Intervista al ministro della Salute Turco.
Fecondazione, si cambia sì alla diagnosi pre-impianto
di Giovanna Casadio
Più coraggio nel Pd. Lo spirito della legge
Il ministro della Salute: "Troppi problemi per le coppie, terremo conto della decisione dei giudici toscani"
ROMA - «La legge 40 non consente rischi di eugenetica, non c´è ombra di dubbio. E io non posso non tenere conto delle sentenze dei giudici di Firenze e, prima, di Cagliari». Livia Turco sfoglia il testo della legge sulla fecondazione assistita. Sottolineato all´articolo 13. Il ministro della Salute entro gennaio annuncerà le nuove linee guida della legge e intende introdurre la diagnosi preimpianto sugli embrioni, una delle questioni che scatena il conflitto tra cattolici e laici.
Allora, ministro Turco, quali saranno le nuove linee guida?
«Di certo non le anticipo ora. Se voglio ottenere un risultato, non posso bruciarlo. Però, bisogna tenere conto della sentenza di Firenze, che segue quella di Cagliari. Ai politici di centrodestra che criticano i giudici, voglio dire che la giurisprudenza interpreta le leggi. In un paese normale ci dev´essere la capacità di ascolto reciproco, e se l´applicazione della legge sulla fecondazione assistita provoca dei problemi alle coppie, allora questo fatto deve essere preso in considerazione».
Ma la diagnosi preimpianto sugli embrioni, si potrà fare?
«Mi atterrò nelle linee guida a una scrupolosa applicazione della legge. Chi governa deve mediare, deve lasciare da parte i panni ideologici e guardare, capire, ascoltare cosa dicono le persone. Sto cercando di farlo anche in questo caso. Sul punto specifico. L´articolo 13 dice che "è vietata la produzione di embrioni umani a fine di ricerca e di sperimentazione" ma è possibile solo a scopo terapeutico. Ecco, le linee guida attuali introducono indirettamente il divieto di diagnosi preimpianto e io mi chiedo se questa non sia una cattiva interpretazione della legge stessa. L´atto amministrativo ha forse prevaricato la lettera della norma?».
Lei non voleva cambiarla la legge 40? Nel 2005 non era a favore del referendum contro?
«Sì, la volevo cambiare. Però dobbiamo trovare un metodo per uscire dallo stallo del conflitto tra laici e cattolici. L´unico modo è di mettersi attorno a un tavolo, guardarsi in faccia e ragionare sulle reciproche verità. La cultura laica ha grande interesse a essere promotrice di una propria cultura della vita, della dignità umana e di una sua proposta di umanizzazione della società. La società si sta imbarbarendo: dare più importanza alla vita è un problema della Chiesa? No, riguarda ogni cittadino e soprattutto un governo di centrosinistra e massimamente il Partito democratico».
Il Pd, appunto. È elusivo sulle questioni eticamente sensibili proprio per evitare conflitti con i cattolici della Margherita?
«Il Pd non deve essere elusivo. Deve avere più coraggio sui temi etici. Cittadinanza, responsabilità, senso della vita, ricerca scientifica spesso si mettono da parte perché sono temi scomodi. Invece vanno affrontati. Il Pd è nato per costruire una cultura riformatrice. Ha tra i suoi compiti di arrestare questo involgarimento, questa perdita di senso della vita, perché tutto si tiene, dai morti sul lavoro di Torino al bullismo alla vicenda dei ragazzi di Perugia».
Con Paola Binetti, come la mette?
«Discuto e discuterò con lei delle linee guida della legge 40. Ci vuole fiducia reciproca e anche amicizia».
Sulle unioni civili, sulle norme anti omofobia. sulla legge 40, sul testamento biologico, il dialogo rischia di finire in paralisi.
«Mediazione non vuol dire cedimento ma passi in avanti. Prima di contarsi in Parlamento, ci dev´essere nel Pd un luogo di confronto e scambio per creare una grammatica comune sulla bioetica altrimenti si inciampa sempre».
Se c´è di mezzo il pressing delle gerarchie vaticane, si inciampa più facilmente.
«Un dialogo trasparente evita forzature da un parte e dall´altra. La legge sulla fecondazione assistita ad esempio, ha ferito e lacerato. Eppure, non c´è possibilità di cambiamento se non c´è un disgelo culturale. Sulla norma anti omofobia invece non capisco come ci possa essere stato un problema per alcuni cattolici, è il superamento di discriminazioni».
Repubblica 24.12.07
Embrioni, anatema vaticano "Distruggerli è un assassinio"
Scontro dopo la sentenza di Firenze. Il Polo insorge
Interviene il cardinale Barragan Il centrodestra: giudici sovversivi
di Orazio La Rocca e Marco Reggio
ROMA - «Negli embrioni c´è la vita ed eliminarli equivale sempre ad un assassinio». L´altolà arriva dal cardinale Javier Lozano Barragan, ministro della Sanità vaticana. La Chiesa interviene così sulla sentenza del tribunale di Firenze che ha detto sì alla diagnosi preimpianto quando c´è il rischio di gravi forme di malattie trasmissibili al feto. È la seconda volta (era già successo a Cagliari lo scorso settembre) che un giudice contraddice le linee guida della legge sulla fecondazione artificiale, il cui testo vieta i test genetici sull´embrione. E ora è di nuovo scontro aperto.
Anche il centrodestra insorge contro la sentenza di Firenze e, col presidente del gruppo Udc alla Camera Luca Volontè, chiede l´intervento immediato del ministro Clemente Mastella e del vicepresidente del Csm Nicola Mancino. Il ministro della Salute, Livia Turco, conferma che le sentenza della magistratura verranno tenute «nel debito conto» prima di emanare, per decreto, le nuove linee guida della legge sulla fecondazione assistita. La legge prevede infatti l´aggiornamento delle clausole attuative ogni tre anni, in base agli aggiornamenti scientifici. E il ministro assicura che, una volta ottenuto il via libera dell´Istituto superiore di sanità e del Consiglio superiore di sanità, le linee guida saranno rese pubbliche entro la fine di gennaio del 2008.
Ma torniamo alle reazioni in Vaticano. «La morale cattolica in materia di embrioni - avverte il cardinale Barragan - è chiara e da sempre ricorda a credenti, non credenti e uomini di buona volontà che nello zigote c´è una persona umana e qualsiasi intervento che si fa per distruggerlo equivale ad uccidere une persona». Questa dottrina, puntualizza il porporato, «è stata autorevolmente ribadita più volte da Benedetto XVI, preceduto da altri papi come Giovanni Paolo II, Paolo VI e persino Pio XII».
Le linee guida attualmente in vigore sono state approvate dal Consiglio superiore di sanità il 14 luglio del 2004 e pubblicate con decreto sulla Gazzetta Ufficiale del 16 agosto del 2004. Sono vincolanti per tutte le strutture autorizzate agli interventi di fecondazione assistita e vanno aggiornate alla luce degli sviluppi tecnici e scientifici nel campo della procreazione assistita.
Due i punti che il ministro ha anticipato sulle nuove linee guida: l´accesso alle tecniche per le persone portatrici di malattie come il virus Hiv, e, appunto, la modifica delle norme sui test preimpianto, oggi vietati. Ma è indubbio che ad accelerare il processo abbia contribuito anche la sentenza del tribunale di Firenze. Il giudice ha accolto il ricorso di una donna che, affetta da una grave malattia genetica, l´esostosi (50 per cento le probabilità di trasmissione al nascituro) ha chiesto e ottenuto il test preimpianto.
E ora la sentenza e le parole del ministro dividono la politica e fanno intervenire esperti giuristi. «La legge non si tocca», afferma Volonté, che condanna «l´eugenetica nazista e scientista». Il senatore di An Alfredo Mantovano dice «no alla sovversione per via giudiziaria», mentre il senatore di Forza Italia, Gaetano Quagliariello invita ad approvare la mozione contro «attentati alla sovranità popolare». Il capogruppo della Lega in commissione sanità del Senato, Massimo Polledri apprezza l´equilibrio del ministro Livia Turco ma chiede anche che «venga in commissione a discutere le linee guida della legge 40 e su quanto i giudici devono fare: applicarla».
Di parere opposto la responsabile Giustizia dei Verdi, Paola Balducci, che apprezza il ministro e sottolinea come «la politica dovrebbe imparare dalle sentenze come quelle di Firenze». Ma c´è anche chi richiama l´attenzione sui veri protagonisti, quanti sono «penalizzati» dalla natura. In campo scende l´avvocato Gianni Baldini, legale della coppia che ha ottenuto dal giudice Isabella Mariani di Firenze il sì alla diagnosi preimpianto: «È l´ora di smettere di mistificare la realtà dei fatti» afferma in una nota di precisazioni, «l´ordinanza non nega i diritti del nascituro, ma ristabilisce l´ordine di tutela degli interessi».
Repubblica 24.12.07
Paola Binetti, senatrice teodem del partito democratico
"I giudici sconfinano la legge non si tocca"
Sarebbe meglio se la scienza si occupasse di curare le malattie invece di sopprimere chi ne soffre
ROMA - Per lei la legge sulla fecondazione artificiale non si tocca, sicuramente non si devono fare diagnosi preimpianto degli embrioni e se qualcosa bisogna fare è «rivedere la 194». Insomma, uno stop secco alle proposte del "suo" ministro alla Salute Livia Turco che ieri ha annunciato di voler tener conto della sentenza fiorentina favorevole alla diagnosi in caso di rischio di malattie genetiche. Paola Binetti, senatrice teodem del Partito Democratico, eletta nella Margherita dopo anni di militanza nelle file dell´Opus Dei, non usa mezzi termini nel condannare tutta la questione. Segno che ancora una volta sul tema della fecondazione, gli schieramenti non contano. E le posizioni si incrociano al di là dei partiti.
