Curzi: «Rifondazione in affanno, ma io dico che serve più piazza»
«La vecchia formula di “lotta e di governo” funziona. Vedo in prospettiva un partito per la sinistra, con dentro anche Boselli»
di Wanda Marra
PIÙ PIAZZA, subito la costruzione della sinistra-sinistra, e largo ai giovani nel partito. Si potrebbe sintetizzare così la “ricetta” di Sandro Curzi, Consigliere d’Amministrazione Rai, ex Direttore di Liberazione, per reagire al momento difficile di Rifondazione.
La crisi di Rifondazione sembra un dato incontrovertibile. È d’accordo?
«Per il partito è un momento molto brutto. Ciò accade perché Rc ha una dislocazione d’avanguardia nella sinistra italiana e questa non sta bene».
I dati delle amministrative puniscono tutta la sinistra, ma molto anche Rc. Perché?
«C’è una nostra incapacità di radicamento nel territorio. Non a caso l’unico risultato davvero positivo è stato quello di Taranto, dove Rc si è contrapposta insieme ad altri ad una parte del centrosinistra. Una scelta sofferta, ma che è caduta su una personalità radicata nel territorio. Ma a proposito di questo discorso, ho visto a Roma un manifesto di una Festa dell’Unità che parlava di “Democratic party”. Ma che cos’è il “Democratic Party?».
Tornando a Rc. Forse l’idea di un partito di lotta e di governo ha fatto il suo tempo, come afferma anche D’Alema?
«Non vedo come un partito non possa essere completamente legato alla società e contemporaneamente alle istituzioni. La prima volta in cui si parlò per il Pci di Togliatti di partito di lotta e di governo, il Pci stava al governo. E negli stessi anni in cui Togliatti era Ministro della Giustizia, noi organizzavamo scioperi alla rovescia, occupazioni e così via. Nella fase più recente della nostra storia, Berlinguer seppe far funzionare il partito come di lotta e di governo. Ad esempio nella lotta al terrorismo eravamo di lotta o di governo?».
Magari allora era una formula che funzionava. Ma a giudicare da quel che succede ora, come il flop della manifestazione di sabato scorso, sembrerebbe che non funzioni più....
«Oggi non funziona se noi non sappiamo comunicare. Io in realtà la scelta di sabato non l’ho capita. E infatti non c’ero. Perché fare un presidio e un corteo? Rc sta facendo una giusta autocritica, e me la faccio anch’io. Sarebbe stato meglio fare un grande corteo, in cui eravamo tutti. Anche i Ds, anche i Dl. Bertinotti giustamente richiamava l’importanza dell’esperienza della Perugia-Assisi. Quella poteva nascere come una grande manifestazione, isolando ovviamente i teppisti».
D’Alema ha sostenuto che l’opposizione alla politica di Bush la fa già il governo italiano, e quindi non c’era bisogno di una manifestazione...
«Una manifestazione come l’ho descritta io, sarebbe stata addirittura d’appoggio alla politica di D’Alema».
Ma non concorda sul fatto che c’è un problema con la piazza? Gli ultimi fischi li ha presi Giordano martedì sera a Firenze dai centri sociali.
«C’è un problema con la piazza, come c’è stato tante volte nel passato. Ma non si abbandonano le piazze, le strade. Anzi, serve più piazza, e più comizi».
Molti, anche dentro Rifondazione, hanno criticato la decisione di Bertinotti di fare il Presidente della Camera. È d’accordo?
«No. Si tratta di una critica sbagliata. Bertinotti ha fatto una scelta importante, proprio nel segno di un partito di lotta e di governo. E ha dimostrato un grande rispetto delle istituzioni. Sta facendo un lavoro egregio,all’interno di una situazione ingarbugliata e imbarbatita».
Forse, allora, è stata una scelta difficile per Rc...
«Certamente è stata una scelta molto sofferta per Rifondazione. Sento tuttora la mancanza di un leader forte come Bertinotti nella costruzione di questa sinistra che dobbiamo fare».
I vertici del partito non sono all’altezza?
«Non voglio dare la pagella agli attuali dirigenti. Ho grande stima e amicizia per Giordano. Ma certo la capacità di un compagno come Bertinotti c’era invidiata un po’ da tutti. Sempre nella politica ci sono quelli che sono un passo avanti.Inviterei tutti i compagni di Rc a essere umili. Ci sono giovani leader che devono venire avanti. Tutti dobbiamo saper stare al nostro posto, senza mettere i galloni».
Si può uscire da questa empasse?
«Se cresce la politica in Italia. C’è una crisi generale del sistema politico, Rc per prima cosa deve mettersi in testa alla costruzione della nuova forza che deve raggruppare la sinistra-sinistra».
A proposito di questo. Crede che si possa ancora parlare di comunismo?
«Dipende da cosa si intende con questa definizione».
Vede un partito nel futuro della sinistra-sinistra?
«Vedo la costruzione di una forza nuova che pian piano diventa partito. E ci vedo dentro anche Boselli. Nel Pci del 34% non c’erano contrasti o differenze? Il percorso deve essere il più rapido possibile».
Repubblica 14.6.07
A Firenze interrotto un dibattito. Il segretario: ma la platea ha fischiato i disturbatori
Scintille tra Prc e no-global Giordano contestato alla festa
Domenica, per la prima volta da quando è alla Camera, Bertinotti parlerà ai militanti
ROMA - Gli hanno gridato: «Giordano fa l´amerikano». Un gruppetto di una quarantina di giovani dei centri sociali e no-global hanno contestato martedì sera il segretario di Rifondazione e l´appoggio alle politiche internazionali del governo Prodi. Sul palco della festa nazionale di Liberazione a Firenze era in corso un dibattito con il ministro Fabio Mussi e Gianni Rinaldini della Fiom. Giordano non ha reagito mentre per una decina di minuti tre contestatori hanno cercato di issare uno striscione, criticato Rifondazione, i Ds, il Pd e denunciato gli scontri con la polizia durante il corteo anti-Bush. Ma dalla platea sono partiti cori contro i contestatori: «Scemi, scemi, vergogna... ».
Giordano non solo non ne ha fatto un dramma ma ha sottolineato la «civiltà» di quel migliaio di persone in platea: «Mi pare abbiano dato una splendida e civile risposta». Per lui l´episodio non è affatto da inserire nel file "crisi del partito". In Prc tuttavia i malumori ci sono, e forti. Sono stati affrontati durante l´ultima riunione della segreteria, e di nuovo ieri da Giordano con i capigruppo di Camera e Senato Gennaro Migliore e Giovanni Russo Spena, dopo la riunione di tutta la sinistra radicale preparatoria all´incontro di stamane a Palazzo Chigi sul Dpef con Prodi e il ministro dell´Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. «Nessun ultimatum - hanno detto alla fine della riunione i presidenti dei deputati e dei senatori - ma il governo deve tornare al programma dell´Unione, o oppure vuol dire che non è affezionato alla sua maggioranza e ai cittadini che l´hanno votato». In pratica, una ricontrattazione che vede in primo piano le questioni economiche. La sinistra massimalista questa volta conta di «lottare unita». «La sinistra sia unita e radicale - esorta Pietro Folena del Prc in una lettera aperta pubblicata sul manifesto - . Non può essere ipergoverantiva e quindi digerire ogni rospo in nome della stabilità. La sinistra deve essere di lotta e di governo senza seguire i pessimi esempi venuti dalla maggioranza dei Ds».
E comunque, il popolo di Rifondazione aspetta le parole del "lider maximo" Fausto Bertinotti, che per la prima volta da quando è diventato presidente della Camera interverrà a un appuntamento politico, l´assemblea della Sinistra europea, sabato e domenica. Ma è Sinistra europea, la creatura politica di Bertinotti, la strategia a più ampio respiro che fu l´ultimo suo atto da segretario di Rifondazione. Anche se ci sono aree di sofferenza, il partito è in modo compatto sulla linea che Bertinotti ha tracciato nel congresso di Venezia del 2005. Sabato mattina, la giornata è dedicata al futuro della sinistra e ci saranno anche Oliviero Diliberto, leader del Pdci, e Titti Di Salvo, capogruppo di Sinistra democratica a Montecitorio. Non ci saranno invece alcuni "dissidenti" di Rifondazione, come Salvatore Cannavò che ha già parlato di una mini-scissione della sua corrente "Sinistra critica", e comunque ritiene di essere «un ospite non gradito». Nella due giorni confronto sui temi e le scelte politiche concrete, inclusa la possibilità di un soggetto unico della sinistra e sulla sua collocazione in Europa.
