mentre perplesso Gandhi si mostra sui picchettaggi, sui sabotaggi). Entro un regime democratico si rintraccia di sicuro un titolo superiore di legittimità rispetto ad ogni altro meccanismo di potere. Per questo, secondo Gandhi , in una democrazia l’ordinamento non può venire contestato nel suo complesso. È ipotizzabile solo una disobbedienza civile difensiva che si agita dinanzi a singole decisioni adottate peraltro nel rispetto del principio di maggioranza. La separazione dei poteri non cancella per Gandhi il diritto della minoranza ad agire diversamente per motivi di coscienza laica o religiosa (pagando però le conseguenze legali e le sanzioni previste per la disobbedienza e la rottura dell’obbligo politico). Anche rispetto all’autorità legittima è sempre lecita la disobbedienza (parziale, non di sistema, rivolta alla singola legge ritenuta ingiusta non all’ordinamento costituzionale).
Diverso è invece il caso di regimi oppressivi nei quali Gandhi contempla la «disobbedienza civile offensiva», una pratica intransigente mirante cioè a demolire un ordinamento illegittimo nelle sue stesse fondamenta. Di sicuro nelle pagine politiche di Gandhi scorre una venatura anarchico-libertaria molto evidente (propugna ad esempio un azzeramento degli istituti repressivi). Sul piano economico invece egli rigetta ogni forma di individualismo accostandosi a forme di socialismo che non prevedono però il conflitto tra capitale e lavoro. Gandhi contesta il principio di Adam Smith per cui il mercato è sovrano con i suoi anonimi automatismi e il fattore umano si presenta sempre come un inaccettabile momento di disturbo. Secondo Gandhi il vero fattore di disturbo da eliminare è proprio il calcolo egocentrico, perché dai congegni del libero mercato in cui operano individui perfettamente razionali si originano sempre oscuri meccanismi di dipendenza. La violenza strutturale insita nell’economia può essere così estirpata solo da elementi di socialismo conditi in una salsa molto indiana e pragmatica. Pontara rammenta a questo proposito che Gandhi ha letto Il Capitale trovando in Marx «vari riscontri a idee che era andato sviluppato, anche in base alla sua diretta esperienza di colonizzato, circa la natura del modo di produzione capitalistico. Egli stesso disse che il suo socialismo era naturale, non era stato imparato su nessun libro». Un anelito di eguaglianza, un bisogno di giustizia sociale più che una critica della proprietà privata dei mezzi di produzione accompagnano la riflessione di Gandhi, che ammette una forma di «proprietà fiduciaria». Nelle sue pagine è presente una critica demolitrice della civiltà delle macchine, della metropoli, del consumo, della proliferazione delle armi di sterminio in nome di rapporti più semplici, di legami più immediati, di valori tradizionali infranti, del disarmo. Cosa resta nel XXI secolo di questo abile maneggiatore dei mezzi di comunicazione e nondimeno ascetico e «sedizioso avvocatuccio», come lo bollò Churchill? Pontara non ha dubbi: una capacità di scovare e contrastare alla radice quella «tendenza nazista», come la chiama, che opera in profondità e coincide in ogni tempo con l’esaltazione della violenza, del capo, della disuguaglianza, del fondamentalismo del mercato, della guerra giusta e dello scontro di civiltà. Pontara vede in circolazione anche nel postmoderno molte immagini del nemico e velleità di costruire un sistema di apartheid globale. In un mondo che riscopre le guerre di civiltà ed esalta la religione come identità differenziante, il messaggio del religiosissimo Gandhi risuona come un pressante invito laico a conservare la religione nella sua dimora solo privata, non pubblica. I modi con i quali salvare l’anima per lui non riguardano lo Stato. Le credenze non possono avere ricadute pubbliche e la religione, ammonisce Gandhi, è solo «una mia faccenda personale. Lo Stato non c’entra. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi del benessere temporale, della salute, delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della circolazione della moneta, ma non della vostra o della mia religione. Questa è affare personale di ciascuno». Per questo Gandhi, che rivendica un’etica del rispetto verso il vivente non umano, si proclama favorevole all’eutanasia per far cessare le forme di inaudita di sofferenza. La sua curiosità non è poi così distante dai temi eticamente sensibili che oggi sono ovunque al centro dell’agenda pubblica.

Repubblica 29.1.08
"Se il Pd va solo apre il varco a Berlusconi"
Mussi: è come andare contro la sinistra. Bettini: solo alleanze coese
di Giovanna Casadio


ROMA - «Equivale a dire: prego, Berlusconi si accomodi». Fabio Mussi critica la linea-Veltroni e la strategia del Partito democratico. Quel "correre da soli" alle elezioni prossime venture - siano imminenti o tra alcuni mesi - per il segretario Veltroni rappresenta la fine dell´Unione come alleanza disomogenea, del «caravanserraglio» di questi anni. Una logica «perdente» invece, per l´ex compagno di partito, ora leader della Sinistra democratica, in procinto di costituire la Cosa Rossa con Rifondazione, il Pdci e i Verdi. È indubbio inoltre per Mussi che «il "comunque da soli alle elezioni" del Pd» significhi «alle elezioni contro la Sinistra, una linea cioè che condanna tutti alla sconfitta, non ci sarebbe neppure combattimento per il Senato dove il centrodestra potrebbe puntare a vincere in tutte le Regioni. Senza contare i possibili effetti collaterali a cascata, cosa comporta infatti la corsa solitaria del Pd nelle elezioni comunali, provinciali, regionali?». La tensione tra il Pd e la Sinistra cresce.
Pdci, Verdi e Rifondazione incalzano Veltroni. Alfonso Pecoraro Scanio, il leader ambientalista lancia «una sfida al Pd ad essere alleato e a non regalare il potere a Berlusconi con una corsa solitaria». Rincara il Pdci. «La crisi del governo è stato il capolavoro di Veltroni perché mandare all´aria l´Unione è stato uno dei detonatori - accusa Manuela Palermi, capogruppo al Senato dei comunisti italiani - So che nel Pd ci sono voci contrarie ma a quanto pare hanno solo un ruolo di testimonianza. Comunque, è una strategia da pazzi, di chi vuole perdere». Al loft del Pd, dove ieri il segretario Veltroni con il vice Dario Franceschini e il coordinatore del partito, Goffredo Bettini fornisce le cifre sul benessere del partito (2.500 circoli appena nati) e le adesioni («Se continua questo trend, raggiungeremo quota un milione e 200 mila persone), la risposta alla sinistra è altrettanto netta: indietro non si torna. L´Unione è finita. E però, «non abbiamo nessuna voglia boriosa di andare da soli - spiega Bettini - Siamo in ottima salute, non abbiamo timore di affrontare la campagna elettorale. Siamo però contrari alle alleanze come sommatorie non fondate sui programmi che servono a prendere un voto in più e poi non governano». Non ci sarà quel voto in più, ma sarà garantita la «coesione». Quel che si stabilisce sarà realizzato perché c´è sintonia. Il ragionamento di Veltroni è: «Per noi l´obiettivo è avere il programma come punto di partenza, non di arrivo». Sottinteso: non come fu per le 280 pagine del programma dell´Unione, mediazione ambigua pure nei termini adoperati. E sugli accordi locali: «Saranno fatti sempre sulla base delle convergenze programmatiche, dove sarà più difficile, come adesso a livello nazionale, noi porremo al centro il programma».
Gli ulivisti-parisiani a questo punto ritengono che nel Pd ci sia una lenta ma costante inversione di rotta. Fanno notare che non si parla più di corsa solitaria bensì di alleanze coese. Intanto parte il pressing delle amministrazioni locali. Due "casi" sono sul tavolo di Veltroni. In Campidoglio, la Sinistra denuncia: «Siamo preoccupati dalle dichiarazioni demagogiche di alcuni dirigenti nazionali del Pd e dalle prospettive che indicano per l´Unione e siamo anche convinti che la formazione "moderati per Veltroni", ora Udeur, sia oggettivamente fuori dalla coalizione fino a quando non si dissocino dalle scelte di Mastella». Da Bari invece, il sindaco Michele Emiliano, Pd e veltroniano, garantisce che l´Unione non si tocca. Perlomeno alle amministrative in Puglia: si va con Rifondazione.

Repubblica 29.1.08
Giordano, leader del Prc: la corsa solitaria non ci spaventa, pronti alla sfida per l’egemonia
"Lanceremo il nostro candidato premier ma al Senato possibili intese con Veltroni"
di Umberto Rosso


L´Unione è tramontata, la coalizione coatta ha fatto il suo tempo. La sinistra ora valuterà in autonomia se entrare o meno al governo
Se Diliberto pensa di sottrarsi al progetto di una sinistra unita delude le speranze di molti. Prendiamo esempio dai tedeschi

ROMA - «Se il Pd vuol ripresentarsi insieme a noi, via per sempre dalla coalizione i centristi voltagabbana alla Mastella e Dini che hanno affossato il governo Prodi. E sul programma, accordi molto, molto stringenti su temi sociali e diritti civili».
Ma se il Pd, onorevole Giordano, come tutto lascia pensare andrà al voto da solo?
«Non ci spaventa. Siamo pronti ad accettare una sfida per l´egemonia. Accelerando e mettendo in campo un nuovo soggetto, la sinistra unita. Per fare in modo che la competizione non si riduca ad una contesa fra un Pd neocentrista e una destra populista, pericolosa per la nostra democrazia. Ma vi sia in campo appunto un terzo soggetto, vivo e nuovo».
Accettando Veltroni come candidato premier?
«Se vanno davvero da soli, mi sembra improbabile. Non credo proprio che vi sarà un solo candidato. A quel punto schieriamo anche il nostro. Lo impone la legge, se resta il Porcellum».
Scenderà in pista Fausto Bertinotti?
«E´ del tutto prematuro parlarne. Vedremo, insieme alle altre forze della sinistra. Adesso, rispettiamo il lavoro del presidente della Repubblica, sul quale la destra con la minaccia di scendere in piazza sta esercitando pressioni inquietanti».
Accordo lontanissimo su candidato premier e coalizione. Possibilità invece di intese parziali fra Rifondazione e il Pd, per non "regalare" la vittoria a Berlusconi?
«Il problema esiste, condivido le preoccupazioni di chi teme uno sfondamento della destra. Bisognerà, con uno sforzo di creatività, escogitare qualche formula che impedisca appunto di consegnare il paese a Berlusconi su un piatto d´argento».
Un ritorno alla desistenza è tecnicamente escluso, con il Porcellum?
«Sì, il punto sarà la conquista del premio di maggioranza nelle regioni. Ci ragioneremo, non anticipiamo i tempi mentre sono ancora aperte le consultazioni del capo dello Stato. Di certo, servirà un surplus di fantasia per trovare intese fra noi e il Pd, quanto meno al Senato».
Unione addio per sempre?
«Tramontata, prendiamone atto».
Nessun mea culpa da recitare a sinistra?
«La verità è che si aperta una questione morale, nel ventre molle della coalizione. Il Pd ha vezzeggiato, coccolato i centristi, che hanno risposto alla chiamata dei poteri forti. La testa e il cuore del Pd rivolti in quella direzione, senza prestare ascolto alle nostre richieste. Uno strappo insanabile con il nostro popolo».
E in futuro, il Prc ha chiuso con l´esperienza di governo?
«Governare non è un disvalore ma non lo è nemmeno stare all´opposizione».
Mani libere.
«L´ipotesi della coalizione coatta ha fatto il suo tempo, la sinistra d´ora in poi valuterà autonomamente se entrare o meno al governo».
Forse perché i sondaggi puniscono il Prc di Palazzo Chigi?
«Non mi esalto quando ci premiano né quando ci danno stabili».
Il cammino della Cosa rossa è in salita.
«Prendiamo esempio dall´Europa, dalle buone notizie che arrivano in queste ore dall´Assia e dalla Sassonia. Vince una sinistra che si libera dalla smania autoreferenziale, dalle pulsioni neo-identitarie».
Mussi coltiva il sogno di un´alleanza con il Pd.
«Neanch´io la escludo ma dipende da loro».
Diliberto minaccia di presentarsi da solo.
«Ognuno è libero ma delude le speranze di tanta gente chi si sottrae al progetto di una sinistra viva, calda, senza lo sguardo rivolto al passato».
Liste senza la falce e martello?
«Nel simbolo della Sinistra-Arcobaleno non c´è, e personalmente sono per una scelta netta. Tuttavia pronto a discuterne ancora».

Repubblica 29.1.08
La lezione che l’Occidente ignora
Sessant'anni fa moriva per mano di un fanatico il Mahatma
di Federico Rampini


Aveva 78 anni e pesava 49 chili quando un fondamentalista gli sparò tre colpi
Che cosa resta dell´artefice della nonviolenza in un mondo che ama pochissimo la pace

«Il venerdì 30 gennaio 1948 - racconta Rajmohan Gandhi - cominciò come tutti gli altri giorni per mio nonno. Si svegliò alle tre e mezzo del mattino, recitò la sua preghiera preferita: Perdonami, o Dio misericordioso, per tutti i miei peccati. Non chiedo il paradiso né la mia liberazione ma la fine del dolore per tutti coloro che soffrono...». A 78 anni, stremato dai ripetuti digiuni di protesta, Gandhi era ormai ridotto a uno scheletro: pesava 49 chili. «Quel pomeriggio alle cinque uscì per andare al terreno di preghiera. Camminava appoggiandosi alle nipotine Abha e Manu, in mezzo a due ali di folla. Un giovanotto, Nathuram Godse, arrivò di corsa, diede uno spintone a Manu, si piazzò di fronte a Gandhi puntando una pistola. Tre colpi in rapida successione, uno allo stomaco e due al petto. Mio nonno si accasciò tra le braccia di Abha. Mormorò soltanto He Rama: oh Dio. Una macchia rossa di sangue sporcò il vestito di cotone candido. Con le mani giunte in un ultimo segno di saluto e di preghiera, si accasciò per terra». Godse era un giovane giornalista militante, della corrente più fanatica del nazionalismo indù. Venne arrestato, condannato a morte e giustiziato. Membro della casta braminica, odiava in Gandhi il fautore della riconciliazione con i musulmani. Molti come Godse avevano giurato di eliminare il Mahatma. L´inventore della resistenza passiva, il leader del più grande movimento di liberazione nella storia umana, il padre dell´India indipendente che aveva messo in ginocchio l´impero britannico, era ormai da tempo lui stesso un condannato a morte in attesa di esecuzione.
Il calvario di Gandhi comincia almeno un anno prima del suo assassinio. Già all´inizio del 1947, mentre gli inglesi devono rassegnarsi all´inevitabile indipendenza indiana, accettano anche il diktat della comunità musulmana: il leader Mohammed Ali Jinnah vuole la secessione delle regioni settentrionali a maggioranza islamica. L´indipendenza deve coincidere con la spartizione e la nascita del Pakistan. Ma la fondazione di uno Stato islamico, che Gandhi ha avversato fino all´ultimo, non sarà indolore. In tutte le zone del subcontinente le comunità religiose sono mescolate da sempre. Rancori ancestrali che covano da secoli tornano a galla, i leader integralisti soffiano sul fuoco della tensione. Ha inizio la più vasta tragedia di "pulizia etnica" mai accaduta: un esodo di milioni di persone in preda al panico, tra regolamenti di conti, vendette e massacri.
Profeta dell´amore, Gandhi si aggira per il paese cercando di placare gli animi. Spende il suo enorme carisma rivolgendosi soprattutto alla maggioranza induista perché cessi il genocidio. Nell´agosto 1947, proprio mentre a New Delhi il premier Nehru si appresta a celebrare la "mezzanotte della libertà", il Mahatma si dirige dall´altra parte del paese, nel Bengala, dove la popolazione islamica è numerosa. Arriva a Calcutta dove le autorità sono latitanti, le strade sono in mano a bande armate. Inizia un digiuno che grazie alla diffusione della radio viene seguito con trepidazione da tutta l´India. Sembra che gli riesca un nuovo miracolo, Calcutta vive sospesa in una calma irreale grazie alla sua presenza. I leader delle diverse comunità indù, musulmana e sikh vengono in pellegrinaggio al suo capezzale. S´impegnano solennemente a mantenere la pace, iniziano a disarmare le loro milizie. Lo supplicano d´interrompere il digiuno che lo sta riducendo a un cadavere.
Lord Mountbatten, l´ultimo viceré inglese che nell´interregno comanda ancora l´esercito locale, in quei giorni scrive: «Nel Punjab ho 500 mila soldati eppure ci sono disordini gravi. Nel Bengala le nostre forze sono fatte di un uomo solo, e non ci sono disordini. Gandhi ha ottenuto con la persuasione morale ciò che quattro divisioni militari non avrebbero ottenuto con la forza».
Ma quella vittoria è effimera, i focolai di violenza continuano a moltiplicarsi in tutto il paese, il terrore dilaga. Gandhi decide di rientrare a Delhi dove il conflitto religioso imperversa. La capitale è invasa dai campi profughi dove si accalcano gli induisti e i sikh sfollati dal Pakistan: gonfi di risentimento, premono per "ripulire" il vecchio quartiere islamico e impadronirsi di quelle abitazioni. I musulmani in fuga verso il Pakistan sono a loro volta bersaglio di rappresaglie atroci. I treni degli sfollati vengono assaltati nottetempo dalle bande che li aspettano al varco e macellano orrendamente i passeggeri. Interi convogli silenziosi arrivano di giorno nelle stazioni offrendo uno spettacolo macabro: sono carichi di soli cadaveri.
A Delhi il 13 gennaio 1948 Gandhi comincia un nuovo digiuno. «Sarà il più grande», confida ai suoi cari. Sarà l´ultimo. Ancora una volta è verso i fratelli di fede induisti che rivolge tutta la sua forza di pressione, la stessa arma della non violenza che per decenni ha usato per piegare gli inglesi. «Metto Delhi alla prova - dichiara - Quali che siano i massacri che avvengono nel resto dell´India o nel Pakistan, imploro il popolo della capitale di non lasciarsi fuorviare dal suo dovere. Anche se tutti gli indù e i sikh del Pakistan dovessero essere sgozzati, la vita del più miserabile bambino musulmano che abita nel nostro paese deve essere salvata». Aggiunge un´invocazione urgente al governo Nehru: deve versare subito al Pakistan la quota che gli spetta delle riserve della banca centrale che gli inglesi hanno lasciato a Delhi.
Sono richieste dure, impopolari. Alimentano la rabbia e i complotti contro di lui. Mentre una parte della popolazione segue con trepidazione il bollettino medico del suo ultimo digiuno, i gesti di ostilità si fanno più frequenti. Un giorno che giace sul letto sfinito dalla fame, un corteo vociferante sfila davanti a casa sua. «Non sento bene», chiede al suo segretario Pyarelal, «cosa dicono?». L´assistente esita a lungo prima di rivelargli la verità: «Urlano: lasciamo che muoia Gandhi». Le forze sembrano abbandonarlo, i medici perdono ogni speranza, il Mahatma è ormai un moribondo. Dal suo letto di dolore con un filo di voce fa giungere ogni giorno i suoi messaggi alla nazione. La commozione sale di nuovo nel paese, che assiste al sacrificio supremo del leader spirituale.
Il 17 gennaio accade ancora una volta il miracolo. 130 rappresentanti delle diverse comunità religiose votano una mozione per ristabilire la pace sociale. Una delegazione raggiunge la capanna di Gandhi e gli legge «il desiderio sincero espresso da indù, musulmani, sikh, di vivere a Delhi nell´amicizia perfetta». Al sesto giorno Gandhi interrompe il suo digiuno. Paradossalmente i festeggiamenti sono più forti in Pakistan: Nehru ha ceduto alle richieste del Mahatma, lo Stato islamico è salvato dalla bancarotta. Ma il 20 gennaio una bomba esplode proprio sul terreno di preghiera dove Gandhi si reca quotidianamente. Lui si salva per caso dall´attentato. Sa che i suoi giorni sono contati, le trame per eliminarlo si moltiplicano: «Alla fine sarà quel che Rama comanda. Io danzo come un burattino, lui tira i fili». Sul giornale dell´estremismo indù dove scrive Nathuram Godse il pacifismo gandhiano è accusato di «evirare la nazione».
Rajmohan Gandhi ricorda il giorno della morte citando il poeta-sarto Kabir: cinque secoli prima aveva paragonato l´anima umana a una chadariya, un panno di cotone tessuto a mano secondo la tradizione indiana. «Per più di 40 anni, prima in Sudafrica e poi in India, questa chadariya che è l´anima di mio nonno guidò eserciti di donne e uomini disarmati verso la conquista della dignità. Le pallottole non uccisero quel Gandhi. Lo consegnarono all´eternità dei tempi e ai popoli di tutti i continenti».

