Repubblica 23.5.07
Capitale uomo
Quando la ragione diventò valore di scambio
di Umberto Galimberti
È bene ricordare che la parola "ragione", in latino ratio, nasce in ambito economico come regolatrice degli scambi, per cui chi riceve deve corrispondere, a chi dà, qualcosa di equivalente, secondo il principio del reddere rationem. Prima dell' introduzione del "valore di scambio" a regolare i rapporti era lo "scambio simbolico" che si esprimeva nella rapina o nel dono, in cui cioè si celebravano i rispettivi rapporti di forza: o nella forma aggressiva di chi era in grado di appropriarsi dei beni altrui senza contropartita, o nella forma munifica di chi nel dono celebrava la sua potenza e insieme la sudditanza del beneficiario. Introducendo il principio che chi riceve nello stesso tempo deve dare, non è più in gioco l' esercizio di potenza delle soggettività, ma il calcolo oggettivo del valore delle cose. Così nasce il "mercato", che organizza una società in funzione di detto calcolo, al punto da sostituire progressivamente, al dominio dell' uomo sull' uomo, il dominio dell' apparato calcolante, alla cui razionalità si sottomettono sia il lavoratore sia l' imprenditore i quali, sia pure nella differenza delle loro mansioni, si configurano come funzionari dell' apparato. In questo modo si vanifica ogni ipotesi rivoluzionaria perché, come ci insegna Hegel, la rivoluzione è possibile quando in gioco c' è il conflitto di due volontà, ma non quando la razionalità del mercato le subordina entrambe a sé, annullando il loro potenziale conflitto. Disciplinando l' impulso al guadagno e depurandolo dai suoi aspetti irrazionali e violenti, il mercato traduce la ragione occidentale in ragione economica, che, nel tendere a un guadagno non occasionale ma continuativo, evidenzia in ogni passaggio il motivo che solo la razionalità è condizione di redditività, perché, risolvendo ogni attività lavorativa in prestazione funzionale, la depura da ogni ideologia, risolvendola nell' ambito della ragione tecnica. Sotto il dominio della ragione tecnica, l' uomo incomincia ad uscire dalla scena della storia perché: come soggetto di bisogni è assolutamente ininfluente, in quanto i suoi bisogni hanno la possibilità di essere soddisfatti solo se compatibili con la redditività del calcolo economico, mentre come soggetto di azioni (siano esse lavorative, siano esse imprenditoriali) la sua rilevanza è data dalla sua produttività in ordine alla redditività economica, in riferimento alla quale, l' uomo e i suoi scopi sono ridotti a semplici grandezze variabili nel calcolo delle possibilità di guadagno e di profitto. Ma l' economia (di mercato), dopo aver sottratto gli scambi alla logica della rapina e del dono per sottometterli a un regime di razionalità, soffre ancora di quell' elemento irrazionale, tipico delle passioni, che è la passione per il denaro, da cui la tecnica è tendenzialmente immune, perché non ha come suo scopo il profitto, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non svela la verità, semplicemente funziona. E siccome il suo funzionamento è diventato planetario, planetario è diventato il suo tipo di razionalità che si è soliti chiamare "strumentale", in quanto ha la sua misura nel massimo dell' efficienza, espressa dal miglior rapporto tra i costi impiegati e i risultati raggiunti. Per la tecnica, e per la razionalità che la governa, modello di efficienza e di funzionalità è la macchina, che non soffre di quegli "inconvenienti umani" che sono lo stato di salute, la variazione degli umori, i ritmi di efficienza, i livelli di precisione, che fanno sentire l' uomo inadeguato rispetto alle macchine che impiega, anche perché dette macchine, dal computer al cellulare giusto per fare degli esempi, incorporano una quantità tale di cultura oggettivata, da far apparire la cultura soggettiva di chi la impiega in tutto il suo limite e la sua inadeguatezza. Eppure, anche se nel complesso macchinale l' uomo percepisce se stesso come il congegno più asincronizzato, può davvero la ragione strumentale della tecnica, che utilizza solo il pensiero calcolante regolato da criteri di efficienza, produttività, obbiettivi a breve e medio termine, essere all' altezza della globalizzazione del mercato che, per essere compresa, richiede competenze antropologiche per entrare in relazione con altre culture e visioni del mondo di cui il pensiero calcolante è del tutto sprovvisto? Se il tipo di pensiero è limitato al calcolo tipico della ragione strumentale, forse le imprese che si regolano esclusivamente su questo tipo di pensiero si precludono la capacità di anticipare e governare i cambiamenti, col risultato che avranno sì una storia, ma non un futuro, per aver trascurato il capitale umano che ha ritmi di accumulazione radicalmente diversi dal capitale finanziario. Se quest' ultimo infatti si misura sui tempi brevi del rendiconto trimestrale e della quotazione in borsa, il capitale umano esige un respiro più lungo e una forza che si conquista per maturazioni e arricchimenti successivi, di cui il pensiero calcolante non ha la più pallida idea.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
giovedì 7 giugno 2007
il manifesto 7.6.07
La sinistra al Capranica in cerca di unità
I 150 parlamentari di Prc, Pdci, Verdi e Sd in assemblea per la prima volta.
Si parte da pensioni e precari, ma non tutte le opinioni collimano
di Antonio Sciotto
Un «momento importante» per la sinistra italiana: sembra abbastanza concorde il giudizio dei partiti che oggi si danno appuntamento al cinema Capranica di Roma, i segretari e 150 parlamentari (100 deputati e 50 senatori) che fanno capo a Rifondazione, Pdci, Verdi e Sinistra democratica. Verso un qualche tipo di «unità», ma alcuni partiti accelerano e altri frenano. E' certo, comunque, che la base comune di partenza saranno quattro temi: 1) il prossimo Dpef; 2) l'uso del cosiddetto «tesoretto» per l'emergenza sociale e ambientale; 3) le pensioni; 4) la precarietà. Si cerca di pesare di più sul governo Prodi, in caduta verticale di consensi. E se ad esempio Armando Cossutta invita a dar vita a un gruppo parlamentare unico, con portavoce unico a rotazione, dall'altro lato Maurizio Zipponi di Rifondazione parla di un «possibile patto d'azione sui contenuti, un percorso verso una forza confederata»; mentre Titti Di Salvo, della neonata Sd, decisamente frena: «Non ci sarà tutta la sinistra all'incontro, mancano ad esempio Sdi, associazioni e movimenti. L'obiettivo per cui Sd è nata è certamente l'unità: ma questa non si realizza con una sola assemblea». Sui contenuti però le sfumature sono tante, dunque sembra difficile che si possa uscire con una qualche sorta di documento comune, a meno di non farlo molto generico: ad esempio tutti sono per l'abolizione dello «scalone» sulle pensioni, ma mentre Prc e Pdci per il momento sono contrari anche all'ipotesi «scalini», appaiono invece più possibilisti, seppure solo per alcune categorie di lavoratori, Sd e Verdi. Vediamo cosa ci hanno detto uno per uno.
Rifondazione comunista: il responsabile Lavoro Maurizio Zipponi ci spiega che «deve essere tolto di mezzo lo scalone Maroni e si deve tornare ai 57 anni e 35 di contributi, pensando solo a possibili incentivi per eventuali aumenti. E i coefficienti non vanno toccati». «Sono tutti concetti scritti nel programma dell'Unione, come il superamento della legge 30». Su quest'ultimo fronte, Prc, Verdi e Pdci hanno firmato la proposta di legge Alleva, non siglata invece dalla Sd: «I contenuti sono noti, dalla cancellazione dei contratti cocoprò agli interventi su contratti a termine ed esternalizzazioni: sono i punti concreti che porteremo all'incontro». Sarà possibile uscire con un documento comune? «Intanto entriamo ciascuno con le nostre opinioni, l'obiettivo può essere uscire con un'opinione simile: dobbiamo accelerare l'unità a sinistra, avviare un percorso che ci porti a una forza confederata, senza che per questo nessuno si sciolga o rinunci alla propria storia, alle proprie opinioni e sensibilità».
Pdci: Il capogruppo al Senato Manuela Palermi spiega che i capigruppo e segretari si incontreranno in mattinata, prima dell'assemblea, e verso le 11,30 incontreranno Epifani, Bonanni e Angeletti: «Ci sarà una convergenza sui temi sociali, ma quel che è certo è che il Pdci è contrario a toccare i coefficienti, né ci può soddisfare che lo scalone Maroni venga sostituito dagli scalini». Eppure i confederali, la Cgil, sembrano possibilisti sugli scalini: «Noi crediamo che anche gli scalini sarebbero uno sbaglio, e su questo terremo: fanno bene gli operai a scioperare. Così non ci soddisfano le risposte di questo governo alla legge 30: troppo timide. Si è fatto ancora troppo poco, la 30 va aggredita meglio».
Verdi: Per Angelo Bonelli, capogruppo alla Camera, si dovrà parlare del prossimo Dpef e del «tesoretto»: «Serve un'impronta climatica, in contrasto con quelllo che sta accadendo al G8, dove Bush affossa i temi ambientali». Sulle pensioni i Verdi si dicono «laici»: «Via lo scalone, è certo, ma scalini o no è un problema tecnico che si vedrà nel merito».
Sinistra democratica: Titti Di Salvo spiega che «c'è un'analisi comune: bisogna investire sul sociale, invertire le priorità, oggi tutte mirate al risanamento dei conti». «Però al Capranica non c'è tutta la sinistra, mancano Sdi e movimenti: intanto facciamo voce comune per dire al governo Prodi come agire su pensioni, precarietà, tesoretto». Sulle pensioni: «Via lo scalone, e ci sono lavori per cui anche gli scalini sono improponibili. L'età delle donne non va aumentata, i coefficienti non si toccano». Precarietà: «Bene le misure in finanziaria, ora si agisca sui contratti a termine, impedendo la ripetibilità all'infinito e fissando le causali nei contratti collettivi».
l'Unità 7.6.07
Comunisti francesi, un partito sull’orlo del crac
Pochi consensi, casse vuote e finanziamenti a rischio:
il Pcf mette in vendita i suoi «gioielli». Forse anche la storica sede
di Gianni Marsilli
ERA «IL» PARTITO. Diceva il generale de Gaulle, dopo la guerra: «In Francia ci siamo noi, e ci sono i comunisti». Si dondolava sul 30 per cento dei voti, il Pcf, e i suoi iscritti sfioravano il milione. Affluivano gli intellettuali, che avevano nomi altisonanti: Aragon,
Picasso, Montand. Poi venne il guado degli anni ’70 e ’80, il «programma comune» con Mitterrand, il crollo dell’Urss, i tentativi di esistere senza nulla rivedere. Fino a toccare il fondo, il 22 aprile scorso: 1,93 per cento dei voti per la candidata Marie-George Buffet, brava donna e volenterosa, ma le cui parole sembrano un infinito martellante discorso alla festa dell’Humanité. Toni acuti, vuoto siderale di idee. Adesso, alla vigilia delle legislative, il Pcf si accorge di essere in pericolo di fallimento. I sondaggi gli danno tra i quattro e i dodici deputati, laddove ne servono venti per formare un gruppo parlamentare che abbia diritto a finanziamenti, uffici, diarie. Verrebbero a mancare anche consistenti stipendi, regolarmente riversati nelle casse del partito. Per non parlare del rimborso pubblico, 1,66 euro per ogni voto espresso. Per niente diversa si presenta la prospettiva delle elezioni comunali del 2008. Tra un anno il Pcf potrebbe ritrovarsi con uno sparuto manipolo di sindaci e consiglieri, laddove oggi - grazie agli accordi di desistenza con i socialisti - ne conta ancora circa dodicimila. Con loro sparirebbe quel che resta della rete di governo, con tutto quel che implica: appalti, commesse, personale.
Si contano quindi i gioielli di famiglia, e si fa l’inventario di quel che si può vendere. C’è l’ammiraglia, che i portavoce comunisti definiscono però «intoccabile». È il palazzo parigino di Colonel-Fabien, che domina l’omonima piazza, progettato nel ’71 da Oscar Nieymeyer, il celebre architetto comunista brasiliano: vetro e cemento, 5000 metri quadrati per gli uffici, 5000 per sale riunione e conferenze, 5000 per parcheggi e depositi. Una cittadella oramai animata da non più di 55 funzionari, per parecchi dei quali si profila il tempo del prepensionamento. «Fabien» vale tra i 50 e i 60 milioni di euro, ma dal marzo scorso è stato classificato come «monumento storico». Le destinazioni d’uso possibili, in caso di vendita, non sono molte. Potrebbe difficilmente diventare un hotel, per esempio. Piuttosto un museo, o una sede universitaria.
Il partito ha già venduto la scuola quadri, un elegante palazzotto nel verde fuori Parigi, a Draveil. Diventerà un centro per ospitare e curare i disabili. Ha venduto anche, per oltre tre milioni di euro, l’«Espace Marx», il pensatoio sito in boulevard Blanqui. Altra cessione di rilievo, si dice per venti milioni di euro: la casa che fu di Maurice Thorez, comprata nel ’53 a Bazainville per il più mitico dei segretari generali. Nel 2000 si era cominciato ad affittare anche l’immensa struttura di «Fabien»: ne avevano approfittato le modelle di Prada per qualche sfilata, prêt-à-porter e falce e martello, ma poi la cosa era parsa poco dignitosa, e non se n’è fatto più nulla. Rimangono pochi immobili. Non si tocca, apparentemente, la cosiddetta «casa di Lenin». Lui ci abitò per davvero, nel corso del suo esilio. È un bilocale sito al numero 4 della rue Marie Rose, a Montparnasse. Alla vicina Closerie des Lilas, del resto, c’è ancora la targhetta con il nome di Vladimir Ilic sul tavolino dove usava scrivere. Casa sua non è in vendita: questione affettiva, simbolica, e anche, probabilmente, di insignificante valore mercantile.
Il Pcf ha smentito di aver sottoposto ad una perizia alcune opere d’arte che gli sono rimaste dai tempi d’oro. Ma le voci corrono. Il Museo d’arte moderna sarebbe stato contattato per capire quanto valga la grande vetrata dipinta da Fernand Leger e da sua moglie. E ci si interroga anche sul destino della tappezzeria che lo stesso Leger aveva realizzato sul tema di Paul Eluard «Liberté, j’écris ton nom», che si trova al quinto piano di «Fabien». Ma il pezzo migliore è una delle tre Gioconde con i baffi dipinte da Marcel Duchamp. Ha raccontato al «Figaro» Pierre Juquin, che fu negli anni ’80 comunista dissidente e rinnovatore, di ricordarsi il giorno in cui Louis Aragon depositò l’opera, di cui era in possesso, sulla scrivania di Georges Marchais. Era poco dopo la morte di Elsa Triolet, il suo grande amore. Ma prima, Elsa era stata la donna di Duchamp: «Aragon non sopportava la vista di questo quadro realizzato da uno degli amanti di Elsa». La Gioconda baffuta è in prestito al Centre Pompidou. Ma sulla base di una convenzione da rinegoziare ogni tre anni. Capiterà nel 2008, proprio l’anno delle municipali.
Corriere della Sera 7.6.07
Con la spada e la croce alla conquista dello Stato
di Sergio Romano
Mi incuriosisce il fatto che le religioni possano essere esportate e introdotte con la forza. Il Sud America cattolico ne è un esempio, come anche le coste africane dove l'Islam florido di oggi è stato portato dagli schiavisti di due secoli fa. Sono portato a pensare che una componente sociale intima come la fede non possa essere introdotta con la forza e le uccisioni, invece... E poi, perché questa nuova fede si mantiene nel tempo e non decade come succede per le ideologie politiche?
Massimo Serventi
ser20@hotmail.it Caro Serventi, quasi tutte le grandi conversioni al Cristianesimo avvennero grazie a un'accorta alleanza fra gli interessi della Chiesa e quelli di un ambizioso uomo di Stato. Dopo la fine dell'Impero d'Occidente, la Chiesa si dedicò all'evangelizzazione dei territori che erano rimasti al di là dei confini romani. Mentre i monaci celti operavano in Irlanda, quelli inviati da Gregorio Magno introdussero la fede cristiana e la cultura latina presso gli anglosassoni e raggiunsero in breve risultati straordinari. Ma non avrebbero ottenuto tali successi se non fossero riusciti a convincere il padrone di un territorio che il passaggio alla cristianità gli avrebbe garantito i favori di Dio e avrebbe reso il suo regno più facilmente governabile. Il sovrano sarebbe stato incoronato con le solenni liturgie della fede cristiana, sarebbe stato «unto dal Signore», avrebbe potuto esigere obbedienza esercitando un potere che era stato benedetto dalla grazia divina. Nella storia degli Stati moderni il monoteismo cristiano (ma anche quello musulmano) fu percepito come un fattore di modernizzazione e razionalità sociale. Al battesimo del re seguiva generalmente il battesimo collettivo dei suoi sudditi. In Europa orientale, dove i monaci greci diffusero i riti e gli insegnamenti del Cristianesimo greco, il caso più singolare fu quello di Vladimiro principe di Kiev. Decise che il suo Paese si sarebbe convertito al monoteismo, ma si chiese quale fosse, fra le principali religioni presenti sul territorio dell'Europa, quella più adatta ai suoi sudditi. Convocò alla sua corte un certo numero di preti, rabbini, ulema, ebbe con loro alcune conversazioni e giunse alla conclusione che la scelta migliore fosse il Cristianesimo. Gli piacquero lo splendore dei riti, la magnificenza degli arredi sacerdotali, e, perché no, la tolleranza dell'alcol, così severamente bandito dalle regole musulmane. Ai rabbini disse che il loro Dio era troppo vendicativo per piacere al suo popolo e agli ulema che la proibizione delle bevande alcoliche non sarebbe mai stata accettata nelle sue terre. Vi furono quindi anni in cui era sufficiente, per convertire una nazione, convertire il suo re, e in cui la lealtà alla Chiesa era garantita dal potere del sovrano. La situazione cambiò quando la Riforma predicata da Lutero divise i popoli e costrinse i re a scegliere. Se governa «per grazia di Dio», un sovrano non può permettere che la dottrina religiosa da cui deriva il suo potere possa piacere a una parte della sua nazione e spiacere all'altra. Mentre i protestanti, per la Chiesa di Roma, erano eretici, per i re cattolici erano potenziali dissidenti. Qualcuno scelse di continuare a essere cattolico e perseguitò i protestanti. Qualcuno passò al protestantesimo e perseguitò i cattolici. Più tardi, verso la metà del Seicento, i Trattati di Westfalia decisero che la religione di uno Stato sarebbe stata quella del suo principe. Alcune fra le più importanti migrazioni europee (gli ugonotti francesi in Germania, i nonconformisti inglesi nell'America del Nord) furono religiose. Erano uomini e donne che non volevano conformarsi alla regola imposta dal loro sovrano e cercavano altrove la libertà di culto che era stata loro negata in patria. Come vede, caro Serventi, la forza e il potere hanno quasi sempre avuto nella storia dell'apostolato religioso una importanza determinante.
Aprile on line 6.6.07
Arriva Bush, Roma "città chiusa"
di Andrea Scarchilli
qui
Corriere della Sera 7.6.07
Cortei anti-Bush, vietati cappucci e bastoni
A Roma diecimila poliziotti, scuole chiuse, stazioni setacciate, Trastevere blindato
di Rinaldo Frignani
ROMA — Niente caschi, sciarpe, passamontagna e bandane. Chi sabato pomeriggio scenderà in strada per protestare contro il presidente Bush dovrà restare a volto scoperto. E non dovranno esserci bastoni o altre armi improprie. «Altrimenti il corteo non partirà. Questo è sicuro. Nessuno vuole provocare, ma nessuno può pensare di minacciare le forze dell'ordine e le istituzioni, anche perché non ci lasciamo intimidire da chi lancia proclami».
È il prefetto di Roma Achille Serra a ricordare le regole alle migliaia di manifestanti annunciati per il corteo anti- Bush previsto alle 15 da piazza della Repubblica a piazza Navona. Un percorso fissato dagli stessi organizzatori che però deve ancora ottenere l'autorizzazione del questore Marcello Fulvi. Ma alla vigilia dell'arrivo del presidente Usa la tensione nella capitale ha subìto un'impennata improvvisa. No global, collettivi studenteschi, centri sociali e l'ala dura del «movimento» sono pronti a protestare contro Bush. Con ogni mezzo. Finora non ci sono segnalazioni di presenze di black bloc ma si temono infiltrazioni di violenti e provocatori. Il volto del presidente compare in centinaia di manifesti affissi in diversi quartieri della città. Specialmente a San Lorenzo e al Prenestino. Lo slogan di tutti è «Push Bush out». A Ponte Sisto è comparso il primo striscione («Il cuore di Roma rifiuta la guerra») ed è stato annunciato un altro sit-in, sempre per sabato, a Campo de' Fiori. Per smorzare i toni, in serata, Trenitalia ha comunicato che per raggiungere Roma sono disponibili treni charter e sconti del 20 per cento sulle tariffe ordinarie per comitive di giovani superiori alle 10 persone. Ci sono anche biglietti a 50 euro. Corteo a parte, in queste ore si sta ultimando il piano di sicurezza per Bush e il suo staff. Diecimila uomini delle forze dell'ordine, ospedali allertati, aerei ed elicotteri armati in volo «h24». Ma anche scuole chiuse già domani, con un giorno di anticipo rispetto alla fine dell'anno scolastico, la Galleria Alberto Sordi, di fronte a Palazzo Chigi, interdetta al pubblico per quasi tutto sabato, traffico bloccato in alcune zone. E ancora: percorsi differenziati per il corteo presidenziale, falsi bersagli con limousine- civetta per ingannare possibili attentatori, stazioni ferroviarie passate al setaccio. Sono solo alcune delle misure decise dalla Prefettura in accordo con l'intelligence Usa. Il punto critico della visita dovrebbe essere Trastevere, con la visita alla basilica di Santa Maria e poi alla Comunità di Sant'Egidio, distante pochi metri. Da domani notte una fetta del rione, quella più suggestiva, fra piazza Trilussa e san Francesco a Ripa, sarà interamente blindata: varchi d'accesso presidiati dagli agenti, ingresso consentito solo ai residenti e ai commercianti (dovranno tutti esibire i documenti d'identità), saracinesche abbassate, tiratori scelti nei palazzi, controlli nel sottosuolo. La notte scorsa gli abitanti sono stati invitati a spostare auto e moto dai vicoli. Se non lo faranno entro le 2 di domani notte ci penseranno i carriattrezzi. «Chiedo ai cittadini di avere pazienza», ha sottolineato il prefetto Serra, mentre il sindaco Walter Veltroni ha precisato che «non ci saranno zone rosse perché in questa città non ci sono mai state». I voli in partenza e in arrivo negli aeroporti di Fiumicino e Ciampino saranno ritardati di 30 minuti all'arrivo (domani sera) e alla partenza (domenica mattina) dell'Air Force One. Tutti gli altri velivoli, privati e commerciali, dovranno stare fermi invece per due ore.
