venerdì 13 giugno 2008

l’Unità 13.5.08
Bertinotti torna. E trova la mano tesa dei dalemiani
Latorre: guardiamo con attenzione all’esito del vostro congresso. Per noi non sarà ininfluente
di Simone Collini


PRIMA DI ANDAR VIA, Nicola Latorre si avvicina al tavolo della presidenza per salutare con una stretta di mano Fausto Bertinotti. «Ci sentiamo?», gli chiede l’ex presidente della Camera dopo i classici baci sulle guance. «Certo», gli assicura il vicecapogruppo
del Partito democratico al Senato. Il giorno della rentrée politica di Bertinotti viene anche esplicitamente alla luce l’asse che è andato costruendosi nelle ultime settimane, almeno da quando Massimo D’Alema ha definito un errore l’autosufficienza e sottolineato che la sinistra radicale è scomparsa dal Parlamento ma non dal Paese.
Bertinotti apre i lavori di una lunga giornata di studio promossa dalla rivista «Alternative per il socialismo» al centro congressi Frentani con un allarme sul «regime leggero» che si sta consolidando in Italia, su un Parlamento che «si presenta ora come luogo non già della rappresentanza ma della governabilità», su una Repubblica che questa «nuova destra» vorrebbe «a-fascista e quindi a-antifascista, senza radici e senza storia». Dice che c’è stata «una sottovalutazione difficilmente spiegabile» del discorso di Fini ad avvio legislatura, «un discorso che mi è sembrato del presidente della Camera di un’altra Repubblica, in cui cade il fondamento della prima Repubblica, che è anche la radice della nostra Costituzione, e cioè la discriminante antifascista». Non manca un’autocritica sull’ingresso nel governo Prodi («quel programma di 280 pagine è stato il vizio d’origine, è stata un’illusione pensare che potesse costituire un manuale per trovare soluzioni a pagina tot») e anche sull’operazione della Sinistra arcobaleno: «Ha pesato l’improvvisazione e l’assemblaggio di forze che non si sono messe in gioco». Bertinotti è però convinto che si debba insistere sulla strada della costituente di sinistra. Ma invece di partecipare ai congressi di circolo del Prc per sostenere la mozione Vendola (che pure ha firmato) farà la sua parte dando vita a una fondazione che si dedicherà ad attività di analisi sociale ma anche di formazione politica. E che lavorerà in sinergia con Italianieuropei. Non a caso.
L’area di Rifondazione che fa capo alla mozione Vendola giudica un errore applicare una teoria dei due tempi come quella prospettata dai sostenitori della mozione Ferrero-Grassi (convinti che per i prossimi due, tre anni sia necessario concentrarsi sul reinsediamento sociale, trascurando invece il lavoro politico). Anche perché il timore di Franco Giordano e degli altri dell’ex maggioranza Prc è che da qui a un paio d’anni la capacità di rappresentanza della sinistra subisca ulteriori colpi, a cominciare dalla modifica della legge elettorale per le europee. La sponda politica per evitare questo rischio è stata offerta dalla parte del Pd che più nettamente si è espressa contro il bipartitismo. Colloqui nei giorni scorsi ci sono stati tra D’Alema e Bertinotti, tra Bersani e Giordano, tra Vendola e Latorre.
È lo stesso vicecapogruppo del Pd al Senato a far venire alla luce l’asse, accettando l’invito a partecipare ai lavori (arriva anche Goffredo Bettini, ma dopo non molto va via) e pronunciando un intervento chiaro: «La separazione consensuale era un’esigenza tattica necessaria, ma sarebbe un errore considerarla una scelta strategica». Cioè, «la semplificazione emersa dal voto non può essere interpretata come un incoraggiamento al bipartitismo», anche perché se la stagione dell’Unione si è «esaurita», l’autosufficienza non può essere la soluzione: «Si tratta di ripartire per misurare i margini per un rilancio di una strategia delle alleanze». Anche Bersani, dopo aver terminato un incontro per il governo ombra del Pd, manda un chiaro segnale venendo a salutare Bertinotti e gli altri. E se Latorre dice «guardiamo con attenzione» all’esito del congresso del Prc perché questo «non sarà ininfluente rispetto alla prospettiva politica del paese», a sua volta il candidato segretario Vendola fa sapere che «la riflessione che si è aperta all’interno del Pd non ci lascia indifferenti».

Corriere della Sera 13.6.08
E Latorre «benedice» Vendola: è il mio capo corrente. Guardiamo con attenzione al congresso del Prc
Bertinotti va all'attacco di Fini: c'è un clima da regime leggero
di Andrea Garibaldi


In questo modo si costruisce una Repubblica senza storia, con una memoria condivisa perché non c'è più memoria

ROMA — La sinistra colpita e affondata esattamente due mesi fa, si muove, non sa bene verso dove. Rifondazione comunista riflette su «Le ragioni di una sconfitta», nel sottosuolo del centro congressi Cgil, via dei Frentani. Convitato di pietra, il Partito democratico, anch'esso in subbuglio. In sala, per conto di Veltroni, c'è Goffredo Bettini, che sonnecchia mentre Bertinotti seziona gli ultimi due anni mesti. Per conto di D'Alema, presenti Latorre e Bersani, incaricati di recuperare un rapporto con chi è scomparso dal Parlamento. Bersani tace. Latorre prima va da Nichi Vendola, con una battuta: «Saluto il mio capo corrente...». Poi, parla: «La separazione fra Pd e sinistra è stata un'esigenza tattica inevitabile, sarebbe un errore considerarla scelta strategica. Misuriamo adesso i margini per il rilancio delle alleanze». E conclude: «Guardiamo con attenzione al congresso di Rifondazione ». Dove il candidato segretario preferito dal Pd è Vendola e non è l'ex ministro Ferrero. Lo stesso Vendola, poco prima, aveva fatto intendere che con l'attuale gestione del Pd poco c'è da spartire: «Per me Veltroni e Berlusconi pari sono. Oggi il Pd propone solo l'organizzazione intelligente del consumo».
Era stato Bertinotti a mettere ordine negli eventi. Discorso di ottanta minuti, da teorico, non più politico attivo. Innanzitutto, la nuova destra al governo: «Ha una presa, su questa modernizzazione senza modernità, superiore a quella degli avversari. Destra pragmatica, de-ideologizzata, non più fascista». Ciò che si configura è «un regime leggero, caratterizzato dalla "a" privativa: a-fascista perché a-antifascista». Si costruisce «una Repubblica senza storia, con una memoria condivisa perché non c'è più memoria ». Simbolo e avvio di tutto questo, il discorso di Fini, neo presidente della Camera, in apertura di legislatura. Poi, ci sono le ragioni della sconfitta: «La partecipazione della sinistra al governo Prodi è ciò che ha fatto traboccare il vaso». Qui si è consumata «la scissione silenziosa della sinistra dal suo popolo». Due fattori micidiali: il governo «non ha realizzato la riforma sociale» ed è stato investito «dall'antipolitica e dalla reazione dei poteri forti». Ecco l'elenco degli errori: le oltre duecento pagine del programma, «che erano solo un manuale, senza la definizione dell'Italia che volevamo consegnare a legislatura conclusa »; la prima, pesantissima, Finanziaria; le questioni sociali, pensioni, precarietà, perdita del potere di acquisto dei salari, male affrontate. Alla fine, la costituzione della Sinistra- Arcobaleno in modo improvvisato, «assemblamento di forze diverse che non si sono messe in gioco»; la composizione delle liste. In platea, protagonisti della sinistra come Occhetto, Fava, Salvi, Curzi, Cento, D'Elia e anche amici personali: il mondano Mario D'Urso, l'attrice Franca Valeri, lo psichiatra Fagioli. Bertinotti pone a tutti domande su cui cercare risposta: «Perché ci sono lavoratori che criticano gli accordi sindacali da sinistra, che prendono la tessera Fiom e poi votano Lega? Perché un operaio su tre a Melfi consuma cocaina?». La parola più usata da Bertinotti è «devastazione», per descrivere un mondo che demolisce antichi riferimenti. Su come affrontare il futuro, niente.
Cosa accadrà? Rifondazione va a un duro congresso, fine luglio. Vendola versus Ferrero, nessuno ha la maggioranza in tasca. Alla resa dei conti, prima, anche Comunisti italiani, Sinistra democratica, Verdi: 4 congressi, dodici linee diverse. Isole in movimento, difficile prevedere cosa costruiranno.