(g. c.)
Repubblica 14.6.07
Un congresso a Firenze sull’uso dello humor nella cura
Se il terapeuta è divertente
L’ironia come antidoto al dolore
Una folla di terapeuti delle principali scuole italiane e europee si riunisce sul tema dell´umorismo nella clinica. Serissimamente, s´intende, con fior di relazioni e seminari, come d´obbligo in ogni convegno internazionale che si rispetti - e quindi anche in questo, in programma da oggi a domenica nelle sale del Palazzo dei Congressi di Firenze. "Umorismo e altre strategie per sopravvivere alle crisi emozionali": bel tema, in sé spiritoso, solo apparentemente laterale e invece molto importante. E anche impegnativo, perché umorismo sembra una paroletta ma tende a inglobare l´universo intero della comicità, fatto di mille sfaccettature e sfumature, dalla barzelletta al nonsense, dalla battuta innocua alla derisione, dall´ironia che è sempre lieve al sarcasmo che quasi sempre è aggressivo.
L´idea intanto è di due noti terapeuti della famiglia - Maurizio Andolfi e Camillo Loriedo - interessati ad approfondire una questione ancora irrisolta, seppure ha attraversato la storia della psicologia, e della psicoanalisi più in particolare. È degli albori del secolo scorso (1905) Il motto di spirito e la sua relazione con l´inconscio di Freud che non esitava a definire l´umorismo - aspetto delicato e impalpabile della cultura umana - come «il trionfo del principio del piacere», un´irriducibile sfida alle ragioni ferree della realtà. Per il maestro viennese, non c´è solo un vistoso elemento liberatorio nell´esercizio dello humour, ma «un che di grandioso e di nobilitante».
Ancora, giusto per fare un paio di esempi: molto più tardi, alla fine degli anni Ottanta, usciva da Cortina un libro magistrale come L´ironia attraverso la psicoanalisi di Giorgio Sacerdoti e più di recente un bel saggio di Mario Farnè significativamente intitolato Guarir dal ridere (Bollati Boringhieri). E comunque non è solo il mondo variegato della psicologia a interrogarsi sul senso profondo del "fare spirito", un terreno in cui le incursioni di altri saperi sono state molto colte - dalla filosofia (Il riso di Bergson) alla letteratura (L´umorismo di Pirandello).
«Ma quello che a noi interessa è l´uso dello humour nella relazione terapeutica, esplorarne il significato inconscio e le eventuali conseguenze cliniche», precisa Patrizia Moselli, allieva di Alexander Lowen, trainer internazionale di bioenergetica, presidente - per i prossimi due anni - della Fiap, la Federazione italiana di associazioni di psicoterapia. «L´umorismo è un´esperienza "alta" nel rapporto particolarissimo tra terapeuta e paziente, rappresenta uno stato di grazia e di profonda intimità spirituale, consente uno sguardo "altro" sugli aspetti che vengono via via affrontati, anche i più drammatici. Quando emerge il lato paradossale, "buffo" delle cose, chi è colpito dal dolore può distanziarsene, rintracciare un punto di vista diverso, avviare un processo di trasformazione emotiva, prima ancora che puramente mentale. Quanto al terapeuta, sempre che sia dotato di senso dell´umorismo, deve saperlo comunque ben dosare: senza censure ma anche senza inutili esibizioni, evitando con cura che il paziente possa sentirsi deriso».
Tra i protagonisti del congresso fiorentino c´è Patch Adams, l´inventore della "clownterapia" diffusa soprattutto in campo pediatrico, nella cura dei bambini disturbati. Bizzarro medico americano reso celebre da un film del ‘98 interpretato da Robin Williams, va in giro per il mondo proclamando che «l´antidoto a tutti i mali è l´umorismo» - con un qualche eccesso di enfasi o di ottimismo, non essendo francamente credibile che sia l´allegria alla base dei trattamenti terapeutici, tanto più se in gioco non c´è solo una crisi esistenziale ma "qualcosa" che meno si presta all´ilarità.
È vero però che non sempre in terapia ci si dispera e si piange, a volte effettivamente si sorride e si ride. L´immagine caricaturale dell´analista arcigno e severissimo con il paziente - anzi, con il suo caso clinico - appartiene ormai al passato, magari al cinema più datato di Woody Allen: oggi nessun terapeuta di nessuna scuola si presenta come una mummia silenziosa ed enigmatica. Tende invece all´empatia, al coinvolgimento nella relazione, seppure con grande cautela (se è bravo, naturalmente).
Quello che può diventare interessante è l´allusione implicita nella battuta umoristica, e dunque la possibilità di "metaforizzare" la sofferenza, la finestra che può aprirsi su un malessere spesso preso narcisisticamente troppo sul serio - e quasi sempre quando il malessere non è effettivamente serio. In altre parole, se vivere è faticoso per tutti (e per molti assai più che per pochi), la leggerezza dell´autoironia è una strada maestra da percorrere con abilità, aiuta a smantellare certe rigidità decisamente nevrotiche, quella pesantezza - in fondo anche frivola e superficiale - di considerare sé stessi e i propri crucci come l´ombelico del mondo.
Repubblica Firenze 14.6.07
Esperti a Siena: siamo ricchi e in carriera, ma tristi
Società del benessere, l’infelicità trionfa
Soli e stressati, così il modello Usa si estende anche all'Italia
di Laura Montanari
Certosa di Pontignano, a convegno esperti da tutto il mondo
Il reddito pro-capite aumenta così come la "povertà relazionale"
Negli Stati Uniti le donne lavorano oltre due mesi in più rispetto al 1975
Se c´è una formula che porta alla felicità, non pensate di trovarla chiusa dentro un ufficio, negli scatti di carriera, nelle spericolate arrampicate sociali o in un portafoglio pieno. Stareste inseguendo un miraggio. Siamo più ricchi, più soli, benestanti e meno contenti dicono le medie matematiche americane succhiate dalla prima banca dati sui fenomeni socio-economici, la General Social Survey. Grandi televisori, computer, dvd, home video, case ben equipaggiate, diventate isole, fortezze, tane per le nostre solitudini: possiamo comprare molte cose, non quello che ci serve per stare meglio. E´ il tema di uno degli studi che saranno presentati, cifre alla mano, nel convegno che si apre oggi pomeriggio alla Certosa di Pontignano (Siena) e al quale partecipano economisti, sociologi e psicologi provenienti da diverse università del mondo. «Policies for happiness», cioè le politiche per la felicità: è l´ambizioso titolo di una tre giorni che chiama a raccolta gli esperti che si occupano delle motivazioni del benessere individuale e delle politiche più adatte a sostenerlo, cioè quelle riforme economiche, sociali, istituzionali e culturali capaci di generare la soddisfazione dell´individuo.