Repubblica 29.1.08
I modi del gandhismo di dire no alla guerra
di Guido Rampoldi


Winston Churchill disse: «È nauseante vedere un avvocato sedizioso salire a gran passi e mezzo nudo la scalinata del palazzo per conferire alla pari con il rappresentate del Re»
Il clamoroso trionfo del Mahatma rovesciò l´immagine sommaria che voleva il pacifismo pauroso, fiacco e perdente, Occorreva un coraggio sovrumano per sfidare i fucili di un impero
Una tradizione pacifista che in Italia soprattutto si è intrecciata con il cristianesimo

Quando la nonviolenza gandhiana mandò al tappeto l´impero britannico, a quel tempo già terminale ma ancora poderoso, il pacifismo non godeva di buona fama. E tutto sommato con ragione. Pesava il ricordo di Monaco. Al grido di "Pace, pace!" nel settembre del 1938 folle entusiastiche avevano accolto il britannico Chamberlain e il francese Daladier, che a Monaco avevano sì evitato la guerra, ma al prezzo di consegnare a Hitler la Cecoslovacchia. A Parigi Daladier aveva salutato il tripudio pacifista con gesti larghi del braccio e il più amorevole dei sorrisi; poi, rivolto al suo segretario, aveva mormorato: «Che idioti! se sapessero...» (il testuale fu più pesante). Non sappiamo cosa Chamberlain abbia detto in privato, ma in pubblico si sbilanciò: garantì di essere tornato in patria con una pace onorevole e rassicurò i londinesi, «Andate a casa e fatevi un sonno tranquillo». Un anno dopo il fragore dei cingolati tedeschi che invadevano la Polonia risvegliarono i britannici da quel "sonno tranquillo" e anticiparono ai francesi l´occupazione nazista.
Il clamoroso trionfo del Mahatma rovesciò l´immagine sommaria che voleva il pacifismo pauroso, egoista, fiacco e perdente come lo era stato nel 1938. Occorreva un coraggio sovrumano per sfidare i fucili di un impero che non aveva esitato a sparare a freddo sulle folle; e una formidabile disciplina per non cedere al desiderio di vendetta. Inoltre quel pacifismo patriottico di mostrava il rigore etico invece mancato alla gran parte dei movimenti anti-coloniali, i quali, strappata la frusta dalla mano dei loro oppressori, l´abbattevano con la medesima ferocia sulla schiena di minoranze ostili. Ma soprattutto, la resistenza non violenta si dimostrò un metodo di lotta straordinariamente efficace. Quale altro movimento di liberazione era riuscito a piegare un impero agguerrito semplicemente con l´arma della propria superiorità morale?
Quella vittoria nobilissima non poteva non colpire l´immaginazione di un´Europa che era stata il campo di battaglia di due conflitti mondiali e ne rischiava un terzo, combattuto con armi atomiche. Con il tempo il gandhismo fascinò e contaminò culture politiche diverse, spesso per il tramite di un cristianesimo eterodosso. In Italia fu immediatamente intercettato dal Partito radicale, rapidamente convinse almeno una parte del cattolicesimo sociale, si saldò con naturalezza al femminismo e alla critica del militarismo, e tre anni fa rappresentò, con l´audace svolta non violenta di Rifondazione, l´ultimo approdo del comunismo riformato. Diede origine al movimento degli obiettori di coscienza. Ebbe tra i suoi alfieri figure straordinarie per tenacia e per coraggio: Aldo Capitini, Danilo Dolci, Ernesto Balducci, Primo Mazzolari, don Milani... Oggi se ne può trovare un´eco nella critica all´interventismo umanitario, che se condotta da una sinistra rigorosa (la Fondazione Basso, Danilo Zolo, Alessandro Colombo) o perlomeno animata da una compassione autentica (Vauro), svolge un ruolo comunque prezioso: ci invita a diffidare sistematicamente della guerra. Ma più spesso il pacifismo gandhiano sembra diventata la griffe di una sinistra sgangherata, la posa accigliata di un puritanesimo vanitoso e vacuo, insomma una finzione.
Però è una finzione di successo. Il marketing politico sconsiglia di smascherarla, e quasi nessuno a sinistra osa dire una cosa ovvia ma impopolare: la nonviolenza non può pretendersi metodo di lotta universale, applicabile in qualunque circostanza e contro qualsiasi avversario. Risulta efficace soltanto dove ricorrano alcune condizione, in primo luogo un contendente che riconosca determinati valori e per conseguenza accetti un limite "etico" ai propri metodi di lotta. Gandhi prevalse sulla patria della Magna Charta, una democrazia governata da un partito laburista. Un movimento di massa che si fosse opposto con metodi altrettanto pacifici a Hitler, a Stalin, a Pol Pot, perfino a Franco, sarebbe stato sterminato e avrebbe fallito miseramente. In altre parole la non-violenza esprime ciò di cui difetta l´interventismo umanitario, una coerenza tra la nobiltà dei fini e la purezza dei mezzi, ma è del tutto inefficace contro regimi o movimenti totalitari. Piaccia o no, soltanto una guerra giusta talvolta riesce a piegare quel nemico.
È il problema delle conseguenze e si pose già in quel 1947, subito dopo l´indipendenza all´India: Ghandi non riuscì a evitare il bagno di sangue che portò alla Partizione. Il trionfo della nonviolenza si ribaltò in un´orgia di violenze. Un milione di uccisi. Sarebbe stato un numero assai minore se l´esercito britannico avesse condotto per tempo una repressione spietata dei nazionalismi islamico e indu. Astenendosi (per calcolo politico), dimostrò quel che più tardi la storia ha confermato: anche la rinuncia alla violenza può uccidere. Lo potrebbero testimoniare, tra gli altri, i centomila bosniaci ammazzati durante una guerra che la Nato fermò con una settimana di bombardamenti, dopo tre anni di inazione. A sua volta anche un conflitto che persegua le motivazioni più nobili può rovesciarsi nel suo opposto e produrre risultati spaventosi.
Nel suo appassionante Chi è il mio prossimo, Adriano Sofri lo chiama «lo scacco della buona intenzione», e nota che non vi sfuggì Gandhi, ma neppure vi sfuggono gli interventismi occidentali, anche per risultato di una deriva "tecnica": nelle moderne guerre «gli "effetti collaterali" si ingrandiscono a dismisura, e sempre più spesso prendono il sopravvento sulla motivazione primaria e il suo frutto». Estremizzando questa giusta annotazione, oggi il neo-gandhismo sostiene che la "guerra aerea", cioè l´attuale modo di combattere degli occidentali, è intrinsecamente terroristica, in quanto si propone non più di sconfiggere l´esercito avversario, ma di rendere il conflitto insopportabile a un´intera società. In sostanza gli "effetti collaterali" sarebbero il mezzo adottato per piegare una volontà generale, non un risultato indesiderato. Ma ammesso che questo sia vero, e talvolta lo è, mezzi spuri, "sporchi", talvolta possono arrestare un´ecatombe; e all´opposto la nonviolenza può risultare del tutto inefficace. Dove si aprisse un conflitto tra i fini e i mezzi sarebbe preferibile salvare la coscienza e i principi oppure, concretamente, vite umane? Poiché il calcolo dei costi e dei benefici varia da situazione in situazione, questo dilemma non ha una risposta unica, applicabile sempre. Ma come spiega l´ambasciatore Robero Toscano nel saggio La violenza, le regole, non è affatto impossibile sottomettere la guerra ai limiti etici dello justum bellum, la guerra giusta, (Toscano cita in proposito un rapporto del 2001, Responsibility to Protect, finanziato dal governo canadese e da fondazione internazionali). Insomma c´è uno spazio tra la resa alla barbarie e la resa all´illusione.

Repubblica 29.1.08
L’India britannica sconfitta da un uomo
di John Lloyd


Disobbedienza.Gandhi fu uno stratega raffinato che trovò la maniera di combattere l´impero

Si dice che quando nel 1930 il Mahatma Gandhi visitò l´India, già da leader del movimento nazionalista indiano contro la Gran Bretagna, gli fu chiesto che cosa ne pensasse della civiltà occidentale ed egli rispose: «Sarebbe una buona idea». Si tratta di una battuta di spirito che rifletteva l´amarezza sarcastica di chi, avendo già trascorso due anni di prigione, aveva assaggiato il lato sgradevole dell´imperialismo britannico. Era tuttavia impropria nel suo sottintendere che la Gran Bretagna non aveva portato alcuna influenza civilizzatrice e nessuna istituzione in India - ivi incluse la democrazia parlamentare e la legalità. Ma per un verso la frase di Gandhi era sicuramente legittima: faceva chiaramente intendere ai britannici e al mondo occidentale che i loro principi liberali e democratici non erano stati esportati nel Paese sul quale governavano.
La genialità di Gandhi era consistita nel maturare, durante i 21 anni da lui trascorsi in Sudafrica dal 1893 al 1914, la strategia della resistenza non violenta, nota anche come resistenza passiva: uno scontro con l´autorità di masse di persone che si rifiutavano di lavorare, di muoversi e tanto meno di obbedire agli ordini, ma attuato pacificamente, senza offrire alcuna resistenza attiva alla polizia o all´esercito. Questa sua strategia lo ha reso un modello per molti protagonisti della resistenza pacifica del XX secolo, tra i quali Martin Luther King negli Stati Uniti e Aung San Suu Kyi in Birmania; ha garantito che il movimento popolare contro gli inglesi fosse per buona parte non violento e ha offerto un´alternativa positiva alle rivoluzioni e ai colpi di Stato che hanno contrassegnato il secolo scorso. Ma, più di ogni altra cosa, la sua strategia ha raggiunto lo scopo che si era prefissa: disonorare l´impero britannico.
L´imperialismo britannico in India risultava inammissibile in particolar modo a tutti gli indiani che avevano completato i loro studi in Gran Bretagna - come Nehru, il Primo ministro indiano, Muhammad Ali Jinnah, il fondatore del Pakistan, e Gandhi stesso, che avevano tutti studiato giurisprudenza a Londra. I principi da loro acquisiti di giustizia, eguaglianza e diritti erano in aperto conflitto con la palese esclusione degli indiani dalla maggior parte delle questioni di governo del loro Paese. Gandhi, consapevole delle divergenze di opinione presenti anche in Gran Bretagna, sapeva di avere davanti a sé due platee differenti: da un lato quella dei suoi compatrioti, che egli aveva persuaso a opporre resistenza agli inglesi, e dall´altro quella formata dai liberali e socialisti britannici sempre più contagiati dall´opinione che l´Impero era una pesante responsabilità e al contempo una vergogna.
La seconda di queste platee crebbe lentamente. Era l´India, più di qualsiasi altro territorio dell´Impero britannico, a dare alla Gran Bretagna il suo status di superpotenza mondiale, negli anni prima della guerra. Churchill si oppose accanitamente a qualsiasi iniziativa volta a concedere l´indipendenza: in una serie di discorsi degli anni Trenta, quando non era al governo ed era fuori dalle grazie del Partito conservatore al quale apparteneva, si scagliò apertamente contro Gandhi. In un discorso del 1931 denunciò pubblicamente il viceré indiano di aver scarcerato Gandhi per lasciarlo negoziare la fine della sua campagna di disobbedienza non violenta. Disse: «È nauseante vedere Gandhi, un avvocato sedizioso che ora si atteggia a quel genere di fakir (asceta indu) ben noto in Oriente, salire a gran passi e mezzo nudo la scalinata del palazzo del viceré per conferire alla pari con il rappresentante del nostro Re». Questa dichiarazione segna il punto più basso raggiunto da Churchill, incapace di comprendere gli argomenti e le motivazioni alla base dell´indipendenza e dell´auto-governo, determinato a considerare l´India niente più di un possedimento, a garanzia della potenza e del commercio britannici. Nondimeno, la sua era una posizione condivisa e molto popolare.
Le cose cambiarono: perfino i governi conservatori di prima della guerra iniziarono a prendere in considerazione l´idea di concedere all´India lo stesso status di autogoverno accordato ad Australia, Canada e Nuova Zelanda. Scoppiò la guerra e Gandhi si oppose a che l´India inviasse sue truppe ad aiutare lo sforzo di guerra, organizzando invece il movimento "Quit India" che si prefiggeva di obbligare i britannici ad andarsene. Quantunque non avesse sottoscritto le posizioni di Subhas Chandra Bose - che influenzato dal fascismo aveva fondato l´Esercito nazionale indiano per combattere con i giapponesi contro gli inglesi - tuttavia vide nella guerra l´occasione giusta per conquistare l´indipendenza, e si batté ancor più fermamente per essa. Fu imprigionato ancora una volta, anche se nel lusso relativo del Palazzo dell´Aga Khan di Pune (dove morì sua moglie). Il governo Labour del Dopoguerra, non senza incontrare una forte opposizione, si adoperò rapidamente per concedere l´indipendenza nel 1946, alla quale fece poi seguito la separazione dell´India in due Stati distinti, uno indu (India) e uno musulmano (Pakistan) - partizione alla quale Gandhi si oppose energicamente - e che creò forti ostilità ancor oggi fonte di pericolo e tensioni.
Come modello ispiratore e simbolo Gandhi non ha avuto equivalenti nel XX secolo. Come politico fu invece la disperazione del movimento nazionalista indiano. Durante la guerra arrivò a esortare i britannici a «invitare Herr Hitler e il Signor Mussolini a prendersi tutto ciò che vogliono dei Paesi che voi chiamate vostri possedimenti... e se questi gentiluomini decideranno di occupare le vostre case, voi le evacuerete; se non vi permetteranno di andarvene, lascerete che vi massacrino tutti, ma vi rifiuterete categoricamente di giurar loro fedeltà». In un´intervista rilasciata alla fine della guerra, si spinse ancora oltre, dichiarando che «gli ebrei in Europa avrebbero dovuto offrirsi al coltello del carnefice. Avrebbero dovuto lasciarsi cadere in mare dalle scogliere». Per Gandhi, tentare di rovesciare una tirannia, o opporsi a un genocidio, equivaleva a commettere un gesto tanto esecrabile quanto la tirannia o il genocidio stessi - opinione che pare ripresa oggi da coloro che si oppongono a qualsivoglia intervento per porre fine a un genocidio. Malgrado ciò, Gandhi mandò in briciole non solo l´Impero britannico, ma l´idea stessa di impero. Lo fece opponendo resistenza ai britannici e al mondo, fungendo da specchio nel quale potessero riflettersi mentre predicavano la legalità, la democrazia e i diritti civili in patria, opprimendo gli altri popoli all´estero. E nella seconda metà del XX secolo fu questa sua visione a trionfare.

(traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 29.1.08
I tribunali di uno Stato che si è macchiato di uno sterminio sono impotenti a punirlo
Questo è un antico paradosso ora finalmente mitigato dalle corti dell'Aja e del Rwanda
di Antonio Cassese

Gli armeni furono deportati e massacrati nel 1915 suscitando indignazione

Da che mondo è mondo gli uomini si sono massacrati impunemente. Come diceva Belli, «cco le vite sce se ggiuca a palla/ come [se] quela puttana de la morte/nun vienissi da lei senza scercalla». Per secoli la comunità degli Stati ha taciuto, fatta com´era di sovrani indipendenti, ciascuno interessato solo a perseguire gli interessi del proprio paese, e libero di trattare i propri sudditi a proprio piacimento: poteva rispettarli o massacrarli; era affar suo, e nessuno poteva obiettare alcunché. Perciò, quando nel 1904-5 la Germania sterminò un intero gruppo etnico, gli Herrero, in una delle sue colonie (il Sudovest africano, oggi Namibia) nessun altro Stato batté ciglio.
Un barlume di indignazione collettiva appare nel 1915. Gli armeni erano stati ripetutamente sterminati nell´Impero Ottomano. Ma nel 1915, nel corso della Prima Guerra Mondiale, la loro quasi totalità era stata deportata, spogliata dei suoi beni e lasciata morire di stenti o massacrata. Tre Grandi Potenze (la Russia, la Francia e la Gran Bretagna) inviarono una nota di protesta veemente in cui per la prima volta nella storia parlarono di «crimini contro l´umanità» e per la prima volta nella storia minacciarono di perseguire penalmente i leader e gli altri organi dell´Impero che si fossero macchiati di quei crimini. Ma fu un intervento interessato: l´Impero Ottomano era un belligerante nemico già moribondo, le cui ricchissime spoglie facevano gola agli occidentali, e inoltre le vittime erano cristiani sterminati da musulmani.
Furono minacce verbali senza grande seguito. Certo, su pressione inglese gli stessi Ottomani tennero nel 1919-20 ben 63 processi contro gli autori di quei crimini, ma i pesci grossi nel frattempo erano scappati a Berlino.
Soprattutto, le Grandi Potenze occidentali erano troppo prese dalla spartizione dell´enorme Impero per occuparsi di quei crimini. L´arrivo di Kemal Atatürk mise una pietra su tutto. La mancanza di qualsiasi reazione forte sembrò legittimare altri e più gravi eccidi. Non dimentichiamo una cosa: all´epoca, nella comunità mondiale nessun imperativo giuridico internazionale limitava la libertà assoluta di ciascuno Stato al proprio interno. Direte: ma che facevano i giuristi? Si occupavano di cose «concrete» (trattati commerciali, mare territoriale, immunità diplomatiche).
Quei pochi che si arrovellavano su cose più alte, come il greco Politis, erano in fondo «mandriani di pallide nebbie». La frase che Hitler avrebbe pronunciato il 22 agosto 1939 alla riunione di Obersalzberg dei vertici militari tedeschi, per giustificare la persecuzione degli ebrei («Chi ricorda oggi il massacro degli Armeni?»), vera o falsa che sia, ben rispecchia la mentalità imperante nella comunità internazionale tra le due Guerre Mondiali: massacra pure, tanto nessuno te ne chiede conto.
Le cose cambiano con la svolta impressa da Roosevelt al secondo dopoguerra. Nel 1945 si decide di punire i leader nazisti anche per «crimini contro l´umanità» e nel 1946 il Tribunale di Norimberga pronuncia varie condanne contro i nazisti colpevoli della «persecuzione» degli ebrei.
Quell´orribile sterminio viene ora considerato un «crimine contro l´umanità» ma punito solo in quanto collegato alla guerra, solo cioè perché perpetrato nel corso della violenza bellica. Nel 1948 ci si rende però conto che il deliberato annientamento di interi gruppi umani è - «qualitativamente» - qualcosa di più che un omicidio di massa. E´ un nuovo fenomeno in cui sull´antica propensione distruttiva degli uomini si innestano due fattori recenti: il nazionalismo e l´organizzazione burocratica dello Stato moderno. Ci si appropria allora di nuova parola, «genocidio», coniata nel 1944 da un ebreo polacco, Lemkin, per denotare questa nuova criminalità. E si adotta la Convenzione sul genocidio. Si crea così un nuovo armamentario giuridico per combattere contro chi, per fanatismo nazionalistico-ideologico-religioso, intende uccidere esseri umani solo perché sono nati all´interno di un gruppo discriminato (come dirà nel 1999 un tribunale tedesco nel caso Jorgic, nel genocidio «la vittima non viene colpita come essere umano, ma solo come membro di un gruppo da perseguitare»). Nel 1948 si fa anche un´altra cosa importante: si slega il genocidio dalla guerra e lo si condanna anche se commesso in tempo di pace.
Tutto risolto, dunque? No. La Convenzione è piena di ombre e di lacune. Ne indico una sola. Nel 1948 l´ONU diede per scontato che in futuro nessuno Stato come tale si sarebbe macchiato di genocidio, perché quel crimine era suscettibile di essere commesso solo da singoli individui od organi statali. Si obbligò dunque gli Stati a prevenire e punire il genocidio perpetrato da privati o da organi statali (anche di vertice), dimenticandosi di obbligare anche gli Stati a non macchiarsi essi stessi - come apparati di governo di quel crimine. Con la conseguenza, assai ingenua, di demandare il compito di punire il genocidio ai tribunali dello Stato in cui il crimine sia stato commesso - ignorando che i giudici non puniscono i propri leader politici e militari per crimini siffatti.
Sono passati da allora sessanta anni: nessun tribunale statale ha punito i leader nazionali. E la Convenzione è stata applicata tra Stati solo l´anno scorso, quando la Corte internazionale dell´Aja ha condannato la Serbia per il massacro di Srebrenica (ma solo per aver omesso di «prevenire» il genocidio perpetrato da Mladic). Per fortuna le cose vanno meglio a livello internazionale penale: sia il nuovo Tribunale penale dell´Aja sia quello del Ruanda hanno processato e punito decine di leader militari e politici per atti di genocidio nell´ex Jugoslavia e in Ruanda.
Ma ciò non basta. Tanto più che si assiste a due fenomeni opposti e sconcertanti. Da una parte la parola «genocidio» è stata svuotata del suo significato specifico, per denotare qualunque omicidio di massa. E´ diventata una parola «passe-partout», una «parola magica» usata ed abusata nella falsa credenza che, designando essa il massimo disvalore, basti evocarla per far scattare la reazione della comunità organizzata: è stata usata a torto da Sartre nel 1966 a proposito della guerra statunitense in Vietnam, da molti storici a proposito dei misfatti dei Khmer Rossi in Cambogia (1975-79), nel «processo» a Ceausescu nel 1989 e in quello, celebrato dall´Etiopia in contumacia nel 2007, contro Mengistu; e Bush e Powell si sono illusi che, pronunciandola, si ponesse fine agli eccidi del Darfur. Dall´altra, si è creato un complesso armamentario giuridico internazionale, fatto di divieti rigorosi per impedire ai Governi di sterminare gruppi nazionali, etnici e religiosi. Ora abbiamo «le parole per dirlo» e gli strumenti formali e istituzionali per lottare contro il genocidio ed altri massacri. Ma quegli imperativi non riescono a calarsi nella realtà, come ben dimostra il Darfur.
Dobbiamo dunque disperare? Non dimentichiamo che la comunità internazionale attuale poggia su una grande contraddizione: i Cinque Grandi detentori del potere di veto nel Consiglio di sicurezza dell´ONU e delegati a tutelare la pace e l´ordine internazionale sono anche i maggiori produttori ed esportatori di armi nel mondo: con una mano sollecitano la pace, con l´altra fomentano le guerre. Così, appena ci sono in gioco interessi strategici, energetici o geopolitici di uno dei Cinque Grandi, gli stermini continuano indisturbati. E gli Stati preferiscono costruire muri per separare gruppi nazionali, etnici e religiosi, invece di gettare ponti per unirli.
Per non perdersi d´animo occorre puntare sulla società civile internazionale: che continui ad indignarsi e a protestare contro gli stermini. E speriamo che sorgano tanti Martin Luther King a far udire la loro voce ai sovrani di tutto il mondo.

Corriere della Sera 29.1.08
Linke, l'onda rossa sulla Germania
Per la prima volta sfondano a Ovest: «Ora cambia la politica tedesca»
di Danilo Taino


Dopo il voto. Salto di qualità del partito erede dei postcomunisti della Ddr: ora può giocare a livello nazionale
Se si guarda il numero di iscritti e di politici eletti a livello nazionale e locale, questo è addirittura il terzo partito

BERLINO — Sulla politica tedesca soffia una certa brezza dell'Est. Le elezioni di domenica scorsa in Assia e Bassa Sassonia hanno creato un quadro complicato. Ma un fatto univoco — l'unico — c'è: Die Linke, La Sinistra, è il solo partito ad avere vinto in ambedue i Länder. Per la prima volta, la formazione nata dall'unione degli ex comunisti della Ddr con i fuoriusciti dai socialdemocratici dell'Ovest entra nei parlamenti di due Stati federali della Germania occidentale. Soprattutto, dopo questa tornata elettorale il quadro politico tedesco ha una novità strutturale.
La Linke è riuscita a superare lo sbarramento del 5% dei voti, minimo necessario per entrare nelle assemblee dei due Stati: 5,1% in Assia e più del 7% in Bassa Sassonia. Si tratta di un risultato che influenzerà sia la formazione dei governi locali sia le strategie dei maggiori partiti nazionali e del governo di Grosse Koalition. Gregor Gysi, che con Oskar Lafontaine è il capogruppo del partito al Bundestag, ha commentato che «quello che abbiamo ottenuto è un avanzamento molto significativo e gli altri partiti devono ora venire a patti con un sistema di cinque partiti. Ciò li sta già confondendo». In effetti, mettendo un piede nella politica dei Länder dell'Ovest, la Linke fa un salto di qualità: finora, era rappresentata solo nella parte Est del Paese, quella un tempo del socialismo reale. Ora conquista un «insediamento definitivo» a Ovest e può giocare un ruolo importante nella politica tedesca. Da fenomeno estemporaneo, come qualcuno la considerava, diventa il pezzo nuovo della Germania politica. Se si guarda il numero di iscritti e di politici eletti a livello nazionale, di Länder e di comune, la Linke è addirittura il terzo partito, dietro all'alleanza Cdu-Csu (cristiano-democratici) e ai socialdemocratici dell'Spd, davanti ai Liberali e ai Verdi. Anche i sondaggi di opinione la mettono al terzo posto, attorno al 10-11%: molto forte a Est — dove spesso è seconda dietro la Cdu e in qualche caso prima — e in crescita a Ovest. Questo vuole dire che nelle coalizioni di governo il partito avrà sempre più voce in capitolo: nella Spd, una corrente vorrebbe puntare a un governo nazionale, dopo le elezioni dell'autunno 2009, tutto di sinistra, sostenuto da Spd e Linke. Sul piano delle politiche, inoltre, l'affermazione della Linke sposta a sinistra l'asse generale. «Cambia il clima sociale del Paese», ha commentato ieri Lafontaine (che, insieme a Lothar Bisky, è anche co-presidente del partito). Nel senso che la concorrenza a sinistra sta costringendo i socialdemocratici di Kurt Beck a rincorrere e ad abbandonare le posizioni riformiste (soprattutto in tema di mercato del lavoro) portate avanti negli anni scorsi. In Assia, per dire, la Spd ha ottenuto un buon risultato su una piattaforma molto di sinistra, centrata sulla richiesta di un salario minimo per tutti i lavoratori e sulla critica degli stipendi altissimi dei top manager delle imprese. Ora, Angela Merkel avrà problemi seri a tenere insieme, da destra, una coalizione tirata per i capelli a sinistra.

Corriere della Sera 29.1.08
Torna il sacro e sfida l'Illuminismo
«La fede religiosa elimina la responsabilità, favorendo fanatici e integralisti politici»
di Edoardo Boncinelli


La discussione. Il nuovo numero della rivista «Reset»: un confronto sul rispetto per i credenti e per chi nega l'esistenza di Dio

La religione, al pari di tutte le convinzioni parareligiose, rassicura e deresponsabilizza, e non saprei dire quale dei due aspetti sia più ben accetto agli individui che la professano. Se l'aspetto della rassicurazione non ci deve riguardare più di tanto, è sull'aspetto della deresponsabilizzazione che la modernità ha qualcosa da dire.
Uno dei primi compiti delle religioni è stato quello di spiegare l'origine e la natura del mondo. Dal punto di vista conoscitivo e razionale questo non sembra avere oggi più molta importanza, mentre sul versante emotivo sembra avere ancora grande presa su molti, che appaiono dirsi: «Dio pensa a me, quindi non sono solo e abbandonato». Per chi ci crede, ciò ha un grande significato, perché dà un senso complessivo alla vita e alla morte e fornisce una speranza per ciò che potrà accadere dopo la vita terrena. C'è una lieve sfumatura di deresponsabilizzazione in tutto questo, ma non la vedo eccessiva e non me la sentirei di insidiare tale convinzione a qualcuno che ce l'ha, se davvero ce l'ha. Si tratta comunque di una faccenda privata.
A metà strada fra la sfera privata e quella pubblica si trova invece la vocazione etica della religione; di tutte le religioni, ma soprattutto di quella cattolica che ci riguarda più da vicino: ciascuno si deve comportare bene per far piacere a Dio e per non incorrere nella sua ira.
Questa semplice affermazione ha a sua volta due risvolti: l'assunzione implicita che sotto questa spinta gli esseri umani si comportino meglio e la delega che viene così conferita ai ministri di culto perché accertino e comunichino quale sia il comportamento etico giusto da tenere in ogni circostanza.
La prima assunzione è molto probabilmente priva di fondamento: non c'è nessuna evidenza statistica che un credente si comporti in media meglio di un non credente. A noi oggi non piace poi, come non piaceva a Kant e ad altri filosofi di quei tempi, l'idea che un essere umano si comporti bene perché deve e per paura di un castigo. Questo è uno dei motivi di più acuto contrasto tra il pensiero laico e quello religioso. Lo spirito laico richiederebbe una libera scelta individuale e un comportamento retto anche se maturato in un clima di autonomia interiore. A maggior ragione non ci piace la delega per l'etica che il clero si è attribuito. Nessuno può legiferare per nessuno in tema di morale. Non ci deve essere un'etica individuale quindi? Non scherziamo! La messa a fuoco di un'etica individuale è importate per il pensiero laico quanto e più che per il magistero cattolico, anche se, rispetto alle posizioni del secondo, il primo auspica una maggiore attenzione al caso singolo e alle istanze dell'individuo e una minore rigidità. Su questo tema si è scritto tanto e io stesso ne ho parlato nel mio libro Il male (Mondadori 2007).
Il fatto è che una volta che un'autorità si arroga il diritto di legiferare sul tema del retto comportamento, è facile per essa passare dalle questioni di morale individuale a quelle che definirei di etica sociale. E qui si entra decisamente nella sfera del pubblico, con l'aspetto dell'etica sociale appunto, del quale tanto si parla in questo momento, con l'argomento del valore di coesione sociale della fede, e con la propensione più o meno dissimulata per l'instaurazione di una sorta di teocrazia.
Brevemente, se non si vede quale diritto abbia il clero di decidere sui temi della morale individuale, ancora meno si può accettare che detti legge in tema di etica sociale. In secondo luogo, l'appartenenza a una stessa fede poteva essere uno stimolo alla coesione sociale in una società caratterizzata da una sola confessione, ma diviene elemento di destabilizzazione, se non di aperto conflitto, in una società transnazionale che ospita fedi diverse, inclusa l'assenza di una fede dichiarata. Che dire, infine, dei continui tentativi di far assumere alla fede in una confessione la veste di un'appartenenza e di una militanza politica?
Davanti alla presente offensiva del pensiero cattolico per la riconquista delle posizioni perdute, è quindi più che legittimo che chi si sente legato all'ideale di una società laica metta in atto una controffensiva di argomentazioni e di messe in guardia, anche se non ci si può attendere da quest'azione più di quanto essa possa dare, atteso che quella di fare proseliti non è mai stata una vocazione laica, mentre è, e dichiaratamente, una vocazione fondamentale dell'anima cattolica.
C'è un ultimo aspetto. È di moda oggi esultare, anche da parte di autori considerati laici, per un certo recente «ritorno del sacro». Non so bene di cosa si parli e di che cosa dovremmo esultare: il senso del sacro vive di ignoranza, di paure e di oscure minacce, confina con la superstizione e dispone al fatalismo e al fanatismo. Se c'è veramente questo ritorno del sacro, significa che l'Occidente tenta di rientrare in quello stato di minorità dal quale l'Illuminismo, secondo Kant, l'aveva a suo tempo affrancato.