Repubblica 13.6.08
In sala gli "osservatori" del Pd Bersani e Bettini. E Latorre: andare da soli fu tattica, non strategia
Bertinotti e il ko della sinistra "Con Prodi è traboccato il vaso"
Ferrero: per risorgere dovremo imitare le strategie della Chiesa e dell’Esercito
di Umberto Rosso


ROMA - In prima fila anche gli amici personali, quelli non del giro stretto della sinistra. L´attrice Franca Valeri, serissima. Il bon vivant Mario D´Urso, ex sottosegretario, affabile come al solito. Lo psicanalista Massimo Fagioli e una piccola corte di "fagiolini", metti Ilaria Bonaccorsi che poi va a raccontarsi alla tribuna (ricercatrice precaria ma anche moglie di Ivan Gardini). Ma il ritorno sulla scena di Fausto Bertinotti, esauriti sorrisi e incoraggiamenti privati, fa presto a diventare evento politico. Autocritica sulla partecipazione al governo Prodi, «un fallimento», e proprio questa esperienza «è ciò che ha fatto traboccare il vaso della crisi della sinistra». Il partito di lotta e di governo - dice Bertinotti nell´intervento che ieri era stato anticipato da Repubblica - non ha retto alla prova, e forse in tutta Europa oggi non c´è più spazio per una sinistra di governo.
Ai Frentani, il centro della Cgil dove l´ex presidente della Camera snocciola le ragioni della sconfitta elettorale, D´Alema non si vede ma ecco che si presenta l´alter ego Pierluigi Bersani, "sponda" dei bertinottiani al loft. All´insegna dello slogan che l´ex ministro ripete, «l´autosufficienza del Pd non basta». E arriva, Bersani, a fornire autorevole imprimatur alla mano tesa pubblicamente offerta da Nicola Latorre. La spaccatura elettorale fra Pd e Prc, spiega il vicecapogruppo del Senato, è stata «una scelta consensuale tattica e non strategica». Però datevi una mossa se no, avverte "l´inviato" dalemiano non appena si ritrova a tu per tu con Vendola, finisce che la sinistra «la rapppresentiamo noi». Con attacco a Veltroni: «Il bipartitismo non funziona nel nostro paese». Goffredo Bettini, osservatore del segretario del Pd, invece frena sul rilancio dei dalemiani. «Rispetto al tema delle alleanze - dice il coordinatore dei democratici, che lascia anzitempo il seminario per lo scambio delle consegne alla Festa del cinema con Gianluigi Rondi - io sono per darsi tempo, per valutare bene». Così pure se Bertinotti, nel suo quaderno dei dolori della sinistra che apre per la prima volta, vola alto e volutamente non mette i piedi nel piatto, nodo delle alleanze e "che fare" del Prc attraversano inevitabilmente la giornata. Sul fronte della battaglia congressuale, parte un messaggio. Secco. Adombrato nella relazione dell´ex presidente della Camera, ripreso dall´ex segretario Giordano: abbiamo rinnovato il modello culturale del nostro partito ora tocca all´organizzazione interna. In sostanza: «Le correnti vanno sciolte, e se vinciamo noi lo faremo». Siluro che viaggia verso il controconvegno promosso al Pigneto da Paolo Ferrero, capo del cartello anti-bertinottiano, che però nella guerra dei numeri è certo di avere dalla sua la maggioranza nel partito. Le aperture dei dalemiani? «Latorre sottovaluta la sconfitta», commenta l´ex ministro della Solidarietà, che come esempi di reazione alle sconfitte sociali cita la Chiesa e l´Esercito. Il leader del Pdci Diliberto invece celebra a Livorno, con l´area dell´Ernesto del Prc, la propria parte di autocoscienza. Si riapre dunque la questione del Pd, che il seminario naturalmente sogna "develtronizzato", «l´infernale macchina del voto utile» come la chiama Achille Occhetto (parafrasando la sua «gioiosa macchina di guerra»), parlando ai tanti compagni "ritrovati" che lo ascoltano (Reichlin, Tortorella, Parlato, Borgna, Tronti). Nichi Vendola ci spera: «Nel Pd si sono aperte le contraddizioni. Non le sottovalutiamo. Anzi, è un bene».

il Riformista 13.6.08
Bertinotti torna e analizza la sconfitta
I dalemiani e Fausto: che errore separarci, riproviamoci
di Alessandro De Angelis


La sconfitta fa ancora male, anzi malissimo. E ci vuole più di un'ora di discorso prima che Fausto Bertinotti pronunci in modo tondo la parola «noi». Prima vola alto, altissimo l'ex leader di Rifondazione al suo rientro in pubblico in occasione del seminario su «Le ragioni della sconfitta» promosso dalla sua rivista Alternative per il socialismo . Ha il tono distaccato dello studioso. Parla dell'Arcobaleno come altro da sé. La sinistra è fuori dal Parlamento ma lui sembra scegliere di non indicare la rotta. O meglio, la indica tra le righe dell'analisi: «Non si può proseguire a luci spente. Dalla condivisione dell'analisi dipenderà la capacità di costruire un futuro». Sa che non è più il leader. Per lui, oltre alla rivista, ci sarà la presidenza di una Fondazione. Il fedelissimo Alfonso Gianni sta già preparando le carte: sarà un pensatoio di carattere economico-sociale, molto incentrato sui temi del lavoro. Un ruolo di primo piano lo avrà il giuslavorista Piergiovanni Alleva, autore della piattaforma sul welfare su cui la Cosa rossa si sarebbe dovuta presentare alla verifica di governo di gennaio. Ma per l'atto di nascita bisogna aspettare l'autunno, quando si capirà quale sarà il destino di Rifondazione.
Per ora c'è un congresso in corso delicato, anzi delicatissimo. E Bertinotti è attento a non turbare gli equilibri interni. Parla di un regime soft: «Tra governo e governo ombra c'è un unico discorso in cui cambiano le nuances, ma manca una narrazione alternativa, una opposizione». È l'unico affondo al Pd: «Non possiamo fare l'autocritica degli altri» dice. Non nomina mai il «voto utile» o Veltroni. Il messaggio è: abbiamo fallito tutti, da qui si riparte. Nel suo intervento, il più atteso, il plenipotenziario di D'Alema, Nicola Latorre, raccoglie l'assist tendendo la mano alla sinistra extraparlamentare: «Come diceva Ingrao - afferma Latorre - la democrazia ha bisogno di tenere assieme la rappresentanza e la decisione. La strategia dell'Unione si è esaurita. Ma se la separazione consensuale tra noi è stata, forse, un'esigenza tattica sarebbe un errore considerarla una scelta strategica. Ora si tratta di aprire una discussione nel paese per rilanciare le alleanze». Ma i dalemiani non hanno rinunciato nemmeno al modello tedesco, graditissimo dalle parti di Rifondazione: «Non è vero - prosegue Latorre - che gli elettori hanno fatto ciò che la politica non è stata in grado di fare. L'assetto istituzionale è un problema aperto e la semplificazione non significa bipartitismo». Bettini ha già lasciato la sala in silenzio. Bertinotti e Latorre si abbracciano mostrandosi a telecamere e fotografi: l'asse con D'Alema, dopo mesi di contatti, esce dalla clandestinità. Arriva anche Bersani, «per un saluto». Obiettivo: un centrosinistra di nuovo conio.
Ieri Fausto ha anche dovuto riconquistare una sala ancora tramortita. In attonito silenzio ci sono tutti: da Fava a Cento, da Occhetto a Salvi, oltre a Migliore, Gianni, Giordano. La sconfitta brucia, ma Bertinotti, dopo un'ora, ci mette la faccia. E l'analisi post elettorale diventa autocritica, su tutto, dal governo all'Arcobaleno. Sul governo: «Si è aperto un fossato tra la sinistra e il suo popolo. La non risposta del governo Prodi ai problemi sociali ha provocato la caduta rovinosa della sinistra». Sull'Arcobaleno: «Abbiamo fatto un'operazione di necessità, ma ha pesato l'improvvisazione, l'assemblaggio di cose diverse. Siamo stati deboli e deficitari, pensando che nel paese una cultura critica nascesse spontaneamente». Poi, neanche tanto tra le righe, indica la rotta, rispolverando un vecchio classico. La sinistra, per Fausto, deve essere di «lotta e di governo». Parla di conflitto, di eredità del movimento operaio, del Pci del '68 da mettere a frutto. E di un sindacato da incalzare da sinistra: «Se uno prende la tessera della Fiom e vota Lega è un problema senza la soluzione del quale non esiste la sinistra».
Oltre non si può andare. Tocca a Vendola e Giordano lanciare messaggi più espliciti. Il primo al Pd: «Nel Pd - ha detto Vendola - si è aperta una riflessione sul rapporto con le forze della sinistra radicale che non ci deve lasciare indifferenti». Giordano al partito: «Abbiamo avuto in questi anni una grande innovazione culturale, ora bisogna farla sul terreno organizzativo». Tradotto: se vince Vendola, si rompono i ponti col passato. Alla fine, nonostante il taglio scelto - quello di un seminario intellettuale - il messaggio arriva: comunque vada il congresso i bertinottiani non hanno alcuna intenzione di rinchiudersi in una logica identitaria. E se l'Arcobaleno non ha funzionato, dicono, l'obiettivo di una nuova sinistra va comunque perseguito. In attesa della conta al congresso, Bertinotti vola alto, d'accordo con D'Alema.