«Gli americani negli ultimi trent´anni sono diventati più infelici» spiega Stefano Bartolini, economista dell´università di Siena che ha realizzato la ricerca fra gli altri, assieme a Ennio Bilancini (Siena) e Maurizio Pugno (Cassino). Il declino della curva della felicità è il risultato di due forze contrapposte: una positiva, l´aumento del reddito pro-capite, l´altra negativa, la «povertà relazionale». Il saldo finale è a favore di quest´ultima e il fenomeno non è soltanto americano, lo si può estendere ai Paesi occidentali e industrializzati. Il modello è il medesimo. «La gente è più sola nel privato, non sul lavoro - prosegue il professor Bartolini - in trent´anni, negli Usa, il reddito pro-capite è lievitato, si guadagna di più e si lavora per più tempo: le donne per esempio, in media, due mesi e mezzo all´anno in più rispetto al 1975». Finita la giornata, impiegata fuori o dentro un ufficio, nelle mansioni più semplici o in quelle di vertice, ci restano addosso le pressioni, le incertezze: la paura di essere licenziati, di non essere adeguati, di non far carriera, paure trasversali rispetto alle occupazioni e alla busta paga. Quando poi apriamo la porta di casa e ci buttiamo in un mondo privato, lo troviamo magari poco popolato, freddo, desolato come certi orizzonti di Second Life. «Per comprendere l´importanza delle relazioni rispetto a quella del reddito nel determinare la felicità - racconta l´economista senese - prendiamo ad esempio, gli indicatori del clima sociale, misurando il valore monetario della onestà e solidarietà altrui. Gli individui che percepiscono gli altri come in genere onesti e solidali tendono ad essere più felici di quelli che percepiscono il contrario, cioè disonestà e mancanza di solidarietà. Per questi ultimi il reddito familiare addizionale necessario per raggiungere la felicità dei primi è 67.000 dollari annui (25.000 dollari è il valore della solidarietà e 42.000 dollari quello della onestà)». Dunque non è vero che la felicità non ha un costo, un codice a barre, in realtà qualcosa si può calcolare. «In altre parole - riprende il professor Bartolini - un individuo che percepisce di vivere tra gente disonesta e poco solidale necessita di 67.000 dollari annui in più di uno che percepisce il contrario, per raggiungere lo stesso livello di felicità. Ancora più impressionante è il valore economico della solitudine. Un individuo privo di contatti con amici e vicini dovrebbe disporre di 320.000 dollari annui in più rispetto a un altro che invece frequenta amici e vicini, per raggiungere il suo stesso livello di felicità». Sono cifre consistenti che portano alla conclusione che «l´economia americana avrebbe dovuto crescere a ritmi ben più elevati di quelli registrati perché l´aumento della povertà relazionale che essa ha sperimentato, non diminuisce la felicità dell´individuo». E´ chiaro che siamo davanti a dati soggettivi, la percezione della solitudine cambia da persona a persona, ma i grandi numeri, i campioni molto estesi, finiscono poi col tracciare un quadro capace di mettere a fuoco una tendenza: «La nostra ipotesi è che il declino della felicità e l´aumento degli orari di lavoro siano spiegate dal deterioramento delle relazioni, dalle difficoltà comunicative: se resto in ufficio mi sento utile, guadagno, sono impegnato e non avverto quanto sono solo». Tra gli indicatori della General Social Survey che segnalano la povertà relazionale, c´è anche il tempo che passiamo davanti alla tv.
Al convegno internazionale alla Certosa di Pontignano che si chiuderà il 17, interverranno fra gli altri Samuel Bowles, che insegna all´università di Siena e al Santa Fe Institute, Bruno Frey, dell´università di Zurigo, Andrew Clark dell´Ecole Normale Supérieure di Parigi e molti altri. Tutto il programma degli interventi su www.unisi.it
Corriere della Sera 14.6.07
Parla Julien Ries, massimo esperto di riti e simboli, mentre esce il suo libro dedicato a religione e politica
Democrazia senza Sacro
«Escludere i miti è un'illusione laica E ogni partito resta una Chiesa
di Armando Torno
Julien Ries è uno dei più autorevoli antropologi del sacro del nostro tempo. Come nessun altro ha studiato le connessioni tra religione e politica, tra simboli e realtà. Incontrarlo — ora che la Jaca Book ha avviato l'Opera omnia in 11 grossi tomi — significa chiedersi quali scenari si apriranno nel terzo millennio. Il lungo magistero all'Università di Lovanio e il servizio sacerdotale, che mai ha tralasciato, hanno reso i suoi discorsi essenziali. Parla come chi ha conosciuto troppe cose, pesando frasi e sillabe, senza preoccuparsi di essere dolce o riverente con le idee che consentono ai salotti televisivi di tirare avanti. Comincia: «Il sacro è come l'amore, la politica invece assomiglia al cibo. Ma senza il sacro sarebbe difficile pensare o capire le ragioni ultime della politica. Gli osservatori acuti sanno che ogni intuizione politica è in parte nata da un'idea teologica». E ancora: «Ogni forma politica ha bisogno di sacro — dimensione dell'uomo che entra continuamente nel gioco della storia — o sparisce. E chi tende a escluderlo si illude, perché lo trasforma. Non possiamo vivere senza riti, senza simboli e senza miti, così come non riusciamo senza gli altri. Ogni partito politico è simile a una piccola Chiesa».
Non ce la sentiamo di replicare. Di certo, sfogliando il volume da poco in libreria, L'uomo e il sacro nella storia dell'umanità (Jaca Book), è inevitabile chiedergli qualcosa intorno alla democrazia, idea diventata per il mondo contemporaneo punto di riferimento assoluto. Sorride, non si fa pregare: «La democrazia, per realizzarsi, tende a eliminare il sacro. O meglio, si potrebbe dire che questa nobile forma di governo è un tentativo di sostituirlo con idee e progetti che mirano al bene comune. Ma, così facendo, la storia insegna che può creare un vuoto, il quale — lo ripeto — si colma con altre forme (a volte imprevedibili) di sacro. D'altro canto, non dimentichi che i totalitarismi del XX secolo, nati intorno a figure quali Mussolini, Hitler o Stalin, hanno compiuto un percorso inverso cercando di risacralizzare il potere per dotare di maggiore autorità le loro azioni: per questo hanno cancellato i rapporti democratici». Una pausa. Poi continua: «È una storia che si perde nei tempi e che si comincia a osservare negli antichi regni dei sumeri o degli egizi, dove c'era una connessione stretta tra politica e sacro; in Grecia, invece, il rapporto salta e la politica diventa laica. L'uomo, però, non è mai riuscito a dimenticare il sacro. Eliminato da una parte, si presenta dall'altra e anche oggi fa sentire il suo peso. Pensi a quanto è successo nella recente campagna elettorale in Francia per la corsa all'Eliseo: entrambi i candidati, dopo aver sottolineato il loro laicismo, hanno sentito il bisogno di spiegare quale posizione avessero con la religione. E anche in Italia non è possibile fare politica ignorando le questioni religiose».
Le pause di Julien Ries sono micidiali. Sembrano i silenzi dei vecchi capitani di nave, dinanzi ai quali si può solo rispondere con altri silenzi. Dovete aspettare che il comandante riprenda il discorso, quasi fosse un vento favorevole. «Perché è difficile da spiegare questa connessione tra politica e sacro?», prosegue il maestro di Lovanio. Si risponde: «Forse perché l'homo religiosus (nacque quando comparvero le tombe) fece la sua apparizione poco meno di 100 mila anni prima dell'homo politicus, che divenne tale con la scrittura. Noi, per dirla in breve, siamo gli eredi di quest'ultimo homo e anche di una serie di problemi legati al sacro che per decine di millenni sono rimasti aperti». Sembra quasi che Ries voglia condurci per mano in una dimensione dove i nostri antenati hanno lottato per dimenticare, nella quale le grandi ierofanie — le manifestazioni del sacro — hanno condizionato la vita e posto un'ipoteca sul futuro. Noi che ci crediamo democratici e laici forse non abbiamo ancora concluso l'antica guerra con i misteri che ci avvolgono. Il maestro di Lovanio continua: «La politica vive di simboli: dall'inno nazionale al distintivo che si mette all'occhiello. Ma ogni simbolo altro non cerca di essere che la rivelazione di un mistero. Per questo le dittature li hanno moltiplicati». E ancora: «Hitler pensò innanzitutto a un riferimento forte. La svastica è stata forse la più grande sovversione simbolica della storia: è la potenza del sole che viene trasformata nella potenza del Führer. Ma anche la falce e il martello, che rappresentano i miti del marxismo, sono simboli formidabili. Il denaro, invece, è l'immagine del liberalismo; vale a dire, è il tentativo di rendere acquistabile e disponibile la realtà con un mezzo che si è trasformato in qualcosa di sacro».
Con Ries si desiderano affrontare anche le questioni aperte che caratterizzano la vita contemporanea. Per questo ci sfugge una domanda che si allontana dalle precedenti, ma che comunque riguarda un diffuso problema della nostra realtà sociale: «E la droga?». Non lascia passare nemmeno un secondo: «È un sostituto del sacro». Poi aggiunge, quasi a precisazione: «L'uomo di oggi cerca il simbolo, ma bisogna ammettere che non riesce a riconoscerlo. Lo confonde, lo immagina, lo scambia con altro. E continua a cadere in contraddizioni: parla ancora e sempre di nazismo e comunismo, condannandoli giustamente, ma rendendoli sempre presenti. Non ha più un'idea del sacro e a questi mali attinge qualcosa... Qualcosa di indefinito che dovrebbe indurci a riflettere seriamente».