«La sentenza del giudice di Firenze secondo me va contro la legge 40 che proibisce la diagnosi preimpianto e prevede la tutela dell´embrione. Va contro anche alle linee guida. È una vera e propria ingerenza del magistrato che con le sue parole indica di contrastare una norma dello Stato», sottolinea Binetti.
E a chi le ricorda il dolore dei genitori, le ansie di chi ha malattie genetiche in famiglia e teme un figlio infelice, la senatrice ribatte: «Ho ben presente la sofferenza, l´angoscia di queste coppie perché il problema della malattie rare è serio, tanto che nella finanziaria avevamo previsto ulteriori interventi». Ma sofferenza a parte quello che non le va giù è l´idea di una scienza che approfondisca e moltiplichi le diagnosi prenatali «e poi spinga a eliminare chi ha patologie come nel film Minority report con Tom Cruise dove uno che potrebbe in teoria compiere un reato viene ucciso prima che lo compia».
La sua idea è di una scienza che è già più avanti delle leggi in vigore, capace di esaminare ovociti e non embrioni. Una scienza che «non si preoccupi solo di diagnosticare le patologie ma anche di trovare soluzioni, eliminare le malattie, curarle, migliorare la qualità della vita di chi ne soffre».
E dalla legge 40 alla 194 il passo è breve. «Ci sono delle contraddizioni tra le due, troppo spesso viene considerata la sofferenza psichica della donna come motivo di aborto, una diagnosi usata secondo me come paravento. E così non va. Io sono una per una scienza che si apra e difenda la vita, che si batta per eliminare le patologie e non chi le ha». (c.p.)
l'Unità 24.12.07
Bertinotti: «Le due Camere non devono fare le stesse cose»
ROMA Superamento del bicameralismo perfetto e riduzione del numero dei parlamentari. Sono le due medicine che il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, userebbe per curare «un sistema malato» come quello italiano.
E sono anche le due basi lungo le quali, l’ex segretario di Rifondazione comunista, durante «Domenica in» ha affrontato il tema delle riforme.
«Nelle Camere - ha ricordato Bertinotti - si discute molto ma la produzione, in termini di risultati, è ancora troppo scarsa. Le maggioranze si sentono impedite nell’impossibilità di decidere, e le opposizioni si sentono impedite nello svolgere il proprio ruolo». A scanso di equivoci, l’inquilino di Montecitorio rispolvera un argomento a lui già caro: lo snellimento della sessione di bilancio. «Della legge Finanziaria, il Parlamento inizia a discutere a settembre e arriva fino a Natale. Così non si discute e non si decide su null’altro». Anche l’eccessivo ricorso alla fiducia da parte dei governi è un sintomo di questa malattia del sistema. Per questo, sarebbe una svolta, se una delle due Camera potesse occuparsi d’altro. Fatalmente, questo discorso, si porterebbe dietro la riduzione del numero dei parlamentari Proseguendo il dibattito in diretta con alcuni ragazzi a porgli delle domande, Bertinotti ha voluto sottolineare di aver tenuto, da presidente della Camera, un ruolo deontologicamente corretto: «Io non sono mai intervenuto sul merito di una legge, perché non si può essere arbitro e giocatore allo stesso tempo.
Ma è mio diritto e mio dovere parlare dei problemi del Paese: se muoiono 6 operai alla Thyssen voglio poter gridare la mia rabbia e la mia indignazione...».
Il presidente della Camera punta quindi il dito contro la precarietà sottolineando come ci siano «troppi nel mondo che vogliono guadagnare troppo». «Bisogna ricostruire in Europa e in Italia - prosegue - buone occasioni per produrre lavoro buono». Perché la precarietà non incide solo sul singolo lavoratore, precisa Bertinotti, ma «rende instabile e precario tutto il mondo che ruota attorno a lui».
l'Unità 24.12.07
L’anoressia? Si combatte insegnando a rischiare
di Paola Emilia Cicerone
AFFRONTARE i disturbi alimentari con la psicoterapia cognitiva comportamentale dà il 50% di risultati positivi dopo 12 mesi, secondo i nuovi dati presentati a Pittsburgh. Ma la malattia è in crescita in tutto il mondo
Nolita fa ancora discutere: secondo gli esperti l’immagine della modella anoressica voluta da Oliviero Toscani per attrarre l’attenzione sul problema dei disturbi del comportamento alimentare avrebbe un impatto negativo. «Una valutazione che nasce dal confronto con campagne di prevenzione realizzate negli anni ’80/’90, basate su immagini simili: si è visto che queste in realtà stimolano l’emulazione, e per rendersene conto basta consultare i cosiddetti siti “pro ana”», spiega Giovanni Maria Ruggiero, psichiatra e psicoterapeuta del Centro studi cognitivi di Milano. Se ne è parlato al congresso annuale della Eating Disorders Research Society, che ha visto riuniti qualche settimana fa a Pittsburgh i massimi specialisti dei disturbi alimentari. «Nelle previsioni il congresso doveva segnare una sorta di rivincita del paradigma biologico, in altri termini degli studi sulle basi genetiche di questi disturbi», prosegue Ruggiero. «In realtà abbiamo visto confermato ciò che già pensavamo, ossia che la psicoterapia cognitivo comportamentale è lo strumento più efficace per trattare i disturbi alimentari». Lo confermano studi presentati al congresso, come quello di Ruth Striegel-Moore della Wesleyan University, secondo cui la terapia cognitiva garantisce almeno il 40-50% di risultati positivi dopo 6 /12 mesi di terapia. «Il dato interessante, poi, è che questi risultati aumentano con il passare del tempo, arrivando fino al 70% nei 5 anni successivi alla terapia», spiega Sandra Sassaroli responsabile del Centro Studi cognitivi di Milano. A ottenere risultati sono soprattutto le anoressiche che mangiano e poi vomitano, che sono il 70% circa del totale, «mentre è molto più difficile trattare la cosiddetta anoressia restrittiva che si basa sulla privazione: quelle che ne soffrono sono le pazienti più capaci di controllo ma anche più disturbate e meno sensibili alla terapia», prosegue Sassaroli. Mentre per il trattamento del «binge eating», le cosiddette abbuffate, e della bulimia, il congresso conferma l’efficacia del modello di terapia in 12 sedute proposto negli anni ‘80 da Fairburn. «Non significa necessariamente che 12 sedute bastino a risolvere il problema. Ma aiutare le pazienti a concentrarsi sul modello digiuno-abbuffata-vomito, e analizzare le emozioni negative connesse a questi comportamenti aiuta a prenderne coscienza e in prospettiva a superarli», spiega Ruggiero.
I disturbi alimentari si confermano infatti come una malattia al femminile «Nonostante si sia detto il contrario, la percentuale di maschi resta stabile intorno al 10%», spiega Sassaroli. «La novità semmai è che aumentano gli esordi precoci, nelle bambine, e compaiono esordi tardivi in donne intorno ai cinquant’anni». E soprattutto che questi disturbi colpiscono ormai tutto il mondo, «non solo l’occidente, ma anche tutti gli altri paesi in cui è arrivato un certo benessere, esclusa l’Africa nera», osserva Ruggiero. «Sembra anzi che l’urbanizzazione generi difficoltà crescenti a controllare la propria esistenza che possono favorire il disturbo».
Diversi studi confermano infatti con dati sempre più convincenti che alla base di questi disturbi c’è perfezionismo patologico e tendenza al controllo, uniti a bassa autostima. Ad esempio, Walter Kaye dell’Università di Pittsburgh in una ricerca pubblicata sull’American Journal of Psychiatry, ha messo a confronto l’attività cerebrale di un gruppo di ragazze in corso di guarigione dall’anoressia, impegnate in un gioco al computer, e quella di un gruppo di controllo. «I cervelli delle ragazze anoressiche appaiono particolarmente attivi nelle aree legate alla pianificazione e alla valutazione delle proprie azioni: si tratta insomma di soggetti perfezionisti ed eccessivamente preoccupati di fallire, un tratto di carattere che non è necessariamente un difetto ma in questi casi può essere una vulnerabilità», spiega il ricercatore.
«Queste pazienti riescono a recuperare un senso di normalità proprio controllando l’assunzione di cibo, per questo è così difficile modificare tali dinamiche senza metterle in crisi», prosegue Ruggiero. «Oggi però disponiamo di psicoterapie efficaci - precisa Sassaroli - sappiamo che l’importante è insegnare alle pazienti a gestire le proprie vulnerabilità, ad affrontare la complessità dell’esistenza: una ricerca da noi realizzata mostra che anche ragazze sane, in un momento di particolare stress, prendono in considerazione l’idea di mettersi a dieta, come se la restrizione alimentare permettesse loro di riprendere in mano la propria esistenza». Anche per questo le psicoterapie si confermano come gli interventi più efficaci: «dobbiamo insegnare alle pazienti a diminuire il livello di controllo, e permettersi di rischiare - spiega Sassaroli - aiutarle a capire che si può sbagliare senza farne un dramma».