Ma non basta. Polizia e carabinieri controlleranno le aviosuperfici in provincia di Roma e nel Lazio: preoccupa la possibilità di una minaccia dal cielo con deltaplani o piccoli aerei. «Abbiamo attivato il tavolo di Difesa civile in funzione antiterrorismo — ha concluso Serra — speriamo solo che non debba mai entrare in azione...».
Corriere della Sera 7.6.07
Diario dal fronteAntiUsa
Casarini: no ai volti coperti? Devono cominciare i poliziotti
ROMA — Per capirci. Mentre il prefetto Achille Serra — tono fermo ma ragionevole, da poliziotto illuminato — annuncia che, a Roma, sabato, non ci saranno «zone rosse» (di solito sono garanzia di tafferugli) e che il corteo anti-Bush sarà libero di marciare a patto «di non avere, nei suoi ranghi, manifestanti con il volto coperto», Luca Casarini, capo incontrastato dei centri sociali del Nord-Est, ma già sceso nella capitale, arringa un'assemblea all'università La Sapienza.
«Questa storia che non ci si può coprire la faccia, vale anche per i poliziotti? Comincino a mettere i numeri sul casco, il prefetto Serra dica chi saranno i veri responsabili dell'ordine pubblico e se, per caso, non siano gli stessi di Genova...
Inoltre, beh, Serra ci garantisca che non verranno usati gas, e che nessun agente o carabiniere abbia nella fondina una pistola carica...».
L'atmosfera è questa. Esplicito il ministro Giuliano Amato: «Spero che le manifestazioni in programma non generino turbolenze di fronte alle quali sarebbe inevitabile reagire». La verità è che, negli ultimi anni, Rifondazione comunista ha, di fatto, placato i disobbedienti, e controllato i cortei. Ma ora, come si sa, è un partito spaccato. Al corteo parteciperà solo l'ala dissidente, quella di Sinistra critica, e nessuno sa dire se sarà in grado di tenere le briglie.
Piero Bernocchi (Cobas) continua comunque a chiedere sconti alle Ferrovie per i manifestanti. La città è imbrattata da nuove scritte contro Bush. Se poi avete un amico che abita a Trastevere, già militarizzata, chiamatelo, e fatevi dire di che umore è.
Corriere della Sera 7.6.07
Il 9 giugno 1937 veniva ucciso in Francia con il fratello Carlo. Un saggio di Giovanni Belardelli
Nello Rosselli, lo studioso che finì martire
di Antonio Carioti
Vittima del regime che pure non ostacolava il suo lavoro di storico
Assassinati assieme in Francia, a Bagnoles-de-l'Orne, il 9 giugno 1937, Carlo e Nello Rosselli vengono quasi sempre citati in coppia come martiri dell'antifascismo. Sono per tutti «i fratelli Rosselli», due personalità inscindibili, quasi un'entità unica. E ad essere penalizzato da questo destino è soprattutto Nello, il minore dei due, che in realtà venne ucciso soltanto perché si trovava in compagnia di Carlo, cospiratore instancabile e nemico irriducibile del fascismo. Di fronte all'intrepido eroismo del fondatore di Giustizia e Libertà, suo fratello risulta nella retorica ufficiale pressoché oscurato, o quanto meno appiattito su Carlo come una figura di contorno.
Va a Giovanni Belardelli il merito di aver rimediato a questa palese ingiustizia, per quanto possibile, con il libro
Nello Rosselli, ora riedito da Rubbettino (pagine 215, e 25) in una versione aggiornata e ampliata rispetto all'originale. Nel saggio, in libreria da oggi, viene posta in adeguato rilievo la personalità di uno storico che, se non fosse stato trucidato a nemmeno 37 anni, avrebbe potuto affermarsi, come peraltro aveva cominciato a fare, tra i più validi della sua generazione. Uno studioso di ferrei sentimenti antifascisti, pagati con il confino (per due volte, nel 1927-28 a Ustica e nel 1929 a Ponza) e con un breve soggiorno in carcere, ma certo non un combattente impegnato allo spasimo nella lotta contro la dittatura.
In effetti, osserva Belardelli, nella vicenda di Nello Rosselli si riflettono le due anime del fascismo: una relativamente moderata, addirittura mite in confronto ai totalitarismi coevi, per cui allo storico fiorentino veniva permesso di recarsi all'estero e di incontrare liberamente Carlo, nemico giurato del regime; l'altra violenta e feroce, per cui Nello finì assassinato, sia pure per combinazione, nell'agguato organizzato dai sicari francesi dell'organizzazione di estrema destra Cagoule, in stretto contatto con esponenti dei servizi segreti italiani, per eliminare suo fratello.
In realtà Carlo e Nello, per quanto uniti da un legame affettivo molto solido, erano piuttosto diversi come indole e come idee. Impulsivo il primo, propenso all'azione diretta; riflessivo il secondo, più portato per gli studi. Socialista ma critico verso il marxismo, liberale ma rivoluzionario, padre nobile del Partito d'Azione il primo; democratico borghese il secondo, che a suo tempo aveva aderito all'Unione nazionale del moderato Giovanni Amendola. Non a caso sulla rivista Il Quarto Stato, che il fratello Carlo aveva fondato insieme a Pietro Nenni, Nello Rosselli scriveva con lo pseudonimo «Uno del Terzo Stato», per rimarcare il fatto che non si riconosceva nell'ideologia socialista.
Un altro elemento importante sottolineato da Belardelli è il rapporto instaurato dallo studioso fiorentino con Gioacchino Volpe, il grande storico abruzzese che fu convinto fautore del regime mussoliniano. Un po' come il filosofo Giovanni Gentile, altro fascista non fazioso, Volpe guardava al talento più che alle tessere. Fu lui a intercedere affinché Nello fosse liberato dal confino di Ponza e poi fece in modo, esponendosi anche a critiche, che gli venisse concesso di recarsi a Londra per compiere delle ricerche d'archivio. Non a caso più tardi Rosselli cercò di coinvolgere Volpe nel suo progetto, alla fine abortito, di pubblicare una rivista storiografica di respiro europeo.
Non bisogna naturalmente pensare a un Nello remissivo nei riguardi del fascismo. In condizioni di limitazione della libertà, al confino di Ustica, non esitò a rivendicare il diritto «di serbare di fronte al potere esecutivo una posizione di critica e controllo sereni», anche se questo poteva costargli molto caro. E più tardi, mentre il regime celebrava i suoi trionfi, lo sentiamo confessare, in una lettera a Leone Ginzburg del 2 febbraio 1934, la fatica di «condurre una fiera lotta interiore per continuare a credere, e a sperare, in valori ideali cui la grande maggioranza, anche fra la gente di senno, volta la schiena».
A quegli ideali danno voce le opere di Nello, come Mazzini e Bakunin, ricerca pionieristica sulle origini del movimento operaio italiano, e altri scritti storici. In particolare, nota Belardelli, il suo libro Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano è un po' tutto percorso dall'idea di ricollegare la battaglia antifascista alla tradizione del patriottismo ottocentesco. Ce n'era abbastanza per sancire la sua completa estraneità al regime, ma non certo per attirare su di lui una condanna a morte. Fu una sorte crudele a tradirlo, facendolo trovare sull'automobile guidata dal fratello in quel cupo giorno di settant'anni fa.
Repubblica 3.6.07
La destra giacobina a passo di carica
di Eugenio Scalfari
La maionese è impazzita. Quando avviene questo incidente culinario (e può accadere anche se le uova sono fresche di giornata) non c´è che buttarne il contenuto e ricominciare pazientemente da capo.
Un´altra immagine dello stesso fenomeno che ho usato qualche mese fa è quella dello specchio rotto. Lo specchio è uno strumento che serve a riflettere l´immagine. Se si rompe in tanti frammenti l´immagine non c´è più e sopraggiunge una sorta di cecità, sia che si tratti d´un soggetto individuale sia – peggio ancora – d´un soggetto collettivo. Ma nel caso nostro, voglio dire nella società italiana, nelle forze politiche e sociali che ne sono parti rilevanti, nella classe dirigente che dovrebbe guidarla ed esserne punto di riferimento e di esempio, non ci sono più nemmeno i frammenti di quello specchio. Si direbbe che un cingolato ci sia passato sopra e l´abbia polverizzato. Così si procede a tentoni, animati solo dall´istinto di sopravvivenza, dagli spiriti animali, dalla psicologia del branco, dai legami corporativi.
La razionalità non fa più parte del nostro bagaglio intellettuale e morale. È stata picconata da tutte le parti la razionalità; accusata di essere all´origine dei delitti e del più grave tra tutti – quello della superbia. Così la luce della ragione è stata spenta, nuove ideologie si sono installate al posto di quelle crollate in rovina, fondamentalismi d´ogni tipo hanno preso il posto della tolleranza e della certezza del diritto.
I circuiti mediatici hanno dato mano a questa devastazione e salvo rarissime eccezioni ancora continuano in questa funzione amplificatoria e istigatrice del peggio, accreditando e ventilando versioni dei fatti prive di verità e di ragione.
Questo complesso di circostanze ha toccato il suo culmine nel conflitto in atto tra il governo e il generale comandante della Guardia di finanza, Roberto Speciale. Un conflitto certamente grave perché motivato da ragioni tutt´altro che futili, ma che sta coinvolgendo le massime istituzioni repubblicane in un contesto, appunto, di impazzimento generale sapientemente alimentato da una psicologia del tanto peggio tanto meglio che ha ora raggiunto livelli mai visti prima.
Ci occuperemo dunque di questa incredibile vicenda cercando di chiarirne gli elementi di fatto con la massima obiettività possibile in questi chiari di luna. Non senza avvertire che essa è soltanto l´ultimo episodio d´una serie che costella da anni il costume nazionale gettando nello sconforto tutte le persone di buona fede e di buona volontà che costituiscono ancora la maggioranza del Paese e assistono impotenti e senza voce allo scempio della ragione.
Sarò conciso nel rievocare fatti già noti ma spesso trascurati o volutamente stravolti. E comincio dalla fine, cioè da quanto è avvenuto ieri, 2 giugno, festa della Repubblica.
La giornata è cominciata malissimo. A Roma nella tribuna dalla quale le autorità dello Stato assistevano alla parata delle Forze armate mentre sfilavano i vari corpi, le storiche bandiere dei reggimenti con i medaglieri guadagnati sui campi di battaglia e nelle rischiose missioni di pace, andava in scena una lite continua e sommamente disdicevole tra i rappresentanti dei due schieramenti politici, seduti alle spalle del presidente della Repubblica.
Poco dopo il capo dell´opposizione, Silvio Berlusconi, interrogato dai giornalisti sull´intenzione di chiedere udienza al Capo dello Stato per rappresentargli una situazione definita di «attentato alla democrazia» da lui e da tutti gli altri componenti del centrodestra, rispondeva: «Quella visita al Quirinale sarebbe nei nostri desideri, ma purtroppo non c´è più nessuna istituzione che ci dia garanzie d´indipendenza: la sinistra le ha occupate tutte». Affermazione della quale è superfluo segnalare la gravità e che, pronunciata da chi ha guidato il governo per cinque anni e da un anno guida l´opposizione, segnala – essa sì – un degrado democratico che colpisce il presidente della Repubblica in prima persona e il suo ruolo di massima garanzia.
Prodi dal canto suo, nel corso di un drammatico Consiglio dei ministri avvenuto il giorno prima, di fronte alle reiterate divisioni sull´uso delle risorse disponibili, aveva detto: «Se si continua così io me ne vado, ma non vi illudete pensando a soluzioni dopo di me perché dopo di me ci sono soltanto le elezioni». Si può capire il perché di questa affermazione, volta a richiamare all´ordine gli alleati riottosi, ma non toglie che si tratti d´una forzatura poiché non spetta a Prodi stabilire che cosa potrebbe avvenire dopo le sue eventuali dimissioni; spetta soltanto al Capo dello Stato dopo che abbia consultato i gruppi parlamentari.
Quanto a Napolitano, egli ha più volte ripetuto che non intende sciogliere le Camere con la vigente legge elettorale che le rende ingovernabili e comunque senza prima aver accertato l´esistenza o meno d´una maggioranza parlamentare che possa dare fiducia ad un governo istituzionale insediato per formulare una nuova legge elettorale e adempiere ai compiti urgenti che incombono sulle materie dell´economia, della finanza pubblica e della sicurezza nazionale.
Infine lo stesso Napolitano ha dichiarato che il tema della Guardia di Finanza e della rimozione del suo comandante generale esulano dalle sue competenze.
In quelle stesse ore, nel corso d´un convegno dei giovani industriali a Santa Margherita, Gianfranco Fini insultava pesantemente il ministro dell´Industria, Bersani, ottenendo dalla platea un´ovazione da curva sud dello stesso tipo di quelle ottenute da Berlusconi a Vicenza alcuni mesi fa sotto lo sguardo allora allibito di Montezemolo e del vertice della Confindustria. Spettacolo preoccupante, quello di Santa Margherita; non perché gli industriali non possano applaudire un uomo di partito che esprime le sue idee, ma perché quell´uomo di partito è lo stesso che ha condiviso quella politica che ha portato il reddito nazionale a crescita zero, il debito pubblico a risalire, l´avanzo primario del bilancio a scomparire, la pressione fiscale ai suoi massimi, i fondi per le infrastrutture inesistenti e le liberalizzazioni interamente inevase.
Questo, ad oggi, il grado di impazzimento di quella maionese di cui si è parlato all´inizio.
1. Speciale presenta a Visco qualche mese fa un piano di avvicendamenti comprendenti l´intero quadro di comando della G. d. F. Motivazione: è prassi che ogni tre anni gli incarichi siano avvicendati per ragioni di funzionalità.
2. Visco esamina il piano e vede che l´avvicendamento riguarda tutti i comandi salvo quelli di Milano e della Lombardia. Ne chiede ragione. Speciale, in ottemperanza, si impegna a riformulare il piano includendovi i comandi della Lombardia.
3. Visco sa benissimo il motivo dell´esclusione dei generali e dei colonnelli che hanno incarichi dirigenti a Milano: si è formato da anni in quella provincia un gruppo di potere collegato con il comando generale di Roma. Risulta a Visco che quegli ufficiali abbiano "chiuso gli occhi" su gravissime irregolarità verificatesi nel sistema delle intercettazioni telefoniche, avvenute nel corso di scalate finanziarie a banche e a giornali. Alcuni di quei documenti sono stati trafugati e consegnati a giornali di parte per la pubblicazione. In alcuni casi le intercettazioni non sono neppure arrivate all´ufficio del Pubblico Ministero ma trafugate prima e consegnate ai giornali senza che la magistratura inquirente ne avesse preso visione.
4. Passano i giorni e le settimane ma Speciale non consegna il nuovo piano di avvicendamento.
5. Nel frattempo lo stesso Speciale avvisa, all´insaputa di Visco, il procuratore della Repubblica di Milano che i comandi della G. d. F. milanese stanno per essere sostituiti. Il procuratore si preoccupa per i nuclei di polizia giudiziaria che operano ai suoi ordini effettuando inchieste delicate e importanti. Speciale lo invita a mettere per iscritto quelle preoccupazioni. Arriva la lettera del procuratore. Speciale la mostra a Visco.
6. Visco, dopo aver riesaminato la pratica, telefona a Speciale per manifestare la sua sorpresa e il suo malcontento. Speciale mette in vivavoce la telefonata alla presenza di due alti ufficiali che ascoltano la conversazione.
7. Il tribunale di Milano, richiesto di verificare lo stato dei fatti in via di accertamento, esclude che esista alcuna indebita interferenza da parte di Visco.
8. Speciale rende pubblico il conflitto in atto presentandolo come un´interferenza di Visco sull´autonomia della G. d. F.
Di qui i seguiti politici che conosciamo e che portano all´autosospensione di Visco dalla delega sulla G. d. F. e alla rimozione di Speciale dal comando generale per rottura del rapporto fiduciario tra lui e il governo.
Il vice ministro delle Finanze aveva – ed ha – il fondato sospetto di gravi irregolarità compiute da alcuni comandi collegati con il comando generale. Rientra pienamente nei suoi poteri stimolare il comando generale ad avvicendare i generali non affidabili. Alla fine, accogliendo le preoccupazioni del procuratore di Milano, lo stesso Visco consente ad escludere i comandi milanesi dall´avvicendamento dei quadri nel resto d´Italia.
Tra i dettagli (dettagli?) incredibili c´è quella telefonata messa in vivavoce all´insaputa dell´interlocutore ed ascoltata da due ufficiali di piena fiducia dello Speciale. Basterebbe questo dettaglio a rimuoverlo dal comando.
Del resto – e purtroppo – non è la prima volta che il comando generale della G. d. F. dà luogo a gravissimi scandali. Almeno in altre due occasioni dovette intervenire la magistratura penale e fioccarono pesanti condanne di reclusione.
Ovviamente ciò non lede il valore e l´affidabilità di quel corpo militare, così come i tanti casi di pedofilia dei preti non vulnerano l´essenza della Chiesa quando predica il Vangelo. Certo ne sporca l´immagine e quindi danneggia fortemente la Chiesa. Così le malefatte di alcuni generali e perfino del comandante generale pro-tempore non inficiano l´essenza d´un corpo chiamato a tutelare le finanze dello Stato ma certamente ne sporcano l´immagine.
Quanto a Visco, quando il conflitto si è fatto rovente tracimando nella politica e in Parlamento, ha restituito la delega in attesa che si pronunci la magistratura di Roma che nel frattempo ha aperto un´inchiesta contro ignoti su quel tema.
C´è un paese che non ha più una classe dirigente ma solo veline e velini disposti a tutto pur d´avere due minuti su un telegiornale e un titolo di prima pagina su un quotidiano.
Possiamo esser tranquilli in mezzo a questo "tsunami"?
Due punti fermi negli ultimi tre giorni ci sono stati. Il primo è la correttezza e la forza di Giorgio Napolitano di fronte agli sguaiati tentativi di coinvolgerlo e il richiamo del Capo dello Stato al principio della divisione dei poteri che rappresenta il cardine dello Stato di diritto e che, in verità, Berlusconi ha calpestato e calpesta da dieci anni a questa parte. Le leggi "ad personam" e la sua prassi di governo lo provano a sufficienza, quale che sia in proposito l´opinione della nuova borghesia sponsorizzata e immaginata da Montezemolo e dal giovane Colaninno.
Il secondo punto di tranquillità è venuto dalle Considerazioni finali esposte il 31 maggio dal governatore della Banca d´Italia.
Draghi, con una prosa secca quanto lucida e documentata, ha segnalato le luci e le ombre dell´economia italiana distribuendole equamente tra la classe politica, le parti sociali, gli operatori economici. Ha dato a ciascuno il suo, nessuno è stato privato dei riconoscimenti meritati e del fardello di critiche altrettanto dovute.
Personalmente temevo che il tecnocrate Draghi si mettesse sulla scia della protesta confindustriale legittima ma sciupata dalla salsa demagogica servita a piene mani nell´Auditorium di Roma e in quello di Santa Margherita. Non è stato così e ne sono ben lieto. Draghi ha reso un servizio al paese, come ha fatto Mario Monti in altre occasioni. Come fece Ciampi nelle varie tappe della sua vita al servizio delle istituzioni. Queste persone ci danno calma e recuperano la morale e la ragione. Seguendo questa traccia si potrà forse costruire uno specchio nuovo e recuperare un´immagine decente di noi stessi e d´un paese deviato dai cattivi esempi a ingrandire il fuscello che sta nell´occhio altrui senza occuparsi della trave che acceca il proprio.
La sinistra al Capranica in cerca di unità
I 150 parlamentari di Prc, Pdci, Verdi e Sd in assemblea per la prima volta.