Il discorso, chissà perché, ha toccato poi il suicidio («è la perdita di un legame con i simboli, con la vera identità dell'uomo»); quindi Ries ricorda Mircea Eliade e Georges Dumézil («due care persone, con le quali ho discusso a lungo»); infine gli abbiamo chiesto se condivide la tesi di René Girard — l'autore de La violenza e il sacro, un saggio continuamente ristampato da Adelphi — che vede appunto nella violenza il cuore autentico e l'anima segreta del sacro. Risponde: «È un fatto che l'esteriorizzazione della violenza, nel sacrificio espiatorio per esempio, sia considerata come necessaria alla sopravvivenza del gruppo. In ogni caso, il sacro moderno o postcristiano, che ritroviamo in mezzo al capovolgimento operato dalla nostra cultura, sembra coincidere con tutte le ambiguità dell'istinto religioso». E tali ambiguità, per loro natura, possono generare violenza. Inducono a ripensare l'uomo che verrà attraverso il sacro che continua a vivere nelle idee e nei nostri gesti. Siano essi ispirati alla pace od offerti a una «guerra giusta».
Corriere della sera 14.6.07
Era nato a Berlino 102 anni fa. Spiegò che la percezione è un atto creativo
Addio a Rudolf Arnheim, lo psicologo dell'arte
di Pierluigi Panza
Nel suo più celebre libro, Arte e percezione visiva del 1954, Rudolf Arnheim mostrò come il vedere fosse un atto creativo e come il giudizio visivo e la comprensione intellettuale del mondo dell'arte fossero tutt'uno con l'atto stesso del percepire. Con questa intuizione rivoluzionò la critica e la teoria dell'arte più ancora che la psicologia e, per un paio di decenni (anche con l'affermarsi dello Strutturalismo), il suo pensiero divenne il fulcro delle interpretazioni di quadri e facciate d'architettura. Rudolf Arnheim è morto il 9 giugno nella sua casa di Ann Arbor, in Michigan, all'invidiabile età di 102 anni. Ne ha dato notizia la sua famiglia ieri al «Washington Post».
Arnheim era nato a Berlino il 15 luglio del 1904, dove si era laureato in psicologia sperimentale con i fondatori della scuola della Gestalt (disciplina che studia il rapporto tra immagine e percezione) Max Wertheimer, Wolfgang Kohler e Kurt Lewin. Dai suoi esperimenti sulla percezione nacque nel 1932 il suo primo libro, Film come arte. Con l'avvento del nazismo (era di famiglia ebrea) si trasferì a Roma; quindi, nel 1938 (con la promulgazione delle leggi razziali), si rifugiò a Londra dove lavorò anche per la BBC e da qui, nel 1940, emigrò negli Stati Uniti, dove ha vissuto per tutto il resto della sua vita. Qui ha lavorato per le fondazioni Rockefeller e Guggenheim e ha insegnato alla Columbia di New York, poi ad Harward e quindi, dal 1974, all'Università del Michigan prima di ritirarsi definitivamente.
Nel '54 pubblicò Arte e percezione visiva (tradotto da Feltrinelli nel 1962) dove stabilì che il vedere era un atto creativo e il giudicare dipendeva dal ruolo che il vissuto svolgeva attivamente nel campo della percezione. Opponendosi al formalismo critico, riportando — con la costante esemplificazione di opere di pittura, scultura e architettura — la forma al significato e al contenuto, mostrò come si potessero cogliere i significati delle opere d'arte approfondendo il rapporto tra biografia e forma, spazio, luce, colore, movimento attraverso il tramite della percezione. Lo «psicologo» divenne così «critico d'arte» e operando una saldatura tra le tesi di Arnheim e quelle della psicologia junghiana e dell'iconologia (e di Erwin Panofsky per quanto riguarda l'architettura) si diedero vita a studi che mostrarono come le scelte dei colori e delle forme nei pittori dipendevano da modalità psicologiche e percettive (ricerche che vennero da altri, specie su Van Gogh) e come anche la interpretazioni critiche fossero condizionata dalle modalità percettive del singolo individuo. Si giunse così a spiegare interi quadri come «Sant'Anna, la Madonna, il Bambino e San Giovannino» con la duplice presenza femminile materna negli anni infantili di Leonardo. Nelle università di tutto il mondo vennero allora attivate cattedre di Psicologia della percezione, molte delle quali sono andate via via sparendo.
Negli anni successivi Arnheim studiò la pittura di Picasso (Guernica. Genesi di un dipinto, del 1962) e nel 1969 diede alle stampe un altro importante studio teorico intitolato Il pensiero visivo.
Arnheim si può considerare uno dei teorici della cultura visiva, specie negli aspetti legati alla creazione e ricezione artistica, temi oggi ripresi da Hans Robert Jauss. Nel 2004, in occasione dei suoi 100 anni — e dei 50 anni del suo libro più famoso —, ad Arnheim vennero dedicate alcune celebrazioni in Europa e negli Stati Uniti.
l’Unità 14.6.07
Rudolf Arnheim: tutto il potere all’occhio
di Enrico Crispolti
È MORTO a 102 anni lo studioso che innovò profondamente l’estetica unendo arte e psicologia. La visione, per lui, non era una semplice registrazione meccanica ma un rapporto di empatia tra chi guarda e l’oggetto osservato
Prima di emigrare nel 1939 negli Usa a seguito delle leggi razziali, insegnando psicologia dell’arte nel Sarah Lawrence College, a Bronxville, e poi nella Harvard University, avviando un’esperienza di riflessione, ricerca e approfondimento che lo porterà a comporre uno dei suoi testi più noti, Art and visual perception (Arte e percezione visiva), pubblicato nel 1954 dalla University of California Press (e tradotto nelle edizioni Feltrinelli nel 1962, con prefazione di Gillo Dorfles), Rudolf Arnheim si è occupato di cinema, rivendicandone in Film als Kunst, pubblicato nel 1932, l’artisticità e l’autonomia come ulteriore arte, in termini di specificità di linguaggio visivo (luce, inquadratura, profondità di campo, ecc.). Parallelamente alla rivendicazione che andava compiendo in Italia il soltanto di sei anni più giovane Carlo Ludovico Ragghianti, il cui primo contributo, Cinematografo rigoroso, è del 1933 (un’esperienza che confluirà nel suo Cinema arte figurativa, nel 1952). E proprio occupandosi di cinema Arnheim è vissuto a Roma, dal fatidico 1933, anno della presa del potere da parte dei Nazisti, al 1938, collaborando al periodico Bianco e Nero e come redattore dell’Enciclopedia del Cinema.
Formatosi a Berlino studiando psicologia sperimentale (discepolo di Wertheimer), tuttavia il destino di Arnheim è stato piuttosto quello dell’elaborazione di un’estetica complessivamente fondata su teorie psicologiche piuttosto che su speculazioni filosofiche nella prospettiva appunto specificamente di un’«estetica psicologica». «La visione non è una registrazione meccanica di elementi, ma l’afferrare strutture significanti»; in un riscontro d’implicazione empatica, portando dunque ad un diverso livello di complessità e globalità le intuizioni della cosiddetta «pura visibilità» in una lettura non meramente contenutistica dell’opera d’arte visiva. Al fondamentale Arte e percezione visiva hanno fatto seguito numerosi altri suoi contributi raccolti poi in opere di particolare rilevanza come sistematizzazione di una ricognizione analitica delle valenze psicologiche delle strutture visive. Da Toward a Psychology of Art (Faber and Faber, Londra, 1966), in traduzione Einaudi del 1969, a Visual Thinking (University of California Press), pubblicato in Italia da Einaudi nel 1974, a Entropy and Art. An Essay on disorder and order, pubblicato tradotto pure da Einaudi nel 1974 (1989) come Entropia e arte. Saggio sul disordine e l’ordine, e da The Power of the Center (University of California Press, 1982), tradotto sempre da Einaudi nel 1982, con il sottotitolo Psicologia della composizione nelle arti visive, a La dinamica della forma architettonica, tradotto da Feltrinelli nel 1981, a (University of California Press, 1986), in traduzione Feltrinelli 1987 come New Essays on the Psychology of ArtIntuizione e intellett. Nuovi saggi di psicologia dell’arte, a La Radio. L’arte dell’ascolto, tradotto dagli Editori Riuniti nel 1987, e fino a To the rescue of art. Twenty-six essays (sempre University of California Press, 1992), tradotto nel 1994 da Feltrinelli.