Corriere della Sera 29.1.08
La provocazione. Vattimo: Fatima meglio degli atei
di Antonio Carioti


Potrebbero le organizzazioni degli atei, al pari delle confessioni religiose, concludere un'intesa con lo Stato e partecipare al meccanismo di finanziamento dell'8 per mille? Il quesito è stato posto dall'Unione degli atei e agnostici razionalisti (www.uaar.it) e ha ricevuto una risposta negativa ai sensi della Costituzione italiana. Ma Francesco Margiotta Broglio, in un intervento su Reset, scrive che il tema «dovrà essere di nuovo preso in considerazione» sulla base del Trattato costituzionale europeo firmato a Lisbona.
Si tratta di uno degli aspetti più interessanti della sezione sull'ateismo contenuta nel nuovo numero della rivista diretta da Giancarlo Bosetti, da cui è tratto l'articolo di Edoardo Boncinelli pubblicato qui accanto.
Apre il dossier Paolo Costa, che mette in luce le lacune dell'incredulità, pur riconoscendo «la dignità e il valore di una vita fondata sull'estraneità alle religioni tradizionali». Altri contributi vengono dal teologo Bruno Forte, dalla filosofa Martha Nussbaum, da Corrado Ocone. Non manca il tema del rapporto tra scienza e fede: il paleontologo darwiniano Niles Eldredge critica l'ateismo militante del collega Richard Dawkins, mentre Telmo Pievani contesta la pretesa dei teologi, compreso Benedetto XVI, di pronunciarsi sugli eventi naturali trascurando le acquisizioni della scienza.
La voce più originale e spiazzante risulta però il cristiano anticlericale Gianni Vattimo: molto aspro verso la Chiesa cattolica che «s'irrigidisce nei suoi principi», ma convinto che sia un grave errore «pretendere l'eliminazione di ogni sacralità». A suo avviso «la civiltà moderna è cristiana a propria insaputa», perché nella predicazione di Gesù c'è una «vocazione alla demitizzazione» che la distingue da ogni altro culto e le permette di reggere la sfida della secolarizzazione. Tutte cose che i miscredenti scientisti non capiscono, nota sferzante Vattimo: «Gli atei sono convinti di rappresentare la ragione illuminata moderna, quindi hanno una supponenza tutta loro, che è la grande difesa della mia fede. Io piuttosto che diventare come Dawkins — o come Flores d'Arcais o Odifreddi — sottoscrivo anche il miracolo di Fatima».

Liberazione 29.1.08
Spd e Verdi dovranno fare i conti con La Sinistra ormai determinante anche a Ovest
Socialdemocrazia a un bivio: o apre a sinistra o si condanna alla grande coalizione
Spd e Cdu non convincono. La novità è Die Linke
di Matteo Alviti


Berlino. Se c'è una cosa chiara, dopo le elezioni regionali di domenica in Assia e Bassa-Sassonia, è questa: la politica tedesca non è più noiosa. Merito delle laceranti battaglie interne ai due maggiori partiti, Cdu e Spd, alleati di una sempre più instabile grande coalizione. Merito di verdi e liberali, divisi tra speranze governiste e un ruolo d'opposizione sempre più scomodo. Ma soprattutto merito della Linke, che in tre anni ha saputo conquistare la fiducia degli elettori riempiendo di significato quel vuoto lasciato a sinistra dalla Spd di Gerhard Schröder. E ora siederà per la prima volta in due grandi Land dell'ex-Germania federale.
Procediamo con ordine: i risultati. In Bassa-Sassonia, come previsto, il governatore cristianodemocratico Christian Wulff rimane a cavallo con una solida maggioranza. Il suo partito, la Cdu, perde pure il 5,8% dei consensi, ma si conferma primo con il 42,5%. Segue la Spd al 30,3% (- 3,1%), il peggior risultato di sempre. In leggera crescita e sostanziale parità verdi, 8%, e liberali della Fdp, 8,2%. La vera sorpresa in Bassa-Sassonia è stata Die Linke, che contro ogni previsione ha conquistato il 7,1% andando ben oltre la soglia di sbarramento al 5%. Un piccolo aiuto la Linke l'ha avuto dalla scarsa affluenza alle urne, scesa di 9 punti al 58%. La partita in Bassa-Sassonia era talmente scontata e il tempo di domenica talmente brutto da indurre molti elettori non particolarmente motivati a rimanere a casa. Qui il governo lo formeranno Cdu e Fdp, che insieme dispongono di un'abbondante maggioranza di seggi.
In Assia invece il finale di partita è ancora aperto a molte soluzioni. Le urne hanno consegnato una situazione simile a quella delle elezioni nazionali del 2005, da cui nacque l'attuale grande coalizione. Allora Schröder era riuscito a rimontare un forte svantaggio che lo aveva portato a un passo dalla vittoria, andata poi alla Cdu di Angela Merkel. Domenica, dopo alcune false indicazioni che avevano fatto sperare la Spd di essersi attestata come primo partito, è arrivata la parziale doccia fredda. La Cdu del governatore uscente Roland Koch si è riconfermata prima al 36,8%, seppur con un tonfo colossale di 12 punti rispetto al 2003, frutto di una campagna elettorale violenta e razzista. A un decimo di punto la Spd, 36,7%, che avrà lo stesso numero di seggi della Cdu. Scendono i Verdi al 7,5% (-2,6%) e salgono i liberali al 9,4% (+1,5%). Anche in Assia l'unica forza politica a poter brindare senza patemi è Die Linke, che con il 5,1% dei suffragi ha conquistato sei seggi. Formare un governo non sarà semplice, con Andrea Ypsilanti, Spd, che reclama il posto di governatrice a un Koch che non intende farsi da parte. Esclusa da tutti, ancora ieri, un'alleanza con Die Linke, le soluzioni possibili parlano di governi di minoranza rosso-verdi o giallo-neri (Fdp e Cdu) o alleanze improbabili tra socialdemocratici, verdi e liberali (ci spera la Spd) o cristianodemocratici, liberali e verdi. O la solita grande coalizione.
Eppure, prima o poi, Spd e verdi dovranno pur farli i conti con Die Linke. Con la vittoria di ieri è infatti tramontata l'illusione di poter relegare il partito di sinistra a un ruolo effimero. Grazie alle sue critiche nette alla destrutturazione dello stato sociale, Die Linke si è dimostrata capace di superare lo scetticismo degli elettori dell'ovest. Perché non aprire un confronto subito? La socialdemocrazia è a un bivio decisivo per la storia sua e della Germania intera: o smette l'inutile conventio ad excludendum contro Die Linke all'ovest, che finora non ha portato altro che a una grande coalizione nella quale la Spd ha più da perdere che da guadagnare; oppure si rassegna all'alternativa di dover governare per sempre con la Cdu, o i liberali della Fdp.
Una riflessione sulla strategia delle alleanze varrebbe la pena: i risultati della Spd sono oggi infatti buoni ma non straordinari. Il mancato primo posto in Assia - Land governato dalla socialdemocrazia per decenni - pesa, ancor più che la batosta in Bassa-Sassonia. Il voto di domenica può ben far sperare in una svolta sociale che riporti la Spd sui binari dopo i deragliamenti liberali. Ma il presidente Kurt Beck avrà vita dura. Troppo folta ancora la pattuglia dei sostenitori delle riforme di Schröder a Berlino. La speranza per il futuro della Spd sta in due donne di nome Andrea: la vicepresidente Nahles, giovane rappresentante della sinistra, e la vincitrice morale delle elezioni in Assia Ypsilanti. Che ieri si è presa una bella rivincita sullo Schröder che infastidito per le critiche al suo corso riformatore chiese una volta sarcastico: «E chi è questa signora XY?».
La Cdu può, nonostante tutto, non dirsi sconfitta. La riconferma di Wulff e il risicato primo posto in Assia le daranno il tempo di leccarsi le ferite senza troppi drammi. La stessa cancelliera Merkel in Assia ha perso e vinto insieme. Perso per aver voluto sostenere, nelle ultime settimane, la campagna suicida di Koch. Vinto perché il governatore dell'Assia era nella Cdu un suo temibile avversario, da destra, la cui sconfitta relega a un ruolo minoritario. C'è da sperare che il partito abbia imparato la lezione e non voglia ripetere l'errore di puntare tutto su una campagna demagogica e razzista. Ne va del bene di quella dialettica democratica di cui anche l'Italia dei Bossi e Berlusconi avrebbe un gran bisogno.

lunedì 28 gennaio 2008

l’Unità 28.1.08
Bertinotti a «Che tempo che fa»
«Una nuova legge elettorale è nell’interesse di tutti»


MILANO «Una nuova legge elettorale va a vantaggio di tutti perché le regole generali se sono buone vanno nell'interesse di tutti». Lo ha dichiarato il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, ospite della trasmissione «Che tempo che fa», condotta da Fabio Fazio su Rai Tre. «Se qualcuno è convinto di vincere comunque le prossime elezioni, meglio ancora per lui», ha continuato Bertinotti riferendosi a Berlusconi. «Questo sistema elettorale spinge a mettersi insieme il bianco e il nero», ha proseguito il presidente della Camera: «Auspico una legge elettorale trasparente che dia alla maggioranza la capacità di governare». Bertinotti ha anche sottolineato che le persone di sinistra «hanno il diritto di avere un soggetto politico unitario» a sinistra del Partito democratico, riferendosi alla Sinistra Arcobaleno. Il presidente della Camera ha anche sostenuto di essere contrario alla Grosse Koalition e di auspicare un sistema elettorale proporzionale con uno sbarramento al 5 per cento. Alla domanda di Fazio se fosse interessato a ricoprire un incarico politico nella prossima legislatura, Bertinotti ha risposto che «non ci sono uomini per tutte le stagioni politiche. Per dirigere una compagine politica devi avere l'età e secondo me ci dovrebbe essere un limite di età per i segretari di partito così come c'è un limite anche per i vescovi. Escludo di farlo». .

l’Unità 28.1.08
Verdi: «Parta subito la Sinistra arcobaleno»


Il consiglio federale nazionale dei Verdi, su proposta approvata all'unanimità del presidente Alfonso Pecoraro Scanio, dà mandato all'avvio della costituente ecologista, arcobaleno e civica entro marzo nel caso di elezioni anticipate. I Verdi «confermano la scelta di costruire un'alleanza programmatica della Sinistra Arcobaleno in caso di voto anticipato». E propongono che si rilanci «una nuova coalizione di centrosinistra che abbia come interlocutori il Pd, le forze laiche, riformatrici e civiche del Paese, con l'obiettivo di indicare una proposta di governo per il Paese e battere le destre e Berlusconi». I Verdi ringraziano Romano Prodi e rivendicano gli obiettivi raggiunti. E dicono sì a un governo a termine «che abbia come base di partenza le forze dell'unione che hanno confermato la fiducia a Prodi».

l’Unità 28.1.08
Elie Wiesel: «La Shoah resta il male assoluto»
di Umberto De Giovannangeli


GIORNO DELLA MEMORIA Parla lo scrittore premio Nobel nel 1986: «Dimenticare è impossibile e significherebbe uccidere una seconda volta le vittime. Ma non c’è solo il rischio dell’oblio: Ahmadinejad e il terrorismo sono pericoli reali»

«Non possiamo, non dobbiamo dimenticare ciò che accadde nei lager nazisti. E che al fondo dell’Olocausto vi era il proposito di annientare gli ebrei, colpevoli di esistere: chi lo nega infligge alle vittime dei campi di sterminio una seconda morte». A parlare, nella Giornata delle Memoria, è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986, che nei campi di sterminio di Auschwitz (vi perse la madre, il padre e la sorellina) e Buchenwald trascorse 11 mesi.
Ricordare non è solo un tributo ai milioni di donne e uomini annientati nei lager. «L’antisemitismo e l’odio razziale - riflette Wiesel - segnano anche questo inizio secolo. Non posso perdonare gli aguzzini e coloro che ne esaltano le gesta». Parla a ragion veduta, il grande scrittore, Lui il mostro nazista l’ha visto negli occhi: «Non credo - afferma - che esista il Bene assoluto, nella mia vita, almeno, non l’ho mai incontrato . Ma il Male assoluto l’ho conosciuto e da allora non mi ha più abbandonato: l’ho visto negli occhi dei nostri carnefici, e nelle pietose giustificazioni di chi ripeteva: “Io non c'entro, non sapevo” e lo ritrovo anche oggi in chi nega che l'Olocausto fu innanzitutto il tentativo di annientare gli ebrei». Oggi ricorda Elie Wiesel, lo spettro di una nuova Shoah torna ad essere agitato da «una figura che non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare “persona non grata”, per ciò che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità. Il nome di questa persona è Mahmoud Ahmadinejad: costui rappresenta la parte più buia dell'orizzonte politico odierno». «Spero che il 2008 - afferma Elie Wiesel - possa essere davvero l’anno della pace in Medio Oriente», ma lo scenario internazionale, e non solo quello mediorientale, è segnato pesantemente dalla crescente insicurezza globale dovuta al terrorismo. «Stiamo lasciando alle nuove generazioni un mondo pieno di paura - riflette il grande scrittore della Memoria - cosa ne faremo, lo trasformeremo in una fortezza?».
Nella Giornata della Memoria, è importante raccontare soprattutto ai giovani cosa è stato l'Olocausto. Compito a cui lei non si è mai sottratto. A un ragazzo di oggi che le chiedesse: cosa è stato l'Olocausto?, che risposta darebbe?
«È stato il Male assoluto. Ecco cosa è stato. Ciò che ha caratterizzato quel periodo fu una determinazione assoluta nel pianificare e condurre a compimento l’annientamento di un popolo. Questo è stato l’Olocausto, in questo consiste la sua novità rispetto al passato: per la prima volta nella storia, si intendeva eliminare completamente dalla faccia della terra un popolo. Gli ebrei non furono perseguitati e sterminati per motivi specifici, perché credevano o non credevano in Dio, perché erano ricchi o poveri, o perché professavano ideologie nemiche: no, gli ebrei venivano uccisi, umiliati, torturati per il semplice fatto di essere tali. Perché erano colpevoli di esistere: questo è l’orrore incancellabile della Shoah».
La memoria dell'Olocausto sembra smarrirsi: c'è chi afferma che ciò è un bene, che ricordare serve solo a perpetuare antiche divisioni.
«No, no, sono assolutamente contrario. Dimenticare le vittime significa null’altro che infliggere loro una seconda morte! Una vera riconciliazione, inoltre, non può avvenire che a partire dal ricordo, preservando la memoria di ciò che furono quegli anni. È vero: oggi c’è chi esalta l’oblio, chi ritiene giunto il momento di archiviare il passato. A questa operazione sento il dovere morale di ribellarmi, ieri come oggi: perché per nessuna ragione al mondo è possibile cancellare la distinzione tra il carnefice e la sua vittima. Ed ancor oggi l’Olocausto insegna che quando una comunità viene perseguitata tutto il mondo ne risulta colpito».
Molti dei suoi libri hanno trattato il tema della memoria, del ricordo e dell'oblio, e di come la tragedia dell'Olocausto si è trasmessa di padre in figlio nel popolo ebraico, in Israele e nella Diaspora.
«È il tema dell’identità ebraica, della sua specificità che non va smarrita ma che non deve mai essere vissuta come “separazione” dal mondo dei “Gentili”. In uno dei miei libri, L'oblio, (Bompiani), il protagonista sintetizza così il suo essere ebreo: “Se sono ebreo, sono un uomo. Se non lo sono, non sono nulla. Solo così potrò amare il mio popolo senza odiare gli altri”. Questo mi ripetevo allora, nei giorni di Buchenwald, quando i nostri aguzzini volevano cancellare la nostra identità, prima di negarci la vita, per ridurci solo a numeri, quelli marchiati a fuoco sulle nostre braccia. Ma non ci sono riusciti: hanno ucciso sei milioni di ebrei ma non sono riusciti a cancellare la nostra identità. Ed è per questo che oggi, nella Giornata della Memoria, posso dire con il mio Malkiel (il protagonista dell'Oblio, ndr.): è proprio perché amo il popolo ebraico che trovo in me la forza per amare quelli che seguono altre tradizioni. Un ebreo che nega se stesso non fa che scegliere la menzogna».
Signor Wiesel, per chi ha vissuto l’esperienza dei lager nazisti ha un senso la parola «perdono»?
«È la domanda che ha accompagnato la mia esistenza di sopravvissuto. Ma parole come perdono o misericordia non trovano posto nell’inferno di Auschwitz, di Buchenwald, di Dachau, di Treblinka…. No, non è possibile perdonare gli aguzzini di un tempo e coloro che ancora oggi ne esaltano le gesta. In questi sessantatre anni, ho pregato più volte Dio e la preghiera è la stessa che recitavo quando ero rinchiuso nel lager: “Dio di misericordia, non avere misericordia per gli assassini di bambini ebrei, non avere misericordia per coloro che hanno creato Auschwitz, e Buchenwald, e Dachau, e Treblinka, e Bergen-Belsen…Non perdonare coloro che qui hanno assassinato. Ma questo non vuol dire condannare per sempre il popolo tedesco, perché noi ebrei, le vittime, non crediamo nella colpa collettiva. Solo il colpevole è colpevole».
Dal passato che non passa, ad un presente inquietante. Lei ha usato parole durissime contro il presidente iraniano Ahmadinejad. Perché?
«Perché costui, nel ridicolizzare le verità storicamente accertate, nell’offendere la memoria dei sopravvissuti all'Olocausto ancora vivi, glorifica l’arte della menzogna. Da numero uno dei negazionisti al mondo, da antisemita con una mente disturbata, dichiara che la “soluzione finale” di Hitler non è mai esistita. E non basta. Secondo Ahmadinejiad, non c’è stato un Olocausto nel passato, ma vi sarà nel futuro. Elucubrazioni di un fanatico? Sì, ma il fanatico si rivolge a folle che plaudono alle sue idee. Parole vuote? Lui non parla per nulla. Sembra impegnato nel mantenere le sue “promesse”. Sarebbe un errore mettere in dubbio la sua determinazione. Una persona non predica odio per niente. Appartengo a una generazione che ha imparato a prendere sul serio le parole del nemico. Anche perché queste parole sono accompagnate da fatti: chi c’è dietro l’organizzazione terrorista degli Hezbollah? L'Iran. L'Iran li fornisce di tutte le armi più sofisticate e degli ufficiali che addestrano le loro milizie. Ma cosa vogliono gli Hezbollah? Concezioni territoriali? No. La creazione di uno Stato palestinese che viva fianco a fianco con Israele, cosa che personalmente mi auguro? No. L’unico obiettivo di questo movimento - e del presidente iraniano - è la distruzione di Israele. Ecco perché io sostengo che Ahmadinejad non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare “persona non grata”, per quello che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità».
Nella sua visita in Israele, il presidente Usa Bush, al museo dello Yad Vashem, si è chiesto del perché gli Alleati non avessero bombardato prima Auschwitz. Secondo un filone storiografico, ciò non avvenne perché gli Alleati temevano che bombardando avrebbero ucciso migliaia di prigionieri del campo.
«Questa motivazione non regge. Prima però mi lasci dire che ho molto apprezzato le parole del presidente Bush. Il suo è stato un atto di coraggio che è mancato ai suoi predecessori…».
Lei parlava di una scusa…
«Io ero ad Auschwitz. E posso dirle che ogni volta che assieme ai miei compagni di sventura sentivamo gli aerei sorvolare Auschwitz, pregavamo che bombardassero: sarebbe stata una morte preferibile alle camere a gas. La verità è che non solo gli angloamericani ma anche i russi, avrebbero potuto bombardare i binari della ferrovia che portava ad Auschwitz. In tal modo si poteva salvare la vita di decine di migliaia di ebrei. Così non è stato. E credo che il rimorso per non aver dato l’ordine di bombardare abbia accompagnato i responsabili per tutta la loro vita».