l’Unità 13.5.08
Rodotà: non si usi la privacy per bloccare le indagini
Mi sorprende l’accelerazione legislativa. Ma sulle tangenti c’è allarme sociale, niente franchigia ai corruttori
di Federica Fantozzi


PROFESSOR RODOTÀ, c’è da risolvere un problema di privacy o di tipologie di reato?
«Esiste un serio problema di tutela della privacy. In più di un caso sono stati pubblicati brani di intercettazioni irrilevanti per le indagini e lesivi della sfera privata della
persona. Ho sempre pensato che il sistema ha bisogno di un serio intervento riformatore. Però l’argomento non va usato per deprimere la linea investigativa. Penso al terribile caso della clinica di Milano: lì le intercettazioni hanno fatto scattare tutto».
Includere certi reati e altri no è inutile?
«Con il tetto dei 10 anni di condanna il problema della privacy resta tutto. Se si intercetta chi parla di cose intime con un presunto mafioso o terrorista ignorandone l’attività, rendere pubblica questa conversazione lede la riservatezza. Determinare la sfera dei reati non è risolutivo».
Cosa lo è?
«Non dico che la soluzione sia a portata di mano, ma esiste una riflessione bipartisan. Sono un po’ sorpreso dell’accelerazione aggressiva: il problema è noto da anni. Il ministro Flick fece un disegno di legge. E nel quinquennio della CdL ne furono presentati 8 da maggioranza e opposizione. Domando: visto che Unipol e Calciopoli erano già noti perché Berlusconi non usò la sua forte maggioranza come in altri campi?».
Esiste quindi un punto di partenza condiviso. Su quali linee?
«Una volta effettuate e trasferite al magistrato le intercettazioni, lui esamina il materiale congli avvocati delle parti individuando ciò che non ha nulla a che fare con le indagini e va stralciato o distrutto. A meno che sussista il dubbio che potrà poi diventare rilevante: in quel caso va conservato in un archivio segreto sotto la responsabilità di un magistrato. Solo il resto può essere reso pubblico».
È questa la strada da seguire?
«Come tutte le soluzioni è perfettibile. Ma mi sembra ragionevole per rispettare i diritti ed eliminare il voyeurismo che ha provocato danni a molte persone».
Se ne sono lamentati sia Moggi che la Bergamini.
«Non ho elementi per entrare nel merito del caso Bergamini, ma lei definisce irrilevante il materiale messo in circolazione. La linea corretta è mettere in circolo solo ciò che merita di essere conosciuto dall’opinione pubblica. Il caso Moggi è molto diverso: è stato rinviato a giudizio per reati molto gravi».
Chi ha colpa degli abusi in questo settore?
«È un colabrodo con moltissime cause e protagonisti. Favorito dall’appalto esterno delle intercettazioni a società di telefonia privata più permeabili alla diffusione. È essenziale che siano fatte non dalla Telecom ma presso gli uffici giudiziari».
Come valuta l’ipotesi di subordinare la diffusione dei testi al rinvio a giudizio?
«Credo che in un sistema equilibrato dopo la bonifica congiunta di magistrato e avvocato possano essere diffusi. Aspettare il rinvio a giudizio comporta il rischio che la gente non sia informata di gravi comportamenti di chi ha responsabilità pubbliche, magari sotto elezioni».
Viene in mente la vicenda Unipol...
«Lì il materiale irrilevante per le indagini andava distrutto. Ma paradossalmente Fassino è stato garantito dalla divulgazione del contenuto della telefonata con Consorte. Se ci fosse stato solo il tabulato telefonico, il sospetto sarebbe rimasto per sempre. Con cellulari e mail circolano miliardi di dati privati».
Il dibattito sulle intercettazioni dei corruttori assume valenza simbolica, non crede?
«Bisogna evitare di mettere una serie di persone al riparo da controlli: escludere corruzione e concussione metterebbe di fatto una franchigia. Verrebbero puniti i poveracci e salvata la casta. Serve inflessibilità: quelli di corruzione, non solo verso la Pubblica Amministrazione, sono i veri reati di allarme sociale».
È giusto che ad autorizzare sia un organo collegiale e non il gip?
«I magistrati giustamente sottolineano che dopo il trasferimento al giudice unico della competenza in molte materie tornare al collegio sarebbe un eccesso».
Le pene ipotizzate sono giuste o troppo severe?
«Non è la stessa cosa raccogliere illegittimamente dati, trattarli o pubblicarli. Sono comportamenti diversi. Vanno sanzionati con più severità i pubblici ufficiali che violano il segreto».

l’Unità 13.5.08
La clinica degli orrori
Le cinque piaghe di Santa Rita
di Livia Turco


Il governo deve intervenire subito
avviando un’immediata ispezione
dei Nas in tutte le cliniche private
accreditate per la verifica
del rispetto dei termini
contrattuali dell’accreditamento