Sul fronte delle terapie farmacologiche, invece, non esistono ancora trattamenti specifici ma si utilizzano - spesso con seri problemi di adesione alla terapia - farmaci nati per trattare altri disturbi come ansia e depressione. E se gli studi sugli aspetti biologici e genetici della malattia si moltiplicano, è difficile andare al di là di alcune correlazioni ancora piuttosto vaghe.
l'Unità 24.12.07
L’Etica che viene dall’Asia
di Hans Küng
Hans Küng è presidente della Fondazione per l’Etica Globale (Stiftung Weltethos) e professore emerito di teologia ecumenica all’università di Tubinga
Molti europei dubitano della capacità dell’Asia di raggiungere l’Europa sotto il profilo dell’integrazione regionale. Ma l’Asia non ha solamente il tipo di fondamenti etici comuni e stabili che furono così importanti per l’integrazione europea, ha anche una serie di princìpi morali, alcuni dei quali facevano saldamente parte della cultura dell’Asia molto prima che venissero adottati in Europa. Di fatto questi princìpi asiatici possono rappresentare un aspetto di una etica globale comune emergente.
Naturalmente l’Asia non ha ancora un nucleo culturale forte e coeso paragonabile a quello dell’Europa fondato sulla tradizione giudaico-cristiana e sull’Illuminismo. Ma gli europei non debbono essere troppo arroganti perché negli ultimi anni la cultura comune europea si è rivelata fragile, in particolare alla luce della strategia dell’amministrazione Bush del «divide et impera» tesa a mettere la «Vecchia Europa» contro la «nuova Europa». E, proprio come i disumani attentati terroristici dell’11 settembre 2001 hanno screditato l’Islam agli occhi di molti, l’invasione dell’Iraq, basata su innumerevoli menzogne, ha danneggiato sia il cristianesimo che la comunità occidentale dei valori.
Sebbene l’Asia non sembri possedere il nucleo culturale forte dell’Europa, ci sono costanti etiche di fondo che governano da tempo le società asiatiche e che indicano fondamenti etici comuni. Invero, per alcuni versi, l’Asia ha più esperienza dell’Europa in materia di relazioni interculturali. Già nel terzo secolo a.C. il buddismo si diffuse pacificamente dall’India allo Sri Lanka e a gran parte del sud-est asiatico. Nel primo secolo d.C. continuò la sua diffusione lungo la via della seta fino all’Asia centrale e alla Cina ed infine, nei secoli seguenti, si fece strada in Corea e in Giappone.
Il Giappone, omogeneo sotto il profilo etnico, è il perfetto esempio di come tre diverse religioni - scintoismo, confucianesimo e buddismo - possono coesistere pacificamente e, in molti casi, mescolarsi. Persino l’Islam - diffusosi prevalentemente sulla scia delle conquiste militari in Medio Oriente, India e Africa del Nord - penetrò alquanto pacificamente nel sud-est asiatico al seguito dei mercanti, degli studiosi e dei mistici.
Inoltre già nel quinto secolo a.C. ci fu in Cina un umanesimo storicamente importante e di ispirazione etica. Il concetto di «ren», che corrisponde al nostro «humanum» è un termine essenziale nella tradizione cinese.
Analogamente, Confucio fu il primo a formulare la Regola d’Oro della Reciprocità: «non imporre mai agli altri ciò che non sceglieresti per te». Con la diffusione dei caratteri cinesi, il concetto di «ren» e la Regola d’Oro si diffusero in tutta la vasta area influenzata dai cinesi che andava dall’Asia centrale a Taiwan e dalla Corea a Singapore.
Questa Regola d’Oro, tuttavia, è presente anche nella tradizione indiana. Nel giainismo è così formulata: «un uomo deve sforzarsi di trattare tutte le creature come egli vorrebbe essere trattato». Nel buddismo: «una condizione che non è piacevole o gradita a me non lo è nemmeno agli altri; e come posso infliggere agli altri una condizione che non è piacevole o gradita a me?». Nell’induismo: «nessuno deve comportarsi con gli altri in un modo che sarebbe sgradito per lui. Questa è l’essenza della moralità».
Ovviamente questa «Regola d’Oro» è presente anche nelle religioni abramiche (NdT, comunemente chiamate religioni monoteiste). Il rabbino Hillel (60 a.C.) disse: «non fare agli altri ciò che fa male a te». Gesù capovolse la frase in positivo: «in qualunque cosa, fa agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te». Anche nell’Islam c’è un concetto analogo: «nessuno di voi può essere un vero credente finché non desidera per il suo fratello ciò che desidera per se stesso».
Inoltre questi elementi comuni vanno al di là del principio dell’umanità e della Regola d’Oro della Reciprocità. Quattro concrete regole etiche furono indicate nel canone buddista da Patanjali, fondatore dello Yoga, nella tradizione cinese e, ovviamente, nelle tre religioni profetiche: «Non uccidere», «non rubare», «non fare falsa testimonianza» e «non commettere atti impuri».
Queste regole etiche transculturali costituiscono elementi strutturali della comune etica umana, comunque la si voglia chiamare, e rendono quasi irrilevante l’idea di un profondo antagonismo tra valori «asiatici» e valori «occidentali». Se l’Asia concentrerà la propria attenzione sul suo nucleo etico transculturale, potrà sorgere uno spirito di unità completamente nuovo e capace di ricorrere al potere «dolce» piuttosto che alla forza militare e di non conoscere nemici, ma solamente alleati e concorrenti. In questo modo l’Asia potrebbe raggiungere l’Occidente sotto il profilo della sua integrazione culturale contribuendo, al contempo, alla creazione di un nuovo ordine mondiale autenticamente pacifico.
Questo progetto differisce dal movimento occidentale per i diritti umani che si fonda sul diritto naturale. Il punto è piuttosto quello di una integrazione di valori, di criteri di riferimento e di atteggiamenti di tradizioni etico-religiose che, pur manifestandosi in ciascuna cultura in una forma specifica, sono comuni a tutti e possono essere sostenuti anche dalle persone che non praticano alcuna religione.
© Project Syndicate/Internationale Politik, 2007. Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
l'Unità 24.12.07
La sindrome «mafiosa» dell’università italiana
di Luigi Cancrini
Caro Cancrini,
per anni ho pensato che era giusto denunciare i soprusi, oggi purtroppo penso che la realtà universitaria ha uno stampo «mafioso» e che combattere da soli è inutile. Io non sono figlio di nessuno e i ricorsi che ho tentato di fare mi hanno soltanto danneggiato. Quello che vorrei dire però è che il gioco dei professori universitari è un gioco pesante, in cui non sono coinvolti soltanto loro. Quelli che stanno nell’università lo sanno bene ma nessuno denuncia e intanto le Università si riempiono di ricercatori e associati vincitori di concorso pilotato che non fanno praticamente nulla e che non sono nemmeno fisicamente presenti presso le sedi universitarie. Il lavoro viene portato avanti dai precari e le Università ricevono i finanziamenti in rapporto alla produzione scientifica di quest’ultimi. Perchè non siano soltanto parole ti invio per semplice curiosità il mio curriculum.
Lettera firmata
Alle cose che tu dici, caro lettore, penso ogni volta che passo davanti all’Università di Roma. Famosa in tutto il mondo, La Sapienza è un luogo in cui hanno lavorato e continuano a lavorare persone straordinarie che hanno dato lustro al nostro paese e contributi importanti al progresso delle scienze e della cultura in tutto il mondo. Quelli che si consumano all’interno della Sapienza, in modo sempre più triste e sistematico, d’altra parte, sono gli intrecci malati delle politiche basate sul potere accademico e sul modo in cui averlo permette di avere soldi e relazioni importanti fuori dell’università. Mafioso è il termine che tu usi parlando del clima che si respira dentro troppe università italiane e il termine mi sembra giusto perché davvero mafioso è il sistema che regola gli accessi a tutti i livelli, dal dottorato di ricerca al concorso per professore ordinario.
Quello che è pericoloso per te raccontare, tuttavia, non lo è per me ed io spero che tu ti riconosca nella storia di uno che è stato escluso per decisione politica, in quanto aderente al partito comunista italiano da tutti i concorsi che ha fatto quando i suoi titoli di studio e di carriera gli avrebbero dovuto permettere di diventare professore ordinario. La decisione mi fu comunicata direttamente, a voce, con un avvertimento che non avrebbe potuto essere più di così «mafioso» e i candidati che vinsero al posto mio mi cercarono per scusarsi. «Avevi molti più titoli di noi, mi dissero, toccava a te ma non siamo stati noi a decidere». Io feci ricorso come era naturale ma gli avvocati mi spiegarono bene due cose: il Tribunale Amministrativo non sarebbe entrato nel merito della decisione ma avrebbe valutato solo se erano stati fatti degli errori formali, prima di tutto; semmai mi fosse stata data ragione, in secondo luogo, ciò non sarebbe stato prima di quattro anni e tutto quello che avrei ottenuto era una pura e semplice ripetizione del concorso. Denunciai la cosa ai giornali e feci un esposto alla Procura della Repubblica ma non accadde assolutamente nulla. Persi solo dei soldi e del tempo.