l’Unità 28.1.08
Psicoterapia popolare alla sbarra
di Luigi Cancrini


Caro Luigi,
in qualità di Presidente dell'Ordine degli Psicologi del Lazio, sono delusa ed amareggiata dagli ultimi sviluppi della proposta di legge sulla psicoterapia a convenzione. Il progetto iniziale, da noi condiviso sin dal 2001, avrebbe finalmente dato il crisma della legalità e dell'ufficialità alla prassi, in base alla quale il Dirigente sanitario (medico o psicologo), per ovviare al problema delle liste di attesa causato dalla carenza di psicoterapeuti nel SSN, invia al settore privato, ad esempio, giovani utenti che possono sostenere le spese di una psicoterapia. Come ben sai, questa è ormai la prassi consolidata e in tutti questi anni non si è mai verificato alcun problema, ma, anzi, i pazienti ed i familiari hanno sempre ringraziato, anche se costretti a pagare di tasca loro le psicoterapie. La mia delusione, che ho espresso nell'incontro da te convocato a Roma il 22 gennaio, deriva dalla previsione della «conferma diagnostica» da parte di un medico specialista in psichiatria o in neuropsichiatria infantile, che, oltre ad essere lesiva dell'autonomia organizzativa delle Regioni e dei servizi territoriali, crea a livello legislativo un subliminale quanto pericoloso pregiudizio nei confronti degli psicoterapeuti psicologi. D'altronde, credo che nessuno possa dissentire quando Adriano Ossicini, medico, professore di Psicologia e padre fondatore della legge istitutiva della professione di psicologo, afferma: «distinguere diagnosi da terapia è un non senso scientifico... Nessuno pensa che la diagnosi possa essere staccata dalla terapia. Si tratta di un processo, di un continuum con prevalenti momenti diagnostici o terapeutici, la stessa terapia aggiorna la diagnosi, la stessa diagnosi non può essere staccata da un rapporto con il paziente che è fondamentale, che non può essere occasionale o interrotto meccanicamente». Per tutto quanto finora espresso avrei auspicato che potesse realizzarsi quel progetto originario, contenuto nella proposta di legge popolare del 2001, che recitava: «La modalità di accesso alla psicoterapia nel privato accreditato, deve essere effettuata dal Dirigente Sanitario del SSN (medico o psicologo) abilitato alla psicoterapia, come previsto negli artt. 3 e 35 della L. 56/89».
Marialori Zaccaria, Presidente Ordine Psicologi Lazio

Le assemblee che sto facendo in giro per l'Italia e quella, in particolare, di Roma del 22 ultimo scorso mi hanno convinto prima di tutto della validità del lavoro che abbiamo fatto fino ad oggi. La decisione di riprendere dal fondo del cassetto in cui cinque anni di governo della destra l'avevano lasciata la proposta di legge d'iniziativa popolare sull'accesso alla psicoterapia ha ottenuto un risultato straordinario che sta sotto gli occhi di tutti: convincere tutte le forze politiche presenti in Parlamento e tutti i rappresentanti degli Ordini Professionali, compreso quello dei Medici, del fatto per cui il sistema sanitario nazionale deve garantire a tutti i cittadini la possibilità di curarsi con forme diverse di psicoterapia riconosciute oggi solo ai parlamentari, ai dirigenti industriali e ai giornalisti. Un fatto che non era affatto scontato all'inizio della legislatura. Un fatto che ci deve far guardare con ottimismo al futuro di questa legge: anche nel caso in cui ci fossero delle elezioni e a vincere fosse la destra, infatti, le posizioni prese a favore di questa legge sono così autorevoli e così forti da renderne molto probabile l'approvazione definitiva.
Un secondo dato che è emerso con chiarezza da queste consultazioni è quello relativo alla importanza di una partecipazione costruttiva dei professionisti e di chi li rappresenta nella scrittura di una legge che li riguarda. Quello che non è per niente facile immaginare a volte, dall'interno di una commissione parlamentare, è la complessità delle conseguenze che si determinano nel momento in cui si redige un testo a livello dei servizi e delle categorie professionali: come ci ricorda ora, una volta di più, la tua lettera sul problema della diagnosi. Avevo scritto, una settimana fa che affidare allo psichiatra o al neuropsichiatra infantile una conferma diagnostica preliminare alla predisposizione di un progetto psicoterapeutico non doveva essere considerato come un fatto di grande gravità. Il lettore cui rispondevo diceva che questo solo fatto trasformava la legge in un "obbrobrio" ed io gli dicevo che quello era un passaggio discutibile ma non fondamentale per chi affida a questa legge la finalità di dare accesso alla psicoterapia a chi ne ha bisogno. Quello su cui tu ora mi scrivi e su cui tanto si è insistito nel corso della assemblea è il fatto tuttavia che, scritto così, quel testo incide sulla attività quotidiana dei servizi che possono già offrire direttamente la psicoterapia. Tocca alle Regioni l'organizzazione dei servizi di cui si parla nella legge e la legge così come è scritta oggi potrebbe creare dei problemi serii a quelle Regioni che hanno creduto nel carattere multidisciplinare dei servizi e nella necessità di mettere in rete le diverse competenze professionali.
È in questa direzione che si potrà ritoccare il testo, ovviamente, in questa legislatura o nella prossima se davvero alle elezioni si andrà. Quello su cui vorrei insistere ancora prima di chiudere, tuttavia, è il significato più generale di quello che sta accadendo. In una fase come questa, una fase in cui in tanti si danno da fare per squalificare gli uomini politici considerati nel loro complesso, l'effetto che si determina, consapevolmente o no, è un effetto che favorisce la destra. «Meno Stato e più mercato» ha sempre predicato un uomo come Berlusconi e una delegittimazione forte della politica serve, in effetti, soprattutto a chi, come lui, ha molte cose da farsi perdonare ed ha tutto l'interesse a dire ed a far credere che «sono tutti come lui». Quello che è difficile vedere e far vedere è, in queste condizioni, il fatto che c'è gente, nel Parlamento, che si affatica e si confronta per scrivere una legge che serve ai cittadini e che si rende disponibile, per farlo nel modo migliore possibile, al numero più ampio possibile di incontri e di consultazioni: gente la cui capacità di lavoro viene travolta, oggi, dalla boria e dalla irresponsabilità di leaders, veri o presunti tali, che si muovono su logiche di schieramento che poco o nulla hanno a che fare con i problemi e con le attese dei cittadini.
Dovesse mai finire qui perché anche questo è possibile, i risultati comunque raggiunti in tema di psicoterapia sono importanti soprattutto per questo motivo: perché fanno pensare a quanto sia importante per tutti noi il fatto che i politici ci siano e lavorino nel rispetto del mandato che ricevono dagli elettori ed in un rapporto costante con loro. Evitando nei limiti del possibile quella spettacolarizzazione lideristica della politica verso cui con leggerezza sconcertante si sta andando. Da noi ed in altri paesi.

Repubblica 28.1.07
La moratoria sull'aborto ultima violenza alle donne
di Gustavo Zagrebelsky


In una concezione non dogmatica ma (auto)critica della democrazia, quale è propria di ogni spirito laico, nessuna decisione presa è, per ciò stesso, indiscutibile. Il rifiuto della ri-discussione è per ciò stesso una posizione dogmatica, che può nascondere un eccesso o un difetto di sicurezza circa le proprie buone ragioni. Questo, in linea di principio, riguarda dunque anche la legge sull´interruzione volontaria della gravidanza, "la 194", che pur ha dalla sua due sentenze della Corte costituzionale e un referendum popolare.
Ma una discussione costruttiva e, mi sia permesso dire, onesta è il contrario delle parole d´ordine a effetto, che fanno confusione, servono per "crociate" che finiscono per mettere le persone le une contro le altre. Lo slogan "moratoria dell´aborto", stabilendo una "stringente analogia" (cardinal Bagnasco alla Cei, il 21 gennaio) tra pena di morte e aborto, accomunati come assassinii legali, ha sì riaperto il problema, ma in modo tale da riaprire anche uno scontro sociale e culturale che vedrebbe, nientemeno, schierati i fautori della vita contro i fautori della morte: i primi, paladini dei valori cristiani; i secondi, intossicati dal famigerato relativismo etico. Insomma, alle solite, un nuovo fronte di quello "scontro di civiltà" che, molti insofferenti della difficile tolleranza, mentre dicono di paventarlo, lo auspicano.
Siamo di fronte, come si è detto, a una "iniziativa amica delle donne"? Vediamo. La questione aborto è un intreccio di violenze. Innanzitutto, indubitabilmente, la violenza sull´essere umano in formazione, privato del diritto alla vita.
Ma, in numerose circostanze, ci può essere violenza nella gravidanza stessa, questa volta contro la donna, quando la salute ne sia minacciata, non solo nel corpo ma anche nella mente, da sentimenti di colpa o di sopraffazione, solitudine, indigenza, abbandono. La donna incinta, nelle condizioni normali, è l´orgoglio, onorato e protetto, della società di cui è parte; ma, nelle situazioni anormali, può diventarne la vergogna, il peso o la pietra dello scandalo, scartata e male o punto tollerata. D´altra parte, non solo la gravidanza, ma l´aborto stesso, percepito come via d´uscita da situazioni di necessità senza altro sbocco, si traduce in violenza anche verso la donna, costretta a privarsi del suo diritto alla maternità. C´è poi un potenziale di somma violenza nella capacità limitata delle società umane ad accogliere nuovi nati. La naturale finitezza della terra e delle sue risorse sta contro la pressione demografica crescente e la durata della vita umana. L´iniqua ripartizione dei beni della terra tra i popoli, poi, induce soprattutto le nazioni più povere a politiche pubbliche di limitazione della natalità che si avvalgono, come loro mezzo, dell´aborto.
Violenze su violenze d´ogni origine, dunque: violenza della natura sulle società; delle società sulla donna; della donna su se stessa e sull´essere indifeso ch´essa porta in sé. E´ certamente una tragica condizione quella in cui il concepimento di un essere umano porta con sé un tale potenziale di violenza. Noi forse comprendiamo così il senso profondo della maledizione di Dio: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze» (Gen. 3, 22). Si potrebbe dire che l´aborto, nella maggior parte dei casi, è violenza di deboli su più deboli, provocata da una violenza anteriore. Ma questa è la condizione umana, fino a quando essa patisce la crudeltà della natura e l´ingiustizia della società; una condizione che nessuna minaccia di pene anche severissime, con riguardo all´ultimo anello della catena, quello che unisce la donna al concepito, ha mai potuto cambiare, ma ha sempre e solo sospinto nella clandestinità, con un ulteriore carico di umiliazione e violenza, fisica e morale.
In questo quadro, che molte donne conoscono bene, che cosa significa la parola moratoria? Dove si inserirebbe, in questa catena di violenza? La domanda è capitale per capire di che cosa parliamo.
Una cosa è chiedere alle Nazioni Unite di condannare i Paesi che usano l´aborto come strumento di controllo demografico e di selezione "di genere". Un celebre scritto del premio Nobel Amartya Sen, pubblicato sulla New York Review of Books del 1991, ha richiamato l´attenzione sul fatto che «più di 100 milioni di donne mancano all´appello». Si mostrava lo squilibrio esistente e crescente tra maschi e femmine in Paesi come l´India e la Cina (ma la questione riguarda tutto l´estremo Oriente: quasi la metà degli abitanti del pianeta). Si prevede, ad esempio, che in Cina, nel 2030, l´eccesso di uomini sul "mercato matrimoniale" potrebbe raggiungere il 20%, con drammatiche conseguenze sociali. Le ragioni sono economiche, sociali e culturali molto profonde, radicate e differenziate. Le cause immediate, però, sono l´aborto selettivo e l´infanticidio a danno delle bambine, oltre che l´abbandono nei primi anni di vita. In quanto, però, vi siano politiche pubbliche di incentivazione o, addirittura, di imposizione, la richiesta di "moratoria" ha certamente un senso. Si interromperebbe la catena della violenza al livello della cosiddetta bio-politica, con effetti liberatori.
E diverso, in riferimento alle società dove l´aborto non è imposto, ma è, sotto certe condizioni, ammesso. "Moratoria" non può significare che divieto. Per noi, sarebbe un tornare a prima del 1975, quando la donna che abortiva lo faceva illegalmente, e dunque clandestinamente, rischiando severe sanzioni. Questo esito, per ora, non è dichiarato. I tempi paiono non consentirlo. Ci si limita a chiedere la "revisione" della legge che "regola" l´aborto. Ma l´obbiettivo è quello, come la "stringente analogia" con l´abolizione della pena di morte mostra e come del resto dice il card. Bagnasco: «Non ci può mai essere alcuna legge giusta che regoli l´aborto».
Qual è il punto della catena di violenza che la "moratoria" mira a colpire? E´ l´ultimo: quello che drammaticamente mette a tu per tu la donna e il concepito. Isolando il dramma dal contesto di tutte le altre violenze, è facile dire: l´inerme, il fragile, l´incolpevole deve essere protetto dalla legge, contro l´arbitrio del più forte. Ma la donna, a sua volta, è soggetto debole rispetto a tante altre violenze psicofisiche, morali, sociali, economiche, incombenti su di lei. La legge che vietasse l´aborto finirebbe per caricarla integralmente dell´intero peso della violenza di cui la società è intrisa: un peso in molti casi schiacciante, giustificabile solo agli occhi di chi concepisce la maternità come preminente funzione biologico-sociale che ha nell´apparato riproduttivo della donna il suo organo: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze», appunto. Si comprende, così, che la questione dell´aborto ha sullo sfondo la concezione primaria delle donne come persone oppure come strumenti di riproduzione. E si comprende altresì la ribellione femminile a questa visione della loro sessualità come ufficio sociale.
«La condizione della donna gestante è del tutto particolare» e non è giusto gravarla di tanto peso, ha detto la Corte costituzionale in una sua sentenza del 1975, la n. 27. Convivono due soggetti, l´uno dipendente dall´altro, entrambi titolari di diritti, potenzialmente in contraddizione: tragicamente, la donna può diventare nemica del concepito; il concepito, della donna. Da un lato, sta la tutela del concepito fondata sul riconoscimento costituzionale dei diritti inviolabili dell´uomo, «sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie», trattandosi di chi «persona deve ancora diventare». Dall´altro, sta il diritto all´esistenza e alla salute della donna, che «è già persona». Il riconoscimento pieno del diritto di uno si traduce necessariamente nella negazione del diritto dell´altro. Per questo, è incostituzionale l´obbligo giuridico di portare a termine la gravidanza, "costi quel che costi"; ma, per il verso opposto, è incostituzionale anche la pura e semplice volontà della donna, cioè il suo "diritto potestativo" sul concepito (sent. n. 35 del 1997). Si sono cercate soluzioni, per così dire, intermedie, ed è ciò che ha fatto "la 194", prevedendo assistenza sanitaria, limiti di tempo, ipotesi specifiche (stupro o malformazioni) e procedure presso centri ad hoc che accompagnano la donna nella sua decisione: una decisione che, a parte casi particolari (ragazze minorenni), è sua. La donna, dunque, alla fine, è sola di fronte al concepito e, secondo le circostanze, può essere tragicamente contro di lui. Qui, una mediazione tra i due diritti in conflitto (della donna e del concepito) non è più possibile: aut aut.
Le posizioni di principio sono incompatibili, oggi si dice "non negoziabili": l´autodeterminazione della donna contro l´imposizione dello Stato; la procreazione come evento di rilevanza principalmente privata o principalmente pubblica; la concezione del feto come soggetto non ancora formato o come persona umana in formazione; la legge come strumento di mitigazione dei disastri sociali (l´aborto clandestino) o come testimonianza di una visione morale della vita. Alla fine, il vero contrasto è tra una concezione della società incentrata sui suoi componenti, i loro diritti e le loro responsabilità, e un´altra concezione incentrata sull´organismo sociale, i cui componenti sono organi gravati di doveri, anche estremi. Si vede il dissidio, per così dire, allo stato puro nel caso della scelta tra la vita della madre e quella del feto, quando non possibile salvare e l´una e l´altra: la sensibilità non cattolica più diffusa dice: prevalga la vita della donna, persona in atto; la morale cattolica dice: prevalga la vita del nascituro, persona solo in potenza.
Secondo le circostanze. Sul terreno delle circostanze, a differenza di quello dei principi, è possibile lavorare pragmaticamente per ridurre, nei limiti del possibile, le violenze generatrici di aborto. Educazione sessuale, per prevenire le gravidanze che non si potranno poi sostenere; giustizia sociale, per assicurare alle giovani coppie la tranquillità verso un avvenire in cui la nascita d´un figlio non sia un dramma; occupazione e stabilità nel lavoro, per evitare alla donna il ricatto del licenziamento; servizi sociali e sostegni economici a favore della libertà dei genitori indigenti. Dalla mancanza di tutto questo dipende l´aborto "di necessità", che – si dirà - è però una parte soltanto del problema. Ma l´altra parte, l´aborto "per leggerezza", troverà comunque le sue vie di fatto per chi ha i mezzi di procurarselo, indipendentemente dalla legge. In ogni caso, non è accettabile che di necessità e leggerezza si faccia un unico fascio a danno dei più deboli, spinti dalla necessità, e li si metta sotto la cappa inquisitoriale della criminalizzazione e delle intimidazioni morali, come l´equiparazione dell´aborto all´omicidio e della donna all´omicida. La sorte dei concepiti non voluti si consumerà ugualmente, nel confort delle cliniche private o nella solitudine, nell´umiliazione e nel rischio per l´incolumità. L´esito del referendum del 1981 che, a grande maggioranza (il 68 %) ha confermato "la 194", dipese di certo dal ricordo ancora vivo di ciò che era stato l´aborto clandestino. Ci si può augurare che non se ne debba rifare l´esperienza, per ravvivare il ricordo.