Quanto emerso dalle indagini sulla Clinica Santa Rita di Milano non può essere liquidato come l’ennesimo caso di malasanità. In esso si intrecciano infatti almeno cinque elementi diversi di mal funzionamento nel rapporto pubblico-privato, emersi non a caso proprio in Lombardia, dove la logica della competizione e della concorrenza esasperata in Sanità ha evidentemente facilitato comportamenti come quelli registrati in questo caso drammatico.
Il primo elemento di disfunzione è quello relativo al sistema di pagamento delle cliniche private accreditate. Esso, salvo alcune eccezioni, avviene secondo tariffe per prestazioni che, così come oggi formulate, incentivano indirettamente gli operatori privati ad effettuare prestazioni generalmente più onerose e quasi sempre più invasive per il paziente, anche quando non è necessario.
Mi spiego. L’asportazione totale della mammella per un cancro al seno ha una tariffa più alta di un intervento meno invasivo che si limita a togliere il tumore, salvaguardando la mammella della donna. Ma i costi della mastectomia, che sono effettivamente più alti di quelli di una quadrantectomia, non lo sono però in misura proporzionale all’aumento della tariffa. Ecco allora che, per un pugno di euro in più, si può arrivare all’orrore di quanto risulta essere stato fatto più di una volta in quella clinica.
Il secondo elemento da considerare è relativo al sistema di accreditamento delle strutture private. Esso ha dimostrato da tempo i suoi limiti tant’è che con la legge finanziaria del 2007 il Governo Prodi ha posto le basi per un completo riassetto del sistema che, salvo colpi di spugna dell’attuale maggioranza, andrà a regime entro il 2009. Esso si articola in tre mosse: dal 1 gennaio 2008 è prevista la decadenza di tutti gli accreditamenti concessi automaticamente in via transitoria dalle Regioni e non ancora in linea con i nuovi criteri di accreditamento stabiliti dalla legge Bindi del 1999, che prevedono standard qualitativi e meccanismi di verifica molto più approfonditi di quelli delle vecchie convenzioni.
Poi, sempre dal primo gennaio 2008, sarà vietato qualsiasi nuovo accreditamento in assenza di uno specifico atto di programmazione sanitaria regionale che ne dimostri l’esigenza e la coerenza con il fabbisogno assistenziale locale.
Infine, entro il 31 dicembre 2009, tutte le Regioni dovranno aver concluso le verifiche presso tutte le strutture accreditate per l’accertamento del possesso dei requisiti.
Dopo questa data, quindi, solo chi ha i requisiti documentati e verificati e risponde alle effettive esigenze di programmazione regionale resterà accreditato.
Cosa sta facendo l’attuale governo per garantire l’applicazione di questa legge? Ad oggi, tolte generiche dichiarazioni del ministro Sacconi sulla necessità di rivedere il sistema, non se ne sa nulla.
Il terzo elemento da valutare dopo lo scandalo della Santa Rita è sul piano dei controlli e delle verifiche. Evidentemente i controlli attuali, per stessa ammissione delle Regioni, sono troppo burocratici e poco incisivi sul piano della qualità medica e prestazionale delle cliniche private. Ad esempio, se fossero stati fatti controlli che avessero incrociato i dati della patologia con quelli della terapia adottata, sarebbe risultato evidente il numero anomalo di mastectomie della Santa Rita rispetto alla media regionale e si sarebbe potuti intervenire prima, chiedendo lumi e facendo verifiche ad hoc sul perché di quelle anomalie.
Anche su questo terreno il Governo Prodi aveva avviato il cambiamento approvando un disegno di legge, poi decaduto insieme alla legislatura, che istituiva un vero e proprio «sistema nazionale di valutazione della qualità delle prestazioni» che affiancasse i controlli di tipo economico. Solo così, intrecciando spesa e qualità delle cure, si possono tenere sotto controllo gli operatori privati e anche quelli pubblici. Cosa intende fare in proposito il ministro Sacconi? Anche su questo è urgente sapere il suo orientamento.
La quarta questione da affrontare è quella relativa allo status del personale sanitario nelle cliniche private accreditate. Pochissimi contratti a tempo indeterminato e, al loro posto, rapporti professionali saltuari o a prestazione che alimentano di fatto la rincorsa all’intervento più costoso e quindi più remunerativo.
Non è accettabile. Perché dobbiamo capire una volta per tutte che le strutture accreditate agiscono per nome e per conto del Ssn. Sono pagate con i soldi della sanità pubblica e non possono che avere le stesse regole di qualità, sicurezza, modalità di remunerazione del personale e coerenza negli obiettivi da perseguire.
E qui veniamo all’ultimo insegnamento della vicenda di Milano. Una constatazione che troppe volte abbiamo in qualche modo taciuto in ossequio alle logiche del mercato, della competizione e della concorrenza. Il privato in sanità, salvo le realtà no profit, ha un indiscusso obiettivo da raggiungere: il profitto. È chiaro che esso può essere conseguito con trasparenza e correttezza e anche grande qualità, di cui, fortunatamente, abbiamo molti esempi nel nostro Paese. Ma resta il fatto che, se al raggiungimento del profitto non si coniugano altri traguardi morali tipici del privato sociale, il rischio di considerare l’attività sanitaria come una qualsiasi altra attività commerciale è molto alto. A prescindere dalla deriva delinquenziale. Se ho in mente prima di tutto il profitto é evidente che il mio scopo, pur restando nei limiti della legalità, sarà quello di ottenere il massimo dando il minimo. E quindi, contratti con il personale al ribasso, apparecchiature più scadenti, ricerca dei pazienti più convenienti e rifiuto di quelli che richiedono molta assistenza ma anche molti investimenti per poterli assistere (come spiegare altrimenti le pochissime terapie intensive private?).
Tutto ciò ci dice il caso di Milano. Ed è veramente assordante il silenzio del Governo di fronte a uno scenario così drammatico e denso di questioni da affrontare. È ovvio che va rispettato il lavoro dei magistrati (ci mancherebbe!), come ha dichiarato l’altro giorno a Ballarò il ministro Sacconi. Ma il Governo può e deve intervenire subito, al di là delle indagini e del caso specifico.
Avviando un'immediata ispezione dei Nas in tutte le cliniche private accreditate per la verifica del rispetto dei termini strutturali e contrattuali dell’accreditamento. Concordando con le Regioni un’ulteriore azione di verifica sulla qualità e l’appropriatezza dei servizi resi dalle strutture accreditate. E infine prendendo in mano la questione delle tariffe per cambiare l'attuale sistema di rimborsi che, e se è accaduto alla Santa Rita potrebbe accadere anche altrove, rischia di incentivare l’inappropriatezza a danno dei pazienti e anche della spesa pubblica.

l’Unità 13.5.08
L’«Economist»: Pd troppo buono, opposizione fantasma altro che britannica
Analisi impietosa: «Voler collaborare con Berlusconi sulle riforme elettorali e costituzionali avrà conseguenze disastrose»


ROMA. Per l’Economist Walter Veltroni «rischia di essere troppo buono con Silvio Berlusconi» e il suo governo-ombra potrebbe diventare «un’opposizione fantasma». Nel numero da oggi in edicola, il settimanale britannico critica fortemente il leader del partito democratico e gli rinfaccia di essersi lasciato sfuggire «una serie di occasioni per mettere in imbarazzo il governo» e di aver così contribuito al rafforzamento della popolarità di Berlusconi. Tra le occasioni perse, l’Economist cita la mancata richiesta di maggiori dettagli sulle accuse mosse al presidente del Senato Renato Schifani dal giornalista Marco Travaglio per «rapporti di affari con persone poi condannate per mafia« e i mancati affondi contro il governo per il caso Alitalia, per le «aspre misure su immigrazione e sicurezza» e per la «messa al bando di gran parte delle intercettazioni telefoniche compiute dalla polizia». «Veltroni ha un’idea dell’opposizione che non appare assolutamente britannica», sottolinea la rivista, memore del fatto che nel Regno Unito l’opposizione non perde mai un’opportunità per attaccare il governo in carica. A giudizio dell’Economist Berlusconi ha senz’altro da guadagnare dalla politica del dialogo tenacemente portata avanti da Veltroni mentre «i benefici per la sinistra sono meno evidenti». «Ancor prima delle elezioni, Veltroni - spiega il periodico londinese ai suoi lettori - ha detto di volere la cooperazione con Berlusconi sulle riforme elettorali e costituzionali allo scopo di rendere l’Italia più facile da governare. È un obiettivo nobile ma è una strada che è stata tentata prima, con conseguenze disastrose». Secondo l’Economist la strategia elettorale di Veltroni è fallita, così come si è dimostrata «dolorosamente sbagliata» la candidatura di Francesco Rutelli a sindaco di Roma e la politica del dialogo impedisce quella «sofferta autopsia» di cui avrebbe bisogno il Pd.

l’Unità 13.5.08
Il nostro cervello? È del tutto suonato
di Stefania Scateni


Già alcuni scienziati hanno trovato delle forti connessioni tra la nostra musicalità e il linguaggio
Ma nessuno ancora è riuscito a svelare i suoi lati «metafisici» e strettamente affini all’esperienza mistica

IN «MUSICOFILIA» il celebre neurologo Oliver Sacks affronta il tema, ancora misterioso, di un’attività esclusivamente umana, la musica, attraverso le storie di malati che hanno perso il gusto dei suoni o lo hanno ritrovato