Si parte da pensioni e precari, ma non tutte le opinioni collimano
di Antonio Sciotto
Un «momento importante» per la sinistra italiana: sembra abbastanza concorde il giudizio dei partiti che oggi si danno appuntamento al cinema Capranica di Roma, i segretari e 150 parlamentari (100 deputati e 50 senatori) che fanno capo a Rifondazione, Pdci, Verdi e Sinistra democratica. Verso un qualche tipo di «unità», ma alcuni partiti accelerano e altri frenano. E' certo, comunque, che la base comune di partenza saranno quattro temi: 1) il prossimo Dpef; 2) l'uso del cosiddetto «tesoretto» per l'emergenza sociale e ambientale; 3) le pensioni; 4) la precarietà. Si cerca di pesare di più sul governo Prodi, in caduta verticale di consensi. E se ad esempio Armando Cossutta invita a dar vita a un gruppo parlamentare unico, con portavoce unico a rotazione, dall'altro lato Maurizio Zipponi di Rifondazione parla di un «possibile patto d'azione sui contenuti, un percorso verso una forza confederata»; mentre Titti Di Salvo, della neonata Sd, decisamente frena: «Non ci sarà tutta la sinistra all'incontro, mancano ad esempio Sdi, associazioni e movimenti. L'obiettivo per cui Sd è nata è certamente l'unità: ma questa non si realizza con una sola assemblea». Sui contenuti però le sfumature sono tante, dunque sembra difficile che si possa uscire con una qualche sorta di documento comune, a meno di non farlo molto generico: ad esempio tutti sono per l'abolizione dello «scalone» sulle pensioni, ma mentre Prc e Pdci per il momento sono contrari anche all'ipotesi «scalini», appaiono invece più possibilisti, seppure solo per alcune categorie di lavoratori, Sd e Verdi. Vediamo cosa ci hanno detto uno per uno.
Rifondazione comunista: il responsabile Lavoro Maurizio Zipponi ci spiega che «deve essere tolto di mezzo lo scalone Maroni e si deve tornare ai 57 anni e 35 di contributi, pensando solo a possibili incentivi per eventuali aumenti. E i coefficienti non vanno toccati». «Sono tutti concetti scritti nel programma dell'Unione, come il superamento della legge 30». Su quest'ultimo fronte, Prc, Verdi e Pdci hanno firmato la proposta di legge Alleva, non siglata invece dalla Sd: «I contenuti sono noti, dalla cancellazione dei contratti cocoprò agli interventi su contratti a termine ed esternalizzazioni: sono i punti concreti che porteremo all'incontro». Sarà possibile uscire con un documento comune? «Intanto entriamo ciascuno con le nostre opinioni, l'obiettivo può essere uscire con un'opinione simile: dobbiamo accelerare l'unità a sinistra, avviare un percorso che ci porti a una forza confederata, senza che per questo nessuno si sciolga o rinunci alla propria storia, alle proprie opinioni e sensibilità».
Pdci: Il capogruppo al Senato Manuela Palermi spiega che i capigruppo e segretari si incontreranno in mattinata, prima dell'assemblea, e verso le 11,30 incontreranno Epifani, Bonanni e Angeletti: «Ci sarà una convergenza sui temi sociali, ma quel che è certo è che il Pdci è contrario a toccare i coefficienti, né ci può soddisfare che lo scalone Maroni venga sostituito dagli scalini». Eppure i confederali, la Cgil, sembrano possibilisti sugli scalini: «Noi crediamo che anche gli scalini sarebbero uno sbaglio, e su questo terremo: fanno bene gli operai a scioperare. Così non ci soddisfano le risposte di questo governo alla legge 30: troppo timide. Si è fatto ancora troppo poco, la 30 va aggredita meglio».
Verdi: Per Angelo Bonelli, capogruppo alla Camera, si dovrà parlare del prossimo Dpef e del «tesoretto»: «Serve un'impronta climatica, in contrasto con quelllo che sta accadendo al G8, dove Bush affossa i temi ambientali». Sulle pensioni i Verdi si dicono «laici»: «Via lo scalone, è certo, ma scalini o no è un problema tecnico che si vedrà nel merito».
Sinistra democratica: Titti Di Salvo spiega che «c'è un'analisi comune: bisogna investire sul sociale, invertire le priorità, oggi tutte mirate al risanamento dei conti». «Però al Capranica non c'è tutta la sinistra, mancano Sdi e movimenti: intanto facciamo voce comune per dire al governo Prodi come agire su pensioni, precarietà, tesoretto». Sulle pensioni: «Via lo scalone, e ci sono lavori per cui anche gli scalini sono improponibili. L'età delle donne non va aumentata, i coefficienti non si toccano». Precarietà: «Bene le misure in finanziaria, ora si agisca sui contratti a termine, impedendo la ripetibilità all'infinito e fissando le causali nei contratti collettivi».
l'Unità 7.6.07
Comunisti francesi, un partito sull’orlo del crac
Pochi consensi, casse vuote e finanziamenti a rischio:
il Pcf mette in vendita i suoi «gioielli». Forse anche la storica sede
di Gianni Marsilli
ERA «IL» PARTITO. Diceva il generale de Gaulle, dopo la guerra: «In Francia ci siamo noi, e ci sono i comunisti». Si dondolava sul 30 per cento dei voti, il Pcf, e i suoi iscritti sfioravano il milione. Affluivano gli intellettuali, che avevano nomi altisonanti: Aragon,
Picasso, Montand. Poi venne il guado degli anni ’70 e ’80, il «programma comune» con Mitterrand, il crollo dell’Urss, i tentativi di esistere senza nulla rivedere. Fino a toccare il fondo, il 22 aprile scorso: 1,93 per cento dei voti per la candidata Marie-George Buffet, brava donna e volenterosa, ma le cui parole sembrano un infinito martellante discorso alla festa dell’Humanité. Toni acuti, vuoto siderale di idee. Adesso, alla vigilia delle legislative, il Pcf si accorge di essere in pericolo di fallimento. I sondaggi gli danno tra i quattro e i dodici deputati, laddove ne servono venti per formare un gruppo parlamentare che abbia diritto a finanziamenti, uffici, diarie. Verrebbero a mancare anche consistenti stipendi, regolarmente riversati nelle casse del partito. Per non parlare del rimborso pubblico, 1,66 euro per ogni voto espresso. Per niente diversa si presenta la prospettiva delle elezioni comunali del 2008. Tra un anno il Pcf potrebbe ritrovarsi con uno sparuto manipolo di sindaci e consiglieri, laddove oggi - grazie agli accordi di desistenza con i socialisti - ne conta ancora circa dodicimila. Con loro sparirebbe quel che resta della rete di governo, con tutto quel che implica: appalti, commesse, personale.
Si contano quindi i gioielli di famiglia, e si fa l’inventario di quel che si può vendere. C’è l’ammiraglia, che i portavoce comunisti definiscono però «intoccabile». È il palazzo parigino di Colonel-Fabien, che domina l’omonima piazza, progettato nel ’71 da Oscar Nieymeyer, il celebre architetto comunista brasiliano: vetro e cemento, 5000 metri quadrati per gli uffici, 5000 per sale riunione e conferenze, 5000 per parcheggi e depositi. Una cittadella oramai animata da non più di 55 funzionari, per parecchi dei quali si profila il tempo del prepensionamento. «Fabien» vale tra i 50 e i 60 milioni di euro, ma dal marzo scorso è stato classificato come «monumento storico». Le destinazioni d’uso possibili, in caso di vendita, non sono molte. Potrebbe difficilmente diventare un hotel, per esempio. Piuttosto un museo, o una sede universitaria.
Il partito ha già venduto la scuola quadri, un elegante palazzotto nel verde fuori Parigi, a Draveil. Diventerà un centro per ospitare e curare i disabili. Ha venduto anche, per oltre tre milioni di euro, l’«Espace Marx», il pensatoio sito in boulevard Blanqui. Altra cessione di rilievo, si dice per venti milioni di euro: la casa che fu di Maurice Thorez, comprata nel ’53 a Bazainville per il più mitico dei segretari generali. Nel 2000 si era cominciato ad affittare anche l’immensa struttura di «Fabien»: ne avevano approfittato le modelle di Prada per qualche sfilata, prêt-à-porter e falce e martello, ma poi la cosa era parsa poco dignitosa, e non se n’è fatto più nulla. Rimangono pochi immobili. Non si tocca, apparentemente, la cosiddetta «casa di Lenin». Lui ci abitò per davvero, nel corso del suo esilio. È un bilocale sito al numero 4 della rue Marie Rose, a Montparnasse. Alla vicina Closerie des Lilas, del resto, c’è ancora la targhetta con il nome di Vladimir Ilic sul tavolino dove usava scrivere. Casa sua non è in vendita: questione affettiva, simbolica, e anche, probabilmente, di insignificante valore mercantile.
Il Pcf ha smentito di aver sottoposto ad una perizia alcune opere d’arte che gli sono rimaste dai tempi d’oro. Ma le voci corrono. Il Museo d’arte moderna sarebbe stato contattato per capire quanto valga la grande vetrata dipinta da Fernand Leger e da sua moglie. E ci si interroga anche sul destino della tappezzeria che lo stesso Leger aveva realizzato sul tema di Paul Eluard «Liberté, j’écris ton nom», che si trova al quinto piano di «Fabien». Ma il pezzo migliore è una delle tre Gioconde con i baffi dipinte da Marcel Duchamp. Ha raccontato al «Figaro» Pierre Juquin, che fu negli anni ’80 comunista dissidente e rinnovatore, di ricordarsi il giorno in cui Louis Aragon depositò l’opera, di cui era in possesso, sulla scrivania di Georges Marchais. Era poco dopo la morte di Elsa Triolet, il suo grande amore. Ma prima, Elsa era stata la donna di Duchamp: «Aragon non sopportava la vista di questo quadro realizzato da uno degli amanti di Elsa». La Gioconda baffuta è in prestito al Centre Pompidou. Ma sulla base di una convenzione da rinegoziare ogni tre anni. Capiterà nel 2008, proprio l’anno delle municipali.
Corriere della Sera 7.6.07
Con la spada e la croce alla conquista dello Stato
di Sergio Romano
Mi incuriosisce il fatto che le religioni possano essere esportate e introdotte con la forza. Il Sud America cattolico ne è un esempio, come anche le coste africane dove l'Islam florido di oggi è stato portato dagli schiavisti di due secoli fa. Sono portato a pensare che una componente sociale intima come la fede non possa essere introdotta con la forza e le uccisioni, invece... E poi, perché questa nuova fede si mantiene nel tempo e non decade come succede per le ideologie politiche?
Massimo Serventi
ser20@hotmail.it Caro Serventi, quasi tutte le grandi conversioni al Cristianesimo avvennero grazie a un'accorta alleanza fra gli interessi della Chiesa e quelli di un ambizioso uomo di Stato. Dopo la fine dell'Impero d'Occidente, la Chiesa si dedicò all'evangelizzazione dei territori che erano rimasti al di là dei confini romani. Mentre i monaci celti operavano in Irlanda, quelli inviati da Gregorio Magno introdussero la fede cristiana e la cultura latina presso gli anglosassoni e raggiunsero in breve risultati straordinari. Ma non avrebbero ottenuto tali successi se non fossero riusciti a convincere il padrone di un territorio che il passaggio alla cristianità gli avrebbe garantito i favori di Dio e avrebbe reso il suo regno più facilmente governabile. Il sovrano sarebbe stato incoronato con le solenni liturgie della fede cristiana, sarebbe stato «unto dal Signore», avrebbe potuto esigere obbedienza esercitando un potere che era stato benedetto dalla grazia divina. Nella storia degli Stati moderni il monoteismo cristiano (ma anche quello musulmano) fu percepito come un fattore di modernizzazione e razionalità sociale. Al battesimo del re seguiva generalmente il battesimo collettivo dei suoi sudditi. In Europa orientale, dove i monaci greci diffusero i riti e gli insegnamenti del Cristianesimo greco, il caso più singolare fu quello di Vladimiro principe di Kiev. Decise che il suo Paese si sarebbe convertito al monoteismo, ma si chiese quale fosse, fra le principali religioni presenti sul territorio dell'Europa, quella più adatta ai suoi sudditi. Convocò alla sua corte un certo numero di preti, rabbini, ulema, ebbe con loro alcune conversazioni e giunse alla conclusione che la scelta migliore fosse il Cristianesimo. Gli piacquero lo splendore dei riti, la magnificenza degli arredi sacerdotali, e, perché no, la tolleranza dell'alcol, così severamente bandito dalle regole musulmane. Ai rabbini disse che il loro Dio era troppo vendicativo per piacere al suo popolo e agli ulema che la proibizione delle bevande alcoliche non sarebbe mai stata accettata nelle sue terre. Vi furono quindi anni in cui era sufficiente, per convertire una nazione, convertire il suo re, e in cui la lealtà alla Chiesa era garantita dal potere del sovrano. La situazione cambiò quando la Riforma predicata da Lutero divise i popoli e costrinse i re a scegliere. Se governa «per grazia di Dio», un sovrano non può permettere che la dottrina religiosa da cui deriva il suo potere possa piacere a una parte della sua nazione e spiacere all'altra. Mentre i protestanti, per la Chiesa di Roma, erano eretici, per i re cattolici erano potenziali dissidenti. Qualcuno scelse di continuare a essere cattolico e perseguitò i protestanti. Qualcuno passò al protestantesimo e perseguitò i cattolici. Più tardi, verso la metà del Seicento, i Trattati di Westfalia decisero che la religione di uno Stato sarebbe stata quella del suo principe. Alcune fra le più importanti migrazioni europee (gli ugonotti francesi in Germania, i nonconformisti inglesi nell'America del Nord) furono religiose. Erano uomini e donne che non volevano conformarsi alla regola imposta dal loro sovrano e cercavano altrove la libertà di culto che era stata loro negata in patria. Come vede, caro Serventi, la forza e il potere hanno quasi sempre avuto nella storia dell'apostolato religioso una importanza determinante.
Aprile on line 6.6.07
Arriva Bush, Roma "città chiusa"
di Andrea Scarchilli
qui
Corriere della Sera 7.6.07
Cortei anti-Bush, vietati cappucci e bastoni
A Roma diecimila poliziotti, scuole chiuse, stazioni setacciate, Trastevere blindato
di Rinaldo Frignani
ROMA — Niente caschi, sciarpe, passamontagna e bandane. Chi sabato pomeriggio scenderà in strada per protestare contro il presidente Bush dovrà restare a volto scoperto. E non dovranno esserci bastoni o altre armi improprie. «Altrimenti il corteo non partirà. Questo è sicuro. Nessuno vuole provocare, ma nessuno può pensare di minacciare le forze dell'ordine e le istituzioni, anche perché non ci lasciamo intimidire da chi lancia proclami».
È il prefetto di Roma Achille Serra a ricordare le regole alle migliaia di manifestanti annunciati per il corteo anti- Bush previsto alle 15 da piazza della Repubblica a piazza Navona. Un percorso fissato dagli stessi organizzatori che però deve ancora ottenere l'autorizzazione del questore Marcello Fulvi. Ma alla vigilia dell'arrivo del presidente Usa la tensione nella capitale ha subìto un'impennata improvvisa. No global, collettivi studenteschi, centri sociali e l'ala dura del «movimento» sono pronti a protestare contro Bush. Con ogni mezzo. Finora non ci sono segnalazioni di presenze di black bloc ma si temono infiltrazioni di violenti e provocatori. Il volto del presidente compare in centinaia di manifesti affissi in diversi quartieri della città. Specialmente a San Lorenzo e al Prenestino. Lo slogan di tutti è «Push Bush out». A Ponte Sisto è comparso il primo striscione («Il cuore di Roma rifiuta la guerra») ed è stato annunciato un altro sit-in, sempre per sabato, a Campo de' Fiori. Per smorzare i toni, in serata, Trenitalia ha comunicato che per raggiungere Roma sono disponibili treni charter e sconti del 20 per cento sulle tariffe ordinarie per comitive di giovani superiori alle 10 persone. Ci sono anche biglietti a 50 euro. Corteo a parte, in queste ore si sta ultimando il piano di sicurezza per Bush e il suo staff. Diecimila uomini delle forze dell'ordine, ospedali allertati, aerei ed elicotteri armati in volo «h24». Ma anche scuole chiuse già domani, con un giorno di anticipo rispetto alla fine dell'anno scolastico, la Galleria Alberto Sordi, di fronte a Palazzo Chigi, interdetta al pubblico per quasi tutto sabato, traffico bloccato in alcune zone. E ancora: percorsi differenziati per il corteo presidenziale, falsi bersagli con limousine- civetta per ingannare possibili attentatori, stazioni ferroviarie passate al setaccio. Sono solo alcune delle misure decise dalla Prefettura in accordo con l'intelligence Usa. Il punto critico della visita dovrebbe essere Trastevere, con la visita alla basilica di Santa Maria e poi alla Comunità di Sant'Egidio, distante pochi metri. Da domani notte una fetta del rione, quella più suggestiva, fra piazza Trilussa e san Francesco a Ripa, sarà interamente blindata: varchi d'accesso presidiati dagli agenti, ingresso consentito solo ai residenti e ai commercianti (dovranno tutti esibire i documenti d'identità), saracinesche abbassate, tiratori scelti nei palazzi, controlli nel sottosuolo. La notte scorsa gli abitanti sono stati invitati a spostare auto e moto dai vicoli. Se non lo faranno entro le 2 di domani notte ci penseranno i carriattrezzi. «Chiedo ai cittadini di avere pazienza», ha sottolineato il prefetto Serra, mentre il sindaco Walter Veltroni ha precisato che «non ci saranno zone rosse perché in questa città non ci sono mai state». I voli in partenza e in arrivo negli aeroporti di Fiumicino e Ciampino saranno ritardati di 30 minuti all'arrivo (domani sera) e alla partenza (domenica mattina) dell'Air Force One. Tutti gli altri velivoli, privati e commerciali, dovranno stare fermi invece per due ore.
Ma non basta. Polizia e carabinieri controlleranno le aviosuperfici in provincia di Roma e nel Lazio: preoccupa la possibilità di una minaccia dal cielo con deltaplani o piccoli aerei. «Abbiamo attivato il tavolo di Difesa civile in funzione antiterrorismo — ha concluso Serra — speriamo solo che non debba mai entrare in azione...».
Corriere della Sera 7.6.07
Diario dal fronteAntiUsa
Casarini: no ai volti coperti? Devono cominciare i poliziotti
ROMA — Per capirci. Mentre il prefetto Achille Serra — tono fermo ma ragionevole, da poliziotto illuminato — annuncia che, a Roma, sabato, non ci saranno «zone rosse» (di solito sono garanzia di tafferugli) e che il corteo anti-Bush sarà libero di marciare a patto «di non avere, nei suoi ranghi, manifestanti con il volto coperto», Luca Casarini, capo incontrastato dei centri sociali del Nord-Est, ma già sceso nella capitale, arringa un'assemblea all'università La Sapienza.
«Questa storia che non ci si può coprire la faccia, vale anche per i poliziotti? Comincino a mettere i numeri sul casco, il prefetto Serra dica chi saranno i veri responsabili dell'ordine pubblico e se, per caso, non siano gli stessi di Genova...
Inoltre, beh, Serra ci garantisca che non verranno usati gas, e che nessun agente o carabiniere abbia nella fondina una pistola carica...».
L'atmosfera è questa. Esplicito il ministro Giuliano Amato: «Spero che le manifestazioni in programma non generino turbolenze di fronte alle quali sarebbe inevitabile reagire». La verità è che, negli ultimi anni, Rifondazione comunista ha, di fatto, placato i disobbedienti, e controllato i cortei. Ma ora, come si sa, è un partito spaccato. Al corteo parteciperà solo l'ala dissidente, quella di Sinistra critica, e nessuno sa dire se sarà in grado di tenere le briglie.
Piero Bernocchi (Cobas) continua comunque a chiedere sconti alle Ferrovie per i manifestanti. La città è imbrattata da nuove scritte contro Bush. Se poi avete un amico che abita a Trastevere, già militarizzata, chiamatelo, e fatevi dire di che umore è.
Corriere della Sera 7.6.07
Il 9 giugno 1937 veniva ucciso in Francia con il fratello Carlo. Un saggio di Giovanni Belardelli
Nello Rosselli, lo studioso che finì martire
di Antonio Carioti
Vittima del regime che pure non ostacolava il suo lavoro di storico
Assassinati assieme in Francia, a Bagnoles-de-l'Orne, il 9 giugno 1937, Carlo e Nello Rosselli vengono quasi sempre citati in coppia come martiri dell'antifascismo. Sono per tutti «i fratelli Rosselli», due personalità inscindibili, quasi un'entità unica. E ad essere penalizzato da questo destino è soprattutto Nello, il minore dei due, che in realtà venne ucciso soltanto perché si trovava in compagnia di Carlo, cospiratore instancabile e nemico irriducibile del fascismo. Di fronte all'intrepido eroismo del fondatore di Giustizia e Libertà, suo fratello risulta nella retorica ufficiale pressoché oscurato, o quanto meno appiattito su Carlo come una figura di contorno.
Va a Giovanni Belardelli il merito di aver rimediato a questa palese ingiustizia, per quanto possibile, con il libro
Nello Rosselli, ora riedito da Rubbettino (pagine 215, e 25) in una versione aggiornata e ampliata rispetto all'originale. Nel saggio, in libreria da oggi, viene posta in adeguato rilievo la personalità di uno storico che, se non fosse stato trucidato a nemmeno 37 anni, avrebbe potuto affermarsi, come peraltro aveva cominciato a fare, tra i più validi della sua generazione. Uno studioso di ferrei sentimenti antifascisti, pagati con il confino (per due volte, nel 1927-28 a Ustica e nel 1929 a Ponza) e con un breve soggiorno in carcere, ma certo non un combattente impegnato allo spasimo nella lotta contro la dittatura.