La tua lettera mi ha fatto ripensare, inevitabilmente, a quelle vicende. Guardandole dal luogo in cui mi trovo ora, in pensione per ciò che riguarda l’Università e dunque libero professionista, attivo in particolare nell’insegnamento della psicoterapia e nella direzione scientifica di strutture che operano nel campo delle tossicodipendenze e del maltrattamento all’infanzia, tuttavia, quella che sento con sempre maggiore forza è la mancanza di qualsiasi genere di rimpianto. C’è una singolare ma in fondo naturale coincidenza, in un settore come il mio e in tanti altri, fra la chiusura a riccio che è una caratteristica inevitabile di tutti i sistemi mafiosi e la povertà dei contributi culturali a cui essi danno luogo. Si respira sempre male nelle stanze chiuse, dove l’aria non entra, e le attività accademiche in cui il ricambio si basa solo sulla produzione di persone incapaci di dissentire e di muoversi in modo libero e originale nel campo della ricerca risente della mancanza di aria. Non produce niente. Con il risultato, paradossale ma inevitabile, di ribaltare la situazione.
L’esclusione delle teste pensanti dall’università si è tradotta lentamente negli anni, infatti, in una esclusione di fatto dell’università, nei settori in cui ciò accade, dal mondo della ricerca e della cultura. L’abbassamento che si è determinato, in poco più di trentanni, nella stima di cui godono i professori universitari ha trasformato quelli che un tempo erano dei riferimenti culturali in macchiette: detentori di un potere «baronale» desueto utile solo a sistemare i loro figli e nipoti e a guadagnare soldi: lavorando altrove, come tu giustamente noti, ma continuando ad esercitare un potere cieco ed assoluto sulle persone giovani che nell’università con la U maiuscola credono ancora. Soprattutto se hanno, come nel tuo caso, un curriculum importante: testimonianza del fatto che diventerebbero, se li si facesse entrare, scomodi sul piano etico e imbarazzanti sul piano scientifico
So bene che esistono eccezioni importanti: a Roma, nella tua città e in tante altre. Il problema, tuttavia, è che le isole funzionanti sono, appunto, eccezioni che riguardano, in particolare, alcune facoltà scientifiche. Con un punto di debolezza che va particolarmente sottolineato anche al loro livello, tuttavia, perché la fuga dei cervelli dal nostro paese dipende anche da questo, dal fatto che quelli che lavorano in queste isole senza tentare di trarne vantaggi fuori sono pagati molto di meno dei loro colleghi stranieri.
I rimedi (te lo dico da deputato) sono lontani. I poteri accademici hanno in comune con la mafiosità anche questo, la capacità di essere presenti nei luoghi della politica dove si dovrebbe (ma non si può) decidere contro di loro. Basterebbe nel merito, infatti, dare seguito alle osservazioni contenute nella tua lettera obbligando i docenti alla presenza sui luoghi di lavoro. Escludendo dall’attività e dai concorsi quelli che non la assicurano. Affidandosi ad esperti stranieri ed a sedute pubbliche per i concorsi, magari, o a criteri standardizzati (come accade ormai in tutto il mondo) per la valutazione delle attività scientifiche e di insegnamento. Facendo, cioè, delle cose semplici e normali. Quelle per cui serve quella volontà politica che manca solo nei casi in cui conviene a chi comanda dare ascolto ai «mafiosi» in grado di condizionarlo.
Repubblica 24.12.07
La storia. Il piano dell'Fbi contro i sovversivi
1950, il piano segreto dell'Fbi maxiretata contro i sovversivi
di Alberto Flores d'Arcais
Il 7 luglio 1950 l´America aveva iniziato da 12 giorni la guerra in Corea. In quello stesso periodo nella sede dell´Fbi a Washington Edgar J. Hoover, il potentissimo capo del Bureau che guidava dal 1924 e che avrebbe continuato a dirigere fino al 1972, decise quel giorno di chiedere alla Casa Bianca il permesso di arrestare «tutti gli individui potenzialmente pericolosi» per la sicurezza degli Stati Uniti, attraverso un supermandato d´arresto. Un mandato che avrebbe riguardato 12mila cittadini americani.
Subito dopo l´inizio della guerra di Corea contro i comunisti Edgar Hoover scrisse al presidente Truman e chiese di poter arrestare 12 mila cittadini Usa "sospetti"
Il 7 luglio 1950 l´America aveva iniziato da soli dodici giorni la sua prima guerra dopo la fine del conflitto mondiale. Per rispondere all´invasione delle truppe nordcoreane (appoggiate dai cinesi) - che nella notte del 25 giugno avevano invaso il sud con 80mila uomini arrivando fino a Seoul - il presidente Truman ottenne dall´Onu un voto favorevole all´intervento militare: le truppe degli Stati Uniti, comandate dal generale Douglas MacArthur e alla guida di una forza internazionale (Gran Bretagna, Australia, Canada, Turchia) scesero in campo. La guerra "fredda" si era improvvisamente scaldata e le battaglie lungo il trentottesimo parallelo fecero temere un nuovo conflitto mondiale.
Nella sede dell´Fbi a Washington Edgar J. Hoover, il potentissimo capo del Bureau che guidava dal 1924 e che avrebbe continuato a dirigere fino al 1972, decise quel giorno di chiedere alla Casa Bianca un´autorizzazione molto particolare: il permesso di arrestare «tutti gli individui potenzialmente pericolosi» per la sicurezza degli Stati Uniti, attraverso un super-mandato d´arresto contenente i nomi dei cittadini americani che secondo l´Fbi potevano rappresentare una minaccia interna nel corso della guerra appena iniziata nel Pacifico.
La lista - preparata dagli agenti del Bureau nel corso di lunghi anni e approvata personalmente per ogni nome dallo stesso Hoover - era sterminata: al master warrant erano legati infatti ben 12mila nomi, la stragrande maggioranza (97 per cento) cittadini americani «potenzialmente pericolosi». Il documento, che fa parte di una serie di dossier "top secret" del Dipartimento di Stato (adesso declassificati) che riguardano le attività di intelligence tra il 1950 e il 1955, é stato reso noto nel suo numero domenicale dal New York Times.
Hoover chiedeva al presidente Harry Truman di dare il via libera agli arresti di massa per «proteggere il paese contro il tradimento, lo spionaggio e il sabotaggio». Inoltre chiedeva che «per rendere effettivi questi arresti» il decreto della Casa Bianca proclamasse la sospensione dell´Habeas Corpus (il diritto di contestare la legalità dell´arresto). Secondo la Costituzione americana l´Habeas Corpus non può essere mai sospeso se non in caso di una ribellione (interna) o di un´invasione degli Stati Uniti da parte di truppe straniere. Nel piano proposto alla Casa Bianca Hoover diede un´interpretazione piuttosto allargata del dettame costituzionale considerando come sufficiente «l´invasione minacciata» e «l´attacco contro le truppe degli Stati Uniti anche in un territorio straniero ma legalmente occupato» (il caso della Corea del Sud). Il dibattito sulla possibilità di sospendere l´Habeas Corpus nel corso di particolari momenti della vita nazionale americana é tornato di attualità dopo l´11 settembre e la creazione del carcere di detenzione per i terroristi di Al Qaeda nella base militare di Guantanamo, a Cuba.
I documenti declassificati non indicano in alcun modo se Truman - o il suo successore alla Casa Bianca Dwight Eisenhower - abbiano mai approvato o meno questo piano. Negli anni della guerra di Corea (e anche dopo) partì la cosiddetta "caccia alle streghe", lanciata dal senatore repubblicano del Wisconsin Joseph McCarthy, contro le «spie e i sostenitori del comunismo» all´interno degli Stati Uniti. Anche nei momenti più bui del maccartismo non si arrivò mai, neanche lontanamente, ad arresti di massa così massicci come quelli richiesti da Edgar J. Hoover. Quello che é possibile, ma ancora tutto da dimostrare, é che l´Fbi e McCarthy abbiano usato almeno in parte quell´elenco di 12mila nominativi durante il periodo della "caccia alle streghe" dove vennero interrogati tra gli altri numerosi intellettuali e personaggi del cinema: Charlie Chaplin, Elia Kazan, Gary Cooper, Robert Taylor. Nel mirino del «comitato per le attività antiamericane» finirono anche Arthur Miller e Marilyn Monroe (al tempo sua moglie); quest´ultima si rivolse per aiuto a John F. Kennedy, a quei tempi senatore del Massachusetts, visto che nella commissione di McCarthy sedeva anche suo fratello Robert.
La collezione di documenti della guerra fredda declassificata venerdì scorso fa parte di un nuovo volume del The Foreign Relations of the United States, una serie di libri che per legge sono stati pubblicati in continuazione dal Dipartimento di Stato sin dagli anni della guerra civile americana. Nel piano proposto da Hoover i 12mila arrestati sarebbero stati internati «per una detenzione permanente» sia in basi militari che nelle prigioni federali. L´Fbi - precisava Hoover - ha già chiaro che gli arresti nella città di New York e in California (i bastioni liberal sulle coste est ed ovest degli Stati Uniti) potrebbero causare una grossa sovrappopolazione nelle prigioni locali. Per questo motivo - aggiunge sempre Hoover - il Bureau ha già predisposto dei centri di detenzione in aree e caserme militari «proprio per gli individui che verranno arrestati» a New York e in California.
Nonostante la richiesta di sospensione dell´Habeas Corpus, nel piano di Hoover viene previsto che per i prigionieri ci sia alla fine la possibilità di un´audizione davanti a una commissione composta da un giudice e da due cittadini americani. Audizioni - precisa però la lettera del capo dell´Fbi a Truman - che non prevedono «le regole dell´evidenza».