La sua analisi intendeva porsi a tutto campo. «Si presume che ogni settore della psicologia generale comporti applicazioni nel campo artistico», sottolinea nell’introduzione a Verso una psicologia dell’arte. Espressione visiva, simboli e interpretazione. E tuttavia la sua indagine procedeva senza sistemacità quanto piuttosto fondandosi su una consapevolezza sperimentale, affermando che i suoi saggi «nascono dalla prospettiva e dall’interesse di un singolo individuo, e riferiscono su tutto ciò in cui gli è capitato di imbattersi». Considerando infatti pariteticamente il rapporto con opere del passato quanto della contemporaneità: su Henry Moore, per esempio, ma in particolare su Picasso’s Guernica, pubblicato nel 1962 (e tradotto da Feltrinelli). Ma la sua attenzione visiva rappresentava a sua volta una scelta di campo entro una totalità percettivo-sensoriale. Se si è limitato ad analizzare il «senso della vista» è perché lo ha considerato «l’organo più squisitamente efficiente della cognizione umana», e il più vicino alla sua esperienza. Ma: «Teorie più ampie dovranno occuparsi delle potenzialità e delle debolezze specifiche delle altre modalità sensoriali, e della cooperazione intima che si istituisce tra tutti gli organi di senso»; avverte introducendo Il pensiero visivo. La sua metodologia analitica aspirava ad una capacità di penetrazione di linguaggi artistici di tutti i tempi. «La cosa più importante che ci resta da fare è rivivere ed esplorare i principi su cui si fonda ogni processo effettivamente produttivo delle arti. Se crediamo che l’arte sia una condizione imprescindibile dell’esistenza umana, sul piano non solo psicologico ma anche biologico, dobbiamo presumere che essa affondi le sue radici nelle profondità del nostro essere. E queste radici devono essere rintracciate», scrive introducendo Per la salvezza dell’Arte.
Di fronte alla decostruzione non soltanto della forma ma degli stessi media artistici, e soprattutto una perdita di cognizione delle motivazioni stesse dell’espressione artistica, che cosa rimane oggi della lezione di Arnheim? Certamente una grande, esemplare, intenzionalità utopica di chiarezza analitica; ma certamente anche un fondamentale richiamo alla complessità di componenti semiologiche e psicologiche di un linguaggio che per quanto fattosi sempre più anche cosale, oggettuale, è pur sempre sostanzialmente visivo, persino nelle sue estreme desinenze virtuali attuali.
LA TESTIMONIANZA Tra i suoi numerosi viaggi anche le visite all’Università di Palermo
Uno studioso che si avvicinava all’arte come alla vita
di Lucia Russo*
*Docente di Psicologia dell’Arte
Il 15 luglio avrebbe compiuto 103 anni. Nato a Berlino nel 1904, da bambino aveva visto l’imperatore Guglielmo II guidare a cavallo la parata annuale, e da giovane aveva lavorato proprio in un’ala del Palazzo imperiale, divenuta sede dell’Istituto di Psicologia dopo la rivoluzione del 1918. Formatosi alla scuola di Wertheimer e Köhler, divenne famoso a soli 28 anni con Film als Kunst, riconosciuto subito un classico della teoria cinematografica. Ma non fu la fama a spingerlo fuori dalla Germania e a portarlo a vivere in due grandi capitali europee - prima a Roma e poi a Londra - e infine ad attraversare l’Atlantico e a diventare cittadino americano. Lui di origini ebree, nel 1933 sfuggì ai nazisti; e venne accompagnato alla porta dai fascisti nel 1938. Forse avrebbe scelto di vivere in Italia, se - come dirà anni dopo - Mussolini non avesse adottato le leggi razziali. Ma le adottò, e giusto in tempo perché Arnheim, da villa Torlonia, sede dell’«Istituto internazionale per la Cinematografia Educativa» dove lavorava, andasse incontro ai bombardamenti di Londra. E poi l’America. Inizialmente furono i sommovimenti politici a portare «un sedentario per natura» - come si definiva - fuori dal paese natio e a spostarlo da un paese all’altro. E poi, ritornato alla vita accademica, dopo anni di giornalismo e di critica militante, saranno i contributi originali dati alla psicologia a portarlo in giro per il mondo. La psicologia delle arti è una sua creatura. Così sono state innumerevoli le istituzioni culturali che lo hanno invitato. Fino al Giappone, dove soggiornò per un anno, e spesso in Italia dove ritornò tante volte e sempre con desiderio. Conoscere luoghi diversi, usi e costumi non ancora omologati, l’aveva sempre considerato un necessario arricchimento, e come mi disse, commentando l’elezione di un Presidente Usa, era preoccupato perché l’eletto non aveva mai messo il naso fuori dalla sua nazione, e soprattutto non era mai stato in Europa.
Ricordo il suo arrivo a Palermo per un ciclo di lezioni all’università. Andammo, io e Luigi Russo, ad attenderlo all’aeroporto. Avevamo avuto un rapporto solo epistolare e non riuscimmo a individuare tra i passeggeri uno straniero nato nel 1904. Alla fine rimase soltanto un signore con una valigia a tracolla e una sacca in mano. Troppo giovane: non poteva certo essere lui. E invece era proprio Arnheim. Da quel momento, per tutto il suo soggiorno palermitano, avemmo il privilegio di stare in sua compagnia. E per esplicitare il senso di quel privilegio mi servirò delle parole di Fedele D’Amico, che per quella che è la mia esperienza di Arnheim - la persona e la teoria - sono perfette e avrei voluto scriverle io: «La virtù straordinaria di Arnheim, prima che nella qualità dei suoi scritti, sta nel suo carattere, che di quella qualità è la conditio sine qua non. E il dato essenziale del suo carattere è nel modo di affrontare, prima che il lavoro, la vita. Arnheim porta a ogni cosa, a ogni manifestazione della vita, anche delle cose apparentemente più futili, un interesse profondo; ma al tempo stesso pacato, senza infatuazioni. Crede nella positività della vita, ma discrimina il male dal bene, l’errore dalla verità, e fermamente; però senza iattanza, senza ira, senza virus polemico. Il suo piacere principale - un piacere profondo, ma non compiaciuto, non edonistico - sta nel conoscere: conoscere come veramente stiano le cose. Accetta il mondo in cui vive, ma non per questo lo giustifica, né ci si rassegna: dai suoi mali si riscatta guardandolo negli occhi tranquillamente, direttamente, cercando di comprendere. Ora questo atteggiamento si può rilevare facilmente dai suoi studi; ma tanto più impressiona nel contatto diretto con l’uomo, nella vita. Perché anche il più saggio dei filosofi difficilmente si conforma al cento per cento, nella vita, alla sua filosofia; mentre in lui non solo l’adeguazione è perfetta, ma la “filosofia”, per dir così, nasce dal suo modo di vivere, piuttosto che viceversa. Per questo conoscerlo di persona, partecipare della sua intimità, è un bene inestimabile. È una critica silenziosa a tutte le nostre intemperanze, alle nostre intolleranze, e fondata non già sull’avallo di ciò che non ci piace, bensì su un giudizio spassionato, diretto, “naturale”. E un atteggiamento tanto più persuasivo in quanto attestato da una persona che ha vissuto in proprio eventi crudeli, senza evitare, senza rifiutare la sofferenza. E un atteggiamento che si manifesta subito, al primo incontro. Perché Arnheim è lo stesso per chiunque, si mette subito al livello di chiunque, direi anzi che si ritiene al livello di chiunque». Ecco il Grande Maestro del Novecento che si è spento, anche se continua a brillare attraverso le sue opere capitali. all’Università di Palermo.
Repubblica 14.6.07
Diciotto santuari persi in un mese: parla Alastair Northedge, massimo esperto di Samarra
"Così scompare il patrimonio dell'antica Mesopotamia"
di Alix Van Buren
Tre giorni di lutto nazionale in Iraq per i minareti sbriciolati del santuario di Askariyah: è plumbea la voce di Alastair Northedge, massima autorità mondiale nell´arte di Samarra, docente di Arte e Archeologia islamica alla Sorbonne parigina. Se nel febbraio del 2006, alla notizia del bombardamento di quello stesso mausoleo, lui tuonava contro la profanazione del culto, dell´arte e della storia, questa volta al telefono da Parigi ha il tono sconsolato di chi cerca rifugio nella rassegnazione: «Il fatto è», dice, «che la devastazione dell´Iraq è per certi versi dissimile dalla rovina toccata a tanti Paesi infestati dalle guerre: qui si assiste alla distruzione del patrimonio di una intera nazione, anziché di città isolate. Se infatti osserva la Seconda guerra mondiale, in Europa si sono persi beni inestimabili, però più per negligenza che per proposito. E invece adesso, dalle forze della coalizione all´insorgenza, tutti si accaniscono contro le fragili architetture dell´antica Mesopotamia».
Professore Northedge, che aspetto ha la mappa dell´arte irachena vista dal suo osservatorio?