In effetti, osserva Belardelli, nella vicenda di Nello Rosselli si riflettono le due anime del fascismo: una relativamente moderata, addirittura mite in confronto ai totalitarismi coevi, per cui allo storico fiorentino veniva permesso di recarsi all'estero e di incontrare liberamente Carlo, nemico giurato del regime; l'altra violenta e feroce, per cui Nello finì assassinato, sia pure per combinazione, nell'agguato organizzato dai sicari francesi dell'organizzazione di estrema destra Cagoule, in stretto contatto con esponenti dei servizi segreti italiani, per eliminare suo fratello.
In realtà Carlo e Nello, per quanto uniti da un legame affettivo molto solido, erano piuttosto diversi come indole e come idee. Impulsivo il primo, propenso all'azione diretta; riflessivo il secondo, più portato per gli studi. Socialista ma critico verso il marxismo, liberale ma rivoluzionario, padre nobile del Partito d'Azione il primo; democratico borghese il secondo, che a suo tempo aveva aderito all'Unione nazionale del moderato Giovanni Amendola. Non a caso sulla rivista Il Quarto Stato, che il fratello Carlo aveva fondato insieme a Pietro Nenni, Nello Rosselli scriveva con lo pseudonimo «Uno del Terzo Stato», per rimarcare il fatto che non si riconosceva nell'ideologia socialista.
Un altro elemento importante sottolineato da Belardelli è il rapporto instaurato dallo studioso fiorentino con Gioacchino Volpe, il grande storico abruzzese che fu convinto fautore del regime mussoliniano. Un po' come il filosofo Giovanni Gentile, altro fascista non fazioso, Volpe guardava al talento più che alle tessere. Fu lui a intercedere affinché Nello fosse liberato dal confino di Ponza e poi fece in modo, esponendosi anche a critiche, che gli venisse concesso di recarsi a Londra per compiere delle ricerche d'archivio. Non a caso più tardi Rosselli cercò di coinvolgere Volpe nel suo progetto, alla fine abortito, di pubblicare una rivista storiografica di respiro europeo.
Non bisogna naturalmente pensare a un Nello remissivo nei riguardi del fascismo. In condizioni di limitazione della libertà, al confino di Ustica, non esitò a rivendicare il diritto «di serbare di fronte al potere esecutivo una posizione di critica e controllo sereni», anche se questo poteva costargli molto caro. E più tardi, mentre il regime celebrava i suoi trionfi, lo sentiamo confessare, in una lettera a Leone Ginzburg del 2 febbraio 1934, la fatica di «condurre una fiera lotta interiore per continuare a credere, e a sperare, in valori ideali cui la grande maggioranza, anche fra la gente di senno, volta la schiena».
A quegli ideali danno voce le opere di Nello, come Mazzini e Bakunin, ricerca pionieristica sulle origini del movimento operaio italiano, e altri scritti storici. In particolare, nota Belardelli, il suo libro Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano è un po' tutto percorso dall'idea di ricollegare la battaglia antifascista alla tradizione del patriottismo ottocentesco. Ce n'era abbastanza per sancire la sua completa estraneità al regime, ma non certo per attirare su di lui una condanna a morte. Fu una sorte crudele a tradirlo, facendolo trovare sull'automobile guidata dal fratello in quel cupo giorno di settant'anni fa.
Repubblica 3.6.07
La destra giacobina a passo di carica
di Eugenio Scalfari
La maionese è impazzita. Quando avviene questo incidente culinario (e può accadere anche se le uova sono fresche di giornata) non c´è che buttarne il contenuto e ricominciare pazientemente da capo.
Un´altra immagine dello stesso fenomeno che ho usato qualche mese fa è quella dello specchio rotto. Lo specchio è uno strumento che serve a riflettere l´immagine. Se si rompe in tanti frammenti l´immagine non c´è più e sopraggiunge una sorta di cecità, sia che si tratti d´un soggetto individuale sia – peggio ancora – d´un soggetto collettivo. Ma nel caso nostro, voglio dire nella società italiana, nelle forze politiche e sociali che ne sono parti rilevanti, nella classe dirigente che dovrebbe guidarla ed esserne punto di riferimento e di esempio, non ci sono più nemmeno i frammenti di quello specchio. Si direbbe che un cingolato ci sia passato sopra e l´abbia polverizzato. Così si procede a tentoni, animati solo dall´istinto di sopravvivenza, dagli spiriti animali, dalla psicologia del branco, dai legami corporativi.
La razionalità non fa più parte del nostro bagaglio intellettuale e morale. È stata picconata da tutte le parti la razionalità; accusata di essere all´origine dei delitti e del più grave tra tutti – quello della superbia. Così la luce della ragione è stata spenta, nuove ideologie si sono installate al posto di quelle crollate in rovina, fondamentalismi d´ogni tipo hanno preso il posto della tolleranza e della certezza del diritto.
I circuiti mediatici hanno dato mano a questa devastazione e salvo rarissime eccezioni ancora continuano in questa funzione amplificatoria e istigatrice del peggio, accreditando e ventilando versioni dei fatti prive di verità e di ragione.
Questo complesso di circostanze ha toccato il suo culmine nel conflitto in atto tra il governo e il generale comandante della Guardia di finanza, Roberto Speciale. Un conflitto certamente grave perché motivato da ragioni tutt´altro che futili, ma che sta coinvolgendo le massime istituzioni repubblicane in un contesto, appunto, di impazzimento generale sapientemente alimentato da una psicologia del tanto peggio tanto meglio che ha ora raggiunto livelli mai visti prima.
Ci occuperemo dunque di questa incredibile vicenda cercando di chiarirne gli elementi di fatto con la massima obiettività possibile in questi chiari di luna. Non senza avvertire che essa è soltanto l´ultimo episodio d´una serie che costella da anni il costume nazionale gettando nello sconforto tutte le persone di buona fede e di buona volontà che costituiscono ancora la maggioranza del Paese e assistono impotenti e senza voce allo scempio della ragione.
Sarò conciso nel rievocare fatti già noti ma spesso trascurati o volutamente stravolti. E comincio dalla fine, cioè da quanto è avvenuto ieri, 2 giugno, festa della Repubblica.
La giornata è cominciata malissimo. A Roma nella tribuna dalla quale le autorità dello Stato assistevano alla parata delle Forze armate mentre sfilavano i vari corpi, le storiche bandiere dei reggimenti con i medaglieri guadagnati sui campi di battaglia e nelle rischiose missioni di pace, andava in scena una lite continua e sommamente disdicevole tra i rappresentanti dei due schieramenti politici, seduti alle spalle del presidente della Repubblica.
Poco dopo il capo dell´opposizione, Silvio Berlusconi, interrogato dai giornalisti sull´intenzione di chiedere udienza al Capo dello Stato per rappresentargli una situazione definita di «attentato alla democrazia» da lui e da tutti gli altri componenti del centrodestra, rispondeva: «Quella visita al Quirinale sarebbe nei nostri desideri, ma purtroppo non c´è più nessuna istituzione che ci dia garanzie d´indipendenza: la sinistra le ha occupate tutte». Affermazione della quale è superfluo segnalare la gravità e che, pronunciata da chi ha guidato il governo per cinque anni e da un anno guida l´opposizione, segnala – essa sì – un degrado democratico che colpisce il presidente della Repubblica in prima persona e il suo ruolo di massima garanzia.
Prodi dal canto suo, nel corso di un drammatico Consiglio dei ministri avvenuto il giorno prima, di fronte alle reiterate divisioni sull´uso delle risorse disponibili, aveva detto: «Se si continua così io me ne vado, ma non vi illudete pensando a soluzioni dopo di me perché dopo di me ci sono soltanto le elezioni». Si può capire il perché di questa affermazione, volta a richiamare all´ordine gli alleati riottosi, ma non toglie che si tratti d´una forzatura poiché non spetta a Prodi stabilire che cosa potrebbe avvenire dopo le sue eventuali dimissioni; spetta soltanto al Capo dello Stato dopo che abbia consultato i gruppi parlamentari.
Quanto a Napolitano, egli ha più volte ripetuto che non intende sciogliere le Camere con la vigente legge elettorale che le rende ingovernabili e comunque senza prima aver accertato l´esistenza o meno d´una maggioranza parlamentare che possa dare fiducia ad un governo istituzionale insediato per formulare una nuova legge elettorale e adempiere ai compiti urgenti che incombono sulle materie dell´economia, della finanza pubblica e della sicurezza nazionale.
Infine lo stesso Napolitano ha dichiarato che il tema della Guardia di Finanza e della rimozione del suo comandante generale esulano dalle sue competenze.
In quelle stesse ore, nel corso d´un convegno dei giovani industriali a Santa Margherita, Gianfranco Fini insultava pesantemente il ministro dell´Industria, Bersani, ottenendo dalla platea un´ovazione da curva sud dello stesso tipo di quelle ottenute da Berlusconi a Vicenza alcuni mesi fa sotto lo sguardo allora allibito di Montezemolo e del vertice della Confindustria. Spettacolo preoccupante, quello di Santa Margherita; non perché gli industriali non possano applaudire un uomo di partito che esprime le sue idee, ma perché quell´uomo di partito è lo stesso che ha condiviso quella politica che ha portato il reddito nazionale a crescita zero, il debito pubblico a risalire, l´avanzo primario del bilancio a scomparire, la pressione fiscale ai suoi massimi, i fondi per le infrastrutture inesistenti e le liberalizzazioni interamente inevase.
Questo, ad oggi, il grado di impazzimento di quella maionese di cui si è parlato all´inizio.
* * *
Ma ora risaliamo a quanto è accaduto tra il vice ministro delle Finanze e il generale Speciale. Ecco i fatti nella loro crudezza.1. Speciale presenta a Visco qualche mese fa un piano di avvicendamenti comprendenti l´intero quadro di comando della G. d. F. Motivazione: è prassi che ogni tre anni gli incarichi siano avvicendati per ragioni di funzionalità.
2. Visco esamina il piano e vede che l´avvicendamento riguarda tutti i comandi salvo quelli di Milano e della Lombardia. Ne chiede ragione. Speciale, in ottemperanza, si impegna a riformulare il piano includendovi i comandi della Lombardia.
3. Visco sa benissimo il motivo dell´esclusione dei generali e dei colonnelli che hanno incarichi dirigenti a Milano: si è formato da anni in quella provincia un gruppo di potere collegato con il comando generale di Roma. Risulta a Visco che quegli ufficiali abbiano "chiuso gli occhi" su gravissime irregolarità verificatesi nel sistema delle intercettazioni telefoniche, avvenute nel corso di scalate finanziarie a banche e a giornali. Alcuni di quei documenti sono stati trafugati e consegnati a giornali di parte per la pubblicazione. In alcuni casi le intercettazioni non sono neppure arrivate all´ufficio del Pubblico Ministero ma trafugate prima e consegnate ai giornali senza che la magistratura inquirente ne avesse preso visione.
4. Passano i giorni e le settimane ma Speciale non consegna il nuovo piano di avvicendamento.
5. Nel frattempo lo stesso Speciale avvisa, all´insaputa di Visco, il procuratore della Repubblica di Milano che i comandi della G. d. F. milanese stanno per essere sostituiti. Il procuratore si preoccupa per i nuclei di polizia giudiziaria che operano ai suoi ordini effettuando inchieste delicate e importanti. Speciale lo invita a mettere per iscritto quelle preoccupazioni. Arriva la lettera del procuratore. Speciale la mostra a Visco.
6. Visco, dopo aver riesaminato la pratica, telefona a Speciale per manifestare la sua sorpresa e il suo malcontento. Speciale mette in vivavoce la telefonata alla presenza di due alti ufficiali che ascoltano la conversazione.
7. Il tribunale di Milano, richiesto di verificare lo stato dei fatti in via di accertamento, esclude che esista alcuna indebita interferenza da parte di Visco.
8. Speciale rende pubblico il conflitto in atto presentandolo come un´interferenza di Visco sull´autonomia della G. d. F.
Di qui i seguiti politici che conosciamo e che portano all´autosospensione di Visco dalla delega sulla G. d. F. e alla rimozione di Speciale dal comando generale per rottura del rapporto fiduciario tra lui e il governo.
* * *
Dove sia in questa arruffata vicenda l´attentato alla Costituzione e alla democrazia denunciato con voce stentorea da Berlusconi e da tutti i suoi alleati, Casini compreso, è un mistero.Il vice ministro delle Finanze aveva – ed ha – il fondato sospetto di gravi irregolarità compiute da alcuni comandi collegati con il comando generale. Rientra pienamente nei suoi poteri stimolare il comando generale ad avvicendare i generali non affidabili. Alla fine, accogliendo le preoccupazioni del procuratore di Milano, lo stesso Visco consente ad escludere i comandi milanesi dall´avvicendamento dei quadri nel resto d´Italia.
Tra i dettagli (dettagli?) incredibili c´è quella telefonata messa in vivavoce all´insaputa dell´interlocutore ed ascoltata da due ufficiali di piena fiducia dello Speciale. Basterebbe questo dettaglio a rimuoverlo dal comando.
Del resto – e purtroppo – non è la prima volta che il comando generale della G. d. F. dà luogo a gravissimi scandali. Almeno in altre due occasioni dovette intervenire la magistratura penale e fioccarono pesanti condanne di reclusione.
Ovviamente ciò non lede il valore e l´affidabilità di quel corpo militare, così come i tanti casi di pedofilia dei preti non vulnerano l´essenza della Chiesa quando predica il Vangelo. Certo ne sporca l´immagine e quindi danneggia fortemente la Chiesa. Così le malefatte di alcuni generali e perfino del comandante generale pro-tempore non inficiano l´essenza d´un corpo chiamato a tutelare le finanze dello Stato ma certamente ne sporcano l´immagine.
Quanto a Visco, quando il conflitto si è fatto rovente tracimando nella politica e in Parlamento, ha restituito la delega in attesa che si pronunci la magistratura di Roma che nel frattempo ha aperto un´inchiesta contro ignoti su quel tema.
* * *
C´è un´orchestrazione sapiente in tutto questo. La ricerca della spallata che tarda a venire. L´uso delle proteste provenienti dai tanti interessi corporativi. I danni gravi dell´eterno litigio all´interno del governo e della coalizione che lo sostiene. Il voto elettorale certamente sfavorevole al centrosinistra specie nel Nord. Il riemergere del massimalismo della Lega e dei falchi berlusconiani. Le rivalità fra i riformisti del centrosinistra per la leadership del Partito democratico. La sinistra radicale imbizzarrita.C´è un paese che non ha più una classe dirigente ma solo veline e velini disposti a tutto pur d´avere due minuti su un telegiornale e un titolo di prima pagina su un quotidiano.
Possiamo esser tranquilli in mezzo a questo "tsunami"?
Due punti fermi negli ultimi tre giorni ci sono stati. Il primo è la correttezza e la forza di Giorgio Napolitano di fronte agli sguaiati tentativi di coinvolgerlo e il richiamo del Capo dello Stato al principio della divisione dei poteri che rappresenta il cardine dello Stato di diritto e che, in verità, Berlusconi ha calpestato e calpesta da dieci anni a questa parte. Le leggi "ad personam" e la sua prassi di governo lo provano a sufficienza, quale che sia in proposito l´opinione della nuova borghesia sponsorizzata e immaginata da Montezemolo e dal giovane Colaninno.
Il secondo punto di tranquillità è venuto dalle Considerazioni finali esposte il 31 maggio dal governatore della Banca d´Italia.
Draghi, con una prosa secca quanto lucida e documentata, ha segnalato le luci e le ombre dell´economia italiana distribuendole equamente tra la classe politica, le parti sociali, gli operatori economici. Ha dato a ciascuno il suo, nessuno è stato privato dei riconoscimenti meritati e del fardello di critiche altrettanto dovute.
Personalmente temevo che il tecnocrate Draghi si mettesse sulla scia della protesta confindustriale legittima ma sciupata dalla salsa demagogica servita a piene mani nell´Auditorium di Roma e in quello di Santa Margherita. Non è stato così e ne sono ben lieto. Draghi ha reso un servizio al paese, come ha fatto Mario Monti in altre occasioni. Come fece Ciampi nelle varie tappe della sua vita al servizio delle istituzioni. Queste persone ci danno calma e recuperano la morale e la ragione. Seguendo questa traccia si potrà forse costruire uno specchio nuovo e recuperare un´immagine decente di noi stessi e d´un paese deviato dai cattivi esempi a ingrandire il fuscello che sta nell´occhio altrui senza occuparsi della trave che acceca il proprio.
mercoledì 6 giugno 2007
l'Unità 6.6.07
L’accusa: servizi troppo disincantati. Il direttore Sansonetti: ma se aveva dubbi anche il Che...
Per amore di Cuba si contesta Liberazione
di Paolo Molinari
Giù le mani da Cuba. Alcune decine di appassioanti dell’isola caraibica hanno manifestato ieri sotto le finestre di Liberazione, infuriati per il racconto del tramonto castrista fatto da Angela Nocioni. Una Cuba lontana dallo stereotipo dell’isola della felicità, un regime che nasconde l’assenza dei diritti più elementari (libere elezioni e libera informazione) sotto la propaganda. Non che Angela Nocioni abbia scritto delle falsità, spiegano i manifestanti, «ma ha omesso di specificare che Cuba vive da 40anni l’embargo Usa». C’è poi il fatto, più grave, che Liberazione è andata al di là della linea del partito, come spiega Silvia, membro della direzione del Prc, «e questo non è accettabile. Se si vuol fare un giornale politico che non sia organo di partito va bene. Ma se si vive con i soldi del partito bisogna attenersi alle sue posizioni».
Questa la versione dei lettori che poi, da una settimana, imperversa sulla rubrica delle lettere del quotidiano.
Per il direttore Piero Sansonetti, la sua giornalista Angela Necioni è «Coraggiosa, brava e deontologicamente impeccabile». Ai manifestanti risponde ricordando il dovere di ogni giornale di essere «autonomo rispetto ad ogni condizionamento» e aggiungendo che «Liberazione fortunatamente è un organo di partito che, proprio per questo non ha la dipendenza dai poteri economici di cui soffrono altri quotidiani e che consente di poter scrivere quello che si vuole purché sia la verità». Angela, «ha utilizzato due storie, il dramma di Giustino De Celmo e delle mogli dei 5 eroi, per raccontare la decadenza della propaganda castrista». Una propaganda, conclude Sansonetti, tanto più grottesca quando l’America Latina «vive una primavera politica, tra Lula e Chavez, molto diversi dal castrismo. E poi c’è da dire una cosa: se 45 anni fa anche il Che aveva le sue remore sul Leader Maximo, figuriamoci se non le possiamo avere noi».
l'Unità 6.6.07
Sinistra democratica-Sdi non scocca la scintilla
ROMA Restano divise le strade di Sdi e Sinistra democratica. Sì, qualche punto di convergenza c’è, su laicità, innovazione e ricerca, Resta la strategia dell’attenzione reciproca. Ma Mussi e Boselli, dopo due ore di faccia a faccia, non riescono ad appianare le diversità di vedute. Proseguiremo il confronto, ci rivedremo, dice il ministro Fabio Mussi. Ma, sostiene il segretario dello Sdi, Enrico Boselli, «un conto è la socialdemocrazia, ben altro conto è la sinistra antagonista». Lo Sdi ha in mente un percorso chiaro, la Costituente socialista: «Sono sempre stato convinto che per far nascere in Italia una forza che fa parte del socialismo europeo non lo si può fare accordandosi con il Prc, che sta da un'altra parte» dice Boselli. Intanto il 7 giugno si riuniranno tutti i parlamentari della sinistra-sinistra. «Vedremo da lì cosa uscirà - dice il segretario dello Sdi - ma siccome il cuore dell'incontro è la politica sociale ed economica, su Dpef e extragettito, se prevale la piattaforma del Prc, cioè della sinistra alternativa, sarà difficile trovare convergenze».
Più ottimista il ministro Mussi. Perché non pensare a un’alleanza con Prc e Pdci sulle politiche economiche e sociali, e con i socialisti sul terreno della laicità e dei diritti civili? Un accordo a geometria variabile: «In fondo tutti devono sentirsi messi in discussione dall’avvento del Pd». Anche le vecchie classificazioni tra «riformisti, radicali, antagonisti possono mutare. Vogliamo costruire convergenze programmatiche con tutti. Se sono rose fioriranno».
Molto deluso invece Gavino Angius, leader dell’ex terza mozione: impensabile ricostruire una larga sinistra italiana sotto l’egida di Rifondazione, e magari confluire in una piattaforma comune. Anche perché - ragiona il senatore - non possiamo dimenticarci che siamo parte del socialismo europeo.
Morbidissimi i toni del Prc. «Non abbiamo mai posto un problema di guida - dice il segretario Franco Giordano - ma una questione di urgenza, che mi sembra condivisa soprattutto da Mussi, di accelerare il processo di unità a sinistra, e decisiva è la condivisione del piano economico e sociale. Bisogna costruire un soggetto politico nuovo in chiave pacifista, antiliberale, ambientalista. Con lo Sdi è necessario un confronto e un'azione comune su temi come la laicità: immagino un soggetto federativo».
Repubblica 6.6.07
Caruso: rischio scontri nelle stazioni
ROMA - «Non avremo un servizio d´ordine ma non ce ne sarà bisogno. La nostra sarà una manifestazione pacifica e partecipata contro tutte le guerre. Chi prospetta disordini e tafferugli vuole solo creare allarmismi». Parole rassicuranti quelle di Nella Ginatempo, uno dei portavoce del "Comitato 9 giugno" che ha organizzato il corteo "No war" nel pomeriggio di sabato 9 giugno. Parole alle quali fanno eco quelle del prefetto Serra, che con gli organizzatori ha intrattenuto serrate trattative: «E´ il dialogo che deve prevalere. Mi auguro così che se ci dovesse essere qualche malintenzionato all´interno del corteo verrà isolato».