Nella storia americana dello scorso secolo l´unico precedente che richiama in qualche modo il piano di Hoover é il cosiddetto "Palmer Raids" (era il 1920) quando gli uomini della divisione dell´intelligence (a capo della quale c´era proprio Hoover) fermarono migliaia di persone sospettate di essere comuniste ed estremiste. Era peraltro noto che l´Fbi avesse il security index, un elenco di persone sospettate di attività pericolose per la sicurezza degli Stati Uniti. Secondo altri documenti già declassificati quest´index era già pronto molto prima della guerra fredda. Nel marzo 1946, ad esempio, Hoover aveva chiesto il potere di arrestare americani «che possono essere pericolosi» nel caso l´America sia coinvolta in una nuova guerra; e nell´agosto del 1948 l´Attorney General (il ministro della Giustizia) Tom Clark aveva dato all´Fbi il potere di compilare la lista nera dei possibili nemici.
La lettera del 7 luglio 1950 non é in realtà indirizzata direttamente al presidente americano. Il destinatario é Sidney W. Souers, che era stato in passato uno dei primi direttori dell´intelligence Usa e che in quell´estate in cui iniziò la guerra in Corea era assistente speciale di Truman per la sicurezza nazionale. Per conoscenza il piano venne anche trasmesso al segretario esecutivo del Consiglio di Sicurezza Nazionale, l´organismo di cui fanno parte presidente, ministro della Difesa, Segretario di Stato e capi militari. Nel settembre 1950 il Congresso approvò invece (e Truman la firmò) una legge che autorizzava la detenzione di «pericolosi estremisti» nel caso il presidente avesse dichiarato l´emergenza nazionale. Cosa che Truman fece effettivamente nel dicembre di quello stesso anno, dopo che la Cina comunista di Mao era entrata ufficalmente in guerra a fianco dei nord-coreani.
Repubblica 24.12.07
Cina, l'industria delle Bibbie
di Federico Rampini
Che in Cina la religione sia ancora un terreno minato lo dice persino l´avviso pubblicato sul sito ufficiale dei Giochi olimpici, per atleti e spettatori stranieri. Che dice: «Non portatevi più di una Bibbia a testa». Per evitare proselitismi. Ma nello stesso tempo la Cina diventa anche il più grande produttore-esportatore di Bibbie, con un milione e duecentomila copie vendute solo in Usa. Perché anche qui la sua scalata ai mercati mondiali procede implacabile.
Nella Cina rossa la fabbrica record delle Bibbie. Il testo sacro viene stampato in 90 diverse lingue Da maggio un impianto ne produrrà un milione al mese
La decisione del Papa di non ricevere il Dalai Lama dice quanto siano delicati i rapporti tra il Vaticano e la Cina. In una fase in cui la Chiesa tenta di riallacciare i rapporti diplomatici con la Repubblica popolare, Benedetto XVI ha preferito non compiere un gesto che poteva attirargli dure ritorsioni da Pechino. Che la religione sia ancora un terreno minato in questo paese lo conferma anche un avviso pubblicato sul sito ufficiale dei Giochi olimpici. E´ rivolto all´attenzione di atleti e spettatori stranieri: «Non portatevi più di una Bibbia a testa». Guai se le Olimpiadi diventassero il cavallo di Troia per il proselitismo cristiano.
Quando invece si tratta di affari il regime cinese sa applicare il precetto evangelico: non sappia la tua mano destra ciò che fa la sinistra. Mentre i suoi fedeli possono ancora essere vittime di persecuzioni, la Cina diventa il più grande produttore-esportatore di Bibbie. Anche dove nessuno se l´aspetta, la sua scalata ai mercati mondiali procede implacabile. Quest´anno un milione e duecentomila Bibbie made in China si sono vendute solo negli Stati Uniti, altre seicentomila in Inghilterra. La data fatidica per la conquista del primato assoluto è fissata tra cinque mesi. Nel maggio 2008 sarà inaugurata vicino a Nanchino, l´antica capitale imperiale sulle rive dello Yangze, la più grande tipografia di Bibbie del mondo: uno stabilimento nuovo fiammante di 85.000 metri quadrati, che i muratori stanno ultimando in un parco tecnologico riservato agli insediamenti industriali. «E´ più larga della basilica di San Pietro», ha annunciato il quotidiano di Hong Kong, The South China Morning Post. Grazie alle nuove rotative da 4 milioni di dollari importate dalla Gran Bretagna, l´impianto sfornerà un milione di Bibbie nuove ogni mese, il 25% di tutta la produzione mondiale. La casa editrice che lo possiede si chiama Amity Printing ed è già oggi un colosso. Dai suoi esordi nel 1986 ha pubblicato più di 50 milioni di Bibbie in 90 lingue straniere, «dallo slovacco a svariati dialetti africani». Non è l´unica in questo mestiere. Il suo concorrente più robusto, "China Translation and Printing Services", arriva a stampare un milione di copie dell´Antico Testamento e dei Vangeli ogni anno. Secondo Derek Hill della "Bible Society" che fa capo alla chiesa anglicana, «ci sono grossi editori di Bibbie in tutto il resto del mondo, ma il made in China sta conquistando la posizione dominante in America, in Europa, in Corea del Sud».
Le sorprese non finiscono qui. Gli editori cinesi come "Amity" sanno che per loro la vendita sui mercati esteri rappresenta solo una piccola parte della produzione. Il grosso di quel che stampano è destinato al pubblico locale.
L´80% delle Bibbie col marchio "Amity" sono in mandarino o cantonese, vendute a un prezzo di copertina di 9,50 yuan (90 centesimi di euro). E´ un sintomo rivelatore della penetrazione reale del cristianesimo in Cina, che le autorità tendono a sottostimare sistematicamente. Gli editori dal canto loro si dicono certi che una larga quota dei fedeli cinesi ancora non possiede un Vangelo in casa propria. In passato del resto quelli erano libri proibiti, la scoperta di una Bibbia in casa poteva portare all´arresto e alla deportazione.
Chi possiede la gigantesca tipografia della "Amity Printing" che sta sorgendo a fianco di fabbriche come Motorola e Ford, con un neozelandese come direttore? Dietro questo gruppo c´è un´azionariato particolare: una joint venture fra un´associazione filantropica di cristiani cinesi e la "United Bible Societies". Quest´ultima fa capo a un consiglio mondiale di chiese protestanti, che alla Cina dedica le sue attenzioni da molti anni. Fin dal 1986 c´erano i capitali delle chiese protestanti angloamericane dietro la fondazione della "Amity Printing" di Nanchino. Un investimento lungimirante.
In Italia la condizione dei cristiani in Cina viene spesso identificata con i tormentati rapporti tra la Repubblica popolare e la Santa Sede. Quei rapporti furono bruscamente interrotti sul piano diplomatico nel 1951 quando Mao decise l´espulsione dei missionari; poi divennero ancora più complessi per la creazione di una Chiesa patriottica obbediente al regime; infine ci fu il periodo più buio, dell´ateismo di Stato e dalle persecuzioni violente nel periodo della Rivoluzione culturale (1966-1976).
Anche se dopo la scomparsa di Mao il regime ha gradualmente liberalizzato certe attività religiose, i cattolici cinesi vivono tuttora in una sorta di scisma. Da una parte ci sono cinque milioni di fedeli che frequentano le parrocchie «patriottiche», con sacerdoti e vescovi che hanno giurato fedeltà al governo. Dall´altra c´è la chiesa cattolica clandestina che resta fedele al Vaticano e ha un seguito ben più numeroso (dagli 8 ai 12 milioni) ma è sempre esposta al rischio di arbitri e abusi brutali.
La galassia del mondo protestante ha caratteristiche molto variegate ma una platea ancora più vasta. Certe stime arrivano ai 40 milioni di praticanti. Anche questo è un continente per metà emerso, cioè legalizzato e sottoposto ai controlli dello Stato, per un´altra parte clandestino e perseguitato. Ironia della sorte, uno dei «reati» più spesso contestati dalle forze di polizia ai protestanti clandestini è proprio la diffusione non autorizzata di Bibbie. Per il regime di Pechino questa rete protestante rappresenta una sfida di tipo diverso. Non obbedisce ad un´unica autorità religiosa come il Papa di Roma, una figura «indigesta» per il partito comunista che non ammette concorrenti nel compito di orientare i propri cittadini. Tuttavia il mondo delle chiese protestanti ha mezzi finanziari illimitati che affluiscono per vari canali dall´America, dalla Gran Bretagna, dall´Australia, dalla Corea del Sud. Inoltre i dirigenti comunisti temono sempre una proliferazione incontrollata di sette, dopo essere stati colti impreparati dalla fenomenale diffusione di Falun Gong anni fa.
Il revival del cristianesimo, cattolico o protestante, lambisce molti settori della società civile. La disillusione verso il comunismo, il materialismo dilagante nella Cina del boom economico alimentano la ricerca di nuovi valori. Una dimostrazione si ripeterà anche quest´anno, alla vigilia di Natale. A Pechino, Shanghai, e in altre grandi città, regolarmente alla sera del 24 dicembre le parrocchie si riempiono non soltanto di fedeli. Vengono invase da folle di non battezzati, attirati dalla liturgia e incuriositi dal fenomeno religioso. Anche a loro un giorno si potrà vendere una Bibbia. Di certo il business della "Amity Press" non corre rischi. Alla sua fabbrica modello, con 600 dipendenti e le casse piene dei profitti dalle esportazioni, il regime garantirà sempre un trattamento con i guanti di velluto.