«È una mappa tutta crivellata dagli scavi dei trafficanti di antichità, dai colpi degli obici e dei mortai di entrambi gli schieramenti avversari. Poco sfugge alla violenza. Oggi fanno notizia le bombe detonate da mani esperte a Samarra, ma in un solo mese si è consumata un´orgia di scempi: 18 santuari del IX e X secolo sono andati perduti in appena quattro settimane, e fra questi alcune delle più splendide moschee del mondo arabo».
Qual è il danno reale inferto a Samarra?
«Il danno già era stato causato dagli ordigni del 2006: un colpo ben studiato contro il luogo di sepoltura di due fra gli imam più venerati, progettato da chi voleva un´apocalisse. Adesso quegli stessi ci riprovano, con mezzi identici. Sotto il profilo architettonico, i minareti hanno un valore relativo. Risalgono all´Ottocento: sono piuttosto recenti. Ma sotto il profilo politico il potenziale è esplosivo: la carica deriva dalla centralità del culto del Dodicesimo imam, cioè a dire del Messia, svanito in quel luogo e di cui si aspetta il ritorno. Davvero: il nuovo attentato è una pessima notizia: l´ultima di una indicibile sequenza di ferite».
A quali altre pensa?
«A troppe per riassumerle: penso a Ur, la città di Abramo, sfigurata da scariche di granate. Penso al tragico destino del Museo nazionale, alla metà dei capolavori svanita; ai cinque secoli di testi ottomani dati alle fiamme nella Biblioteca nazionale, alla grandiosa città di Babilonia riconvertita in base americana, i viali plurimillenari spianati dai tank».
«Vuole che le dica ancora? Il caravanserraglio di Khan al-Raba, del X secolo, è stato usato dalle forze alleate per far esplodere gli arsenali catturati agli insorti. Rimangono solo rovine. I resti di Isin e Shurnpak, città del 2000 a.C., sono evaporati, e così pure castelli, ziqqurat, antichi minareti e moschee. E fuori della capitale, almeno diecimila siti d´inestimabile valore per la storia della civiltà occidentale sono alla mercé dei saccheggiatori».
Professore, lei sta dipingendo un patrimonio dell'umanità per sempre perduto?
«Niente affatto: malgrado la profondità dell´orrore, nell´archeologia esiste sempre un margine parziale di conservazione. Nemmeno i saccheggiatori sanno distruggere tutto. Però, perché la storia e l´arte dell´Iraq risorgano, bisognerà aspettare la fine della guerra, il ritiro americano. Nell´attesa, noi archeologi non possiamo far altro che stare a guardare».
il manifesto 14.6.07
Senza se e senza ma, per il movimento
di Salvatore Cannavò
Salvatore Cannavò * Il 9 giugno è per i movimenti italiani e la sinistra una data spartiacque da cui emergono almeno tre elementi di riflessione. Il primo è che il movimento contro la guerra si è dato una nuova occasione dopo la straordinaria giornata del 17 febbraio a Vicenza. La continuità con quella giornata, del resto, è dimostrata dalla massiccia partecipazione dei No Dal Molin così come dall'«eccedenza», dalla presenza massiccia cioè di soggetti esterni alle forze organizzate e che hanno costituito l'anima del corteo. Una presenza libera dalla paura, che ha dato fiducia alla manifestazione, alla sua piattaforma senza mai prendere in considerazione, nemmeno per sbaglio, la possibilità di unire le piazze o quant'altro. Se si manifesta contro la guerra lo si fa «senza se e senza ma», quindi anche contro le politiche di Prodi. Il resto è superfluo.
Sinistra Critica ha giocato un ruolo importante in questa dinamica anche per gli eventi del 21 febbraio, per il voto contrario al governo e per il «caso Turigliatto». Quella scelta, solo apparentemente isolata, ha contribuito a riaprire un dibattito, costruire una polarizzazione, offrire a tutti e tutte uno spazio di azione che lentamente è stato occupato da molti fino al successo della manifestazione del 9 giugno. Un'energia si è risvegliata, dopo un anno di torpore, e ora alcune scelte diventano obbligate come ad esempio il ritorno a Vicenza per bloccare i lavori della base.
Il secondo elemento è che si è vista in piazza, per la prima volta, un'opposizione di sinistra al governo Prodi. Un'opposizione sociale, basata su un contenuto specifico e quindi non generalizzabile, ma desiderosa di non mediare e di non arretrare sul valore indisponibile del no alla guerra. Una manifestazione dagli immediati effetti politici, enfatizzati dal flop di piazza del Popolo in gran parte dovuto all'arroccamento dei partiti di governo e alla loro pretesa di essere depositari di una domanda sociale altrimenti muta. Il 9 giugno quella spinta sociale si è data la parola e ha pesato sugli equilibri politici. Anche il fronte delle pensioni oggi è più mosso in virtù di quella manifestazione e la stessa offensiva delle destre trova un parziale, ma reale, controbilanciamento a sinistra. Speriamo che il Gay Pride vada nella stessa direzione.
In terzo luogo c'è una conseguenza politica che riguarda i rapporti a sinistra. Il fallimento di piazza del Popolo dice del fallimento della linea del «partito di lotta e di governo» - e non si giochi sull'assonanza di questo giudizio con le parole di D'Alema: quando ha finanziato la guerra la sinistra italiana è stata tutta dalemiana. Rifondazione, dovrebbe, oltre che uscire dal governo, convocare al più presto un congresso straordinario e fare il bilancio di questi ultimi due anni. Ma al di là delle vicende di partito, appare oggi chiaro che ci sono due strade davanti a noi: l'unificazione della sinistra di governo o il rilancio di una sinistra anticapitalista e antagonista. Non ci sono mediazioni possibili. Un ciclo si è chiuso alle nostre spalle e riguarda principalmente il Prc.
Non sappiamo quanto possa germogliare dal 9 giugno: per parte nostra pensiamo che sia bene vengano fuori dei «patti» plurali e molteplici, che uniscano politico e sociale, associazionismo e sindacati, gruppi politici e comitati di scopo: un patto contro la guerra, un patto contro la precarietà, un patto per la difesa delle comunità in lotta, e così via. Anche perché la rifondazione della sinistra alternativa non può che ripartire da questo terreno.
Come Sinistra Critica guardiamo ormai decisamente al futuro puntando al consolidamento di una soggettività autonoma in un percorso aperto, plurale, indipendente dal governo e dagli equilibri interni alla sinistra di governo. Se questo processo possa scaturire in un Forum dell'opposizione sociale o qualcosa di simile lo vedremo in corso d'opera. Certo è che una nuova fase si apre. Noi vi contribuiremo come già fatto il 9 giugno dove abbiamo saggiato la stessa nostra capacità di produrre iniziativa e organizzazione, di essere cioè uno strumento per resistere alla crisi di Rifondazione e della sinistra in generale. Proseguiremo su questa strada, con determinazione, a partire dalla prima Conferenza nazionale di Sinistra critica che si terrà il prossimo autunno. Sarà quella l'occasione per fare il punto della situazione e progettare una rifondazione della sinistra che sia anticapitalistica, ecologista, femminista, internazionalista.
*Sinistra Critica
il manifesto 14.6.07
La politica della vita sul margine pericoloso dell'impersonale
Un'intervista con il filosofo italiano dopo l'uscita del suo ultimo libro «Terza persona». Genealogia di un concetto in cui il soggetto è norma di se stesso e che manifesta una corporeità che la tradizione giuridica ha spesso cancellato
di Roberto Ciccarelli
«La persona anima i dibattiti tra filosofi e politici, teologi e giuristi, in suo nome si inaugurano corsi di laurea nelle facoltà di filosofia. Inoltre, la persona riassume in una forma svelta ed incisiva l'attivismo dei cattolici nella difesa della sacralità della vita e quello dei laici quando si tratta di dimostrare che la vita è il risultato dello sviluppo naturale». Per il filosofo Roberto Esposito, che incontriamo in occasione dell'uscita del nuovo libro Terza Persona. Politica della vita e filosofia dell'impersonale (Einaudi, pp. 184, euro 17), il ritorno a questa categoria ha un duplice significato: «All'incrocio tra due discorsi divergenti - spiega Esposito - più che indicare delle risposte definitive, la persona è la bussola concettuale che esprime, da un lato, il ritorno ad una teologia politica carica di elementi inquietanti, mentre dall'altro lato è il segno di un rinnovamento del discorso giuridico che cerca nella "persona", e nella sua dimensione corporea e concreta, l'occasione per superare le dimensioni ristrette, e particolaristiche, del "cittadino", il controverso protagonista delle rivoluzioni moderne e delle costituzioni democratiche».