«My life was saved by rock’n’roll», cantavano i Velvet Underground; «My life was saved by rock’n’roll», ripeteva, citandoli, Wim Wenders. «La mia vita è stata salvata dalla musica» potrebbero dire milioni di persone in tutto il mondo. Perché la musica può curare e può anche salvare. Ma perché la musica ci salva? Perché può mandarci in estasi? Perché può aprirci le porte della percezione? Perché siamo spinti a suonare e cantare? Perché in tutto il mondo si suona e si canta? Perché la musica è anche un’esperienza spirituale? Perché siamo gli unici esseri viventi sulla terra a farla? Perché questa «attività» così specificamente umana ci dà sollievo, consolazione, gioia, tristezza, disperazione, serenità? Perché ci cambia il corpo, ci fa venire la pelle d’oca, ci muove i piedi? La risposta è ancora nel vento, inseguita da scienziati, paleontologi, neurologi, musicologi, etnologi e quanti altri hanno cominciato a studiarla. La musica è ancora uno dei grandi misteri dell’umanità, e forse rimarrà tale finché non ci rassegneremo ad accettare questo suo aspetto.
Intanto possiamo azzardare l’affascinante ipotesi che il genere umano sia nato cantando. Due gli studi che hanno ampliato le conoscenze in proposito, portando prove alla teoria che i nostri antenati abbiano «cantato» prima di parlare. Il primo, tradotto lo scorso anno dalle edizioni Codice, è quello che Steven Mithen ha raccontato ne Il canto degli antenati. Il lavoro dell’archeologo britannico è partito da una constatazione: la propensione a fare musica è uno dei più affascinanti e al tempo stesso trascurati tratti distintivi del genere umano. La letteratura scientifica ha sottovalutato questo campo di studio, relegandolo a prodotto ludico e ricreativo. Diversamente, Mithen, definisce la musica come un adattamento selettivo dell’uomo, ponendola non solo allo stesso livello del linguaggio, ma dimostrando che sarebbe stata la prima forma di comunicazione umana. Una specie di nenia, ipotizza, che usciva dalla bocca degli australopitechi come un «hmmmmmm»...
Il secondo studio è apparso una settimana fa sulla rivista scientifica Nature (e in queste pagine ne ha parlato lunedì scorso Pietro Greco) ed è stato realizzato dal neurobiologo americano Aniruddh D. Patel. Anch’esso «lega» insieme la musica e il linguaggio. Tra i primi ricercatori a studiare le basi neurologiche dell’attitudine musicale, Patel ha analizzato linguaggi e musiche utilizzati nei paesi non occidentali. E, oltre ad aver scoperto quello che ogni musicista e musicologo sa, cioè che la nostra scala musicale non è universale come non lo sono le nostre basi ritmiche, ha trovato molti legami neurobiologici tra musica e linguaggio. Molto probabilmente, scrive lo scienziato, nella elaborazione della sintassi dei due sistemi sonori, il cervello usa lo stesso sistema di integrazione dell’organizzazione gerarchica dei suoni.
Tutto questo ci dice che il nostro cervello potrebbe essersi evoluto da una musicalità primitiva a suoni articolati. Tutto questo comunque non svela né sminuisce l’ascendente misterioso che la musica esercita sulla nostra mente e sul nostro corpo. Non ci riesce - per fortuna - neanche il nuovo studio di Oliver Sacks, Musicofilia. Non ce lo svela nonostante il celebre neurologo inglese utilizzi anche in questo volume il classico metodo scientifico dell’«esposizione» di casi clinici. Un metodo che nei primi anni del secolo scorso permise al neurologo sovietico Aleksandr R. Luria di intraprendere un pionieristico studio sul funzionamento del cervello che permetteva di ottenere una visione sistematica dell’organizzazione cerebrale e del rapporto tra questa organizzazione e i processi mentali, non solo quelli elementari ma anche quelli complessi come il linguaggio, la memoria, il pensiero. Il metodo di Sacks è lo stesso: una serie di casi clinici che, in questo caso, «tirano in ballo» la musica. Come al suo solito, però, Sacks ci mette di più: una scrittura narrativa e una passione che trasformano i malati in personaggi e i casi trattati in storie, cosicché al lettore sembra di leggere un romanzo corale sull’umana sofferenza. In questo caso, tutti i disturbi e le anomalie «musicali» vengono esplorati. E sono tutti misteri. Ad esempio: un giorno, a New York, Oliver Sacks partecipa all’incontro organizzato da un batterista con una trentina di persone affette dalla sindrome di Tourette: «Tutti, in quella stanza, sembravano in balia dei loro tic: tic ciascuno con il suo tempo. Vedevo i tic erompere e diffondersi per contagio». Poi il batterista inizia a suonare, e tutti in cerchio lo seguono con i loro tamburi: come per incanto i tic scompaiono, e il gruppo si fonde in una perfetta sincronia ritmica. Altro esempio: Clive Wearing, musicista e musicologo, a 45 anni viene colpito da una grave forma di encefalite erpetica che lo lascia con una grave amnesia retrograda, in pratica il suo passato viene cancellato, e una altrettanto grave incapacità di ricordare nuovi eventi: la sua memoria copriva non più di qualche secondo. Un uomo senza passato né presente né futuro... Eppure Clive ricordava, suonando il pianoforte, tutto il repertorio classico che aveva suonato fino all’insorgere della malattia. Sacks ci racconta di pazienti amusici (incapaci di «sentire» la musica, che appare loro come un frastuono), di sordi ossessionati da canzoni che suonano a tutto volume nelle loro orecchie, di savant con doti musicali eccezionali, di chi ha l’orecchio assoluto e di chi vede i colori delle note (sinestesia), della musica che «cura» il Parkinson, lenisce le sofferenze dell’Alzheimer, restituisce l’uso del linguaggio a pazienti afasici. La sua indagine su ciò che è anomalo getta luce su fenomeni di segno opposto: la memoria fonografica, l’intelligenza musicale in generale e soprattutto l’amore per la musica - un amore che può divampare all’improvviso, come nel memorabile caso del medico che, colpito da un fulmine, nei mesi successivi alla tremenda scossa viene assalito da un «insaziabile desiderio di ascoltare musica per pianoforte». Ogni sua storia illumina uno dei molti modi in cui musica, emozione, memoria e identità si intrecciano, e ci definiscono.
Oliver Sacks non sa spiegarci fino in fondo il perché della straordinaria forza neuronale della musica, come possa permeare quasi tutto il nostro cervello, pur avendo per certi aspetti delle zone specifiche (la memoria musicale è diversa e indipendente dalla memoria verbale, ed è localizzata nell’emisfero destro solo per i non musicisti). E nel capitolo dedicato alla vicenda di Clive Wearing, quando si chiede come mai una persona con il cervello devastato come il suo, una persona che non ricorda nulla del passato e del presente, possa suonare alla perfezione il Clavicembalo ben temperato di Bach, l’autore evoca un’immagine per nulla scientifica, ma molto illuminante, per spiegarci cosa possa «essere» ascoltare, ricordare, fare musica: «Quando “ricordiamo” una melodia, essa suona nella nostra mente; ridiventa viva... Qui, richiamiamo una nota alla volta, e sebbene ogni nota riempia interamente la nostra coscienza, simultaneamente entra in rapporto con il tutto. È come quando camminiamo o corriamo o nuotiamo - lo facciamo compiendo un passo o una bracciata alla volta; eppure ogni passo e ogni bracciata è parte integrante di un tutto, la melodia cinetica del correre e del nuotare».
L’analogia di Sacks ci dà il la per fantasticare sulla natura «automatica» della musica, sul suo fare perno, cioè, a una zona antica e primitiva del nostro cervello. Nella nostra storia la musica non è stata sempre un’attività «ludica», nell’antichità era un mezzo per riappacificarsi con i gesti della vita quotidiana e per congiungersi con quella parte del mondo che potremmo definire «metafisica». D’altra parte l’universo ha una sua musica: Mark Whittle dell’Università della Virginia ha analizzato la cosmic microwave background radiation, ossia il rumore cosmico di fondo, e si è accorto che nel corso della vita dell’universo si sono prodotte leggere variazioni nella sua densità, qualcosa che a noi apparirebbe come onde su un mare altrimenti calmo e uniforme e ha dedotto che per i primi 400mila anni di vita, l’universo ha emesso un acuto vagito, proprio come quello di un neonato, che si è successivamente abbassato di tono fino ad assomigliare a un ruggito profondo. Così come anche la nostra Terra «suona». E se il canto dei nostri antenati non fosse stato altro che una mimesi? E se la filastrocca che cantiamo ai nostri bambini non fosse altro che la nenia mugolata dalle australopiteche ai loro bambini?

l’Unità 13.5.08
Niente paura, l’Europa è musulmana
di Eleonora Bujatti


IL CONVEGNO Docenti e studiosi hanno discusso a Padova di Presenza islamica e pluralità religiosa: perché quando si parla di Islam si pensa sempre a qualcosa di incompatibile con la libertà o la modernità?