Un centinaio le sigle presenti, da Action ai Centri sociali passando per i Cobas, i movimenti contro la base di Vicenza, i Disobbedienti. Nessuna paura dei black bloc, come ipotizzato in molte informative dei servizi: «Noi non abbiamo alcuna informazione allarmante su eventuali provocazioni, se voi ne avete fatecele sapere». Guerra aperta, invece, con Trenitalia, accusata di non aver accettato lo sconto al 50% nei convogli che porteranno i dimostranti nella capitale. «Col governo Berlusconi abbiamo sempre ottenuto la riduzione della metà del biglietto, col governo Prodi ci hanno proposto un taglio del 20% - accusa il leader dei Cobas Piero Bernocchi - lo stesso che si offre a qualunque gruppo di dieci persone. Prodi sta facendo cose inaudite nel tentativo di bloccare il nostro corteo. Francesco Caruso, eletto nelle liste di Rifondazione, va oltre e accusa l´azienda ferroviaria di «voler trasformare Roma in una grande zona rossa. Non si comprende per quale motivo Trenitalia assicura agevolazioni per l´allestimento di treni speciali in occasione del Family day, mentre cerca in tutti i modi di mettere il bastone tra le ruote a chi organizza un corteo contro la guerra, rischiando di far degenerare la giornata del 9 giugno fin dalle prime ore del mattino, creando scontri e tensioni in varie stazioni del Sud e del Nord Italia». L´avvertimento è lanciato e i movimenti napoletani hanno già annunciato l´intenzione di occupare i convogli. La replica dell´azienda ferroviaria è un asciutto comunicato in cui si precisa che «in concomitanza con manifestazioni sportive, politiche o di opinione, quali il Family day citato dall´onorevole Caruso, sono previsti i prezzi normalmente applicati nel quadro delle offerte commerciali di Trenitalia».
Altro motivo di malumore è il fatto che il percorso del corteo (da piazza Esedra a piazza Navona passando per via Cavour, piazza Venezia, piazza San Marco e corso Vittorio) non è stato ancora approvato ufficialmente dalla questura. Se ci saranno "zone rosse" in sostanza, verranno violate: «Il corteo deve essere garantito - chiarisce Francesco Raparelli del Comitato - se ci saranno zone rosse lungo il percorso, saranno violate, se tenteranno di impedire il corteo, si farà lo stesso».
(m. l.)
Repubblica 6.6.07
Lo studio dell'università di Stanford pubblicato sulla rivista "Nature Neuroscience"
"Dimenticare aiuta a ricordare" così si seleziona la memoria
di Benedict Carey
"Sapevamo che esiste una ragione se inibiamo alcuni ricordi, ora abbiamo capito dove e come ciò avviene"
"Se scordate un numero non vuol dire che state perdendo colpi, ma che la testa funziona a dovere"
CIASCUNO DI NOI, ogni giorno, ha molteplici occasioni per maledire la propria mancanza di memoria. Per esempio quando si cerca di ricordare una nuova password, o la propria ricetta preferita o il nome di un vecchio boyfriend. E si va incontro al buio totale. Ma dimenticare può anche essere una vera e propria benedizione: nei giorni scorsi alcuni ricercatori hanno riferito che la capacità di escludere alcuni ricordi riduce le pressioni sul cervello nel momento in cui si cerca di richiamare alla memoria qualcosa di importante.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience, è il primo a riportare le immagini di un cervello intento a sopprimere alcuni ricordi che potrebbero distrarlo. Quanto più efficacemente i partecipanti all´esperimento riuscivano a escludere alcune parole irrilevanti durante un test di memorizzazione di parole, tanto più rilevante era la diminuzione di attività nelle aree cerebrali coinvolte nel ricordo. In termini di energia richiesta, insomma, ricordare in maniera accurata potrebbe diventare più facile dimenticando.
Il processo col quale si esclude un ricordo che potrebbe distogliere la nostra attenzione, secondo gli esperti è simile a quello con cui ignoriamo una vecchia conoscenza (che forse ci distrae), e la volta successiva che la incontriamo ci riesce molto più difficile riprendere i contatti con lei. Da alcuni studi condotti di recente emerge che il cervello si comporta con i ricordi nello stesso modo: in un certo senso ne snobba alcuni per trattenerne meglio altri. Avere una memoria fulminea, quindi, non dipende tanto dall´avere una particolare attitudine, bensì dal saper sfrondare i ricordi in modo spietato. Lo studio ha catturato le tracce di questo processo mentre è in corso.
«Da tempo sostenevamo che dimenticare ha una sua ragione d´essere, che si cancellano alcuni ricordi per agevolare la concentrazione mentale», dice Michael Anderson, docente di neuroscienze cognitive all´università dell´Oregon. Anderson, che non ha preso parte alla nuova ricerca, ha detto che si tratta di uno «studio molto importante, che ci aiuta a individuare con precisione in che modo tale processo ha luogo da un punto di vista neurobiologico». I ricercatori autori dello studio, neuroscienziati dell´università di Stanford, hanno utilizzato un test di memoria concepito per misurare quanto bene alcuni soggetti riuscivano a ricordare alcune parole apprese, che erano state inserite in mezzo a molte altre parole simili. Per l´esperimento hanno scelto venti giovani uomini e donne, quasi tutti studenti di Stanford, e hanno mostrato loro in rapida successione un elenco di 240 abbinamenti di parole. Hanno poi misurato quanto bene ciascun soggetto fosse riuscito a dimenticare gli abbinamenti di parole che potevano distrarlo. E tutto ciò è stato effettuato mentre i partecipanti si sottoponevano a risonanza magnetica al cervello.
«Dalla risonanza magnetica abbiamo riscontrato che la portata della diminuzione dell´attività cerebrale era correlata alla quantità di ricordi in concorrenza tra loro che venivano messi in disparte» ha detto Brice Khul, studente di psicologia a Stanford e autore dello studio insieme a Anthony Wagner, Nicole Dudukovic e Itamar Kahn. In particolare, i ricercatori hanno scoperto che quanto più un partecipante allo studio aveva cancellato dalla memoria gli abbinamenti di parole concepiti per distrarre, tanto più rilevante era il calo di attività in una regione cerebrale denominata corteccia cingolata anteriore. Insomma, la gente dimentica così spesso le nuove password per la presenza tra i ricordi personali delle vecchie password o di quelle ancora in uso. Quanto più il cervello riesce a dimenticare i dati che distraggono, tanto più potrà memorizzare quelle nuove.
Concludendo, la ricerca suggerisce che i ricordi sono più spesso lasciati fuori più che persi per sempre. La scoperta dovrebbe altresì ridurre parte dell´ansia che si prova allorché si va incontro a un «black-out da terza età»: alcuni nomi, numeri e dettagli sono difficili da ricordare non perché la memoria sta perdendo colpi, ma perché funziona a dovere.
L'INTERVISTA
Stefano Cappa, preside della facoltà di piscologia al San Raffaele di Milano
"Se trattenessimo tutte le informazioni non ci sarebbe abbastanza spazio"
di Luigi Bignami
ROMA - Stefano Cappa è preside alla facoltà di psicologia dell´università Vita-Salute del San Raffaele di Milano.
Perché è importante aver capito che dimenticare aiuta a ricordare?
«Perché si sono date le basi biologiche ad un fenomeno che era noto solo a livello psicologico. Si sapeva che era necessario dimenticare qualcosa per ricordare altro, ma non era noto cosa succede praticamente nel nostro cervello. Ora lo si è scoperto. Lo studio dell´università di Stanford, inoltre, è un´ulteriore dimostrazione che la memoria non è un serbatoio che riceve passivamente le informazioni, una specie di scatola chiusa da riempire a volontà. In realtà la memoria è un processo molto più dinamico e complesso, dove le "memorie" competono tra di loro per far emergere quella più importante in quel momento. E così il dimenticare assume un ruolo fondamentale per ciò che si vuole ricordare. Si dimostra cioè che certe aree del cervello diminuiscono la loro attività a favore di quelle che devono far emergere il ricordo che si vuole portare in superficie».
Ma questo avviene perché la memoria ha un limite?
«No, la memoria non ha un limite definibile, ma è un processo dinamico dove esiste una specie di selezione di ciò che è meglio ricordare in un determinato momento. Se ricordassimo tutte le informazioni che ci bombardano, il "ricordare" sarebbe un processo inefficiente».
Quando mi devo preoccupare di ciò che mi dimentico?
«Non c´è da preoccuparsi se si dimenticano le informazioni nuove che entrano nel cervello, perché può essere vantaggioso. C´è da preoccuparsi invece, quanto sono le informazioni importanti a non essere più disponibili. Il dimenticare diventa preoccupante quando interferisce in modo continuo con quello che dobbiamo fare».
Quali conseguenze può avere questa scoperta?
«Potrà avere ripercussioni sulla possibilità di agire sulla formazione o sulla cancellazione delle tracce della memoria. In altre parole è un nuovo piccolo passo verso la possibilità di manipolare la memoria».
Repubblica 6.6.07
Un saggio sui rapporti fra i tre personaggi
Silvio, Benito, Napoleone
di Filippo Ceccarelli
Affinità emulazioni e gioco di specchi
L'autore è uno storico vicino a fini
Mesi orsono, scherzosamente serio o seriamente scherzoso, comunque al suo solito Silvio Berlusconi andava ripetendo: «C´è un clima da "aridatece er puzzone"». Era un´auto-identificazione piuttosto impegnativa perché il «puzzone», come si sa, è Benito Mussolini. Ma la storia è piena di puzzoni, anche per questo forse debitamente rimpianti.
Uno, il più grande, era Napoleone Bonaparte. E giusto ieri, su Libero, è comparso un vistoso fotomontaggio in cui la faccia di Berlusconi era sovrapposta a quella del condottiero francese ritratto a cavallo nel famoso dipinto di Jacques Louis David.
Ora, si può sempre girare pagina, si possono ignorare le vignette o liquidare le facezie che fanno titolo sui giornali. Ma poi: in quale oscura zona dell´immaginario gorgogliano queste evocazioni? E che cortocircuito le fa prorompere nell´attualità politica con la potenza straniante di un sogno che condiziona la realtà?
Ecco, c´è uno studio che ricostruisce la corrispondenza, l´affinità, l´ammirazione, l´emulazione, il gioco di specchi, il filo rosso che collega da una parte Napoleone e Mussolini; e dall´altra annoda e stringe entrambi i personaggi a Berlusconi.
Un testo serio e per molti versi allarmante: L´ombra lunga di Napoleone. Da Mussolini a Berlusconi (Marsilio, pagg. 163, euro 11). Anche perché chi l´ha scritto, Alessandro Campi, storico dell´università di Perugia e già autore del Mussolini uscito nella collana «L´identità italiana» del Mulino nel 2001, non è certo sospettabile di anti-berlusconismo, né viscerale, ne pregiudiziale. E´ anzi, Campi, uno studioso che la stretta gabbia del bipolarismo culturale colloca a destra, per l´esattezza tra i nuovi consiglieri di Gianfranco Fini. Ma proprio per questo suona tanto più puntuale e preziosa la sua analisi: una «messa in guardia sulla patologia del potere - come scrive lui stesso - nell´epoca della politica di massa». C´è da chiedersi come la prenderà il Cavaliere, ammesso che sia disposto a leggersi questo genere di studi. Ma non è questo il punto.
Impressiona piuttosto, al di là delle classiche barzellette sui matti, ma anche sorvolando su curiose coincidenze di ordine biografico-logistico (Arcole-Arcore, Villa San Martino, lo stesso nome della dimora di Bonaparte all´Elba, la vicinanza tra Palazzo Grazioli e Palazzo Bonaparte a Roma, l´"altarino" di statuette dell´imperatore di Francia conservate a Villa La Certosa), ecco, davvero colpisce la sovrabbondanza di elementi napoleonici, o per meglio dire «napoleonistici», che si ritrovano a occhio nudo nella figura di Berlusconi.
La forza visionaria, il modo di intendere e utilizzare il potere, il desiderio di auto-affermazione, la capacità organizzativa e gestionale, il talento comunicativo. Questo sul piano oggettivo. Mentre è su quello individuale e caratteriale, di solito trascurati dal discorso pubblico e dalla ricerca storica, che emerge l´antropologia e la psicologia di un potere che non sa darsi alcun limite, «autentico demone che consuma l´anima». Febbre interiore, dunque, megalomania, riduzione a sé della sfera pubblica, tentazioni dinastiche familiari, mancanza di pudore, sfrontatezza; senza contare «il ricorso sistematico, scontato, alla menzogna», la verità costruita ad arte e imposta «a sigillo del comando».
Alessandro Campi dimostra con dovizia di fonti come N. (Napoleone) fu il consapevole modello di M. (Mussolini). Ma tra quest´ultimo e B. (Berlusconi) la «filiazione» o addirittura la «reincarnazione» in chiave democratica appaiono, con gli occhi di oggi, ancora più lampanti. Stessa gioventù scapestrata (e stessa mamma di nome Rosa), stessa mancanza di Maestri, stesso egocentrismo, stessa incontinenza verbale, stessa mostruosa mole di lavoro, stessa insicurezza che si traduce in smanie complottistiche e persecutorie, stesso camaleontismo, stessa attitudine al stesso senso dello spettacolo. Tribunizio Mussolini, televisivo Berlusconi. Il cipiglio militaresco in un caso, il sorriso del venditore nell´altro.
Come se la storia d´Italia, avanzando, adeguasse le proprie forme espressive per meglio conservare gli archetipi del potere. Fino al compimento di un ciclo, al raggiungimento di quella perfetta simmetria che consente a Campi di insistere sul significato delle grandi personalità nella vicenda pubblica storia.
Di qui l´inesorabile reductio di Silvio ad Benitum. Tutti e due autodidatti, quindi outsider di una politica che non nasconde il medesimo fondo demagogico e si fa forte di una comune ispirazione dichiaratamente eversiva. Tutti e due convinti di essere degli artisti, dei musicisti. Istrioni consapevoli. Seduttori instancabili e celebratissimi, veri e propri leader capaci di intrattenere un rapporto erotico con la folla - con tutti i rischi del caso.
Un´ombra lunga, doppia e rinforzatissima. Occhio alle vignette, perciò, alle battute e ai fotomontaggi.
Liberazione 6.6.07
Nei "Quaderni" c'è la chiave per leggere la crisi della politica
di Pasquale Voza
Continua il dibattito su Gramsci e la sua attualità. Gli scritti del carcere contengono spunti preziosi per capire la formazione
"molecolare" del soggetto che non è mai qualcosa di dato a priori ma si costruisce nella pratica e nella lotta culturale
Qualche tempo fa, negli anni Novanta del secolo scorso, lo storico inglese Hobsbawm osservava che l'opera di Gramsci, in quanto "classico" del Novecento, aveva ormai varcato i confini della sinistra. Ciò non escludeva, tuttavia, come fu sottolineato da Guido Liguori in un passaggio finale del suo volume ( Gramsci conteso ), che quell'opera potesse costituire ancora un punto di riferimento essenziale e ineludibile per tutte le forze di sinistra impegnate ad elaborare forme, molteplici e varie, di antagonismo critico e di conflitto politico e sociale con lo stato di cose presenti, con la realtà della globalizzazione capitalistica.
Su un altro piano di considerazioni, l'enorme fortuna e presenza oggi dell'opera gramsciana nel mondo non dovrebbe - credo - sollecitarci ad uno sforzo sfibrante e in sé rigoristico di continua distinzione e selezione tra gli usi e gli abusi di Gramsci, bensì stimolarci, secondo la stessa prospettiva gramsciana di una «filologia vivente», ad una continua interrogazione critica della integrale storicità di tutte le letture, le interpretazioni, le riduzioni, le semplificazioni: dalla grande presenza nell'opera di Said di Gramsci come commutatore teorico-ideologico di una peculiare visione del rapporto potere-intellettuali, e della missione di quest'ultimi di «dire la verità», alla ricchissima fioritura culturale di categorie e di spunti gramsciani nell'ambito vastissimo dei cultural studies e degli studi post-coloniali (Guha, West, Ryner, lo stesso Stuart Hall, per fare solo qualche nome), sino addirittura al "lorianismo" (si potrebbe dire con Gramsci) delle attualizzazioni politiche più indebite e strumentali, particolarmente ricorrenti da qualche decennio in Italia.
Ed è in connessione con ciò che rileggere criticamente alcune tra le principali categorie gramsciane quali egemonia, rivoluzione passiva, ideologia, intellettuali, blocco storico, può contribuire senza dubbio a farci interrogare e analizzare in profondità (s'intende anche per differentiam ) alcuni nodi fondamentali del nostro presente. Si pensi alla nozione di rivoluzione passiva: ad essa Gramsci applicava il «criterio interpretativo delle modificazioni molecolari che in realtà modificano progressivamente la composizione precedente delle forze e quindi diventano matrice di nuove modificazioni», e in questo modo intendeva farne un possibile «principio generale di scienza e di arte politica». Nell'era post-liberale, nel tempo del fascismo e dell'americanismo, la rivoluzione passiva alludeva ad un potere moderno della politica, alla sua capacità di produrre e insieme governare processi di passivizzazione, standardizzazione e frantumazione (in assenza di «un'antitesi vigorosa», precisava con forza Gramsci, in chiave antideterministica): costituendosi, in qualche modo (come ha osservato Alberto Burgio su queste colonne), come un «idealtipo cruciale nello studio delle dinamiche di governance proprie delle democrazie oligarchiche», e non identificandosi rigidamente nelle forme in sé dei vari dirigismi più o meno "riformisti" degli anni Trenta.
Una spinta fondativa di tutta la riflessione gramsciana è costituita dalla crucialità dell'interrogativo su «come nasce il movimento storico sulla base della struttura». Tale interrogativo chiama in causa l'esigenza di elaborare una teoria della soggettività politica, che nell'autore dei Quaderni non è mai riconducibile o riducibile ad una qualche filosofia della storia: giacché per lui - come è stato osservato (Finelli) - il soggetto capace di dar vita all'iniziativa storica non è mai già dato, ma si costituisce processualmente attraverso la lotta e la prassi politica.
Ciò comporta in Gramsci, attraverso una serie di mediazioni, anche una critica serrata del concetto di «uomo in generale» e di «natura umana». Egli afferma che nel marxismo (in quel marxismo che andava ridefinendo e sviluppando creativamente) i concetti di uomo in generale e di natura umana (intesa, quest'ultima, come immanente in ogni uomo) sono rifiutati alla radice in quanto intimamente dogmatici. Il suo «umanesimo assoluto» ( absolutus , sciolto, cioè, da ogni vincolo o legame metafisico e/o idealistico) è un umanesimo integralmente laico e materialistico: esso potrebbe costituire un riferimento essenziale oggi, in tempi contrassegnati da forme nuove e spesso devastanti di rapporto tra sacro e potere, e da una diffusa virulenza fondamentalista e neo-patriarcale.
Vorrei richiamare l'attenzione su un altro punto: Gramsci parla dell'«uomo attivo di massa» del suo presente, di quei tempi che egli chiama «tempi di socializzazioni», e ne parla - si potrebbe dire - come di un soggetto sociale e politico in formazione. Ebbene, «la comprensione critica di sé stessi» e la successiva elaborazione superiore di una propria concezione del reale possono avvenire - dice Gramsci - solo attraverso una lotta "interiore" di «egemonie politiche», di direzioni e di spinte che si contrastano tra loro prima sul piano dell'etica e poi su quello della politica. La stessa coscienza politica, in cui per Gramsci si risolve la coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica, rappresenta solo la prima fase di una ulteriore e progressiva «autocoscienza», in cui teoria e pratica «finalmente si unificano». Da tutto ciò si comprende come proprio l'unità di teoria e pratica per l'autore dei Quaderni non sia un «dato di fatto meccanico, ma un divenire storico»: un divenire storico, nel quale la nozione gramsciana di molecolare ha una centralità gnoseologica e politica notevolissima, che chiama in causa lo stesso nesso spontaneità-direzione consapevole (lucidissime le considerazioni di Eleonora Forenza a tal riguardo, apparse di recente su questo giornale).
Da tutto ciò si ricava anche - credo - la radicale distanza di Gramsci, nell'elaborazione della teoria del moderno Principe, del partito moderno, da ogni concezione di autonomia del politico, comunque declinata.
Così pure la peculiarità dell'accento gramsciano sulla «comprensione critica di sé stessi» e sulla costitutiva inerenza di tale comprensione ai processi di soggettivazione politica, allontana decisamente il pensatore sardo dai rischi di un «antropocentrismo pratico e fabbrile» (Finelli), di una ideologia "produttivistica", che, dalla stagione ordinovista alle pagine di Americanismo e fordismo , costituirebbe una sottile e resistente linea di tendenza della riflessione gramsciana (secondo taluni, variamente ricorrenti, filoni interpretativi).
Infine: c'è una nota del Quaderno 9, che ci parla con parole molto vive, dinanzi agli odierni processi di riclassificazione dei saperi negli ambiti interagenti della tecnica e del mercato e di loro incorporazione nella macchina, entro una tendenziale (ma pur sempre ricca di contraddizioni) dilatazione "totalitaria" del capitalismo post-fordista.