«Rispetto a queste due strade - continua Esposito - ho scelto la via più complessa della decostruzione: lavorare la persona dall'interno, cercando di bloccare il dispositivo di separazione escludente, gerarchico e violento che la caratterizza. È una prospettiva, questa, che sfugge alla discussione filosofica contemporanea. Per questo, credo sia importante farne la storia, chiarire le differenze che esistono tra le varie posizioni, ma anche attivare uno sguardo sagittale che vede, sotto le grandi discontinuità delle epoche, le continuità che tutt'ora permangono in questo concetto».
In questa genealogia lei individua nella persona la presenza di almeno tre figure: la persona cristiana, quella romana e, infine, quella giuridica. Da cosa è caratterizzata la persona cristiana?
La filosofia personologica cristiana presenta due punti fondamentali: la doppia natura di Cristo e la Trinità. In ciascuno di questi blocchi dogmatico-concettuali, l'elemento dominante è che l'unità in Cristo, come nella Trinità, è costituita dalla separazione. Due nature in Uno significa che l'unità di Cristo ha la forma del binomio. Sia che si tratti di una persona in due nature, sia che si tratti di una natura in due persone, abbiamo un'unità costituita dalla separazione. Questo ragionamento, sia pure in forme teologiche diverse, si ritrova nella Trinità dove ciò che conta è che l'Uno è costituito da una differenza in tre. Nella concezione cristiana della persona, ciò che conta è il dispositivo tra unità e separazione. Del resto, la concezione cristiana dell'uomo presuppone una distinzione in cui un'anima è impiantata nel corpo. La stessa concezione della vita ultra-terrena prevede che la parte che resta in vita, o risorge, è appunto l'anima. Anche se nel cristianesimo esiste la teoria della resurrezione del corpo, l'elemento dominante rimane la differenza tra anima e corpo.
Qual è la differenza rispetto alla persona romana?
Il diritto romano ha una potenza di codificazione più forte dell'ambito teo-filosofico e ha sistematizzato in modo ancora più netto e rigoroso il nesso tra unità e separazione. La persona costituisce a Roma de iure personarum, il luogo nel quale si distinguono i liberi dagli schiavi. A loro volta, con una serie di biforcazioni consecutive, i liberi sono liberi per nascita o per affrancamento, il diritto romano funziona sempre per creazione di norme ed eccezioni che specificano ed evadono la norma. Le persone si distinguono in persone e non-persone. Dunque, sin dalla sua origine, la persona romana ha dentro di sé l'idea di non-persona. Tuttavia, non-persona non è solamente lo schiavo, ma ogni cittadino in quanto figlio, questo perché a Roma nessuno nasce persona. Qualcuno lo diventa, qualcuno attraversa lo status personale per poi uscirne. Quello che conta è la dialettica continua tra personalizzazione e spersonalizzazione. La continuità tra la persona cristiana e quella romana è storicamente attestata. Il cristianesimo diventa la religione romana con l'imperatore Costantino. Ma fin da prima ci sono contaminazione tra le due parti.
In che modo, a suo parere, tale continuità torna a manifestarsi oggi?
Direi nel discorso bioetico, il luogo del conflitto politico oggi più forte, come si è visto nelle manifestazioni del Family Day e dell'Orgoglio laico di qualche settimana fa. In questa discussione credo che ci sia tuttavia un equivoco di fondo, nel senso che si definiscono in contrapposizione sempre più marcata orizzonti culturali e vettori ideologici che invece condividono presupposti comuni. All'interno dell'orizzonte della bioetica, cattolici e laici condividono l'idea della persona. Entrambi assumono come presupposto l'assoluto primato del personale sull'impersonale. Lo scontro nasce sulla definizione di quale sia il momento in cui un essere umano inizia ad essere persona o finisce di esserlo. Secondo la linea cattolica, si è persona fin dal concepimento. Secondo quella laica, con lo sviluppo naturale. E così per quanto riguarda l'eutanasia. Entrambi condividono la necessità di salvaguardare, sacralizzandola o considerandola vita qualificata, solo la vita personale. Del resto, la connessione si vede anche dal fatto che nella concezione cattolica il corpo umano e l'essere vivente sono nella disponibilità divina.
Perché, secondo il cattolicesimo, non ci si può suicidare? Perché il corpo è proprietà del suo creatore. Anche nella concezione laica, in particolare nella tradizione liberale, il corpo è proprietà di qualcuno, del soggetto stesso che abita nella persona. Ma che sia proprietà divina, o che sia proprietà del soggetto che lo abita, comunque il corpo vivente è pensato nel senso di una cosa. Solo una cosa può essere proprietà di qualcuno. Potrebbe essere non proprietà solamente un corpo umano che non appartenesse al soggetto, ma che fosse il soggetto. Perché questo sia pensabile bisogna a mio avviso pensare la persona nella forma dell'impersonale. Un corpo umano non proprietà di qualcuno può essere logicamente pensato solo dal punto di vista dell'impersonale. Cosa che non si fa mai.
Un altro tema molto presente nel suo ultimo libro è la critica della soggettività astratta e formale del diritto moderno al quale lei contrappone la categoria di «persona vivente». Può spiegare il senso di questa definizione?
Quando parlo di «persona vivente», o di «terza persona», non intendo pormi in contrasto assoluto con il tema di persona. Nella «persona vivente» intravedo piuttosto la dimensione in cui la persona non è separata dalla vita, o da se stessa, ma coincide con essa in un sinolo inscindibile di forma e forza, di esterno e d'interno, in cui il soggetto è finalmente norma a se stesso e non deve nulla ad istanze trascendentali. In altre parole, un unicum che coniuga il singolare e il plurale nella stessa persona. La Dichiarazione universale sui diritti umani del '48, pur affermando la dignità della persona, rilanciava il trascendentale che fa dell'uomo qualcosa in più della materia vivente. E così fanno tutte le altre Carte dei diritti. In questo modo, non si fa altro che continuare a separare l'idea di persona soggetto dal suo corpo.
La cultura giuridica è cosciente del problema, basti ricordare alla densa riflessione di Stefano Rodotà e al suo libro di grande valore teorico La vita e le regole. La mia impressione è che Rodotà abbia la mia stessa perplessità nei confronti del dispositivo giuridico. Il diritto, lo ha detto il filosofo tedesco Niklas Luhmann, è pur sempre un grande meccanismo immunitario fondato sulla separazione di categorie che includono qualcosa per escludere altro. Il confronto in corso tra noi ha comunque chiarito che è necessario restituire alla soggettività una concretezza più corporea, e meno particolaristica, e contrastare la separazione e l'esclusione che caratterizzano la persona.
Il filosofo francese Maurice Blanchot ha sostenuto che l'intero pensiero occidentale potrebbe essere letto come il tentativo di rimuovere l'impersonale, o il neutro come lui lo chiama. Che cosa rende così inquietante questa prospettiva?
La difficoltà, prima ancora che ideologica e logica, è addirittura linguistica. Per la precisione, esiste una difficoltà logico-sintattica a pensare l'impersonale. Il nostro discorso, come ha spiegato il linguista Emile Benveniste, la stessa interlocuzione è fondata sulla prima e sulla seconda persona. Il pensiero traduce immediatamente il linguaggio, si pensa in prima persona, si pensa nella forma di un «io» che si rivolge ad un «tu», presente o assente che sia. Prendiamo, invece, il «lei» che si usa in italiano. E' un termine femminile, dunque già decentrato rispetto alle modalità maschili del discorso occidentale, ma è soprattutto l'unico singolare che è insieme plurale. Tanto è vero è che, in alcuni casi, il «lei» si dice anche «loro». A differenza di «noi» e «voi», che sono estensioni quantitative di «io» e «tu», «lei» è sempre impersonale. Noi ci concepiamo nella forma della trascendenza, o quantomeno del trascendentale: l'Io non coincide mai con se stesso, è sempre altro da sé, la vita è quello slancio che mi tiene fuori da me stesso. Il «lei», o l'«egli», invece, ci sottraggono a questa logica e ci portano a quella che un altro filosofo francese, Gilles Deleuze, ha chiamato l'«immanenza assoluta», nella quale io vedo la principale caratteristica della «persona vivente».
Chi altro è riuscito a pensare a fondo l'impersonale?