Il nostro è un Paese spaventato. Ci sentiamo insicuri, minacciati, assediati; viviamo la nostra quotidianità nel sospetto costante dell’altro, come Gaber quando incrocia l’estraneo nel monologo La paura. Salvo poi accorgerci, come Gaber, che l’unica cosa che non abbiamo pensato è che l’altro poteva essere semplicemente una persona. Proviamo allora, per un momento, a supporre che diversità e pericolosità non siano sinonimi, chiudiamo le porte ai pregiudizi e alle strumentalizzazioni e apriamole all’approfondimento e al dialogo. Come si è proposta di fare l’altro giorno l’Università di Padova, ospitando alcuni tra i maggiori esperti di immigrazione e di Islam per il convegno Presenza islamica e pluralità religiosa. «Un primo passo indispensabile è quello di smarcarsi da posizioni massimaliste», chiarisce subito Felice Dassetto, docente all’Università di Louvain-la-Neuve. «Vanno esclusi tanto l’ottimismo beato quanto lo scontro di principio. Parole come multiculturalismo e integrazione sono tanto belle quanto difficili; lanciano una sfida nuova che ha bisogno di tempi lunghi. E i politici non hanno tempi lunghi, ci sono le elezioni». Una sfida che va comunque accolta, combattendo contro l’indifferenza - nel migliore dei casi - delle istituzioni e opponendosi al dilagare dei pregiudizi che non fanno onore alla complessità del reale. Perché anche la Marjane Satrapi di Persepolis è, a rigore, un’immigrata islamica. «L’Europa ormai è definitivamente anche musulmana», sottolinea Paolo Branca, docente di Islamistica alla Cattolica di Milano. «È inutile discutere di questo». La storia è già avvenuta. Questo sarebbe piuttosto il momento di riflettere su un concetto nuovo di cittadinanza, non tanto nel senso giuridico, quanto di appartenenza, di convivenza civile, di responsabilità verso le future generazioni. Eppure quando si parla di Islam scatta qualcosa che va oltre la generica diffidenza per il diverso: la convinzione diffusa che sia per sua costituzione incompatibile con la democrazia, con i diritti, la libertà, la modernità. «Si sta creando un eccezionalismo del mondo islamico», spiega Stefano Allievi, sociologo delle religioni all’Università di Padova. «Le ragioni sono due: una legata al terrorismo, alla geopolitica, all’emergere dell’Islam come attore internazionale. La seconda ha a che fare con la forte presenza islamica in Europa, per numero di aderenti e per visibilità». Le statistiche dicono che dei 15 milioni di musulmani presenti in Europa Occidentale solo il 30-40% si attiva come credente o praticante, e se la prima generazione che viene qui manifesta una particolare osservanza, già dalla seconda non è più così. Eppure si continuano a confondere Islam e fondamentalismo islamico. «Non dico che il fondamentalismo non esista o che non sia un problema» - continua Allievi - ma è essenziale distinguere. Di questa confusione sono responsabili anche le stesse comunità islamiche, che invece di tacere dovrebbero condannare pubblicamente le proprie frange estreme. Ma è innegabile che all’Islam si faccia un processo alle intenzioni, basti pensare al linguaggio che, dai libri della Fallaci alle campagne della Lega, ha trovato legittimità in Italia e che non ha paragoni in Europa. Un linguaggio che se si sostituisse la parola musulmani con ebrei sarebbe considerato indicibile». O, viceversa, basterebbe prendere un giornale del 1938 e sostituire la parola ebrei con musulmani per accorgersi di quale deriva stiamo prendendo. Un particolare accanimento dovuto forse anche al fatto che, da quando gli islamici si sono resi conto che la loro vita doveva trasferirsi definitivamente qui, hanno cominciato a chiedere presenza e riconoscibilità anche con i propri simboli. «C’è una specificità dei musulmani che li rende più visibili: la loro domanda religiosa su questioni pubbliche», sottolinea Dassetto. «Ci sono diversi temi aperti, dall’inserimento istituzionale e giuridico alle norme attinenti a problemi quotidiani come il velo, il cibo, il matrimonio. E poi c’è il culto pubblico». Quella delle moschee sembra solo una questione pragmatica, ma non è un caso che venga letta simbolicamente come un conflitto di civiltà. Ultimamente in tutta Europa, anche nei Paesi in cui le moschee esistono da tempo, cominciano a nascere contrasti sulla loro presenza. E in questo Veneto che ha ospitato il convegno il tema è particolarmente attuale. Una città, Treviso, impedisce ai musulmani di avere un luogo di preghiera e se si ritrovano nei parcheggi li multa per occupazione abusiva del suolo pubblico. A Padova invece il sindaco offre a titolo oneroso ad una comunità islamica un luogo per pregare, e la Lega si attiva con una raccolta firme per un referendum anti-moschea. «Il fatto è che il dibattito su questa tematica continua a svolgersi tra di noi a proposito dei musulmani, e non tra noi e loro», sottolinea Allievi, che alla questione di Padova - un caso che va in netta controtendenza non solo con la Regione e con il governo, ma proprio con il clima attuale - sta dedicando una pubblicazione e un documentario. «Dobbiamo uscire da questa logica, così come da quella degli opposti estremismi. Per il resto non servono leggi speciali, c’è già la nostra Costituzione». Altro caso emblematico è quello di Milano. Il sindaco sta organizzando un tavolo per discutere della moschea di Viale Jenner che il venerdì blocca il traffico della città. «Vent’anni di silenzio e di disinteresse hanno fatto male all’integrazione», nota Paolo Braga, che conosce bene la questione milanese. «Il mondo va avanti, anche nell’indifferenza delle istituzioni, e così non prevalgono certo i migliori. Quindi oggi vorrei che a quel tavolo venissero chiamate a sedere anche le nuove generazioni di musulmani, che avrebbero molto da dire e molto bisogno di farsi ascoltare. E poi mi chiedo perché le chiese debbano essere dei capolavori artistici e le moschee degli immondezzai. Nascoste, brutte, sotterranee. Questo fa davvero bene alla società? Non favorisce piuttosto un Islam carbonaro?». La nostra società non sembra attrezzata per affrontare questo passaggio dalla cultura unica alla multicultura, e si arrocca sulla propria presunzione di autosufficienza, facendo della religione cattolica il proprio marchio di identità. «Ci si costruisce un’identità reattiva», osserva Allievi. «Si manifesta un’identità non perché la si possiede, ma perché c’è l’altro. Questo fa sì che anche i simboli non vengano usati in chiave religiosa, ma in chiave etnica, e arrivo a dire anche tribale». Come quel crocifisso appeso nell’aula dell’Università che, quando non ostentato, non stona affatto con il velo delle ragazze sedute in platea. «Bisogna comprendere che il conflitto è fisiologico, ed è un’occasione per approfondire e per aprire un vero dialogo pubblico», conclude Enzo Pace, docente di Sociologia della religione a Padova. «La legge costituisce il discrimine, è il meccanismo fondamentale per l’integrazione. Si rispettino i doveri per garantire i diritti. Vanno negoziate le norme negoziabili, e vanno osservate con fermezza quelle non negoziabili, che riguardano i diritti fondamentali della persona».

l’Unità 13.5.08
È il più importante mediatore culturale tra Cina e Occidente: «Da quando ho scoperto la pittura del Rinascimento sono diventato un pellegrino d’Oriente»
François Cheng: «La bellezza? È un’epifania che nasce dal dialogo con le altre culture»
di Elena Doni


A pensarci bene l’unico indizio che potrebbe rivelarlo non autoctono è il suo francese. Troppo perfetto nella pronuncia, troppo insindacabile nella scelta dei vocaboli, insomma un francese troppo amato per essere madrelingua. Cioè una lingua con la quale si ha confidenza fin dalle prime parole («il pappo e il dindi») e la si storpia e la si usa distrattamente anche dopo.
Il professore, il filosofo, il poeta, l’Accademico di Francia non è infatti nato francese, ma lo è diventato in età adulta. François Cheng arrivò a Parigi a vent’anni senza conoscere una parola di francese e durante l’affollata conferenza che ha tenuto a Roma, all’ambasciata presso la Santa Sede, ha fatto cenno alla durezza dello scontro con una lingua tanto diversa dalla sua. «Possedere la lingua francese è stata per me una battaglia di tutta una vita. E alla fine sono diventato un altro, ma senza perdere la mia anima. E senza nessun senso di lacerazione: al contrario, con un sentimento di gratitudine. Io non sono che dialogo, il dialogo ci offre la sola possibilità che l’umanità possa raggiungere il suo posto nell’universo».
Patrick Valdrini, direttore del Centro culturale San Luigi dei Francesi che aveva organizzato l’incontro, gli ha posto allora una domanda elementare e monumentale: «Che consigli darebbe oggi a un immigrato?». E Cheng, un minuscolo signore di 79 anni che ha il garbo e la pazienza dei grandi maestri, ha detto: «Spesso chi va in un paese lontano a cercare lavoro, e lo trova, dice: “mi sono rifatto una vita”. Ma passa la sua vita a coltivare la nostalgia per la patria lontana. I miei primi dieci anni in Francia sono stati terribili, avevo un senso di perdizione. Ma rifarsi una vita vuol dire anche rinascere. Attraverso la lingua io sono entrato in un’altra cultura, quella francese, e poi anche in altre culture europee. Nel conoscere la migliore parte dell’Altro si conosce la migliore parte di sé». Oggi Cheng è considerato il più importante mediatore culturale tra la Cina e l’Europa. Secondo l’ex presidente della Repubblica Jacques Chirac «il suo itinerario tra Oriente e Occidente costituisce un’opera universale».
La conoscenza dell’altro da sé può talvolta costituire uno shock, racconta Cheng. Come nel 1960, quando venne per la prima volta in Italia e scoprì la pittura del Rinascimento. Da allora è tornato una ventina di volte: «sono diventato un pellegrino dell’oriente», dice. Ha studiato a fondo quel periodo storico, ha scritto una raccolta di poesie intitolata Cantos toscans. E in qualche modo si rifà a questa passione il suo ultimo libro (esaurito in Francia, non ancora tradotto in italiano) Pélerinage au Louvre: «perché, purtroppo per voi, i grandi capolavori del Rinascimento stanno quasi tutti a Parigi».
L’analisi della Gioconda, fatta alla conferenza ma contenuta anche nel libro Cinque meditazioni sulla bellezza edito in italiano da Bollati Boringhieri, parte dalla constatazione che la seduzione esercitata da questo ritratto non viene solo dall’armonia dei tratti della gentildonna, ma dal sorriso e dallo sguardo. E non è neppure giusto, secondo Cheng, davanti a un tale capolavoro interrogarsi sulla ragione del misterioso sorriso: “la bellezza è una sorta di epifania che nasce dal dialogo con l’universo. Con la Gioconda l’intenzione di Leonardo non era solo quella di rendere sulla tela i tratti di una donna. C’è stata in lui la volontà di trasmetterci il suo meravigliarsi davanti al miracolo dell’universo, quasi che la Gioconda ne fosse un’emanazione». Non è un caso, ha fatto notare Cheng, che Leonardo abbia rialzato il paesaggio raffigurato dietro la figura umana: nelle convenzioni dell’epoca la natura che fa da sfondo non supera mai l’altezza delle spalle della persona ritratta: nel caso della Gioconda invece arriva fino al livello degli occhi.
Alla domanda se l’Occidente gli abbia offerto chiavi di interpretazione che a noi forse sfuggono, Cheng ha risposto che la grandezza dell’Occidente è nata dal dualismo soggetto-oggetto, presente in tutta la nostra storia fin dai tempi di Platone: «l’osservazione dell’oggetto ha permesso lo sviluppo del pensiero scientifico, il porsi come soggetto ha dato vita al diritto e alla libertà. E anche alla meraviglia della ritrattistica, che la pittura cinese invece non conosce». Ma sulla quale Cheng ha scritto un libro illuminante.