E' una nota che contiene un messaggio forte, concretamente "utopico", vale a dire la necessità per l'intellettuale collettivo di una critica pratica di ciò che è «oggettivo», cioè di quello che Marx aveva individuato come il potere di astrazione reale del capitale: «Per il lavoratore singolo "oggettivo" è l'incontrarsi delle esigenze dello sviluppo tecnico con gli interessi della classe dominante. Ma questo incontro, questa unità fra sviluppo tecnico e gli interessi della classe dominante è solo una fase storica dello sviluppo industriale, deve essere concepito come transitorio».
antiproibizionisti.it 5.6.07
Fonte: Agi
CANNABIS. RIGGIO: «USO NON CAUSA MA SLATENTIZZAZIONE MALATTIA»
Roma, 5 giugno 2007 - L'uso e abuso di sostanze stupefacenti ma anche il primo rapporto sessuale o la partenza per il servizio militare, possono slatentizzare una psicosi che pero' c'e' gia' prima: l'uso o abuso di cannabis non causa la malattia mentale. E' il parere dello psichiatra Francesco Riggio che opera a Roma in un 'centro esordi psicotici' per adolescenti.
Quindi lei non si ritrova nella correlazione tra uso e abuso di cannabis e l'insorgenza della psicosi?
"Solo per una piccola percentuale in cui e' gia' presente una psicosi latente - spiega Riggio - Quel che non condivido e' pensare alla malattia mentale come malattia organica, del cervello. Posso esser d'accordo sul fatto che l'uso e abuso di cannabis come pure il primo rapporto sessuale o la partenza per il militare, possono slatentizzare una psicosi latente, che c'e' gia' e che si e' strutturata nel primo anno di vita in e per rapporti interumani deludenti".
Lo psichiatra romano chiarisce "nella mia esperienza con gli esordi psicotici ho potuto constatare come l'esordio sia sempre legato ad una situazione assolutamente nuova che mette in crisi l'adolescente che non si ritrova la sua immagine interna e qui viene fuori quel primo anno di vita deludente che aveva nascosto sotto la corazza di indifferenza-anaffettivita'".
Dunque, sono i vissuti, le esperienze affettive che si vivono nei primi mesi anni di vita che decidono della sanita' e malattia di una persona?
"Esattamente - e' la risposta di Riggio - per cui se ci si ammala in/per rapporti interumani deludenti ci si puo' non solo curare ma guarire in/per rapporti interumani validi come e' un rapporto di psicoterapia basato sull'interpretazione dei sogni e il superamento dell'anaffettivita'-
indifferenza".
Si tratta, in altre parole, di ritrovare qualcosa che si e' perduto?
"Si tratta di ritrovare in un rapporto di psicoterapia la propria immagine interna - conclude lo psichiatra - ricreando nel e per il rapporto psicoterapico il primo anno di vita, cioe' quella identita' inconscia perduta".
L’accusa: servizi troppo disincantati. Il direttore Sansonetti: ma se aveva dubbi anche il Che...
Per amore di Cuba si contesta Liberazione
di Paolo Molinari
Giù le mani da Cuba. Alcune decine di appassioanti dell’isola caraibica hanno manifestato ieri sotto le finestre di Liberazione, infuriati per il racconto del tramonto castrista fatto da Angela Nocioni. Una Cuba lontana dallo stereotipo dell’isola della felicità, un regime che nasconde l’assenza dei diritti più elementari (libere elezioni e libera informazione) sotto la propaganda. Non che Angela Nocioni abbia scritto delle falsità, spiegano i manifestanti, «ma ha omesso di specificare che Cuba vive da 40anni l’embargo Usa». C’è poi il fatto, più grave, che Liberazione è andata al di là della linea del partito, come spiega Silvia, membro della direzione del Prc, «e questo non è accettabile. Se si vuol fare un giornale politico che non sia organo di partito va bene. Ma se si vive con i soldi del partito bisogna attenersi alle sue posizioni».
Questa la versione dei lettori che poi, da una settimana, imperversa sulla rubrica delle lettere del quotidiano.
Per il direttore Piero Sansonetti, la sua giornalista Angela Necioni è «Coraggiosa, brava e deontologicamente impeccabile». Ai manifestanti risponde ricordando il dovere di ogni giornale di essere «autonomo rispetto ad ogni condizionamento» e aggiungendo che «Liberazione fortunatamente è un organo di partito che, proprio per questo non ha la dipendenza dai poteri economici di cui soffrono altri quotidiani e che consente di poter scrivere quello che si vuole purché sia la verità». Angela, «ha utilizzato due storie, il dramma di Giustino De Celmo e delle mogli dei 5 eroi, per raccontare la decadenza della propaganda castrista». Una propaganda, conclude Sansonetti, tanto più grottesca quando l’America Latina «vive una primavera politica, tra Lula e Chavez, molto diversi dal castrismo. E poi c’è da dire una cosa: se 45 anni fa anche il Che aveva le sue remore sul Leader Maximo, figuriamoci se non le possiamo avere noi».
l'Unità 6.6.07
Sinistra democratica-Sdi non scocca la scintilla
ROMA Restano divise le strade di Sdi e Sinistra democratica. Sì, qualche punto di convergenza c’è, su laicità, innovazione e ricerca, Resta la strategia dell’attenzione reciproca. Ma Mussi e Boselli, dopo due ore di faccia a faccia, non riescono ad appianare le diversità di vedute. Proseguiremo il confronto, ci rivedremo, dice il ministro Fabio Mussi. Ma, sostiene il segretario dello Sdi, Enrico Boselli, «un conto è la socialdemocrazia, ben altro conto è la sinistra antagonista». Lo Sdi ha in mente un percorso chiaro, la Costituente socialista: «Sono sempre stato convinto che per far nascere in Italia una forza che fa parte del socialismo europeo non lo si può fare accordandosi con il Prc, che sta da un'altra parte» dice Boselli. Intanto il 7 giugno si riuniranno tutti i parlamentari della sinistra-sinistra. «Vedremo da lì cosa uscirà - dice il segretario dello Sdi - ma siccome il cuore dell'incontro è la politica sociale ed economica, su Dpef e extragettito, se prevale la piattaforma del Prc, cioè della sinistra alternativa, sarà difficile trovare convergenze».
Più ottimista il ministro Mussi. Perché non pensare a un’alleanza con Prc e Pdci sulle politiche economiche e sociali, e con i socialisti sul terreno della laicità e dei diritti civili? Un accordo a geometria variabile: «In fondo tutti devono sentirsi messi in discussione dall’avvento del Pd». Anche le vecchie classificazioni tra «riformisti, radicali, antagonisti possono mutare. Vogliamo costruire convergenze programmatiche con tutti. Se sono rose fioriranno».
Molto deluso invece Gavino Angius, leader dell’ex terza mozione: impensabile ricostruire una larga sinistra italiana sotto l’egida di Rifondazione, e magari confluire in una piattaforma comune. Anche perché - ragiona il senatore - non possiamo dimenticarci che siamo parte del socialismo europeo.
Morbidissimi i toni del Prc. «Non abbiamo mai posto un problema di guida - dice il segretario Franco Giordano - ma una questione di urgenza, che mi sembra condivisa soprattutto da Mussi, di accelerare il processo di unità a sinistra, e decisiva è la condivisione del piano economico e sociale. Bisogna costruire un soggetto politico nuovo in chiave pacifista, antiliberale, ambientalista. Con lo Sdi è necessario un confronto e un'azione comune su temi come la laicità: immagino un soggetto federativo».
Repubblica 6.6.07
Caruso: rischio scontri nelle stazioni
ROMA - «Non avremo un servizio d´ordine ma non ce ne sarà bisogno. La nostra sarà una manifestazione pacifica e partecipata contro tutte le guerre. Chi prospetta disordini e tafferugli vuole solo creare allarmismi». Parole rassicuranti quelle di Nella Ginatempo, uno dei portavoce del "Comitato 9 giugno" che ha organizzato il corteo "No war" nel pomeriggio di sabato 9 giugno. Parole alle quali fanno eco quelle del prefetto Serra, che con gli organizzatori ha intrattenuto serrate trattative: «E´ il dialogo che deve prevalere. Mi auguro così che se ci dovesse essere qualche malintenzionato all´interno del corteo verrà isolato».
Un centinaio le sigle presenti, da Action ai Centri sociali passando per i Cobas, i movimenti contro la base di Vicenza, i Disobbedienti. Nessuna paura dei black bloc, come ipotizzato in molte informative dei servizi: «Noi non abbiamo alcuna informazione allarmante su eventuali provocazioni, se voi ne avete fatecele sapere». Guerra aperta, invece, con Trenitalia, accusata di non aver accettato lo sconto al 50% nei convogli che porteranno i dimostranti nella capitale. «Col governo Berlusconi abbiamo sempre ottenuto la riduzione della metà del biglietto, col governo Prodi ci hanno proposto un taglio del 20% - accusa il leader dei Cobas Piero Bernocchi - lo stesso che si offre a qualunque gruppo di dieci persone. Prodi sta facendo cose inaudite nel tentativo di bloccare il nostro corteo. Francesco Caruso, eletto nelle liste di Rifondazione, va oltre e accusa l´azienda ferroviaria di «voler trasformare Roma in una grande zona rossa. Non si comprende per quale motivo Trenitalia assicura agevolazioni per l´allestimento di treni speciali in occasione del Family day, mentre cerca in tutti i modi di mettere il bastone tra le ruote a chi organizza un corteo contro la guerra, rischiando di far degenerare la giornata del 9 giugno fin dalle prime ore del mattino, creando scontri e tensioni in varie stazioni del Sud e del Nord Italia». L´avvertimento è lanciato e i movimenti napoletani hanno già annunciato l´intenzione di occupare i convogli. La replica dell´azienda ferroviaria è un asciutto comunicato in cui si precisa che «in concomitanza con manifestazioni sportive, politiche o di opinione, quali il Family day citato dall´onorevole Caruso, sono previsti i prezzi normalmente applicati nel quadro delle offerte commerciali di Trenitalia».
Altro motivo di malumore è il fatto che il percorso del corteo (da piazza Esedra a piazza Navona passando per via Cavour, piazza Venezia, piazza San Marco e corso Vittorio) non è stato ancora approvato ufficialmente dalla questura. Se ci saranno "zone rosse" in sostanza, verranno violate: «Il corteo deve essere garantito - chiarisce Francesco Raparelli del Comitato - se ci saranno zone rosse lungo il percorso, saranno violate, se tenteranno di impedire il corteo, si farà lo stesso».
(m. l.)
Repubblica 6.6.07
Lo studio dell'università di Stanford pubblicato sulla rivista "Nature Neuroscience"
"Dimenticare aiuta a ricordare" così si seleziona la memoria
di Benedict Carey
"Sapevamo che esiste una ragione se inibiamo alcuni ricordi, ora abbiamo capito dove e come ciò avviene"
"Se scordate un numero non vuol dire che state perdendo colpi, ma che la testa funziona a dovere"
CIASCUNO DI NOI, ogni giorno, ha molteplici occasioni per maledire la propria mancanza di memoria. Per esempio quando si cerca di ricordare una nuova password, o la propria ricetta preferita o il nome di un vecchio boyfriend. E si va incontro al buio totale. Ma dimenticare può anche essere una vera e propria benedizione: nei giorni scorsi alcuni ricercatori hanno riferito che la capacità di escludere alcuni ricordi riduce le pressioni sul cervello nel momento in cui si cerca di richiamare alla memoria qualcosa di importante.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience, è il primo a riportare le immagini di un cervello intento a sopprimere alcuni ricordi che potrebbero distrarlo. Quanto più efficacemente i partecipanti all´esperimento riuscivano a escludere alcune parole irrilevanti durante un test di memorizzazione di parole, tanto più rilevante era la diminuzione di attività nelle aree cerebrali coinvolte nel ricordo. In termini di energia richiesta, insomma, ricordare in maniera accurata potrebbe diventare più facile dimenticando.
Il processo col quale si esclude un ricordo che potrebbe distogliere la nostra attenzione, secondo gli esperti è simile a quello con cui ignoriamo una vecchia conoscenza (che forse ci distrae), e la volta successiva che la incontriamo ci riesce molto più difficile riprendere i contatti con lei. Da alcuni studi condotti di recente emerge che il cervello si comporta con i ricordi nello stesso modo: in un certo senso ne snobba alcuni per trattenerne meglio altri. Avere una memoria fulminea, quindi, non dipende tanto dall´avere una particolare attitudine, bensì dal saper sfrondare i ricordi in modo spietato. Lo studio ha catturato le tracce di questo processo mentre è in corso.
«Da tempo sostenevamo che dimenticare ha una sua ragione d´essere, che si cancellano alcuni ricordi per agevolare la concentrazione mentale», dice Michael Anderson, docente di neuroscienze cognitive all´università dell´Oregon. Anderson, che non ha preso parte alla nuova ricerca, ha detto che si tratta di uno «studio molto importante, che ci aiuta a individuare con precisione in che modo tale processo ha luogo da un punto di vista neurobiologico». I ricercatori autori dello studio, neuroscienziati dell´università di Stanford, hanno utilizzato un test di memoria concepito per misurare quanto bene alcuni soggetti riuscivano a ricordare alcune parole apprese, che erano state inserite in mezzo a molte altre parole simili. Per l´esperimento hanno scelto venti giovani uomini e donne, quasi tutti studenti di Stanford, e hanno mostrato loro in rapida successione un elenco di 240 abbinamenti di parole. Hanno poi misurato quanto bene ciascun soggetto fosse riuscito a dimenticare gli abbinamenti di parole che potevano distrarlo. E tutto ciò è stato effettuato mentre i partecipanti si sottoponevano a risonanza magnetica al cervello.
«Dalla risonanza magnetica abbiamo riscontrato che la portata della diminuzione dell´attività cerebrale era correlata alla quantità di ricordi in concorrenza tra loro che venivano messi in disparte» ha detto Brice Khul, studente di psicologia a Stanford e autore dello studio insieme a Anthony Wagner, Nicole Dudukovic e Itamar Kahn. In particolare, i ricercatori hanno scoperto che quanto più un partecipante allo studio aveva cancellato dalla memoria gli abbinamenti di parole concepiti per distrarre, tanto più rilevante era il calo di attività in una regione cerebrale denominata corteccia cingolata anteriore. Insomma, la gente dimentica così spesso le nuove password per la presenza tra i ricordi personali delle vecchie password o di quelle ancora in uso. Quanto più il cervello riesce a dimenticare i dati che distraggono, tanto più potrà memorizzare quelle nuove.
Concludendo, la ricerca suggerisce che i ricordi sono più spesso lasciati fuori più che persi per sempre. La scoperta dovrebbe altresì ridurre parte dell´ansia che si prova allorché si va incontro a un «black-out da terza età»: alcuni nomi, numeri e dettagli sono difficili da ricordare non perché la memoria sta perdendo colpi, ma perché funziona a dovere.
© 2007 The New York Times
(Traduzione di Anna Bissanti)
(Traduzione di Anna Bissanti)
L'INTERVISTA
Stefano Cappa, preside della facoltà di piscologia al San Raffaele di Milano
"Se trattenessimo tutte le informazioni non ci sarebbe abbastanza spazio"
di Luigi Bignami
ROMA - Stefano Cappa è preside alla facoltà di psicologia dell´università Vita-Salute del San Raffaele di Milano.
Perché è importante aver capito che dimenticare aiuta a ricordare?
«Perché si sono date le basi biologiche ad un fenomeno che era noto solo a livello psicologico. Si sapeva che era necessario dimenticare qualcosa per ricordare altro, ma non era noto cosa succede praticamente nel nostro cervello. Ora lo si è scoperto. Lo studio dell´università di Stanford, inoltre, è un´ulteriore dimostrazione che la memoria non è un serbatoio che riceve passivamente le informazioni, una specie di scatola chiusa da riempire a volontà. In realtà la memoria è un processo molto più dinamico e complesso, dove le "memorie" competono tra di loro per far emergere quella più importante in quel momento. E così il dimenticare assume un ruolo fondamentale per ciò che si vuole ricordare. Si dimostra cioè che certe aree del cervello diminuiscono la loro attività a favore di quelle che devono far emergere il ricordo che si vuole portare in superficie».
Ma questo avviene perché la memoria ha un limite?
«No, la memoria non ha un limite definibile, ma è un processo dinamico dove esiste una specie di selezione di ciò che è meglio ricordare in un determinato momento. Se ricordassimo tutte le informazioni che ci bombardano, il "ricordare" sarebbe un processo inefficiente».
Quando mi devo preoccupare di ciò che mi dimentico?
«Non c´è da preoccuparsi se si dimenticano le informazioni nuove che entrano nel cervello, perché può essere vantaggioso. C´è da preoccuparsi invece, quanto sono le informazioni importanti a non essere più disponibili. Il dimenticare diventa preoccupante quando interferisce in modo continuo con quello che dobbiamo fare».
Quali conseguenze può avere questa scoperta?
«Potrà avere ripercussioni sulla possibilità di agire sulla formazione o sulla cancellazione delle tracce della memoria. In altre parole è un nuovo piccolo passo verso la possibilità di manipolare la memoria».
Repubblica 6.6.07
Un saggio sui rapporti fra i tre personaggi
Silvio, Benito, Napoleone
di Filippo Ceccarelli
Affinità emulazioni e gioco di specchi
L'autore è uno storico vicino a fini
Mesi orsono, scherzosamente serio o seriamente scherzoso, comunque al suo solito Silvio Berlusconi andava ripetendo: «C´è un clima da "aridatece er puzzone"». Era un´auto-identificazione piuttosto impegnativa perché il «puzzone», come si sa, è Benito Mussolini. Ma la storia è piena di puzzoni, anche per questo forse debitamente rimpianti.
Uno, il più grande, era Napoleone Bonaparte. E giusto ieri, su Libero, è comparso un vistoso fotomontaggio in cui la faccia di Berlusconi era sovrapposta a quella del condottiero francese ritratto a cavallo nel famoso dipinto di Jacques Louis David.
Ora, si può sempre girare pagina, si possono ignorare le vignette o liquidare le facezie che fanno titolo sui giornali. Ma poi: in quale oscura zona dell´immaginario gorgogliano queste evocazioni? E che cortocircuito le fa prorompere nell´attualità politica con la potenza straniante di un sogno che condiziona la realtà?
Ecco, c´è uno studio che ricostruisce la corrispondenza, l´affinità, l´ammirazione, l´emulazione, il gioco di specchi, il filo rosso che collega da una parte Napoleone e Mussolini; e dall´altra annoda e stringe entrambi i personaggi a Berlusconi.
Un testo serio e per molti versi allarmante: L´ombra lunga di Napoleone. Da Mussolini a Berlusconi (Marsilio, pagg. 163, euro 11). Anche perché chi l´ha scritto, Alessandro Campi, storico dell´università di Perugia e già autore del Mussolini uscito nella collana «L´identità italiana» del Mulino nel 2001, non è certo sospettabile di anti-berlusconismo, né viscerale, ne pregiudiziale. E´ anzi, Campi, uno studioso che la stretta gabbia del bipolarismo culturale colloca a destra, per l´esattezza tra i nuovi consiglieri di Gianfranco Fini. Ma proprio per questo suona tanto più puntuale e preziosa la sua analisi: una «messa in guardia sulla patologia del potere - come scrive lui stesso - nell´epoca della politica di massa». C´è da chiedersi come la prenderà il Cavaliere, ammesso che sia disposto a leggersi questo genere di studi. Ma non è questo il punto.
Impressiona piuttosto, al di là delle classiche barzellette sui matti, ma anche sorvolando su curiose coincidenze di ordine biografico-logistico (Arcole-Arcore, Villa San Martino, lo stesso nome della dimora di Bonaparte all´Elba, la vicinanza tra Palazzo Grazioli e Palazzo Bonaparte a Roma, l´"altarino" di statuette dell´imperatore di Francia conservate a Villa La Certosa), ecco, davvero colpisce la sovrabbondanza di elementi napoleonici, o per meglio dire «napoleonistici», che si ritrovano a occhio nudo nella figura di Berlusconi.
La forza visionaria, il modo di intendere e utilizzare il potere, il desiderio di auto-affermazione, la capacità organizzativa e gestionale, il talento comunicativo. Questo sul piano oggettivo. Mentre è su quello individuale e caratteriale, di solito trascurati dal discorso pubblico e dalla ricerca storica, che emerge l´antropologia e la psicologia di un potere che non sa darsi alcun limite, «autentico demone che consuma l´anima». Febbre interiore, dunque, megalomania, riduzione a sé della sfera pubblica, tentazioni dinastiche familiari, mancanza di pudore, sfrontatezza; senza contare «il ricorso sistematico, scontato, alla menzogna», la verità costruita ad arte e imposta «a sigillo del comando».
Alessandro Campi dimostra con dovizia di fonti come N. (Napoleone) fu il consapevole modello di M. (Mussolini). Ma tra quest´ultimo e B. (Berlusconi) la «filiazione» o addirittura la «reincarnazione» in chiave democratica appaiono, con gli occhi di oggi, ancora più lampanti. Stessa gioventù scapestrata (e stessa mamma di nome Rosa), stessa mancanza di Maestri, stesso egocentrismo, stessa incontinenza verbale, stessa mostruosa mole di lavoro, stessa insicurezza che si traduce in smanie complottistiche e persecutorie, stesso camaleontismo, stessa attitudine al stesso senso dello spettacolo. Tribunizio Mussolini, televisivo Berlusconi. Il cipiglio militaresco in un caso, il sorriso del venditore nell´altro.
Come se la storia d´Italia, avanzando, adeguasse le proprie forme espressive per meglio conservare gli archetipi del potere. Fino al compimento di un ciclo, al raggiungimento di quella perfetta simmetria che consente a Campi di insistere sul significato delle grandi personalità nella vicenda pubblica storia.