Pensare l'impersonale dal punto di vista dell'immanenza è molto difficile, anzi fino ad oggi è stato quasi impensabile. Lo ha fatto con coraggio l'arte nel XX secolo, oltre ad una serie di pensatori, e di pensatrici. Penso a Simone Weil, e all'attacco che ha sferrato alla persona, e al diritto, in nome dell'impersonale. Lei sosteneva che il sacro è la parte impersonale dell'uomo. Questo è un modo di ripensare la decostruzione della soggettività, che è in sé maschile, in una chiave che interroga radicalmente il pensiero della differenza. Su questo Angela Putino ha dato un contributo straordinario nel suo ultimo libro su Simone Weil Un'intima estraneità. I suoi sono raggi di luce grazie ai quali si può capire che cos'è il pensiero dell'impersonale. Lei amava usare un approccio matematico che ci porta ad un modo di intendere la realtà che sfugge alle categorie della tradizione greca e romana, cattolica o laica. E' un discorso che taglia questi orizzonti e tocca quel punto che Simone Weil chiamava «punto di infinito». Angela diceva che l'intelligenza batte su un limite fino a quando si trova dall'altra parte. L'impersonale è quest'altra parte, che non si vede, sembra irraggiungibile, si abbatte sul limite, e poi lo supera. Pensare l'impersonale come ha fatto lei, o come ha fatto Kafka in alcuni racconti, significa esporsi a un rischio estremo. Talvolta questo rischio è la morte. In fondo, tutti i pensieri che decostruiscono la persona stanno su questo margine pericoloso.
Corriere della Sera 14.6.07
Il ministro presenta il suo libro sui disturbi alimentari
Melandri: «Contro l'anoressia dialogo, fantasia e tanto sport»
di Carlotta Niccolini
«La moda non è l'unica responsabile di questi gravi disagi ma non trovare jeans taglia 46 può farti sentire inadeguata»
Racconta Giovanna Melandri che qualche tempo fa, trovandosi a New York, le venne in mente di andare a parlare di anoressia con l'icona mondiale del sistema moda (oltre che una delle donne più magre del mondo). Appena entrata nell'ufficio di Anna Wintour, la ministra (in jeans e maglione) si è sentita squadrata dalla testa ai piedi, come la povera assistente del film «Il diavolo veste Prada». «È una donna in gamba, ma è stato subito chiaro che avevamo idee molto lontane. Per lei il problema era la bulimia, "altro che anoressia!". Invece sono due facce della stessa medaglia. Lo sa che in Italia il 6 per cento delle donne soffre di un rapporto disturbato con l'alimentazione e con il corpo?».
Purtroppo è anche un dato in aumento...
«Infatti, da qui è nata l'idea del Manifesto di autoregolamentazione della moda italiana contro l'anoressia, la cui genesi è raccontata nel libro. Lungi da me voler attribuire le cause di questi gravi disturbi psicologici e affettivi alle proposte degli stilisti o alle riviste femminili. Ma anche il contesto è importante e soprattutto è giusto rivendicare una responsabilità sociale della politica e delle imprese».
Questo non rischia di tradursi in un'invasione dello Stato in sfere personali?
«No, perché non si tratta di intervenire con una legge ma di seguire una strada che punta all'autoregolamentazione.
Lo stesso percorso che stiamo facendo anche rispetto al consumo giovanile di alcolici, collaborando con i produttori e i gestori dei locali».
«Come un chiodo» raccoglie storie, statistiche, indirizzi dei principali centri di studio sui disturbi alimentari. Per chi l'ha scritto?
«Il libro è dedicato a Eva e Maddalena, la bambina di Benedetta (Silj, coautrice, ndr) e la mia. Ma la speranza è che possa essere utile a tutte le famiglie e anche a chi opera tutti i giorni con il regno delle immagini femminili. Ecco, mi piacerebbe che lo leggessero i giovani stilisti e che servisse per formare un modello estetico almeno non univoco».
Per esempio vestiti oltre la taglia 42?
«Per esempio. A 15-16 anni basta poco per sentirsi inadeguati, basta anche entrare in un negozio con un'amica e non trovare un jeans taglia 44 o 46».
Che cos'altro può aiutare le ragazze in difficoltà?
«Lo sport. L'attività fisica regolare, praticata fin da piccoli, facilita la costruzione dell'autostima e un'educazione alla cooperazione. Per questo stiamo lavorando per aumentare l'offerta sportiva nelle scuole e per rendere detraibili dalle tasse i corsi di sport dei ragazzi».
Un'ultima cosa ministro, posso chiederle che taglia porta?
«Una serena 44».
Liberazione 14.6.07
Un fatto è certo, a Cuba c'è un regime
Cuba, oltre al socialismo ci vuole la democrazia
di Pietro Folena*
Liberazione è stata "irriverente" verso Cuba, Fidel Castro, la Rivoluzione? Ha offeso il "coraggioso popolo cubano"? Sarà. Il problema non sono gli accenti, non sono certe frasi che appaiono degli "sfottò". Il problema è cosa pensiamo, noi a sinistra, del regime cubano.
Sono molto preoccupato del dibattito di questi giorni su Liberazione. Guardiamoci negli occhi e parliamo chiaramente. A Cuba non c'è la democrazia. Questo è un fatto. Non ci sono libere elezioni. Non c'è un sistema pluralistico. Se questo accadesse da noi, in Italia, grideremmo al regime. Ebbene, a Cuba c'è un regime. Poi si può anche dire che tutto sommato quel regime ha assicurato sinora dei benefici sociali. Che l'embargo ha portato Cuba ad irrigidirsi. Che Cuba può aprirsi al mondo e il mondo a Cuba (come disse Giovanni Paolo II) se quell'embargo cade. Che sono stati fatti importanti passi in avanti su molti fronti, ad esempio quello dei diritti degli omosessuali.
Ma ciò non toglie che a Cuba non c'è la democrazia. Né quella "borghese", né quella "partecipata", né tanto meno quella "proletaria" (ammesso che abbia senso parlare in questi termini). Che i diritti politici minimi lì vanno strappati a costo di essere accusati di "intendenza col nemico", con ciò che ne consegue sul piano personale.
Noi ci lamentiamo perché abbiamo una democrazia asfittica. Vorremmo superare la semplice rappresentanza, la delega, il distacco tra il Palazzo e il Popolo. A Cuba questa discussione semplicemente non c'è perché non c'è possibilità di "espandere" una democrazia che non esiste. Mi fa una certa impressione persino dover ribadire una cosa tanto ovvia.
A Cuba c'è un ottimo sistema sanitario? Lo so bene, sono felice per i cubani, vorrei che fosse difeso. La scuola funziona meglio che in molti paesi occidentali? Idem come sopra.
Ma se noi affermiamo che una democrazia è menomata se non è accompagnata dai diritti sociali, come possiamo affermare che invece i diritti sociali senza democrazia sono sufficienti? Non basta riconoscere i diritti sociali per dirsi di sinistra o comunisti. Non esiste giustificazione, scusa o relativismo. La penso come Piero Sansonetti: "Non esiste nessun modello politico accettabile che possa fare a meno dei presupposti fondamentali della democrazia". Per questo, ad esempio, oltre a Cuba, critico anche l'America dei brogli elettorali. Sono evidentemente cose del tutto diverse, ma l'effetto è simile nel momento in cui, per quattro anni, gli Usa hanno avuto un presidente non eletto dal popolo, ma dai giudici della Corte Suprema.
La democrazia non è una variabile dipendente, non è divisibile e non è negoziabile. Chi, come noi, si batte per far avanzare la democrazia in Occidente e in Italia, non può che criticare aspramente tutto ciò che va in un'altra direzione in qualsiasi parte del mondo. Battersi perché cambi. Questo ovviamente non significa associarsi alla destra. Ma nel momento in cui diciamo che occorre trattare, trattare e ancora trattare in ogni circostanza per alleggerire e risolvere le tensioni internazionali, allora dobbiamo anche dire che la fine dell'embargo contro Cuba passa anche (non solo) attraverso la fine dell'embargo contro la democrazia da parte del regime castrista.
L'Italia deve essere amica di Cuba. Del suo popolo in primo luogo. E con il suo governo deve avere un rapporto dialettico, lontano dall'ostilità guerrafondaia degli Usa ma altrettanto lontana dal giustificazionismo.
Negli anni scorsi ho avuto forti contatti con l'opposizione di sinistra che opera all'interno di Cuba. Un'opposizione che riconosce le buone cose che pure a Cuba esistono, ma che oltre al socialismo vuole la democrazia. Perché le due cose non possono che stare insieme.
*Deputato gruppo Prc-Se