Corriere della Sera 13.6.08
L'intervento di Luciano Canfora oggi a Oxford testimonia il continuo interesse della comunità scientifica internazionale
Artemidoro, il falso nascosto nel proemio
di Luciano Canfora


L'introduzione, la nozione di «Lusitania», i brani di Marciano: le tracce di un testo «moderno»

Il testo pubblicato qui di seguito è una sintesi della relazione preparata dal professor Luciano Canfora per un convegno sulla vicenda del papiro di Artemidoro che si tiene oggi in Inghilterra. L'incontro, in programma presso il Saint John's College dell'Università di Oxford, è un'ulteriore dimostrazione dell'interesse che la polemica ha suscitato nella comunità internazionale degli studiosi di antichità classiche.

Colui che creò l'«Artemidoro» intendeva palesemente e, oserei dire, quasi legittimamente incominciare con un proemio. E anche sulla scorta dell'«ipotesto» — cioè dell'Einleitung di Carl Ritter, come ha dimostrato Maurizio Calvesi — scelse le parole ovvie, quelle indicanti appunto l'atto e il fatto dell'incominciare: «Colui che si accinge ad un'opera geografica », ton epiballòmenon geographia («Dans l'introduction à un ouvrage etc.» scriveva Ritter). E perciò nel 2006 gli editori del catalogo memorabile, Le tre vite del Papiro di Artemidoro (Mondadori Electa), non poterono che tradurre «chi intende dedicarsi alla geografia » (p. 157). Non prevedevano in quale ginepraio si fossero cacciati con tale davvero onesta traduzione. Essa confermava quello che risulta chiaro dall'intero proemio: che cioè si tratta per l'appunto di un proemio generale, di una apertura dell'intera opera, di un testo che cerca, a modo suo, di spiegare che cos'è la geografia, dunque di un testo che non può immaginarsi collocato — come accade nel famigerato papiro — al principio del secondo libro (la Spagna). No, è un testo di apertura, e perciò la parola esordiale, «colui che si accinge », intendeva essere per l'appunto un termine denotante l'inizio.
Ma così cadeva in pezzi tutta la ricostruzione: che rotolo era mai questo, nel quale — a tacer d'altro (disegni para- michelangioleschi e bestiari e zodiaci, paesaggi e vignette) — il proemio generale si trova accanto alle prime righe del libro II? La ragionevolezza spinse Bärbel Kramer a proporre una via d'uscita: «Il rotolo contiene estratti!». Così essa scrisse nel suo saggio del 2006, di cui oggi l'edizione Led di Artemidoro suggerisce di non tener conto. Ma la teoria «estratti» era catastrofica: oltre tutto come si sarebbe potuto dimostrare che erano estratti presi tutti dal medesimo autore? Insomma, veniva meno ogni ragione per rifilare all'innocente Artemidoro quel proemio bizantino-ottocentesco. E il grande reperto di «estese porzioni della Geografia di Artemidoro» svaniva nel nulla (a tacere, ripetiamo, delle innumerevoli ragioni che escludono si possa rifilare al vero Artemidoro le colonne IV e V: su ciò cfr. Il papiro di Artemidoro, Laterza). Ecco allora la trovata disinvolta: cambiamo la traduzione! E così oggi nell'edizione Led (p. 196) «chi intende dedicarsi» è diventato «colui che si dedica»: simpatico sforzo volto a far scomparire l'esplicita nozione di inizio, di cominciamento. Come dire: si fa quel che si può.
Per circa dieci anni — dal lontano 1998 — gli editori hanno assunto come cardine e architrave della loro avventura artemidorea che la colonna IV (righi 1-14) del papiro corrisponde al fr. 21 Stiehle. Sul modo in cui quel frammento è tramandato avevano le idee a dir poco confuse, per non dire aberranti. Quello che doveva restare fuori discussione era che fr. 21 essendo Artemidoro, anche col. IV (e dunque tutto il papiro) è Artemidoro. (Ovviamente il ripiegamento Kramer verso l'ipotesi «estratti» faceva traballare la deduzione estesa all'intero papiro). Per circa due anni abbiamo documentato con dovizia di prove che fr. 21 è Marciano (un brano tratto dalla Epitome artemidorea, edita da Marciano sotto il nome di Artemidoro). Tale constatazione, che si accorda perfettamente con le analisi svolte da Margarethe Billerbeck sul testo di Stefano di Bisanzio, comportava che, se colonna IV, 1-14 = fr. 21 (i.e. Marciano), anche colonna IV, 1-14 è Marciano. Dunque, addio Artemidoro (e addio papiro dell'età di «Cleopatràs lussuriosa»). La risposta a questa palmare verità fu, per lungo tempo, la sordità totale.
Avevamo anche con insistenza mostrato che col. IV, 1-14 presenta ritocchi (peggiorativi) ed errori di fatto rispetto a fr. 21. Non ripeteremo qui la dimostrazione. Il lettore può trovarla riassunta in Quaderni di storia 67, pp. 287-294. Questo genere di ritocchi peggiorativi ed errori porta recta via all'attribuzione di col. IV, 1-14 (e quindi del contesto) ad un falsario moderno. Oltre all'inclusione, in quei 14 sventurati righi, di due errate congetture moderne e di un vero e proprio errore di stampa, si trattava anche di un marchiano errore storico: l'inclusione nella Hispania Ulterior dell'«intera Lusitania».
Via via che il tempo scorreva ci rendemmo conto che l'escamotage disperato avrebbe potuto essere un repentino «contrordine», e cioè: fr. 21 è Marciano ( Deo gratias!) ma colonna IV, 1-14 è Artemidoro proprio perché qua e là diverso…
Prevedendo tale gesto disperato fornimmo, al principio di gennaio 2008, il quadro chiaro delle conseguenze paradossali di un tale improvviso revirement (Quaderni di storia 67). Tra l'altro si perveniva all'assurdo di far dire ad Artemidoro quella sciocchezza sulla Hispania Ulterior e di far dire invece l'esatto contrario al suo epitomatore (fr. 21).
L'edizione Led (p. 213) ha compiuto il miracolo. Ciò che avevamo previsto si attua: fr. 21 diventa Marciano, con una levitas e naturalezza degna del manniano cavalier Cipolla, mentre colonna IV, 1-14 è Artemidoro proprio per quelle diversità che invano avevamo segnalato per due anni. Ma ovviamente il cavalier Cipolla non si perde d'animo: ciò che gli scomoda non esiste, e dunque Quaderni di storia 67 non appare mai nella pur straripante bibliografia del mastodonte Led, né si tiene alcun conto di quegli adynata che l'adozione dell'ipotesi disperata inevitabilmente comportava. E poiché la questione Lusitania è troppo ingombrante, due parole andavano dette: la soluzione adottata, alquanto surreale, è stata che con «Lusitania tutta» l'autore intende far riferimento alla nozione geografica, non politica, di Lusitania! Non si rendono evidentemente conto del fatto che la «nozione geografica» di Lusitania è di gran lunga più vasta del territorio incluso, da Augusto in avanti, nella ormai provincia di Lusitania: il che renderebbe l'affermazione di col. IV, 13-14 (la Ulterior comprende «la Lusitania tutta») ancora più inverosimile.
E questo basterebbe. Diceva il grande Paul Maas che un solo argomento davvero probante basta, cento deboli non servono.