Repubblica 28.1.07
La memoria e la Shoah
Il discorso di David Grossman all’Università di Firenze
Grossman racconta la Shoah: la memoria sta nei luoghi e nell'arte
Leib e Ester, gli ebrei salvati da una prostituta polacca


Gli interrogativi che quella tragedia ci pone riguardano anche i nostri rapporti con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione
La storia di Leib ed Ester Rochman non è fra le più terribili. Eppure racchiude una tale sofferenza che da anni non mi dà pace

Lo scrittore israeliano ha ricevuto ieri a Firenze la laurea ad honorem. Pubblichiamo parte del discorso che ha letto durante la cerimonia.

Sei milioni di ebrei morirono in Europa in un eccidio senza precedenti nella storia dell´umanità e dopo il quale l´umanità non fu più la stessa. Ecco alcuni interrogativi che la Giornata della memoria risveglia: esiste oggi un dibattito sulla Shoah in quanto avvenimento dal significato universale e non esclusivamente ebraico? Tale dibattito è significativo, e autentico, oppure, con l´andar degli anni, si è trasformato in una sorta di obbligo formale?
E noi, rappresentanti di questa generazione, di tutti i popoli e le religioni, comprendiamo l´incisività e l´attualità degli interrogativi che la Shoah ci prospetta e la rilevanza che hanno ancora oggi, soprattutto oggi?
Queste domande concernono, peraltro, anche il nostro rapporto con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione del globo; concernono l´indifferenza che il mondo mostra, di volta in volta, verso episodi di massacro in Ruanda, in Congo, in Kosovo, in Cecenia, nel Darfur; concernono la malvagità e la crudeltà del genere umano che nel periodo della Shoah si profilarono come concreta possibilità di comportamento. In che modo trovano espressione nella nostra vita e quale influenza hanno sulla conformazione e sulla condotta del genere umano?
In altre parole: la memoria che serbiamo della Shoah può essere veramente una sorta di segnale d´avvertimento morale? E siamo noi in grado di trasformare i suoi insegnamenti in parte integrante della nostra vita? (...)
Mentre gli altri popoli possono, con relativa facilità, evitare di riflettere sulle conseguenze della Shoah – e dunque sfuggire a un dibattito profondo che le concerne – noi, in Israele, siamo condannati a dibatterle ripetutamente, a cadere talvolta nella trappola dell´angoscia esistenziale che la Shoah ha scavato in noi, a definire gli aspetti significativi della nostra vita nei termini categorici, estremi, che la Shoah ha lasciato impresso in noi. In un certo senso si può dire che il popolo ebraico, e di fatto quasi ogni ebreo, sia un colombo viaggiatore della Shoah, che lo voglia o no.
Ma affinché questa disquisizione non rimanga a un livello puramente teorico, non appaia come una sorta di dissertazione filosofica distante dagli esseri umani, vorrei raccontarvi una storia di quel periodo. Non è una storia particolarmente traumatica. Ne ho sentite di più brutte e terribili. Eppure racchiude una tale sofferenza e un tale dolore che da anni non mi dà pace.
Si tratta della vicenda di un giornalista ebreo polacco di nome Leib Rochman. Negli anni Trenta del secolo scorso Rochman scriveva per un giornale in yiddish pubblicato a Varsavia. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale fece ritorno alla cittadina nella quale era nato, Minsk Mazowiecki, situata a est di Varsavia, dove si attivò come "assistente sociale" tra gli ebrei del ghetto, facendo meraviglie nel procacciare cibo agli affamati. Nel 1942 sposò Ester, anch´ella nativa del luogo, e tre mesi dopo i nazisti sterminarono la comunità ebraica. Dei seimila ebrei della cittadina ne rimasero meno di venti.
Leib ed Ester, insieme con la sorella minore di quest´ultima, riuscirono a mettersi in salvo e a trovare rifugio presso una donna polacca il cui soprannome era "Ciotka", zia in polacco, un´anziana prostituta cordiale e piena di vita. (...) Nel suo salotto Ciotka costruì per Leib ed Ester una parete-nascondiglio, a poca distanza da quella originaria. Leib, sua moglie e sua cognata vissero nell´intercapedine tra le due pareti per quasi due anni. A un certo punto decisero di portarvi anche Haim, il fratellino minore di Ester, tenuto prigioniero in un campo dei dintorni, e consegnarono a Ciotka del denaro affinché si recasse al campo, corrompesse le guardie, liberasse Haim e lo conducesse da loro.
Ciotka si mise in viaggio ma strada facendo bevve un po´, divenne allegra, passò accanto a una fiera, salì su una giostra, si divertì e quando finì di spendere tutto il denaro che aveva con sé tornò a casa senza Haim. Quella notte i tedeschi giustiziarono tutti i prigionieri del campo e anche Haim morì.
Quando Leib ed Ester vennero a sapere che Haim non era più in vita decisero di salvare un altro ebreo che, per quanto non fosse loro amico stretto, possedeva una vasta cultura ebraica e parlava la lingua della Bibbia. Poiché credevano che non fossero quasi rimasti ebrei al mondo, ritennero indispensabile tentare di salvare chi potesse perpetuare lo spirito e la tradizione ebraica. (...)
Rimasero nascosti fino alla fine della guerra, quando poterono uscire. Leib Rochman era molto malato e debole. I cinque abbandonarono il nascondiglio e si misero in viaggio, senza sapere per dove. (...) Ovunque andassero la gente li indicava e diceva stupita, in tono di scherno: ma come, sono rimasti così tanti ebrei?
Una notte trovarono rifugio in un campo di prigionieri vuoto, il cui recinto era stato sfondato, e lì trascorsero la notte. C´erano giacigli e tavolacci e su quelli dormirono. La mattina, al loro risveglio, scoprirono di essere nel campo di concentramento di Meidanek, liberato un paio di giorni prima dai russi, e di aver dormito sui letti dei prigionieri. Alla luce del giorno gironzolarono per il campo e all´improvviso videro la Shoah.
Non sapevano esattamente che cosa fosse avvenuto negli ultimi due anni e ora vedevano davanti a sé mucchi di cadaveri e i cumuli di cenere di chi era stato bruciato. Non riuscivano a crederci: tutto era lì, sotto i loro occhi, eppure non riuscivano a capacitarsi che fosse successo veramente, che una cosa simile fosse stata possibile. A quel punto si imbatterono in un gruppo di ufficiali e di guardie del campo catturati dai russi. I soldati dell´Armata rossa accerchiavano i tedeschi che stavano seduti al centro, prigionieri.
Così, nello stesso giorno, Leib e compagni videro le vittime e i carnefici. I carnefici in carne ed ossa. Non qualcosa di astratto, un qualche simbolo del male. Lì, davanti a loro, erano gli assassini che avevano messo in atto il piano della "soluzione finale".
Di colpo Leib Rochman non fu più in grado di sopportarlo. Corse verso un soldato russo e gli strappò di mano il fucile, con l´intenzione di sparare ai tedeschi. Fermo davanti a loro prese la mira, ma non riuscì a premere il grilletto. Quasi impazzì, urlò, odiò se stesso, ma non poté farlo.
Allora gridò, in yiddish: Aufstein, Fallen! – In piedi! A terra! I tedeschi, sicuri che stesse per ucciderli, fecero ciò che ordinava loro, terrorizzati. Scattarono in piedi e si lasciarono cadere a terra, più volte. Leib capì che non sarebbe riuscito ad ammazzarli. Non sapendo cosa fare buttò via il fucile, si ritirò in disparte e scoppiò a piangere, a tossire e per la prima volta sputò sangue. Allora scoprì di essere malato di tubercolosi.
Leib ed Ester Rochman ebbero molte altre vicissitudini, attraversarono numerose nazioni e alla fine giunsero nella terra di Israele. Si stabilirono a Gerusalemme ed ebbero un figlio e una figlia. Quest´ultima, la poetessa Rivka Miriam Rochman, è una mia cara e buona amica ed è da lei che ho appreso questa storia.
Leib Rochman fu giornalista dell´emittente radio israeliana "Kol Israel" ma per gran parte della sua vita si dedicò alla scrittura. Pubblicò due romanzi e una raccolta di racconti che ritengo esempi meravigliosi di letteratura innovativa, profonda, che discende negli abissi dell´animo umano. Questa è la storia sua e di sua moglie Ester. Ci sono altre milioni di storie come questa. Ogni persona morta, o sopravvissuta, è una vicenda a sé e tutte queste storie, in apparenza, si mantengono su un piano totalmente diverso da quello su cui sono dibattute oggi le grandi "questioni" relative alla Shoah, sempre che siano dibattute. Tali questioni vertono soprattutto sulla negazione della Shoah, sull´incremento del numero dei neo-nazisti in diverse nazioni e sul rafforzamento dell´antisemitismo nel mondo. Negli ultimi anni la discussione circa il diritto dei tedeschi di considerarsi vittime di quella guerra al pari di altri popoli, o addirittura di creare una simmetria – errata e inammissibile a mio parere – tra la loro sofferenza e quella degli ebrei durante la Shoah, si fa sempre più accesa.
Le vicende personali di Leib ed Ester Rochman, così come quelle di altri milioni di persone, si mantengono, come ho detto, su un piano diverso, ma senza di esse un dibattito sulla Shoah non sarebbe completo e sarebbe impossibile creare un legame emotivo tra le generazioni future e ciò che avvenne allora. Dirò di più: senza quelle storie personali il dibattito sulla Shoah potrebbe talvolta apparire un tentativo inconsapevole di difendersi dall´orrore palese. E, spingendoci oltre, si potrebbe ipotizzare che senza di esse il dibattito generico, di principio, si spegnerebbe lentamente.
Proprio le vicende individuali, private, sono il "luogo" più universale, la dimensione entro la quale è possibile creare il senso di identificazione umana e morale con le vittime che permette a chiunque di porsi ardui interrogativi: come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell´epoca, in quella realtà? Come mi sarei comportato se fossi stato una delle vittime, o un connazionale degli aguzzini?
Ho l´impressione che fino a che non risponderemo a queste domande – ognuno per conto proprio – fino a che non ci sottoporremo a questo auto-interrogatorio, non potremo dire a noi stessi di aver affrontato pienamente ciò che avvenne laggiù. E se non lo faremo, dimenticheremo.
Più si assottiglia il numero dei sopravvissuti – e malgrado il lavoro di documentazione portato avanti da "Yad vaShem", il museo israeliano dedicato alla memoria delle vittime della Shoah, e, nell´ultimo decennio, dall´archivio Spielberg – più cresce l´importanza dell´arte quale possibile mezzo per affrontare questi interrogativi. La letteratura, la poesia, il teatro, la musica, il cinema, la pittura e la scultura sono i "luoghi" in cui l´individuo moderno può affrontare la Shoah e sperimentare le sensazioni e la particolare esperienza umana che la ricerca e il dibattito accademici solitamente non sono in grado di far rivivere.
Traduzione di Alessandra Shomroni

Corriere della Sera 28.1.08
Il personaggio La figura dell'intellettuale francese e la sua lezione riproposta da Jean Daniel: un modello di libertà e resistenza
Camus, il coraggio di dire no
Giustizia, onore, felicità: un'etica per il giornalismo contro l'«aria del tempo»
di Claudio Magris