Di qui l´inesorabile reductio di Silvio ad Benitum. Tutti e due autodidatti, quindi outsider di una politica che non nasconde il medesimo fondo demagogico e si fa forte di una comune ispirazione dichiaratamente eversiva. Tutti e due convinti di essere degli artisti, dei musicisti. Istrioni consapevoli. Seduttori instancabili e celebratissimi, veri e propri leader capaci di intrattenere un rapporto erotico con la folla - con tutti i rischi del caso.
Un´ombra lunga, doppia e rinforzatissima. Occhio alle vignette, perciò, alle battute e ai fotomontaggi.
Liberazione 6.6.07
Nei "Quaderni" c'è la chiave per leggere la crisi della politica
di Pasquale Voza
Continua il dibattito su Gramsci e la sua attualità. Gli scritti del carcere contengono spunti preziosi per capire la formazione
"molecolare" del soggetto che non è mai qualcosa di dato a priori ma si costruisce nella pratica e nella lotta culturale
Qualche tempo fa, negli anni Novanta del secolo scorso, lo storico inglese Hobsbawm osservava che l'opera di Gramsci, in quanto "classico" del Novecento, aveva ormai varcato i confini della sinistra. Ciò non escludeva, tuttavia, come fu sottolineato da Guido Liguori in un passaggio finale del suo volume ( Gramsci conteso ), che quell'opera potesse costituire ancora un punto di riferimento essenziale e ineludibile per tutte le forze di sinistra impegnate ad elaborare forme, molteplici e varie, di antagonismo critico e di conflitto politico e sociale con lo stato di cose presenti, con la realtà della globalizzazione capitalistica.
Su un altro piano di considerazioni, l'enorme fortuna e presenza oggi dell'opera gramsciana nel mondo non dovrebbe - credo - sollecitarci ad uno sforzo sfibrante e in sé rigoristico di continua distinzione e selezione tra gli usi e gli abusi di Gramsci, bensì stimolarci, secondo la stessa prospettiva gramsciana di una «filologia vivente», ad una continua interrogazione critica della integrale storicità di tutte le letture, le interpretazioni, le riduzioni, le semplificazioni: dalla grande presenza nell'opera di Said di Gramsci come commutatore teorico-ideologico di una peculiare visione del rapporto potere-intellettuali, e della missione di quest'ultimi di «dire la verità», alla ricchissima fioritura culturale di categorie e di spunti gramsciani nell'ambito vastissimo dei cultural studies e degli studi post-coloniali (Guha, West, Ryner, lo stesso Stuart Hall, per fare solo qualche nome), sino addirittura al "lorianismo" (si potrebbe dire con Gramsci) delle attualizzazioni politiche più indebite e strumentali, particolarmente ricorrenti da qualche decennio in Italia.
Ed è in connessione con ciò che rileggere criticamente alcune tra le principali categorie gramsciane quali egemonia, rivoluzione passiva, ideologia, intellettuali, blocco storico, può contribuire senza dubbio a farci interrogare e analizzare in profondità (s'intende anche per differentiam ) alcuni nodi fondamentali del nostro presente. Si pensi alla nozione di rivoluzione passiva: ad essa Gramsci applicava il «criterio interpretativo delle modificazioni molecolari che in realtà modificano progressivamente la composizione precedente delle forze e quindi diventano matrice di nuove modificazioni», e in questo modo intendeva farne un possibile «principio generale di scienza e di arte politica». Nell'era post-liberale, nel tempo del fascismo e dell'americanismo, la rivoluzione passiva alludeva ad un potere moderno della politica, alla sua capacità di produrre e insieme governare processi di passivizzazione, standardizzazione e frantumazione (in assenza di «un'antitesi vigorosa», precisava con forza Gramsci, in chiave antideterministica): costituendosi, in qualche modo (come ha osservato Alberto Burgio su queste colonne), come un «idealtipo cruciale nello studio delle dinamiche di governance proprie delle democrazie oligarchiche», e non identificandosi rigidamente nelle forme in sé dei vari dirigismi più o meno "riformisti" degli anni Trenta.
Una spinta fondativa di tutta la riflessione gramsciana è costituita dalla crucialità dell'interrogativo su «come nasce il movimento storico sulla base della struttura». Tale interrogativo chiama in causa l'esigenza di elaborare una teoria della soggettività politica, che nell'autore dei Quaderni non è mai riconducibile o riducibile ad una qualche filosofia della storia: giacché per lui - come è stato osservato (Finelli) - il soggetto capace di dar vita all'iniziativa storica non è mai già dato, ma si costituisce processualmente attraverso la lotta e la prassi politica.
Ciò comporta in Gramsci, attraverso una serie di mediazioni, anche una critica serrata del concetto di «uomo in generale» e di «natura umana». Egli afferma che nel marxismo (in quel marxismo che andava ridefinendo e sviluppando creativamente) i concetti di uomo in generale e di natura umana (intesa, quest'ultima, come immanente in ogni uomo) sono rifiutati alla radice in quanto intimamente dogmatici. Il suo «umanesimo assoluto» ( absolutus , sciolto, cioè, da ogni vincolo o legame metafisico e/o idealistico) è un umanesimo integralmente laico e materialistico: esso potrebbe costituire un riferimento essenziale oggi, in tempi contrassegnati da forme nuove e spesso devastanti di rapporto tra sacro e potere, e da una diffusa virulenza fondamentalista e neo-patriarcale.
Vorrei richiamare l'attenzione su un altro punto: Gramsci parla dell'«uomo attivo di massa» del suo presente, di quei tempi che egli chiama «tempi di socializzazioni», e ne parla - si potrebbe dire - come di un soggetto sociale e politico in formazione. Ebbene, «la comprensione critica di sé stessi» e la successiva elaborazione superiore di una propria concezione del reale possono avvenire - dice Gramsci - solo attraverso una lotta "interiore" di «egemonie politiche», di direzioni e di spinte che si contrastano tra loro prima sul piano dell'etica e poi su quello della politica. La stessa coscienza politica, in cui per Gramsci si risolve la coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica, rappresenta solo la prima fase di una ulteriore e progressiva «autocoscienza», in cui teoria e pratica «finalmente si unificano». Da tutto ciò si comprende come proprio l'unità di teoria e pratica per l'autore dei Quaderni non sia un «dato di fatto meccanico, ma un divenire storico»: un divenire storico, nel quale la nozione gramsciana di molecolare ha una centralità gnoseologica e politica notevolissima, che chiama in causa lo stesso nesso spontaneità-direzione consapevole (lucidissime le considerazioni di Eleonora Forenza a tal riguardo, apparse di recente su questo giornale).
Da tutto ciò si ricava anche - credo - la radicale distanza di Gramsci, nell'elaborazione della teoria del moderno Principe, del partito moderno, da ogni concezione di autonomia del politico, comunque declinata.
Così pure la peculiarità dell'accento gramsciano sulla «comprensione critica di sé stessi» e sulla costitutiva inerenza di tale comprensione ai processi di soggettivazione politica, allontana decisamente il pensatore sardo dai rischi di un «antropocentrismo pratico e fabbrile» (Finelli), di una ideologia "produttivistica", che, dalla stagione ordinovista alle pagine di Americanismo e fordismo , costituirebbe una sottile e resistente linea di tendenza della riflessione gramsciana (secondo taluni, variamente ricorrenti, filoni interpretativi).
Infine: c'è una nota del Quaderno 9, che ci parla con parole molto vive, dinanzi agli odierni processi di riclassificazione dei saperi negli ambiti interagenti della tecnica e del mercato e di loro incorporazione nella macchina, entro una tendenziale (ma pur sempre ricca di contraddizioni) dilatazione "totalitaria" del capitalismo post-fordista.
E' una nota che contiene un messaggio forte, concretamente "utopico", vale a dire la necessità per l'intellettuale collettivo di una critica pratica di ciò che è «oggettivo», cioè di quello che Marx aveva individuato come il potere di astrazione reale del capitale: «Per il lavoratore singolo "oggettivo" è l'incontrarsi delle esigenze dello sviluppo tecnico con gli interessi della classe dominante. Ma questo incontro, questa unità fra sviluppo tecnico e gli interessi della classe dominante è solo una fase storica dello sviluppo industriale, deve essere concepito come transitorio».
antiproibizionisti.it 5.6.07
Fonte: Agi
CANNABIS. RIGGIO: «USO NON CAUSA MA SLATENTIZZAZIONE MALATTIA»
Roma, 5 giugno 2007 - L'uso e abuso di sostanze stupefacenti ma anche il primo rapporto sessuale o la partenza per il servizio militare, possono slatentizzare una psicosi che pero' c'e' gia' prima: l'uso o abuso di cannabis non causa la malattia mentale. E' il parere dello psichiatra Francesco Riggio che opera a Roma in un 'centro esordi psicotici' per adolescenti.
Quindi lei non si ritrova nella correlazione tra uso e abuso di cannabis e l'insorgenza della psicosi?
"Solo per una piccola percentuale in cui e' gia' presente una psicosi latente - spiega Riggio - Quel che non condivido e' pensare alla malattia mentale come malattia organica, del cervello. Posso esser d'accordo sul fatto che l'uso e abuso di cannabis come pure il primo rapporto sessuale o la partenza per il militare, possono slatentizzare una psicosi latente, che c'e' gia' e che si e' strutturata nel primo anno di vita in e per rapporti interumani deludenti".
Lo psichiatra romano chiarisce "nella mia esperienza con gli esordi psicotici ho potuto constatare come l'esordio sia sempre legato ad una situazione assolutamente nuova che mette in crisi l'adolescente che non si ritrova la sua immagine interna e qui viene fuori quel primo anno di vita deludente che aveva nascosto sotto la corazza di indifferenza-anaffettivita'".
Dunque, sono i vissuti, le esperienze affettive che si vivono nei primi mesi anni di vita che decidono della sanita' e malattia di una persona?
"Esattamente - e' la risposta di Riggio - per cui se ci si ammala in/per rapporti interumani deludenti ci si puo' non solo curare ma guarire in/per rapporti interumani validi come e' un rapporto di psicoterapia basato sull'interpretazione dei sogni e il superamento dell'anaffettivita'-
indifferenza".
Si tratta, in altre parole, di ritrovare qualcosa che si e' perduto?
"Si tratta di ritrovare in un rapporto di psicoterapia la propria immagine interna - conclude lo psichiatra - ricreando nel e per il rapporto psicoterapico il primo anno di vita, cioe' quella identita' inconscia perduta".
martedì 5 giugno 2007
Associazione Antigone - Area nuovi diritti e poteri istituzionali
LETTERA APERTA AL MONDO DELLA CULTURA E DELLO SPETTACOLO: ABOLIAMO L’ERGASTOLO
“L’ergastolo è una pena che rende il nostro futuro uguale al passato, un passato che schiaccia il presente e toglie speranza al futuro. È una morte bevuta a sorsi. È una vittoria sulla morte perché è più forte della morte”.
Scrivono così oltre trecento persone condannate all’ergastolo e detenute nelle carceri italiane e si rivolgono al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed alla senatrice del PRC-SE Maria Luisa Boccia, prima firmataria del disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo.
È un messaggio forte (“siamo stanchi di morire un pochino tutti i giorni. Abbiamo deciso di morire una volta sola, le chiediamo che la nostra pena sia tramutata in pena di morte”), un grido di fronte al quale non si può girare la testa e far finta di nonsentire.
La questione dell’abolizione dell’ergastolo, una pena che esclude per il condannato la prospettiva di una nuova vita, è questione da sempre al centro delle battaglie progressiste, è un obiettivo irrinunciabile di civiltà giuridica, è il cardine di quel “diritto penale minimo e mite” che solo può invertire la spirale perversa che continuamente si crea tra le urla scomposte del giustizialismo, l’emarginazione di intere fasce sociali, la negazione dei diritti e della speranza.
Per questa ragione l’Associazione Antigone, la Sinistra Europea e il Partito della Rifondazione Comunista hanno organizzato un pubblico convegno il 18 giugno sull’argomento (Roma, ex Hotel Bologna, ore 17) e lanciano un appello al mondo della cultura e dello spettacolo perché possa veicolare questo grido di dolore e di sollecitazione che viene dalle carceri e spingere le forze parlamentari ad una scelta coraggiosa, opportuna e civile. Per aderire: associazione.antigone@tin.it; gennaro.santoro@rifondazione.it
Prime adesioni
Giorgio Arlorio, Ascanio Celestini, Simonetta Cossu, Sandro Curzi, Erri De Luca, Leo Gullotta, Wilma Labate, Carlo Lizzani, Citto Maselli, Mario Monicelli, Piero Sansonetti, Pasquale Scimeca, Daniele Vicari.
il manifesto 5.6.07
Le due piazze di Rifondazione
Il 9 giugno «no Bush» a Roma mette in difficoltà il partito.
Che promuove ufficialmente il sit-in di piazza del Popolo. Ma molti «simpatizzanti», a partire da Action, saranno al corteo antagonista
di Alessandro Braga
Roma. Rifondazione comunista starà con il piede in due scarpe. Ovvero, con i suoi militanti divisi in due piazze. Gestire politicamente la questione non sarà per niente facile.
Sabato a Roma arriverà George W. Bush e la piazza, come in qualunque luogo del mondo dove metta piede il presidente statunitense, si prepara ad accoglierlo con contestazioni. A Roma, le piazze saranno addirittura due: una stanziale, piazza del Popolo, dove la sinistra di governo assieme a Arci, Fiom e altre associazioni pacifiste ha organizzato una giornata di canti, balli e dibattiti per «suonarle e cantarle» a Bush; l'altra, in movimento, è quella della sinistra radicale non di governo, che attraverserà in corteo la città e, oltre a Bush, contesterà anche il governo italiano.
Non sarà una giornata di mobilitazione in cui ci saranno da una parte i «buoni» e dall'altra i «cattivi». Anche perché al corteo parteciperanno tante persone che sono elettori di quei partiti che se ne staranno a piazza del Popolo. Semplicemente, spiegano gli organizzatori del No Bush No War Day, quelli del corteo insomma, «ci saranno due manifestazioni perché agisce una contraddizione tra due piattaforme diverse tra loro rispetto alla visita di Bush, al ruolo degli Stati Uniti e alle responsabilità del governo italiano nella guerra permanente».
Fino alla fine, del resto, molti tra i partecipanti al corteo hanno cercato di dialogare con la piazza del Prc. Non certo i Cobas o il Partito comunista dei lavoratori, per cui la deriva governista di Rifondazione è inaccettabile da sempre ma, ad esempio, il Network delle comunità in movimento, che raggruppa tra gli altri Action, il centro sociale milanese Leoncavallo e addirittura i Giovani Comunisti, associazione giovanile dello stesso Prc.
Nunzio D'Erme ha dichiarato che «per il movimento è inaccettabile rinchiudersi in una piazza. Ma in quella piazza ci saranno tanti bravi compagni con cui vogliamo dialogare da subito». Resta il fatto, sottolineano però quelli del Network, «che di fronte alla venuta di un criminale di guerra rispondere con un concerto è inefficace. Come è improprio tacere le responsabilità del governo, soprattutto dopo che Prodi ha rivendicato la decisione di portare a termine il progetto Dal Molin».
Come per la manifestazione contro l'ampliamento della base americana di Vicenza, la patata bollente resta in mano a Rifondazione comunista. Allora, il problema era se «Vicenza valesse un governo». Ora, se è sufficiente un concerto, con contorno di dibattiti, per manifestare la propria contrarietà al presidente americano in visita in Italia.
Per il gruppo dirigente di Rifondazione pare proprio di sì. Michele De Palma, della segreteria nazionale, ha spiegato che «la manifestazione a cui aderirà il Prc sarà diversa da quella organizzata dai gruppi dell'estrema sinistra non di governo». Un piede qua e uno là insomma, un occhio alla piazza e uno agli alleati di governo. Che questo basti ai militanti della base non è così sicuro. Almeno a giudicare dalle adesioni al corteo di pezzi del Prc: da alcuni deputati a consiglieri comunali di tutta Italia, fino a semplici militanti, saranno molti i rifondaroli che marceranno contro Bush. Tutta l'area di Sinistra Critica sarà al corteo e non a piazza del Popolo. Di più, i Giovani comunisti fanno parte del Network delle comunità in movimento, tra i promotori del corteo. E il Network guarda alla Sinistra europea come cantiere praticabile per l'unità dei movimenti. Se ciò non avvenisse, dicono, «Sinistra europea rischierebbe di nascere già morta per via di un processo che coinvolge i partiti politici istituzionali, ma che bypassa il dibattito politico vero». Il rischio per Rifondazione non è solo quello di perdere contatti con il movimento, ma con i suoi stessi militanti e elettori.
Le ultime elezioni amministrative hanno già dato un segnale in questo senso: il Prc ha pagato con un sensibile calo di consensi il suo primo anno di governo. Un'ulteriore ambiguità potrebbe aumentare il numero di quegli elettori che si ritroverebbero costretti, non sentendosi più rappresentati, a scegliere alle prossime tornate elettorali la via dell'astensione.
il manifesto 5.6.07
Ora di religione. Appello al premier: sconfessi Fioroni
di Francesca Longo
Un'ulteriore novità per i ragazzi che quest'anno affronteranno l'esame di maturità: se non sei stato esonerato dall'ora di religione cattolica ci sono crediti in più. L'iniziativa ha fatto mostra di sé mesi fa in una ordinanza ministeriale ed è finita sul tavolo del Tar del Lazio dietro segnalazione della Consulta romana per la laicità delle istituzioni (cui molte associazioni, chiese protestanti, unione delle comunità ebraiche ecc. hanno aderito). Al ministro Fioroni arriva la notizia che il Tar ha accolto l'istanza di sospensione dell'ordinanza ministeriale, sebbene solo con un provvedimento cautelare, e si rivolge al Consiglio di stato. E il Presidente della sesta sezione del Consiglio di stato annulla provvisoriamente (però sino al giorno successivo agli scrutini) l'ordinanza cautelare del Tar: pertanto, almeno per quest'anno, un buon voto in religione (cattolica) è d'aiuto per risollevare le medie. Grazia divina, evidentemente.
Scrive il Tar: «Sul piano didattico, l'insegnamento della religione non può a nessun titolo concorrere alla formazione del credito scolastico per gli esami di maturità, che darebbe postumamente luogo ad una disparità di trattamento con gli studenti che non seguono né l'insegnamento religioso e né usufruiscono di attività sostitutive». Scrive la Consulta per la laicità: «Nell'attuale situazione gli scrutini si svolgeranno secondo la volontà del ministro, ma il successivo pronunciamento nel merito del Tar Lazio, che deve ancora avvenire, con molta probabilità ne porrà in dubbio l'esito annullando la parte impugnata dell'ordinanza ministeriale. Si verificherebbe così una situazione di incertezza giuridica sul corso e sugli esiti degli esami di stato, la cui responsabilità non potrà che ricadere sul governo. Chiediamo a Romano Prodi di adoperarsi in tempi rapidissimi affinché impedisca questo grave scempio della laicità della scuola pubblica e vengano ristabiliti lo status quo ante, la legalità e la certezza del diritto, dal momento che il governo può annullare in sede di autotutela le contestate e discriminatorie innovazioni apportate dall' ordinanza ministeriale 26/2007». I tempi devono essere davvero rapidi: gli scrutini si terranno la prossima settimana. E al premier si rivolge anche la Rete degli studenti, che parla di «scandalose ambiguità createsi a ridosso degli impegni di fine anno che danneggiano solo e unicamente gli studenti nel proprio diritto di essere valutati indipendentemente dalla scelta o meno di una materia facoltativa». La Rete attiverà uno sportello on line «per reclami e ricorsi degli studenti che si trovino discriminati».
Repubblica 5.6.07
Cercasi guida disperatamente
Perché la sinistra ha smarrito il carisma
Un paese che appare senza un vero ricambio politico e generazionale
La crisi di identità è maturata dentro scelte politiche poco coraggiose
di Francesco Merlo
In Italia abbiamo capi e padroni, abbiamo "imperium" ma non abbiamo leadership, abbiamo bulli e abbiamo comandanti, abbiamo "dux" ma non abbiamo leader. E infatti abbiamo avuto Mussolini ma non Churchill; non abbiamo avuto De Gaulle e Mitterrand ma Togliatti e De Gasperi, che traevano la loro grande forza dalle potenze estere, erano gli autorevoli rappresentanti consolari delle due metà del mondo, erano insomma leader per conto d´altri, leader senza leadership. Alla fine, molto raramente abbiamo avuto un´autonoma leadership e dunque veri leader nazionali, che sono infatti significati non tradotti e non traducibili nella nostra pur bella e ricca lingua, benché siano essenziali alla democrazia prima ancora che al nascente Partito democratico.
Supremazia, egemonia, guida dei propri uomini, controllo del Parlamento, autorevole e non autoritaria influenza politica, dirigenza e direzione: leadership è parola inglese che rimanda al mare perché viene da leader, da to lead, che vuol dire condurre, e da ship che è la nave, ma è anche è il suffisso che nella lingua inglese dà qualità all´astrazione, come in scholarship e in citizenship, e deriva dal germanico skop e quindi skip e appunto ship, nave, che in antico tedesco si dice schif, in greco skaphos e schyphos e in latino scapha ed è sempre lo stesso campo semantico, quello del bastimento e dell´imbarcarsi perché la leadership nella civiltà anglosassone viene battezzata sul mare, nel confronto con l´oceano, con quel "sea power" che è motore della storia.