il Riformista 13.6.08
Classe. La strana gente che sa sfidare la vita. Di Vittorio li avrebbe pianti e rimproverati
Perché solo gli operai muoiono per aiutarsi
di Peppino Caldarola


Muoiono come mosche, gli operai. Muoiono come nel passato anche se non c'è più Achille Beltrame a ritrarne il dramma sulla Domenica del Corriere . Vanno a lavorare e le famiglie temono di non rivederli, come i minatori di Marcinelle o gli edili dei palazzoni che hanno cambiato il volto e le periferie delle città negli anni Sessanta. Muoiono nelle fabbriche, nei cantieri, sulle navi, nelle cisterne mentre a Taipei, negli Emirati, negli States a centinaia parlano al cielo a cavallo di lunghissimi grattacieli e la sera tornano a casa per guardare la tv e bere una birra. Carlo Marx rabbrividirebbe. Charles Dickens lascerebbe i suoi bambini e il terribile Fagin di Oliver Twist , rivalutato dal cartoonist Will Eisner, per scrivere di loro, infelici operai moderni.
Sei morti a Mineo, Catania, mercoledì soffocati in un depuratore comunale. Due ne morirono il 18 gennaio nella stiva di una nave a Porto Marghera. Cinque a marzo a Molfetta in un'autocisterna della Truck Center. Sette alla Thyssen Krupp di Torino alla fine dello scorso anno. Bruciati, soffocati, morti violente e dolorose. Morti eroiche. C'è qualcosa di prezioso in questa classe operaia che ricompare solo negli annunci di morte.
Muoiono in tanti perché fra quelli che muoiono ci sono i soccorritori. Anche i pompieri che hanno estratto i corpi di Mineo correvano rischi. Le cronache raccontano storie che avrebbero commosso Victor Hugo. A Mineo il prete dice che gli operai sono morti abbracciati cercando di darsi reciprocamente aiuto. Nella stiva di Porto Marghera il secondo morto stava cercando di soccorrere il primo in difficoltà. A Molfetta è il padroncino dell'autocisterna a perdere la vita quando si accorge del dramma. Alla Thyssen altra storia di solidarietà. Solo fra gli operai troviamo tracce di questa antica cultura dell'aiuto. Su You Tube ha fatto epoca quel filmato in cui si vede un uomo falciato in una strada cittadina della grande America, ma poteva accadere anche qui, e per dieci minuti macchine e passanti fingevano di non veder il corpo sull'asfalto.
Voltare la testa dall'altra parte, salvarsi senza occuparsi dell'altro, non farsi turbare dallo spettacolo terribile sono la cifra della nostra epoca. Non per gli operai. Oggi sono minoranza, sono peggio pagati, lavorano come bestie, parlano spesso lingue strane e hanno facce di diverso colore. Ma si soccorrono. Forse erano una classe e lo sono tuttora non perché legati dalla produzione ma perché la produzione esaltava lo loro umanità.
Il mio compagno di lavoro non è più l'amico della vita, forse non so neppure dove abita, ma è il mio compagno di lavoro, se è in difficoltà io sono con lui. È una solidarietà laica, una umanità ribelle all'indifferenza che insegna come si sta al mondo.
Sono bestie strane questi operai. Vanno per conto loro anche quando rischiano inutilmente la vita. Tutti gli incidenti che abbiamo letto, visto in tv, ascoltato dai sopravvissuti dicono che i morti potevano non morire. Un casco, una maschera a gas, come a Mineo, una maggiore prudenza. Niente, anche nel cantiere di Montecitorio per un paio di mesi potevi fotografare l'operaio senza casco. In Italia muoiono come mosche mentre in altre parti del mondo, pensiamo ai giganteschi ponti in costruzione in Oriente e all'Ovest, accade molto di meno e non vedi un operaio che non abbia un casco, una maschera che li tuteli.
Spesso gli operai che muoiono sono operai-padroncini come a Molfetta, spesso il padrone è crudele come la Thyssen, ma a Mineo era il comune, non c'era la frusta a tener viva la loro dedizione. È che gli operai hanno certezza di sé, sanno come si lavora, il pericolo non lo allontanano con la maschera o con quel coso in testa ma con un mestiere appreso faticosamente che è quello di famiglia, il più delle volte. Operai testardi che sanno sfidare la vita e per questo spesso la perdono. Di Vittorio li avrebbe pianti e rimproverati.
Noi li piangiamo senza capirli assuefatti alle statistiche che ci dicono che sono scomparsi o rumeni. Invece salgono sulle impalcature, scendono nelle stive e vada come dio vuole. Alla salvezza ci pensano da soli, sorretti dal mestiere e dall'esperienza, l'uno fratello dell'altro. Operai italiani che non hanno letto l'invettiva di Umberto Saba contro gli italiani, abitanti di un paese in cui non si possono fare le rivoluzioni perché nella storia, da Romolo e Remo in poi, ci sono solo fratricidi e non parricidi. Loro non ammazzano i fratelli. Si fanno ammazzare per i fratelli.

il Riformista 13.6.08
Veltroni, too nice opposizione
di Antonio Polito


I eri mattina il ministro degli interni del governo-ombra britannico, il conservatore David Davis, si è dimesso dalla carica di deputato. Lo ha fatto perché ha perso la battaglia parlamentare contro la legge del governo Brown che fissa a 42 giorni il limite temporale di fermo di polizia per i sospetti di terrorismo. Lo ha fatto per protesta, perché ritiene che questa norma violi nel profondo le tradizionali libertà inglesi. Lo ha fatto nella settimana dell'anniversario della Magna Carta, che introdusse nella civiltà moderna il principio dell'habeas corpus. Costringerà dunque il suo collegio a nuove elezioni, in cui si giocherà il seggio in nome dei valori in cui crede.
Raccontiamo questa storia solo per segnalare che il governo ombra è una cosa maledettamente seria, almeno nel paese dove è nata questa originale forma di opposizione. È lotta politica aspra, costruzione di un'alternativa, non cortese attesa del proprio turno. Lotta politica che si sviluppa anche in forme drammatiche, in cui si mette in gioco perfino la propria carriera politica, come nel caso di David Davis.
Un ministro-ombra in Inghilterra può essere costretto alle dimissioni per una gaffe o per un errore esattamente come un ministro vero. I ministri-ombra non prendono il tè delle cinque nell'ufficio del ministro vero per suggerirgli un paio di buone idee. Né il premier ombra fa meeting con il premier vero o il suo sottosegretario, se non in caso di guerra. Ma costruiscono in parlamento, nella sfida crudele e decisiva del faccia a faccia davanti agli elettori, l'alternativa di governo. In una parola: il governo ombra è opposizione, non cogestione.
Con queste premesse, non sorprende che oggi il settimanale britannico Economist scriva ciò che più modestamente noi del Riformista osserviamo da molte settimane.
E cioè che, inteso alla veltroniana, «il governo-ombra rischia di essere in Italia un'opposizione fantasma». «L'idea di opposizione di Veltroni - scrive il giornale che la sinistra italiana riverisce per aver definito più volte Berlusconi "unfit" - non è affatto in linea con la tradizione britannica». Veltroni è «too nice»: troppo gentile e carino con l'avversario. È stregato dalla tentazione dell'appeasement: «Evidente il vantaggio per Berlusconi, meno chiari i benefici per la sinistra». È il contenuto della nostra critica, e la sottoscriviamo.
E - badate bene - l'Economist non è Liberazione, non chiede più radicalità o più demagogia. Soltanto più opposizione. Che si può fare benissimo da posizioni riformiste, purché nette e ben argomentate. Altrimenti il governo-ombra rischia di essere solo un passatempo, come se si puntasse a una successione piuttosto che a una sostituzione. Nella democrazia anglosassone, madre di tutti i bipartitismi, questo non c'è.