Repubblica 24.12.07
De Chirico. Il potere di fermare il tempo
Un'esposizione a Valencia indaga i rapporti tra l'architettura e il lavoro del pittore "metafisico"
Si può immaginare la pittura di Giorgio De Chirico come un lungo ed estenuante confronto con il tempo. Quell´esperienza che facciamo a livello sia interiore che storico, per De Chirico divenne un modo per immobilizzare, in una serie di forme solo in apparenza classiche, il mondo delle cose e degli uomini. La parola "metafisica" - che De Chirico prese in prestito dal pensiero filosofico, e che trasformò arbitrariamente in un´esperienza concettuale molto personale - era la chiave di volta di questa lunga, appassionante, ma anche equivoca, avventura pittorica.
Di essa ci offre testimonianza la bella mostra, intitolata Il secolo di De Chirico, apertasi in questi giorni all´IVAM di Valencia, che durerà fino al 17 febbraio ed è curata da Vincenzo Trione, coadiuvato da un gruppo di giovani storici.
De Chirico è il Novecento, non solo per l´ovvio motivo che in quel secolo operò e visse, ma anche e soprattutto perché di quel secolo seppe fissare il senso di raggelata e astratta potenza, l´ambiziosa e contraddittoria capacità di mescolare i linguaggi, i saperi, le passioni. Ecco perché il sottotitolo di questa mostra, Metafisica e architettura, può meglio spiegare la novità che De Chirico ha finito col rappresentare anche nei confronti di altre forme di espressione artistica. Da questo punto di vista questa mostra indaga in che misura l´architettura abbia pesato nell´opera del pittore e quanto invece il pittore abbia influenzato l´architettura del Ventesimo secolo.
Racconta lo stesso De Chirico che nel 1910 - provato sia fisicamente che psicologicamente da una lunga e dolorosa malattia - trovandosi in una piazza fiorentina, subì per la prima volta un senso di estraniamento e indeterminazione davanti alla realtà. A questa percezione irreale diede il nome di metafisica. Quella piazza non era dotata di nessuna forma architettonica particolare. Presentava una sequela, quasi infantile, di volumi: file di case, una chiesa, un monumento al centro. Un´ulteriore semplificazione - ancora più consona alla sua ricerca - De Chirico la trovò poco più tardi, in certe forme urbane torinesi di cui riprese le piazze regolari, circondate da portici dal ritmo monotono e ipnotico, le torri e le ciminiere vertiginose e incombenti. Forme semplici che si prestano ad un gioco di luci e ombre, di fughe prospettiche deformate, atte a raffigurare quello che il pittore aveva voluto chiamare "enigma".
De Chirico era convinto, come scrisse anni dopo, di aver trovato nelle piazze d´Italia e nelle forme architettoniche che le definivano, le fondamenta di una nuova estetica. Le silenziose scenografie abitate da ombre inquietanti, i pochi passanti si trasformano in statue e manichini, mostrano quindi solo in parte la forte capacità di rileggere il passato, secondo la lezione di Böcklin. Ha perciò ragione Vincenzo Trione quando scrive nella sua bella e stimolante introduzione al catalogo, edito per ora solo in spagnolo da Skira, che De Chirico rimane sempre novecentesco. Anche quando guarda al dorico o a Mantegna, egli gioca sulla scacchiera dei contemporanei. Tutto perciò appare volutamente incoerente, anche il tradire la classicità nel momento in cui vi si ispira.
Non è un caso che questo prolungato dialogo tra classicità e modernismo, tra ordine e cambiamento, tra funzione e apparenza diventerà il confronto a cui sono chiamati in special modo gli architetti italiani destinati a dare una nuova forma al secolo che si è da poco aperto e che è stato segnato dalla prima guerra mondiale e dall´avvento del fascismo. Ed è in questo clima di rappel à l´ordre - dopo le follie belliche, dopo la sbornia futurista e decorativista - che l´attenzione di urbanisti e architetti si fissa sull´immagine che due decenni prima aveva fornito De Chirico.
Può colpire la fantasia di un critico il fatto che un´immagine pittorica - confinata su una tela - prenda vita e si realizzi concretamente in un progetto architettonico. Pochi sono i precedenti nella storia dell´arte. Due secoli prima di de Chirico, i paesaggi classici di Claude Lorrain - completi di templi, ponti palladiani e greggi di pecore - si materializzarono nelle campagne inglesi. Nel Novecento toccò a de Chirico diventare una sorta di paradigma di un linguaggio che si sarebbe realizzato altrove. Ma anche qui non senza fraintendimenti e superficiali semplificazioni. Si pensi al modo in cui il fascismo si appropriò delle forme visive elaborate da De Chirico. I porticati, le torri, le grandi superfici piane e chiare finirono col sottomettersi alla richiesta propagandistica di un regime per il quale la definizione di una forma architettonica, di impronta nazionale e di maschia severità, pur rimanendo funzionale, pratica, moderna, doveva evocare la grandezza di un passato che apparteneva al popolo. È qui l´origine di decine di "piazze d´Italia" che formarono i centri delle nuove città fondate nelle bonifiche e nelle colonie, luoghi che tuttora godono di grande suggestione, soprattutto nei rarefatti inverni in cui il vuoto e l´assenza di presenze umane rende quegli spazi simili a dei non luoghi.
Grazie ad un piccolo gruppo di progettisti che prese le distanze dal tronfio classicismo voluto dal regime (in particolare Terragni, Muzio), si realizzò uno studio sapiente e consapevole attorno alla metafisica di De Chirico. L´idea di estraniamento, di assenza, di irrealtà - in definitiva di modernità - che la metafisica pittorica aveva elaborato trovò una brillante identificazione in un nuovo modello di spazio.
Sia pure percorrendo strade diverse, nel corso delle tre o quattro generazioni che si sono susseguite, molti architetti, pur arrivando a conclusioni diversissime, hanno riconosciuto il loro debito nei confronti della pittura di De Chirico. Sia che si tratti di razionalisti, di post-moderni o di onirici progettisti dell´architettura disegnata, si avverte nel loro lavoro - soprattutto quando non si impigliano in un classicismo di maniera - la capacità di comunicare attraverso il progetto, l´idea, il concetto, la purezza e soprattutto quella ironica monumentalità che trae origine dall´opera del Pictor Optimus.
La mostra valenciana non offre certezze e definizioni scolpite nel marmo, come quelle che decorano gli edifici dell´architettura metafisica dell´EUR. Essa è ricca di suggerimenti, di ipotesi, di indicazioni talvolta sorprendenti, sempre stimolanti.
Repubblica 24.12.07
Torino. Collage / Collages: dal Cubismo al New Dada
Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea. Fino al 6 gennaio.
La mostra intende proporre al pubblico una lettura storica della tecnica del collage, a partire dalle esperienze pilota di Pablo Picasso e Georges Braque. Tecnica questa, poi largamente utilizzata dai protagonisti delle avanguardie storiche, dai futuristi italiani ai dadaisti, perché permette una presa diretta sulla realtà. Il percorso espositivo, curato da Maria Mimita Lamberti, Maria Grazia Messina e Pier Giovanni Castagnoli, documenta l'utilizzo del collage fino agli anni Sessanta, dando conto delle diverse intenzioni degli artisti e delle sofisticate varianti tecniche da essi introdotte. Tra le centosessanta opere presentate, da segnalare i papier collé cubisti, i romanzi-collage di Max Ernst, le prove dei surrealisti, le provocazioni di George Grosz, Otto Dix e Kurt Schwitters, le ricerche successive di Robert Rauschenberg e Giulio Paolini.
Corriere della Sera 24.12.07
I reati sono in calo
In sei mesi 145 mila crimini in meno Diminuiti gli omicidi, più furti in casa
di Fiorenza Sarzanini
Ritorno in cella
Per gli esperti i numeri sono spiegabili anche con il ritorno dietro le sbarre di almeno 6 mila persone sulle 24 mila rimesse in libertà con l'indulto dell'estate 2006
Il timore
Gli esperti temevano che venisse superata la soglia dei tre milioni di reati. Grazie a quanto accaduto nell'ultimo periodo, siamo a meno di 2 milioni e 800 mila
ROMA — È un dato inaspettato anche per gli addetti ai lavori. Perché gli indicatori fornivano buone proiezioni, ma nessuno si aspettava che la diminuzione sarebbe stata tanto forte. E invece negli ultimi sei mesi del 2007 c'è stato un calo dei reati commessi pari a 145.043. Si è passati da 1.468.161 delitti nel periodo fra gennaio e giugno a 1.323.118 tra giugno e dicembre. E, se si eccettuano i furti in appartamento che hanno avuto una nuova impennata, tutte le «voci» registrano un vistoso «meno».
Meno rapine, meno omicidi, meno estorsioni, meno incendi, meno scippi. Giù pure i reati legati agli stupefacenti. Un bilancio complessivo che non ha precedenti e che non può essere spiegato con l'aumento annuale del numero delle persone arrestate, soprattutto perché negli ultimi sei mesi anche questo dato si è mostrato in diminuzione. In realtà gli specialisti ritengono che una delle cause di questa inversione sia la fine degli effetti causati dall'indulto. La scarcerazione di migliaia di detenuti cominciata nell'agosto del 2006 dopo il provvedimento di clemenza, aveva provocato un'impennata di reati nel secondo semestre dell'anno, proseguita nei primi mesi del 2007 e ora evidentemente riassorbita. Secondo i dati forniti lo scorso ottobre in Parlamento dal ministro della Giustizia Clemente Mastella, su 24.000 persone rimesse in libertà, già 6.000 erano i recidivi che avevano fatto ritorno dietro le sbarre.