In un capitolo del suo fulmineo Vicino & lontano, che afferra squarci di realtà come un falco, Alberto Cavallari, il più camusiano del giornalisti e degli scrittori italiani, ricorda come Camus affermasse che la coscienza vale più della sopravvivenza. Anch'egli del resto, era capace di «resistere all'aria del tempo», come dice il sottotitolo del libro che Jean Daniel ha dedicato all'autore francese e soprattutto alla sua attività di giornalista,
Avec Camus ( Con Camus). Un piccolo capolavoro, un modello di asciutta prosa classica che si vorrebbe mettersi in tasca e portarsi dietro come un breviario laico di libertà e resistenza.
Fondatore ed editorialista del Nouvel Observateur,
Jean Daniel è un testimone d'eccezione degli ultimi decenni di storia e di vita di quella cultura francese che è stata una coscienza d'Europa. Non a caso è stato molto vicino a Camus, che si è gettato nell'attività di giornalista con la medesima assolutezza che gli ha fatto scrivere Lo straniero o La peste.
La grandezza di Camus consiste nell'aver unito un'inflessibile etica a un'inesauribile capacità di felicità, di vivere a fondo la vita come un ballo popolare o una solare giornata marina, pur nella sua tragicità guardata in faccia, rifiutando ogni morale che reprima la gioia e il desiderio. Camus ha un sacro, religioso rispetto per l'esistenza, il quale gli impedisce ogni trascendenza, metafisica o politica, che pretenda di sacrificarla a fini superiori. Nessun fine giustifica mezzi delittuosi, che anzi pervertono i fini più nobili, come accade alle ribellioni — L'uomo in rivolta — sempre tradite dalle rivoluzioni; nessun amore per le vittime — sempre difese da Camus contro i carnefici — le autorizza (né autorizza i loro difensori) a farsi a loro volta carnefici.
Camus ha vissuto sino in fondo il nichilismo e l'assurdo, combattendoli pur senza alcuna illusione di attingere una verità e trovando un irriducibile senso e valore del vivere; anche se Dio non esistesse, non per questo tutto sarebbe permesso, egli dice contro il suo amatissimo Dostoevskij. Questo umanesimo radicale non è affatto generosamente ingenuo, perché non si illude in nessuna possibile innocenza; l'eroe della Caduta denuncia la malafede della buona coscienza (Daniel).
Nella guerra d'Algeria, dove era nato, Camus si è battuto inequivocabilmente contro la violenza colonialista e per la libertà del popolo algerino, contro le criminose repressioni e la tortura. Ma ha rifiutato il terrorismo, non giustificato dalle repressioni assassine di innocenti civili in quanto anch'esso assassino di innocenti civili, entrando così in contrasto con tanta sinistra di allora, che si è rivelata politicamente meno lucida e realista di lui. Forse Camus, osserva Daniel, grazie alle sue origini povere non si è mai sentito colonizzatore, padrone nella sua Algeria, e perciò ha compreso che l'Algeria, nel suo sacrosanto diritto all'indipendenza politica e alla libertà dallo sfruttamento, era culturalmente e umanamente anche sua, anche francese, altrimenti sarebbe caduta in una febbre identitaria, fondamentalista e violenta. Analogamente, Nadine Gordimer, nella sua lotta contro l'apartheid in Sudafrica, si batteva per la civiltà di una terra che, diceva, era anche sua non meno che dei neri.
La grande disputa — e alternativa — di quegli anni non è stata quella fra Sartre, geniale filosofo ma pure settariamente banale in tante sue comode forzature ideologiche, e Aron, che spesso aveva ragione, ma non la capacità di assumere su di sé la carica umana di quegli errori totalitari, spesso arroganti ma nati da passioni generose. De Gaulle (la cui figura giganteggia sempre più nella storia politica dell'ultimo mezzo secolo), lo chiamava sprezzantemente, «professore al Figaro e giornalista al Collège de France»; Aron ha aperto gli occhi sul comunismo a molti intellettuali che vivevano comodamente in Occidente, ma è stato Camus, vera alternativa a Sartre, a farlo nei confronti di chi viveva nell'Est e aveva ben diversamente vissuto, condiviso e patito la fede comunista.
Rileggere Camus, scrive Daniel, può contribuire a elaborare una nuova etica del giornalismo, che appare sempre più urgente. Un'etica che Camus, uomo di sinistra, riassume in tre parole poco familiari a tanta sinistra: «Giustizia, onore e felicità». Ma soprattutto Daniel dimostra, narrando la vicenda di Combat — giornale nato nella Resistenza e poi diretto da Camus — come sia concretamente realista e possibile «resistere all'aria del tempo», al clima politico-culturale che è o sembra dominante.
Camus ha dimostrato come si possano dedicare solo poche righe a un delitto sensazionale di cui tutti scrivono senza rimetterci. Tante volte, a dire di no, non succede niente, come nella vecchia barzelletta di quella suora giovane e carina che, alla domanda come mai fosse l'unica non violentata da una banda di delinquenti entrati nel convento, risponde: «Non saprei... io ho solo detto di no... ».
Il giornalismo è una fatica di Sisifo per eccellenza; chi, come Jean Daniel, si batte per il riconoscimento delle diversità difendendo soprattutto l'universale oggi così minacciato, forse non sa, come Camus e tutti noi, cos'è la verità, però sa bene cosa sia la menzogna e può ripetere, con Camus: «Non abbiamo mentito».

Corriere della Sera 28.1.08
Lo storico Sebag Montefiore individua i segni precoci della dittatura sanguinaria
Stalin, primi passi di un despota
Seminarista, poeta, carcerato, spia: la sua carriera giovanile
di Ennio Caretto


Il modello
Si ispirò al bandito georgiano Koba, protagonista di un celebre romanzo del tempo

«Il giovane Stalin — ha dichiarato sorridendo lo storico britannico Simon Sebag Montefiore in un'intervista — fu un incrocio tra Osama Bin Laden e Tony Soprano». Ma non fu solo, ha aggiunto, uno spietato terrorista e un feroce padrino, un killer e un rivoluzionario. Fu anche un intellettuale, alla Bin Laden appunto, un cultore di Platone, i cui testi lesse in greco antico, e Napoleone, «del quale si annotò gli errori per non ripeterli». E fu un poeta di valide promesse, i cui lavori apparvero su un'antologia georgiana. Nei suoi trascorsi di delinquente minorile prima, di seminarista poi, infine di violento sindacalista e capopopolo, ha concluso Montefiore, il giovane Stalin, «uno psicopatico colto», dimostrò sempre un carisma straordinario. Non fu affatto il burocrate grigio denunciato da Trotzkij; al contrario, fu un machiavellico leader politico, il cassiere dei bolscevichi sotto lo zar, e il «macchinista» del partito dopo la rivoluzione del 1917.
L'intervista di Montefiore ha incuriosito l'America ossessionata da Bin Laden e infatuata della fittizia «famiglia» mafiosa dei Soprano. E la pubblicazione del libro dello storico, Il giovane Stalin (edito negli Usa da Alfred Knopf e frutto di dieci anni di ricerche), l'ha spinta ora a riesaminare la genesi dello stalinismo. Nell'adolescenza e gioventù di Stalin infatti, a quanto narra Montefiore, si nascondevano i semi della sua sanguinaria dittatura. Lo stalinismo, sostiene lo storico, non fu il prodotto degli eventi che ebbero Stalin protagonista ma della sua personalità, come per altri despoti del XX secolo, da Hitler a Mao.
Josif Djugashvili, alias Stalin, nacque a Gori in Georgia nel 1878 da un calzolaio alcolizzato, Vissarion Djugashvili, e una cameriera ambiziosa e di facili costumi, Ekaterina Geladze. Percosso di continuo dal padre e dalla madre, il ragazzo trovò la propria rivalsa nel pugilato, nella lotta libera e nelle guerre tra bande di adolescenti criminali. Per levarlo dalla strada, sognando che divenisse vescovo, Ekaterina l'iscrisse prima alla Scuola ortodossa di Gori, quindi al Seminario di Tbilisi, persuadendo un amico prete, forse un amante, a presentarlo come il proprio figlio. Il seminario, rileva Montefiore, era una istituzione repressiva, dominata dalle gang, con celle carcerarie, dove i ribelli georgiani venivano trasformati in ossequiosi cittadini russi. Sarebbe degenerato in una fucina di comunisti: gli studenti fingevano di leggere la Bibbia ma divoravano Marx e giuravano vendetta.
Al seminario, «Soso», diminutivo di Josif, imparò le atrocità e le congiure che ne avrebbero contraddistinto il regime. Emerse subito come uno studente modello capace di discutere di religione e scrivere poesie romantiche con una splendida voce da solista del coro. Ma il suo impegno celava un'altra attività, quella di leader della rivolta studentesca. Il giovane Stalin fu un irredentista che s'ispirò al bandito georgiano Koba, di cui assunse il nome, il protagonista di un celebre romanzo del tempo. Per questo motivo e per avere messo incinta una minorenne, la prima di molte, fu espulso dal seminario nel 1899. «Soso» trascorse gli anni successivi a guidare gli ex seminaristi, oltre 60, in una serie di rapine in nome della lotta agli zar, terrorizzando Tbilisi. Suo braccio destro fu il famigerato Simon Ter-Petrossian.
In Siberia, dove ebbe un altro figlio da una tredicenne, «Soso» compì la prima delle sue otto rocambolesche fughe dalle carceri, e ritornò a Tbilisi in tempo per la rivoluzione del 1905, soffocata nel sangue dai cosacchi. Uno dei miti sfatati da Montefiore è che fosse una spia degli zar: stando allo storico, consegnava semplicemente i propri nemici personali o rivali politici alla polizia per sgombrare il campo e consolidare il proprio potere, in cambio di importanti informazioni. A Tbilisi, dove si unì ai bolscevichi e diresse la resistenza dopo il 1905, «Soso» rivelò la sua anima di terrorista e di mafioso. Il colpo più clamoroso lo fece nel 1907 quando quasi trentenne assalì la banca di Stato, provocando un bagno di sangue e asportando l'equivalente di milioni di dollari d'oggi. Quell'anno, egli perdette la moglie Kato: «Aveva intenerito il mio cuore di pietra — disse —. Con lei, è sparita la mia residua umanità».
Montefiore sostiene che il rapporto tra Stalin e Lenin, iniziato proprio nel 1905, fu più stretto di quanto si pensasse. Il giovane Stalin non finanziò solo i bolscevichi con i suoi metodi da gangster, ma mediò anche con i menscevichi, di cui Lenin aveva bisogno perché infiltrati nelle tipografie e fabbriche di armi. I suoi doppi giochi e le sue imprese terroristiche impressionarono Lenin, che lo elogiò e condivise con lui il dogma che rivoluzionario «è chi si colloca fuori della società e della moralità ». A sua volta, «Soso» fu influenzato dal compagno. Lasciò l'irredentismo georgiano per il comunismo, e sostituì Stalin a Koba come nome di battaglia: così firmò nel 1913 Il marxismo e le questioni nazionali, la base della futura Urss. Una evoluzione che si consolidò nel suo ultimo confino in Siberia, fino al 1917. Il giovane Stalin apre uno squarcio anche sulla vita sessuale del despota, alla caccia di «carnose minorenni malleabili e contadine riverenti», e gelido verso i figli, di cui uno legittimo e numerosi illegittimi, quanti esattamente non si sa. A queste debolezze e insensibilità subentrarono più tardi «una sospettosità, rigidità e solitudine» che avrebbero finito per accentuare la sua paranoia.

il Riformista 28.1.08
Università. Hanno perso ancora i movimenti degli studenti
Quer pasticciaccio brutto dell'Università "La Sapienza"
Un acume tattico degno del miglior Napoleone
di Matteo Marchetti, 20 anni, Roma


In una fosca mattinata di inizio anno, l'Italia si è dovuta di colpo fermare a riflettere su se stessa, sull'essenza dello Stato moderno, sul ruolo che un'istituzione religiosa ha all'interno del Paese e su quello che invece dovrebbe avere. Tutto questo per colpa di una busta da lettere e del suo contenuto?
Andiamo con ordine. Prima di affrontare un discorso lungo e probabilmente contorto, infatti, è buona norma ricordare i fatti al lettore. Dunque, in data 17 gennaio orde di perfidi cosacchi capelloni - e, giura qualcuno, anche omosessuali - che abbeveravano i propri cavalli nella fontana di fronte al Rettorato (probabilmente in attesa di arrivare a San Pietro), animati da ottuso integralismo laico, hanno dato vita a gravi tumulti, impedendo al Santo Padre di dare la propria benedizione al nascituro anno accademico.
In loro aiuto sono giunti alcuni squallidi figuri, sedicenti "professori", che hanno scritto una lettera all'illuminato Rettore motivando la loro adesione alla protesta con alcune affermazioni sul processo a Galileo Galilei - ovviamente travisate ed estrapolate dal contesto - pronunciate da Benedetto XVI quando ancora era un 'semplice' porporato, il tutto prima di andare a profanare qualche chiesa sostituendo un volume dell'Enciclopedia Treccani al Messale Romano. Questo, almeno, è quello che ho capito io dalle ricostruzioni di stampa e tv.
Negli scorsi giorni abbiamo assistito a un'impressionante dimostrazione di disciplina: molto meglio di un plotone di guardie svizzere, la politica, la stampa e buona parte dell'opinione pubblica hanno fatto quadrato intorno alla Chiesa cattolica, una delle istituzioni più ingombranti del pianeta, da sempre abituata a deporre o incoronare monarchi, a impartire lezioni di moralità alle assemblee parlamentari, a suggerire scelte agli elettori ("Nella cabina elettorale Dio ti vede, ma Stalin no", si leggeva sui muri in quel fatidico 1948), a dettare - specialmente in Italia - le priorità dell'agenda politica. Anni fa la si era data prematuramente in via di estinzione: stava perdendo radicamento e consensi e con essi potere, o questo almeno suggerivano alcune sconfitte patite dal Vaticano, partendo dal XX settembre fino ad arrivare a quella dei referendum civili negli anni Settanta, passando per la crisi delle vocazioni e la liberalizzazione dei costumi.
La società italiana, si disse allora, si è secolarizzata, affrancando le proprie convinzioni civili dall'egemonia clericale. A smentire quelle analisi ci pensarono successivamente le adunate oceaniche ai piedi di Giovanni Paolo II, la batosta sulla fecondazione assistita e la cocente umiliazione patita nel derby delle manifestazioni lo scorso 12 maggio, con piazza San Giovanni gremita da centinaia di migliaia di persone e piazza Navona mezza vuota.
Tanto martellante è stata la propaganda vaticana sulla 'famiglia' e su come i comunisti l'avrebbero distrutta diffondendo libertinaggio e promiscuità che il governo di centro-sinistra ha dedicato uno dei suoi tanti ministeri proprio all'istituto familiare, mentre qualsiasi velleità di unioni civili o addirittura - orrore! - omosessuali scivolava malinconicamente nel dimenticatoio grazie al fuoco incrociato dei 'cattolici di entrambi gli schieramenti', santi tiratori infiammati a turno da Benedetto XVI, Bagnasco, Mastella e Casini. Nonostante il passare degli anni, l'Italia è insomma rimasto il Paese in cui 'Centro' non è una necessità ma uno stile di vita, dove autorità morali e politiche si rispettano poco ma poi guai a chi osa toccare il Santo Padre, dove con Dante il cristianesimo arriva a penetrare anche nelle origini della nostra stessa lingua.
Proprio in virtù di questo, molti commentatori e - stando a quanto visto in piazza San Pietro la scorsa domenica - circa duecentomila persone rivendicavano per Ratzinger il diritto sacrosanto di tenere il proprio discorso durante l'inaugurazione dell'anno accademico; questo diritto sarebbe stato violato. La vicenda è ancora avvolta in una foschia che ne rende i contorni indefiniti, facendola discendere ora dall'anticlericalismo radicale e un attimo dopo da uno dei soliti pasticci all'italiana, da un banale errore di comunicazione. Poco importa: dal proprio balcone - quello sì garantito sempre e comunque - il Papa deve aver sfoderato uno dei suoi proverbiali, dolci sorrisi, guardando di fronte a sé una folla immensa che ne piangeva le sorti e contando le decine di telecamere accorse ancora più numerose del solito.
A rendere più sublime la giornata, il fatto che lui non avesse dovuto fare altro che stare zitto. Già, perché, se andiamo a vedere, il ruolo di Sua Santità Papa Benedetto Decimosesto nella vicenda è stato nullo. "Laicità significa garantire diritto di parola a chiunque!", "Questo è integralismo!", "Nelle università serie lasciano parlare perfino Ahmadinejad!". Urla, urla, urla. La macchina della propaganda - termine non a caso coniato proprio dalla Chiesa - si è messa in moto da subito, oberando di lavoro le agenzie. Prima, per qualche giorno, si è tenuta l'Italia sulle spine, tentennando senza decidere definitivamente; poi, l'annuncio choc, il gran rifiuto; infine, gli appelli a tutti gli uomini di buona volontà affinché durante l'Angelus del 20 recassero il proprio omaggio al Pontefice imbavagliato, il tutto senza tenere conto di alcune incongruenze - nessuno ha 'impedito' il discorso, né tanto meno un testo letto da un podio/pulpito può essere paragonato ad un dibattito scientifico; ridicolo, poi, considerare oggi Joseph Ratzinger un professore - ma tant'è.
Se si considera poi che il discorso (riveduto e corretto?) è stato comunque letto, la faccenda si è conclusa con un successo senza precedenti dai tempi dell'Editto di Tessalonica; ancora una volta, qualora ce ne fosse stato bisogno, si è dimostrato che ad oggi l'unico attore sociale in grado di esercitare un controllo sulle masse è la Santa Romana Chiesa. Una vittoria totale e senza possibilità di rivincita: quello che giorni fa la Repubblica ha definito il 'cortocircuito della Sapienza' si è rivelato un trionfo assoluto delle gerarchie ecclesiastiche.
Stavolta, però, il carro del trionfo è biposto: l'altro passeggero è un personaggio riservato, rimasto in disparte quanto gli è stato possibile, ma è comunque da inserire tra coloro che hanno tratto enorme vantaggio dalla vicenda. Sto parlando, ovviamente, del Rettore Guarini, che in molti hanno accusato di superficialità; a mio modesto avviso, invece, il nostro Magnifico ha dimostrato un acume tattico degno del miglior Napoleone: mal sopportato da buona parte dell'Ateneo, inquisito e, per giunta, in scadenza di mandato, intravedeva nell'inaugurazione un assist formidabile per avversari e contestatori, con gli studenti di ambo gli schieramenti pronti a chiedere il conto ad una guida mai amata. Con uno stratagemma da disinformatija brezneviana, Guarini è riuscito a sfruttare tutte le parti in causa per uscire, ancora una volta, dalla porta di servizio. Applausi.
Per ogni vincitore, però, c'è uno sconfitto. Hanno perso i movimenti degli studenti, da troppi anni abbandonati all'autorganizzazione e incapaci di intravedere nei manifesti contro Ratzinger un regalo colossale a chi li vede come contestatori professionisti, come dei piccoli ducetti mascherati da trasgressivi ignari delle regole della convivenza democratica, o magari come dei depravati. Gli studenti della Sapienza sono stati tra i primi a sapere della visita, alcune voci circolavano già dalla fine di dicembre; in così tanto tempo non si è stati in grado di individuare una strategia efficace, né di sottoporla agli altri studenti. I papisti e i cardinali non ringrazieranno mai abbastanza per una 'frocessione' che per loro - indipendentemente dal suo significato reale - è solo una pittoresca manifestazione di ignoranza.
Soprattutto, però, sono state sconfitte quelle idee che all'inizio ho citato di sfuggita: laicità, libertà di ricerca, università, istruzione pubblica, Stato. Lo Stato - rappresentato dal ministro Mussi e dal sindaco-tuttofare Veltroni - ha ciecamente solidarizzato, non si sa su cosa. Io, invece, chiudo, per non mescolare certe cose con questo squallido teatrino.