Complessivamente il numero dei delitti resta altissimo: 2.791.279 rispetto ai 2.771.490 del 2006. Ma le previsioni paventavano lo sforamento dei tre milioni e per questo al Viminale tirano un sospiro di sollievo. A confortare è il calo dei «reati predatori », quelli che maggiormente colpiscono la popolazione e provocano allarme sociale. Negli ultimi sei mesi i furti sono stati 771.694, ben 62.066 in meno rispetto ai primi sei mesi e addirittura 82.435 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Curva discendente anche per gli scippi: nel secondo semestre 2007 sono stati 10.439, con un calo rispetto al primo di 1.390 e di 1.422 se paragonato allo stesso arco temporale del 2006. Se si fa la somma annuale restano entrambi in crescita, ma sono gli analisti a spiegare che il valore significativo è rappresentato proprio dal trend negativo.
Una tendenza che, a leggere i numeri sulle rapine, diventa clamorosa visto che per la prima volta dopo anni si registra una diminuzione complessiva: dalle 50.270 commesse nel 2006 alle 49.123 del 2007. Se si guarda la curva, negli ultimi sei mesi si arriva ai livelli del secondo semestre del 2005 con 22.675 reati di questo tipo denunciati tra giugno e dicembre. Uguale risultato per le violenze sessuali che in questo stesso periodo sono state 2.057, a fronte delle 2.421 dei primi sei mesi dell'anno.
Significativo anche il dato che riguarda gli omicidi. Nel 2006 sono state uccise 621 persone, nel 2007 sono state invece 593.
Rimane forte l'allarme per il dominio della criminalità organizzata che, come già era stato sottolineato nel rapporto sulla sicurezza reso pubblico ad agosto, «continua a caratterizzare il panorama delinquenziale nazionale secondo modelli in persistente evoluzione, privilegiando un radicamento sul territorio d'influenza e mantenendo un'elevata capacità di infiltrazione nel tessuto economicofinanziario». In questo quadro, uno spiraglio di luce arriva dai numeri che riguardano le estorsioni. I segnali positivi che già erano stati rilevati in Campania, trovano conferma nelle cifre a livello nazionale visto che nel 2007 si è passati da 3.144 casi nei primi sei mesi a 2.658 nei secondi sei. Il calo delle denunce per questo tipo di reato viene generalmente interpretato con la paura delle vittime di subire ulteriori ritorsioni, ma gli analisti ritengono che questi numeri siano in realtà «la conferma di una nuova situazione che si sta creando nelle Regioni maggiormente esposte, anche grazie a un rinnovato impegno delle associazioni che sostengono imprenditori e commercianti vessati dal racket».
La paura dei cittadini è un problema che il ministero dell'Interno aveva già affrontato nel dossier di agosto sottolineando come «la quota di cittadini che teme di subire un reato è in lieve declino, anche se le percentuali variano a seconda delle zone del Paese. Nel nord-est il numero di cittadini che considera molto o abbastanza a rischio di criminalità la zona in cui vive, è infatti fortemente cresciuta».
Quella dei «patti per la sicurezza» siglati con i sindaci di molte città, rimane per il ministro dell'Interno Giuliano Amato la strada giusta da percorrere anche per garantire un maggior controllo del territorio. Ai carabinieri, alla polizia e alla Guardia di Finanza, si affiancano infatti i reparti della polizia locale ma, come spiegano al Viminale, «a fare la differenza è il coinvolgimento di tutti i soggetti sociali ed economici presenti sul territorio, attraverso forme di raccordo con gli enti istituzionali ». È la cosiddetta «sicurezza partecipata », che il capo della polizia Antonio Manganelli ritiene di dover applicare non soltanto per combattere la delinquenza comune, ma anche per affrontare la criminalità organizzata.
Corriere della Sera 24.12.07
Le polemiche Sarà l'edificio più grande del mondo. Contestatissimo
Foster, maxitorre di cristallo «È l'icona della nuova Mosca»
di Guido Santevecchi
Ha in sé tutte le caratteristiche della Mosca di oggi: fiducia nella crescita, sfrontatezza e volgarità
Non ha equivalenti al mondo: è la prima volta che si cerca di combinare case, centri culturali, uffici in un unico progetto
LONDRA — L'architetto Norman Foster l'ha chiamata Crystal Island, perché la sua gigantesca creatura avrà una struttura esterna a forma di petali e cristalli. I critici l'hanno già ribattezzata «Albero di Natale» e temono che il panorama di Mosca venga snaturato dalla costruzione, che sorgerà a otto chilometri in linea d'aria dal Cremlino. Il sindaco Yury Luzhkov ha appena dato il via libera al progetto, affascinato dall'idea di dare alla capitale russa la più grande costruzione del mondo.
L'immenso grattacielo con una superficie coperta di 2 milioni e 700 mila metri quadrati, quattro volte quella del Pentagono di Washington sarà una sorta di città autosufficiente, con 900 appartamenti, 3 mila camere d'albergo, uffici, un centro commerciale, cinema, teatro, un museo, una scuola internazionale per 500 studenti, un centro sportivo. Tutto racchiuso in una torre di 450 metri dominata da un ago di vetro di 300 metri. Sulle facciate saranno applicati pannelli solari e turbine eoliche per l'alimentazione dei locali dove vivranno o lavoreranno 30 mila persone.
L'inglese Lord Foster, autore di icone dell'architettura moderna dalla Torre della Commerzbank a Francoforte, alla ristrutturazione del Reichstag di Berlino, al Millennium Bridge e al Gherkin di Londra, a 72 anni si dice «eccitatissimo» dalla nuova sfida che «non ha equivalenti al mondo: è la prima volta che qualcuno cerca di combinare case, centri culturali, uffici e spazi aperti in un unico progetto».
Foster paragona il suo progetto alla Royal Albert Hall di Londra, inaugurata nel 1871 dalla regina Vittoria nei giorni in cui un quarto delle terre emerse apparteneva all'impero britannico e dice che quando una nazione è in crescita è giusto che caratterizzi l'architettura con un progetto iconico. Esulta anche Timothy Garton Ash, docente di studi europei a Oxford, secondo il quale «la Russia sente di essere di nuovo in marcia dopo l'umiliazione della Guerra Fredda». Garton Ash paragona le affermazioni di potenza di Putin alle forme ardite dell'Isola di Cristallo: «Dimostrazioni di forza e successo dirette non solo ai russi ma al mondo ».
Ci sono anche voci critiche. Orlando Figesm professore di storia al Birbeck College di Londra, dice che la costruzione di Foster ricorda in modo sinistro la Torre di Tatlin sognata per San Pietroburgo nel 1919 come monumento alla nuova utopia sovietica: «Questo edificio ha in sé tutte le caratteristiche della Mosca di oggi: la fiducia nella crescita, la sfrontatezza e la volgarità». Ha qualcosa da dire anche Alexander Kudryatsev, presidente dell'Istituto di Architettura moscovita: «La prima impressione di chi vede i disegni è: che roba è questa, un albero di Natale?».
L'architetto Yury Bocharov teme per la vicinanza del «mostro» alle chiese di Kolomenskoye, protette dall'Unesco: «Questo progetto è un peccato», ha detto al giornale Rossiiskaya Gazeta.
Invidia di colleghi russi per l'invasione di campo da parte di uno straniero? Per la verità Lord Foster ha subito qualche critica anche in patria. Dopo gli elogi per il grattacielo a forma di sottaceto (Gherkin) che domina la City, è arrivata la mezza delusione per il nuovo stadio di Wembley. Molti lo hanno giudicato troppo freddo e impersonale rispetto al mitico vecchio tempio del calcio: una struttura senz'anima britannica, che è a Londra come potrebbe essere a Kuala Lumpur o a Pechino.
Foster sta anche lavorando a un nuovo palazzo di uffici nel cuore della City, a 500 metri da St Paul's: lo ha immaginato con una cupola a onde, come una sorta di gemello futuristico della cattedrale barocca di Sir Christopher Wren. Anche qui polemiche per la commistione tra sacro e profano.
Corriere della Sera 24.12.07
Arte La storia delle opere raccontata in televisione
E Caravaggio rivelò i suoi segreti andando in video
di Carlo Bertelli
Metodo
Il potere di seduzione dei maestri attraverso otto conversazioni tenute alla Bbc
«Per favore, prenda la chiave», disse il sagrestano di San Giovanni alla Valletta (Malta) a Simon Schama, che stava guidando la troupe televisiva per la ripresa del Martirio di san Giovanni del Caravaggio. «Per favore, prenda la chiave», insisté mentre il professore universitario britannico lo guardava senza capire. Finalmente la chiave, una grossa chiave di ferro, passò nelle sue mani. Ed ecco. Quella chiave era la stessa che, nel quadro, pende dalla cintura del secondino. Improvvisamente Schama si trovava ad avere in mano un pezzo della realtà com'era prima che Caravaggio la ritraesse e come sarebbe rimasta.
Quel pavimento su cui il pittore, fuggiasco e assassino, aveva segnato la firma con il sangue del Battista, premettendo al nome le lettere FR (frater), è lo stesso su cui si eseguivano le sentenze capitali. Il primo dicembre del 1608 i cavalieri si radunarono nell'oratorio per sentirsi dire che Fra Michelangelo per quattro volte non aveva risposto all'appello, e pertanto fu decretato putridum et foeditum ed espulso dall'ordine. Ma Michelangelo, lui, aveva già giudicato. Facendo suo il sangue del Battista, si dichiarava peccatore e martire. Ora era chi lo condannava ad essere assimilato a Erode.
Così le distanze crollano. Crolla quella tra la vita del pittore e la sua opera, crolla quella tra lo spettatore e il grande quadro, e anche quella tra passato e presente. La chiave è lì, e se la chiave è una «chiave di lettura», allora quella lettura si basa su oggetti reali e tangibili, sul ferro e sul sangue.
Questo è uno dei tanti flash del libro di Schama, su cui val la pena di soffermarsi.
Il libro è germogliato da un programma di otto conversazioni sull'arte tenute alla BBC. Raccoglie l'esperienza che uno storico dell'arte ha acquisito guardando le stesse cose che vedono i suoi colleghi, ma nell'urgenza di un racconto visivo, nel quale convergono gli studi a tavolino e la lunga esplorazione delle opere mentre si sciolgono i cavi, si dispongono le luci, si prova l'audio... Da questa invidiabile esperienza sono nate pagine di brillanti e intelligenti conferenze, dove l'erudizione cede il passo ad un'esposizione affabile e cordiale.
E così, anche se non abbiamo visto le trasmissioni della BBC, possiamo ricavare dal libro alcune indicazioni che possono confortarci. Prima considerazione. La comunicazione televisiva è efficace se mette in relazione i luoghi con la parola. Il successo che hanno da noi le trasmissioni di Philippe Daverio deve sicuramente moltissimo alla sua straordinaria mobilità. Secondo. La ripresa televisiva deve essere tutt'altra cosa dalla successione di immagini in un meraviglioso libro illustrato. Terzo: emozioni e giudizi personali del conduttore debbono fondersi con il racconto della vita dell'artista in una assoluta empatia.
Di conseguenza lo spettatore è grato, a chi gli parla, se questi espone i propri dubbi e i propri percorsi verso il giudizio attuale. Non persuade chi «è nato imparato». Schama confessa candidamente di non avere amato Rothko di primo acchito, di essere arrivato lentamente ad ammirarlo. E con Picasso, perché non ammettere che anche il genio ebbe momenti di stanchezza, prima del grande scatto di «Guernica»?
Presentare a un pubblico britannico un maestro «papista» come Gian Lorenzo Bernini richiedeva non poca abilità. Ma Schama è un maestro nel destreggiarsi tra le alleanze e gli umori delle grandi famiglie romane, in quella monarchia teocratica dove il re cambiava spesso, ma lasciava sempre un corposo seguito familiare.
Ancora un altro elemento importante nella comunicazione: la contaminazione con campi del tutto estranei ma che, richiamati alla mente, rivelano con forza una relazione. Così, nel descrivere il dipinto di Turner, «Veduta del canale di Chichester», Schama può tranquillamente dire che nel quadro «una grande nera imbarcazione procede lungo un'autostrada baluginante di luce». Longhi fu un grande maestro in questi traslati: il corpo di Cristo in una croce dipinta di Giunta Pisano che si contorce «come la S di squalo», le mensole dipinte da Giotto giovane nel transetto di Santa Maria Maggiore «come i vomitoria del Colosseo».
Zeri detestava simili raffronti e ricordo che in una trasmissione, nella quale, volendo spezzare al popolo il pane della scienza, condivideva la scena con una popolana, se la prese con un critico (probabilmente Testori), il quale aveva paragonato un pollo dipinto a un crocifisso. «Le pare che si possa confrontare Nostro Signore a un pollo?» , chiedeva Zeri alla sua stupefatta ascoltatrice.
Schama trancia la storia in modo talora troppo netto, ma che rimane impresso. Per esempio, quando scrive che, alla fine del cubismo, «vi furono due direzioni: decorazione e scultura. La prima, scelta per esempio da Matisse, portò all'astrazione... ma Picasso, il meno sentimentale, il più scultore degli artisti moderni, prese l'altra strada ». Certo, è semplificare parecchio, ma intanto il lettore — o lo spettatore — ha ricevuto una bussola. Saprà poi lui come usarla.
Caravaggio, «La decollazione del Battista», La Valletta (Malta), particolare
il Riformista 24.12.07
Sinistra italiana due costituenti, ma è in gioco il futuro
Caro Fausto, è dirimente l'adesione al Pse
di Paolo Franchi
C'è grande disordine sotto il cielo, ma la situazione non è affatto eccellente. Nemmeno a sinistra. Anzi, tanto meno a sinistra. Dove, in conseguenza della nascita del Partito democratico, si sono aperte addirittura due Costituenti. La Costituente socialista. E (anche se non si chiama esattamente così) la Costituente che dovrebbe dar vita alla Sinistra Arcobaleno, già Cosa Rossa.
Non c'è bisogno di spendere troppe argomentazioni per spiegare perché molto (ma molto) difficilmente potrà esserci spazio, sulla sinistra del Pd, per due diverse formazioni politiche, l'una di segno riformista, l'altra di segno più radicale, qualsiasi sia la legge elettorale in vigore, ma tanto più, si capisce, in presenza di una soglia di sbarramento di stampo grosso modo tedesco. Può essere invece più utile, forse, provarsi a ragionare sulla questione in termini più generali. Anche per vedere se è possibile provarsi a prenderla dal verso giusto, prima che sia troppo tardi.
Riformisti e radicali, ovvero due sinistre, l'una di ispirazione seppur tardivamente socialdemocratica, l'altra tuttora convinta che andassero ricercate e trovate le vie di una qualche fuoriuscita dal capitalismo. Di questo si ragionava sino a qualche anno fa, interrogandosi sulla possibilità (e prima ancora sull'opportunità) che queste due sinistre, anziché dilaniarsi l'un l'altra, trovassero un'intesa in grado di reggere anche alla prova del governo. Bene (o male, fate voi): da allora lo scenario è radicalmente cambiato. Anche (ma non solo) per l'impronta che Walter Veltroni sta cercando di dare al Pd, un partito in cui ci sarà pure una sinistra, ma che non vuole essere e non sarà un partito seppur moderatamente di sinistra. La domanda non verte più su quale sinistra prevarrà, ma sull'esistenza o meno, nel futuro prossimo, di una sinistra in Italia, come ha spiegato assai bene su questo giornale, qualche tempo fa, Massimo L.Salvadori.
Se di questo si tratta (e noi pensiamo che le cose stiano proprio così), è evidente che tanto i costituenti socialisti quanto i costituenti della Sinistra Arcobaleno si sono andati a infilare su un binario morto, che farebbero bene a lasciare il prima possibile. Abbandonando, se ne sono capaci, il piccolo cabotaggio e le mediocri logiche di sopravvivenza di ceto politico. E provando a volare un poco, appena un poco, più in alto. Chiediamo scusa se la mettiamo giù piatta, a rischio di schematizzare oltre misura. Ma in Italia c'è un'area politica, sociale, culturale e anche elettorale assai vasta - sicuramente più vasta di quanto possa immaginare chi fatica a guardare oltre il proprio orticello - che, per quanto divisa, frammentata e spesso frustrata, continua a considerarsi per storia, inclinazioni ideali e, se volete, anche interessi, che non guastano mai, e pure per visione del mondo, di sinistra. Senza troppi aggettivi, ma di sinistra. Abbastanza di sinistra, in ogni caso, per non entusiasmarsi all'idea di un bipartitismo di fatto prossimo venturo nel quale il cuore della battaglia come delle intese politiche stia tutto al centro.
È questo vasto mondo, noi pensiamo, che ha diritto, anche se il concetto comincia ad essere inflazionato, ad una fase costituente. Perché è a questo mondo, che legittimamente si chiede se domani avrà ancora rappresentanza politica o dovrà accontentarsi di un qualche diritto di tribuna, che bisogna dare voce; ed è di questo mondo, se non si vuole parlare d'altro, che occorre costruire l'unità, rispettandone e anzi valorizzandone le diversità, quelle che vengono dal passato come quelle che il presente mette in un'inedita luce. Per farlo, non crediamo davvero siano sufficienti riconoscimenti pure assai importanti, come quelli di Fausto Bertinotti, a grandi personalità socialiste del passato (Riccardo Lombardi, ma anche Giacomo Mancini); o assicurazioni, come quelle che vengono dai costituenti socialisti, sulla volontà di non puntare alla ricostituzione, in sedicesimo, del Psi di Bettino Craxi. Una forza socialista di dimensioni rispettabili può essere costruita, in Italia, anzitutto spiegando, con chiarezza, con chi si sta in Europa e nel mondo, qual è insomma il campo di forze di cui si è parte e cui si fa riferimento. A noi sembra, e vogliamo dirlo in spirito di amicizia in primo luogo a Bertinotti, che l'adesione al socialismo europeo sia, per una moderna sinistra italiana, una questione dirimente. Non ci si può girare attorno all'infinito, proprio come faceva, nei suoi ultimi, tristi anni, il vecchio Pci.