il Riformista 28.1.08
Forum. Scontro tra religione e stato laico? La parola agli studenti
Se la questione non sta né in cielo né in terra

La Fisica non è una clava
Francesco Testi, 20 anni - Roma
Non è successo nulla, perchè in fondo è successo tutto. Insomma, sì, l'evento-clou non c'è stato: il Papa non è venuto alla Sapienza giovedì 17. Eppure è successo di tutto, quel giorno hanno vinto certi studenti e ha trionfato la dittatura: ché proibire a qualcuno di parlare senza nemmeno sapere cosa dirà, brandendo la Fisica come fosse una clava, è dittatura.
Poco importa se chi s'è opposto pubblicamente è una minoranza: 67 prof su 4500 sono un'inezia, 15 ragazzi su decine di migliaia sono una bazzecola (dico 15 perché tanti erano quelli che hanno occupato il Senato Accademico del Rettorato martedì 15, stavo là alle 12.07 e li ho visti: di certo non il centinaio di cui ha ciarlato poi Lucia Annunziata con eccitazione).
La brutta figura l'abbiamo fatta tutti alla Sapienza. E non c'era bisogno di scomodare Galileo, tanto una scusa per non far venire Benedetto XVI si sarebbe trovata comunque; non c'era bisogno di contestare l'opportunità dell'invito all'inaugurazione dell'anno accademico, perché qualsiasi data sarebbe stata sbagliata; non c'era bisogno di parlare di "passaggio politico del Papa", come ha detto il furioso prof. Bernardini di Fisica. Se solo l'avessero fatto parlare, Ratzinger avrebbe detto che "La Sapienza è un'università laica con quell'autonomia legata all'autorità della verità", libera "da autorità politiche ed ecclesiastiche". Molto liberale questo Papa oscurantista, nevvero?
Non c'entra neppure la laicità, che parte dal reciproco rispetto: quale rispetto altrui può esserci se già noi stessi violiamo le nostre leggi? Blaterando di laicità infatti gli studenti (e chi li sostiene) ignorano l'articolo 21 della Costituzione: "Tutti hanno diritto di manifestare pubblicamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". Tutti, perfino i cattolici dunque.
E meno male che gli studenti di Comunione e Liberazione capeggiati da Matteo Fanelli hanno pubblicamente manifestato dissenso in aula magna, il giorno dell'inaugurazione: almeno loro ci ricordano che il vero compito dell'Università è promuovere il dialogo, il confronto, lo scambio di idee ed il relativo diritto a manifestarle. Pazienza per gli studenti sprovveduti rimasti fuori dalla città universitaria quella mattina: potevano avere addosso il tesserino di riconoscimento, come consigliava caldamente il Rettore Guarini già quando ce lo inviò un anno e mezzo fa.
In 703 di storia della Sapienza certamente tutto ciò non è la prima stupidaggine che avviene, e di certo non sarà l'ultima. Epperò ce ne vorrà di tempo, per scordarla.

Chi ha chiuso la bocca al papa?
Lorenzo Brunetti, 17 anni, Roma
Le reazioni della classe politica italiana di fronte alla questione del papa alla Sapienza sono state quelle di sempre: indignazione, grida di vergogna ed espressioni di solidarietà. Nulla di più inutile! Sarebbe invece proficuo aprire una discussione sul ruolo della Chiesa nei dibattiti dello Stato. Se da una parte è vero che confrontarsi con chi propone verità dogmatiche può essere difficile, è anche vero che non possiamo ignorare il problema del rapporto con la nostra identità culturale. Purtroppo, però, le posizioni da controriforma di questo papa sembrano inutilmente provocatorie ed il fatto che il pontefice abbia rinunciato al suo intervento all'università la dice lunga sulla scarsa propensione della Chiesa al confronto dialettico: nessuno ha chiuso la bocca al papa!

Chi sono gli oscurantisti?
Francesca Giuliani, 19 anni, Roma
Una battaglia in nome della libertà di pensiero che si conclude con la repressione del pensiero altrui è una battaglia persa, c'è poco da fare. Inutile appigliarsi alla scusa che sia stato "l'avversario" ad abbandonare il campo, inutile dire che avrebbe potuto non sottrarsi al confronto. Che poi, per rivivere i fasti sessantottini, si poteva almeno aspettare il primo marzo, per rimettere in scena a 40 anni esatti dalla battaglia di Valle Giulia il vecchio copione degli studenti che protestano contro il potere costituito. C'è però che almeno 40 anni fa il motivo era condivisibile, aveva una pregnanza di contenuto, non era una rivendicazione fine a se stessa.
Perché sì, amici miei, questa lo è stata. Gli studenti, da che mondo è mondo, sono una categoria incline alla contestazione. E meno male. Il punto è che i ragazzi de La Sapienza, probabilmente, hanno problemi più seri per i quali far sentire la propria voce (certamente problemi meno ideologicamente patinati): sovraffollamento, infrastrutture scadenti, l'assenteismo dei professori, lo sbriciolamento delle discipline in moduli e seminari, la moltiplicazione selvaggia degli ordinamenti.
Senza entrare nel merito della querelle circa la posizione di Ratzinger sull'abiura galileiana (peraltro, argomento lievemente datato al quale appigliarsi, anzi direi capricciosamente anacronistico), la protesta dei 67 accademici crolla sulle sue fondamenta perché autocontraddittoria: che La Sapienza, dopo i fatti del 16 gennaio, sia ancora un "Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia" è falso. Sì, anche dal punto di vista formale, perché Joseph Ratzinger che oggi è solo la più alta autorità morale per i cattolici - come se questo non fosse sufficiente a giustificare la sua presenza all'evento - è stato docente universitario ed è un fine intellettuale.
Penso, in definitiva, che sia stato scelto il nemico sbagliato da combattere. Sia perché si è soppressa la libertà di quegli studenti che avrebbero avuto piacere di assistere all'incontro, sia perché, estremizzando, se una personalità discussa come il presidente iraniano Ahmadinejad ha avuto la possibilità di parlare della sua controversa azione politica alla (veramente liberale) Columbia University, trovo assurdo che si sia impedito al papa di tenere il suo discorso.
La vera apertura e la vera laicità si hanno in un contesto in cui ognuno possa portare la propria visione del mondo, fermo restando il diritto di ciascun interlocutore di replicare pacificamente e di mantenere le proprie opinioni così com'erano prima di dibattere. Questo si chiama dialogo. Libero pensiero significa dar voce al pensiero di tutti, rispettando tutti. Oscurantismo significa impedire a qualcuno di esprimersi, calpestandone il diritto di parola, nella presunzione di detenere la Verità Assoluta. Perciò, guardando ai fatti, ribadisco con rammarico: una battaglia in nome della libertà di pensiero che si conclude con la repressione del pensiero altrui è una battaglia persa.

Poveri cattolici
Luca Sappino, 20 anni, Roma
L'altro giorno ho sentito Carlo Rossella dire "Noi siamo una minoranza, una minoranza perseguitata, isolata, menata, insultata, che ha visto impedito al Papa, proprio capo, proprio leader, proprio ispiratore, di parlare all'Università di Roma, che si chiama ancora La Sapienza ma che qualche magistrato di buona volontà dovrebbe costringere a cambiare nome: propongo L'ignoranza". Ho visto poi studenti ciellini protestare in aula magna con un bavaglio sul viso. Ho visto Ferrara sgolarsi nel tessere le lodi dell'esimio Professor Ratzinger; il laico Franceschini col naso all'insù a piazza San Pietro, al Papa Day, esprimere solidarietà al pontefice oppresso. Ho visto Camillo Ruini dare lezioni di laicità al popolo italiano, dire che l'Italia si è dimostrata intollerante.
"Poveri cattolici" viene da pensare, "poveri cattolici italiani" è il messaggio che la stampa e il mondo politico stanno facendo passare, Ratzinger dipinto come vittima dell'oscurantismo laicista. L'Italia paese di comunisti mangia preti e bambini, paese dove i cattolici, non solo non vengono ascoltati, ma addirittura vengono indotti al silenzio con metodi bruti, barbariche manifestazioni di dissenso.
Non ci posso credere, sono sbalordito, ma siamo tutti impazziti? I cattolici sono maltrattati in questo Paese? I laici italiani sono oscurantisti? Deve essere per quello che in Italia non si può fare ricerca sugli embrioni, considerati vita. Deve essere questo il motivo per cui nelle aule di tribunale e nelle classi delle scuole i crocifissi sono affiancati dal ritratto del Presidente. Deve essere questo il motivo per il in tv si parla più di vicende vaticane che - ne dico una - di Iraq, più di dio e prelati che di guerra e bombe.
Forse sono io, cittadino laico, a sbagliarmi. Forse sono io a credere erroneamente che la situazione italiana sia proprio opposta a quella dipinta, che il Papa alla Sapienza per l'inaugurazione dell'anno accademico - non per un normale incontro, una normale lezione su cui nessuno avrebbe avuto obiezioni da fare - sia l'ennesimo e definitivo sintomo del ferale malanno che affligge il nostro bel Paese. Il Rettore, che indubbiamente ricercava pubblicità, ha sbagliato a invitare il Papa per questa specifica occasione e gli anticlericali, seppur probabilmente con formule improprie e scarsa conoscenza della tattica politica, hanno fatto bene a farlo notare. Ratzinger, che oltre a radunare le pecorelle smarrite fa politica, ha ovviamente colto l'occasione al volo e chiamato alle armi le sue ferventi milizie cattoliche. Il risultato? Personalmente sono annoiato: è sempre la stessa storia, "Poveri cattolici".

Bella mossa!
Giulio Serra, 22 anni, Venezia
Renato Guarini - Rettore dell'Università La Sapienza di Roma - non si dà per vinto e promette: "Inoltrerò un nuovo invito al Santo Padre, per un'altra occasione". Ormai l'inaugurazione dell'anno accademico è alle spalle, la bufera è quasi del tutto scemata e presto anche i cronisti più riottosi molleranno la presa lasciando in pace il Papa, i 67 firmatari della lettera anti-Ratzinger e i giovani studenti cattolici e non.
Ma la "miseria" che questo caso ha lasciato in bocca a tutti, specie ai giovani, non è facile da digerire. Si sono viste scene da medioevo, con i clericali pronti a sfondare le porte della scienza pur di non rinunciare alla semina della Parola del Signore e con professori universitari barricati dietro ideologie scientifiche retrograde e per nulla illuminanti. In mezzo a questo marasma clerico-scientifico c'erano gli studenti: le vere vittime della vicenda. Giovani ventenni o poco più che non chiedevano altro se non un'inaugurazione dell'anno accademico normale, composta, senza troppi clamori né polemiche inutili. Hanno pagato per tutti: i Papa-boys all'interno dell'aula magna con i fazzoletti bianchi in bocca in segno di protesta per la mancanza d'espressione rivendicata dalla Chiesa e gli altri fuori dalla porta obbligati a restarsene lontano dalla loro Università e tenuti fermi da cordoni di poliziotti con attrezzature antisommossa.
Sicuramente, sebbene non fino in fondo, il piano architettato dal Magnifico è riuscito, con una pubblicità all'Università capitolina che ha fatto il giro del mondo. Ora rimane una semplice domanda da porre al Vaticano, ai docenti ribelli e in particolar modo al Rettore: in tutto il trascorrere della vicenda vi siete mai chiesti, anche per un solo istante, in che modo i giovani, i veri protagonisti dell'Università, possono essere ottimisti verso un futuro che si prospetta più retrivo di quello dei tempi di Galileo e della censura preventiva?

Un'occasione mancata
Maria Elena Bislacchi, 21 anni, Genova
Trovo molto presbite la reazione che i miei colleghi della Sapienza hanno avuto di fronte alla possibilità di assistere alla lectio magistralis di Benedetto XVI. Joseph Ratzinger avrebbe presenziato all'inaugurazione dell'anno accademico interrogandosi per primo sul ruolo da rivestire in tale occasione: Vescovo di Roma o professore di teologia? Il discorso mancato è incentrato sull'idea che - parole sue - "nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d'interesse". Proprio questo è stato contestato.
Sembra incredibile, ma foriero del dialogo e del confronto è in questo caso chi solitamente rappresenta l'emblema del conservatorismo e del dogmatismo. Da queste parole disgraziatamente non pronunciate potevano emergere proficue indagini sui concetti stessi di ragione, fede, tradizione, umiltà. Non a caso il Papa teologo cita Socrate, Jurgen Habermas, John Rawls. Il suo punto di vista è quello sì di un pastore che vuole "salvare le pecore smarrite", ma di un pastore che non intende riportarle alla retta via imponendo loro un rigido cammino programmato in precedenza, arginato da dogmi irremovibili.
Questo pastore cerca di indurre le sue pecore alla ricerca di una verità che esse devono trovare da sé, con mezzi propri. In quanto Papa, egli non può che augurarsi che la gente si fidi dell'aiuto della Chiesa, e si lasci guidare nella ricerca della verità da chi è convinto di averla trovata in Cristo. Ma in quanto teologo, egli ha a cuore innanzitutto il risveglio delle coscienze, il continuo monito a ricercare la verità, e a ricercarla seriamente, facendo di essa lo scopo della propria esistenza. L'Università è il luogo più specificatamente deputato alla conoscenza e Joseph Ratzinger avrebbe ritenuto opportuno pronunciarsi, all'interno di essa, in favore della ricerca della verità, della libera ricerca della verità.
Da ogni dialogo si può imparare. Per questo ritengo assurdo avere contestato l'invito porto al pontefice: chi pensava di non aver nulla da imparare dall'incontro poteva semplicemente astenersi dal presenziare senza negare però a chi fosse interessato ad ascoltare le parole di Joseph Ratzinger, la possibilità di assistere ad una lectio magistralis che avrebbe potuto stimolare importanti considerazioni.

Guelfi e ghibellini?
Roberto Bertoni, 17 anni, Monterotondo (Rm)
Che il papa teologo non stia molto simpatico al mondo della scienza, considerando le sue battaglie contro l'aborto e la procreazione assistita (tanto per fare due esempi), non sorprende. Che forse il rettore dell'università La Sapienza avrebbe fatto meglio a non invitarlo è altrettanto accettabile. Quello che non sta né in cielo né in terra sono le contestazioni che sono seguite all'invito da parte di un gruppo di docenti e di alcuni collettivi studenteschi, non tanto per l'opposizione alla visita in sé (sacrosanta in una nazione democratica) quanto per i toni che hanno utilizzato e i contorni che ha assunto la vicenda. Gli striscioni esposti sui muri di certe facoltà, ad esempio, sono sembrati alla maggior parte dell'opinione pubblica inopportuni e ingiustificati per il fatto che non si focalizzavano contro l'ingresso di un uomo di chiesa in un ambiente scientifico, quanto contro la figura di Bendetto XVI, accusato di voler invadere un caposaldo della laicità e mettere ulteriormente a repentaglio la libertà della scienza e della ricerca in Italia.
Non c'è dubbio che le posizioni assunte dal Vaticano sui temi etici, negli ultimi anni, siano retrograde e poco dialoganti ma la colpa non è del papa o dei vescovi, che esprimono le proprie opinioni e si attengono scrupolosamente ai dettami della fede, bensì di una classe politica nella quale molti si scoprono fervidi credenti in campagna elettorale o quando hanno bisogno di accattivarsi le simpatie della Cei e degli ambienti ecclesiastici per guadagnare popolarità e prevalere sugli avversari. Inoltre, il trattamento riservato al Pontefice, oltre che eccessivo, è controproducente perché gli garantisce una visibilità e una solidarietà che non ha mai avuto da quando si è seduto sul soglio di Pietro, divenendo il baluardo di chi, strumentalmente, vuole far credere all'opinione pubblica che Stalin e l'Armata Rossa sono alle porte e l'unico modo per liberarsi del pericolo è dare il benservito a Prodi e alla sua maggioranza "sovietica" e affidare nuovamente lo Stato ai pii divorziati Berlusconi, Fini, Casini e Bossi.
I promotori della protesta, al contrario, sono passati per incivili, antidemocratici, nemici della libertà d'opinione, estremisti e via criticando fino all'inevitabile accusa di sostenitori o, peggio ancora, esponenti della vituperata "sinistra radicale". Lo sconfitto in questa vicenda non è il Paese ma il buon senso. Il che, con buona pace di "guelfi" e "ghibellini", è assai più grave.