Senza volere qui rifare la storia dell´influenza del "sea power" nell´evoluzione dell´umanità ci basta ricordare che la seconda guerra mondiale è stata vinta dai navalisti e persa dai continentalisti, e che l´Italia è lontana dall´etimo stesso della leadership, perché, pur essendo una penisola, una quasi isola, la sua non è storia di navi, di flotte, di controllo delle acque, di ufficiali di marina che avevano un´educazione da statisti, di marinai che diventavano leader perché si misuravano con la forza degli oceani, di portaerei che erano un modo di accorciare le distanze e controllare il mondo. E infatti ancora oggi la formazione della nostra classe dirigente è lontana dagli orizzonti internazionali, non c´è nessun leader italiano che si qualifichi attraverso strategie mondiali, dal nuovo ruolo della Cina e dell´India alla forza dell´Islam… Difficilmente la leadership italiana si affaccia al mondo. Campioni di fantasia e di inventiva abbiano avuto il ministro della Devoluzione e quello dei Rapporti con il Parlamento, quello per gli Italiani nel mondo e quello per gli Affari regionali, e abbiano persino il ministero per l´Attuazione del programma di governo che è una sorta di ministero della Supercazzola con scappellamento a destra o a sinistra, ma abbiamo, senza nulla togliere alle qualità di Massimo D´Alema, per tradizione, un politica estera approssimativa e abborracciata, con gli avanzi di cucina delle politica interna, idea arcitaliana appunto, radicatissima nella nostra storia, con alleanze mai sicure, trattati mai definitivi, con il nemico che è anche amico e viceversa.
Come si forma la leadership in Italia? Ebbene, non c´è nulla di più lontano dalla idea occidentale della leadership. Le ambizioni infatti si muovono nell´ombra, malcelate sotto cumuli di ipocrisia, non c´è nessuno che osi dire «io voglio fare il presidente del consiglio, o della repubblica o il segretario del partito democratico», come ha fatto per esempio per esempio Sarkozy che già tre anni fa conquistava l´Ump, il partito dell´ostile Chirac, e intanto confessava di pensare all´Eliseo «tutte le mattine mentre mi faccio la barba». In Italia invece tutti hanno paura di bruciarsi e di esporsi, Veltroni non osa sfidare D´Alema, la Finocchiaro si finge umile, Rutelli lavora nell´oscurità, nessuno si fida di nessuno, si inventano candidati civetta e finte primarie con il vincitore bloccato, si punta su qualcuno solo per farlo impallinare, non c´è nulla di pulito, di chiaro, di laico, e alla fine la scelta del leader, quale che sia la carica da ricoprire, sarà il frutto di negoziati estenuanti, di compromessi al ribasso e mai di una forte competizione a viso aperto. La scelta viene via via depotenziata politicamente e umanamente. Quasi sempre il prescelto è un politico di basso profilo, possibilmente già vecchio, meglio se un po´ acciaccato, si spera che sia un utile brav´uomo, il quale ovviamente alla prima prova difficile, alla prima sconfitta amministrativa per esempio, o si rifugia nella retorica o si esprime in una rabbia inconsulta minacciando di dimettersi. Ricordate come Tony Blair seppe prendere su di sé l´impopolarità della guerra in Iraq e riuscì a vincere per la terza volta le elezioni politiche?
Invece il leader italiano somiglia al titano Enceslao che scala l´Olimpo e crede di essere diventato un dio. Giove afferra quell´omuncolo e lo scaglia sulla terra mettendogli sullo stomaco un´immensa montagna, l´Etna. E il tapino sta lì, costretto a fare il morto, a trattenere il respiro... Solo quando non ne può più tossisce e si agita, si scuote, si gratta, starnutisce. E allora apriti cielo, la terra trema, le bocche del vulcano sputano fuoco e pietre, il cielo si oscura.
Né va meglio nella cosiddetta società civile, all´università per esempio, che, unico paese occidentale, l´Italia considera il serbatoio fintamente tecnico della politica. E´ tipico di un Paese arretrato trarre i suoi quadri dirigenti dall´università. La leadership nei paesi occidentali si forma nella scuole di alta amministrazione, oppure nell´alta politica o ancora nelle professioni. La classe dirigente italiana, invece, o viene dalla burocrazia dei partiti, o è una specie di università allargata con tutte le miserie della gestione del potere universitario spavaldamente praticate in nome della cultura. All´università il clientelismo si chiama cooptazione, la mafia si chiama scuola o baronia, la gerontocrazia si chiama scienza, il traffico delle cattedre si chiama concorso. Ma la sostanza è che la leadership universitaria è autoreferenziale, immutabile, cerimoniale, fondata sul culto del vecchio, sulla ossificazione delle idee, sulla mummificazione della cultura e dunque anche della politica.
E dovrebbe essere superfluo spiegare che il leader guida e il padrone comanda e che nella cultura della leadership, scriveva Comte, «ogni partecipazione al comando è degradante». Non ci sorprende dunque che i governi italiani, quelli di sinistra come quelli di destra, siano in perenne crisi di consenso, si dissipino in un gorgoglio di comandi, un flottare di ordini, perché appunto la mancanza di leadership ordina e riordina e preordina e postordina e sputacchia disordinatamente discorsi e sentenze, encicliche e omelie, ordini di servizio e servizi d´ordine, ma non governa, non guida, non dirige, non traccia la rotta di un Paese che rimane «nave senza nocchiero in gran tempesta». La leadership italiana sembra l´epifania postcoitale perché, come si sa, nel nostro Paese, «cumannari è megghiu di futtiri».
Repubblica 5.6.07
Quando erano i partiti che dettavano la linea
Fintantoché la sfera del confronto politico era saturata dall’opposizione fra Dc e Pci, non c’era spazio per decisioni personalistiche
di Edmondo Berselli
Nel clima del dopoguerra, dominato dalle grandi visioni ideologiche e dalle contrapposizioni "di civiltà", la leadership politica era una funzione sfuggente. Il 1945 aveva segnato il crollo dei totalitarismi nell´Europa occidentale, mentre l´Unione Sovietica centrata sulla dittatura di Stalin era circondata dall´alone della vittoria contro il nazismo. Così, le figure di spicco nei partiti che si riaffacciavano alla democrazia rappresentavano la sintesi di pensieri forti e anzi di storie che avevano percorso il Novecento.
Più che dalla figura del leader, la scena era occupata dal partito: il Pci doveva essere il moderno Principe, secondo la lezione di Gramsci, teso a conquistare un primato egemonico; mentre la Dc si riproponeva come partito-società, capace di aderire a tutte le pieghe della collettività. Fra i ritratti nelle Case del popolo o all´ombra dei campanili, il partito di massa, appariva in grado di esprimere, attraverso la sua organizzazione capillare, un´intelligenza collettiva.
Certo, la leadership esisteva: ma era una polarità individuale che si irradiava sulla struttura politica, che a sua volta la rafforzava. Alcide De Gasperi incarnava la dottrina sociale della chiesa, un cattolicesimo liberale che faceva i conti con il popolarismo delle origini, il viaggio dentro il fascismo e lo sforzo strenuo di rilanciare il paese dopo la tragedia della guerra.
A sua volta, Palmiro Togliatti, "il Migliore", riassumeva in se stesso un´avventura rivoluzionaria che recava dentro di sé una carriera come esponente dell´internazionalismo, la lotta antifascista che in cui si era distinto come "Ercoli", il capo comunista clandestino, l´uomo dell´Hotel Lux, l´ufficiale di campo del socialismo sovietico. In Italia, era il leader assoluto che tuttavia esplicava il suo ruolo all´interno della procedura del Pci, scritta sulle regole del centralismo democratico. Mentre De Gasperi appariva semmai come un "primus inter pares", soggetto ben presto alle manovre e ai veti dell´organizzazione dc, Togliatti era il capo indiscusso di un´istituzione perfetta.
L´organizzazione comunista era riuscita a intimorire e infine a subordinare il Partito socialista di Pietro Nenni, che soltanto con la transizione al centrosinistra e all´accordo con la Dc avrebbe ritrovato il sentiero dell´autonomia politica; ma soprattutto dava l´idea di una macchina autoriferita quanto infallibile, in grado di collocare al proprio interno ogni protagonismo e ogni personalità, dall´ortodossia pragmatica e riformista di Amendola al "lavoro di massa" in chiave prerivoluzionaria di Ingrao.
Non si usava nemmeno, la parola leader: nelle file dc si cominciò a parlare dei "cavalli di razza" quando apparvero protagonisti come Amintore Fanfani e Aldo Moro. Ma se Moro impersonava effettivamente una leadership culturale, per la sua capacità di pensare all´evoluzione integrale del sistema politico, con uno sguardo al possibile perfezionamento del "bipartitismo imperfetto", a Fanfani invece si imputava un piglio semi-gollista, una più visibile propensione al comando che si scontrava facilmente con l´inclinazione "dorotea" del corpo del partito e alla sua diffidenza per le concentrazioni di potere.
Lo spirito democristiano infatti si rivelava più compiutamente nelle personalità politicamente duttili di Mariano Rumor e di Flaminio Piccoli, e fuori dall´area del doroteismo nel pragmatismo assoluto di Giulio Andreotti, per il quale le categorie politiche sono sempre risultate astrazioni (non è un caso che proprio il pratico Andreotti fosse chiamato a gestire il governo di solidarietà nazionale con i comunisti). Per qualche aspetto invece il calore della leadership era più sentito a sinistra, proprio perché era l´integrale struttura del partito a convergere nella figura del segretario: processo simbolico e funzionale a cui va aggiunto il fascino popolare di un capo come Enrico Berlinguer, le cui caratteristiche personali eccedevano i confini politici del Pci, qualificandolo come un possibile simbolo nazionale.
Ma fintanto che la sfera del confronto politico era saturata dalla contrapposizione fra Dc e Pci, non c´era spazio per l´emergere di figure in grado di plasmare la politica su un profilo personale. Anzi, per diversi anni uno dei leader più visibili fu una personalità laterale alla politica, il capo della Cgil Luciano Lama. Perché il tema della leadership divenisse istanza politica rilevante, fu necessario l´emergere di una posizione eccentrica, rappresentata negli anni Ottanta da Bettino Craxi: «capo del governo e insieme dell´opposizione», come lo descrisse Adriano Sofri, portatore di un´ipotesi mitterrandiana di alternativa alla Dc che prevedeva la sostanziale subordinazione dei comunisti, intorno al quale nacquero le prime teorizzazioni sul capo carismatico e sul "decisionismo".
Dovevano cioè rompersi quegli equilibri, come scrisse su MicroMega uno dei primi ideologi dell´onda lunga socialista, Giuliano Ferrara, fondati su «un´egemonia democristiana da null´altro corretta se non da un potere di veto comunista». La crisi dei partiti storici invitava a recuperare le categorie schmittiane della decisione e la configurazione weberiana del leader. Intorno all´immagine di Craxi si sono giocate le prime sperimentazioni leaderistiche della politica italiana. Che naturalmente sarebbero diventate utili con il tracollo della "Repubblica dei partiti", allorché si affermò lo schema dell´alternanza.
Che cosa c´è infatti dopo i partiti, se non la concentrazione del potere nel leader, alimentata dalla vertigine massmediatica? Quando le forze politiche tradizionali si disintegrano come la Dc e il Psi dopo Tangentopoli, o affrontano metamorfosi infinite come il Pci a partire dal 1989, viene il momento della contrapposizione giocata tra immagini pubbliche, in cui la "personalizzazione" della politica tende a superare il vecchio elemento ideologico o il suo residuo.
Non c´è soltanto la "scesa in campo" di Silvio Berlusconi, il re televisivo: con le nuove regole elettorali anche nel territorio, ossia nei comuni e nelle altre unità amministrative, la personalizzazione e quindi il "fattore" della leadership si diffonde in tutto il sistema politico. Plasma l´azione pubblica, ma anche l´organizzazione degli staff e delle coalizioni; diventa un totem su cui si misurano carriere e scelte programmatiche, su cui si allestiscono strumenti di selezione come le primarie. E alla fine, scontata la maggiore facilità rispetto alla sinistra con cui la destra può affidarsi al leader, potrebbe anche lasciare il campo a una sindrome nuova, in cui il comando, il ruolo da conquistare, si infittisce di mediazioni e tatticismi, e alla fine potrebbe istituire l´ultima variante, segnata da un´assenza, da uno spazio vuoto: il fantasma della leadership senza leader.
Repubblica 5.6.07
Il modello populista e le democrazie europee
di Antonio Gnoli
«In una democrazia di massa il concetto di "leadership" può variare di importanza a seconda del ruolo che vi svolgono i partiti», dice Yves Mény, politologo francese, Presidente dell´Istituto Universitario internazionale di Firenze, autore fra l´altro di un apprezzato saggio sui temi del populismo.
«Nell´Europa democratica del ventesimo secolo, per esempio, il leader non era scelto dall´elettorato, ma era l´espressione di un apparato. Per arrivare a ricoprire la posizione di vertice occorreva un cammino lungo e spesso lento, e soprattutto soggiacere alle regole del partito. Solo in rare occasioni il leader entrava in contatto con le masse. Le quali a loro volta si riconoscevano più nei simboli del partito che nei discorsi del capo. Negli Stati Uniti, dove i partiti sono soprattutto macchine elettorali, la leadership come riconoscimento popolare di una guida individuale si è affermata con più facilità. Nel modello americano, una campagna elettorale si fa più sul carattere della persona che sul programma.
La situazione di questi ultimi anni, segnata dall´indebolimento delle ideologie, ha spinto l´Europa verso un´americanizzazione della politica. I partiti – si pensi anche al caso italiano – non sono più concepiti principalmente come risorse simboliche e sempre meno mediano tra le istituzioni e il popolo. È in questo clima che può nascere o rafforzarsi la leadership individuale. Essa implica un insieme di qualità personali che dopo Max Weber si è presa l´abitudine di chiamare carismatiche.
Non è detto che il carisma corrisponda sempre a qualità reali di chi lo esercita. In una società mediatica, il politico che oggi vuole il consenso tenderà a non scontentare l´elettorato. Sempre più spesso il discorso del leader è gestito e calibrato quotidianamente sulla base delle reazioni ai sondaggi e delle analisi sull´opinione pubblica. Non è un caso che la recente campagna elettorale di Sarkozy sia stata caratterizzata dalle tematiche legate all´identità razziale e a una forte critica del Sessantotto, due motivi graditi alla maggioranza dei francesi. È chiaro dunque che la leadership oggi, più che in passato, si riconosce nei caratteri di una persona che riflette le aspettative dell´opinione pubblica. Essa ha più possibilità di imporsi, se nasce da una crisi della politica. Nei momenti di rottura – una guerra, una svolta radicale, il crollo di un sistema – il leader può emergere in tutta la sua forza. È a questa altezza che si colloca l´esperienza populista. La leadership populista si autoistituisce, piegando le regole e le strutture alle esigenze e ai bisogni del capo del movimento. Ma la sua durata è limitata nel tempo, ha vita breve a meno di non riuscire ad assestarsi istituzionalmente».
Repubblica 5.6.07
Fenomenologia del leader carismatico
L’occidente in crisi sedotto dal capo
di Carlo Galli
Definizione. Il leader non crea la storia ma sa leggere la crisi in atto e catalizza le energie sociali mettendole in moto verso una direzione possibile
Se il mondo antico interpretava spesso la politica come l´azione di un nocchiero che guida la nave della città, l´età moderna ha privilegiato, da parte "borghese", la centralità dei cittadini e l´impersonalità universale del comando dello Stato; mentre a sinistra si è creduto che la storia si muova in virtù di grandi forze oggettive e necessarie, che l´agire politico abbia come soggetti le masse, e che la dirigenza politica debba solo interpretare correttamente i segni dei tempi. Queste convinzioni hanno fatto sì che rispetto ai democratici e ai socialisti la destra – col suo culto del capo come l´eroe che ci lascia solo il compito di credere, obbedire, combattere per un destino che egli ci addita – sia stata più propensa a porre la leadership al centro della riflessione politica.
Ma la scienza politica fra Otto e Novecento ha scoperto, con i teorici delle élites (Mosca, Pareto, Michels) e con Max Weber, la leadership, plurale e singolare. Agli individui e alle masse si sono così aggiunti, come protagonisti della politica, oligarchie e capi. In particolare, Weber ha individuato fra i tipi di potere legittimo, oltre a quello tradizionale e a quello legale, anche quello carismatico: il potere personale innovatore, rivoluzionario, che deriva a un capo dal possedere uno straordinario dono di grazia (il carisma), e dal venire obbedito per questo. E la storia del XX secolo ha conosciuto grandi figure di leader; nefasti, come Hitler, Stalin, Mussolini, ma anche capi democratici come Roosevelt, liberali come Churchill, nazionalisti come De Gaulle. E se non il carisma in senso rivoluzionario, una evidente credibilità personale - determinata dalla coerenza degli intenti e dalle sofferenze patite - ha contrassegnato anche la leadership di De Gasperi, Togliatti, Nenni e Saragat.
Da queste figure, pur così diverse tra loro, emerge che il leader è la personalità che, con un gesto innovatore, sa smarcarsi dalle élites, e che opera nella sua persona una sintesi politica concreta tra l´emergenza puntuale del momento storico e un più vasto orizzonte che egli scopre e addita - e così fornisce alla esperienza comune se non ‘il´senso, almeno uno dei sensi possibili - . Il leader insomma sa dire Io con tanta forza da provocare il formarsi non episodico di un Noi, e persegue la propria visione personale rendendola condivisibile da molti.
Ma il leader non crea la storia; piuttosto, egli sa leggere le crisi in atto e catalizza le energie sociali, mettendole in moto verso una direzione possibile. E´ un trascinatore egli stesso coinvolto nel processo a cui dà impulso. E´ tanto autore del proprio tempo quanto prodotto dal tempo. E´ un visionario pratico, che coniuga l´etica della convinzione con quella della responsabilità. Ha bisogno della collettività, come questa di lui. Questa miscela di interpretazione personale e di movimento collettivo si manifesta di solito nei momenti di emergenza, nelle guerre, nelle rivoluzioni, nei processi di formazione di imperi e Stati; ma anche le ricostruzioni, le uscite dalle crisi, sono opera di grandi leader (Roosevelt e De Gasperi, tra gli altri).
Il rapporto del leader col proprio tempo non è però garantito: ci sono leader solo potenziali, fuori del proprio tempo, anacronicisti, e quindi senza efficacia; e tempi che conoscono crisi e difficoltà ma non hanno leader che indichino la via. Tempi cioè - e sono i nostri - in cui le forme della politica, le istituzioni, sono stanche e svuotate; mentre la sostanza della politica, il suo potere invasivo e persuasivo, passa altrove, e si abbatte direttamente sulla vita - sul corpo e sulle menti - delle persone. Tempi in cui le forze che attraversano la società sono talmente ipertrofiche da non apparire più governabili, e in cui le sfide, fattesi planetarie, sembrano fenomeni naturali, non politici; tempi in cui la contingenza non è più un´eccezione ma una quotidianità straripante e sfuggente, che non si sa come afferrare per darle una forma. Tempi in cui si reagisce alle sfide non con energia collettiva, ma con la ricerca di vie di fuga individuali o di gruppo; in cui la politica si è spezzettata in una miriade di vicende, di aspirazioni e di sofferenze, che non richiedono o che sembrano non avere più una soluzione pubblica.
I leader - in Occidente - si fanno quindi più rari non tanto perché la pianta-uomo abbia cessato di dare frutti eccellenti quanto perché si è trasformata la politica, nelle sue categorie portanti e nella percezione diffusa che se ne ha. E´ sempre più raro che ci sia un Io perché più fievole si è fatta l´esigenza che la politica serva a creare un Noi, a indicare un orizzonte da raggiungere, una storia praticabile. In questi tempi la politica è una gestione del presente resa interessante da ‘personaggi´, da leaderini vanitosi e inconcludenti, da aspiranti pifferai magici; e la personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, fenomeni di facciata, prendono il posto della leadership, che è una questione di sostanza.
In questi tempi di disorientamento, quindi, prima di rispondere alla domanda sui leader - cioè su chi ci conduce, e verso dove - bisogna interrogarsi su dove va quella complessa e variabile combinazione di ragione, persuasione, forza, interesse, immaginazione, diritto, che chiamiamo politica; cioè porre la questione della sua trasformazione. Saranno leader coloro che, nel bene e nel male, sapranno dare risposte condivise - se sono ancora possibili - a questo interrogativo; che scommetteranno sulle nuove vie - se ci sono, e se mobilitano ancora i cittadini - grazie alle quali la politica possa ancora essere l´insieme dei processi e delle azioni con cui si costruisce un mondo comune.
Corriere della Sera 5.6.07
La sinistra radicale. Sottosegretari pronti a «tradire» il premier. Ma il Prc teme il flop della piazza buonista
di Monica Guerzoni
ROMA — Disobbedire. Scendere in piazza contro George W.Bush a dispetto delle preghiere di Romano Prodi. È la tentazione che serpeggia nel governo, dove l'appello a restare a casa, mormorato dal premier venerdì durante il vertice coi segretari, ha lasciato piuttosto freddi gli alleati dell'ala sinistra. I ministri, salvo sorprese dell'ultim'ora, non deluderanno il Professore, mentre tra i sottosegretari qualcuno è pronto a smarcarsi. A dispetto degli ultimi appelli, scanditi da chi teme ripercussioni su Palazzo Chigi.
«Mi aspetto manifestazioni civili e pacifiche», è il garbato monito del ministro prodiano Giulio Santagata. «Non possiamo accettare un tale spirito antiamericano» prende le distanze dagli alleati Mauro Fabris, braccio destro di Mastella. E pure Piero Fassino dev'esser preoccupato se dice di attendersi, dagli esponenti del governo, «una certa riservatezza».
Alfonso Gianni, sottosegretario del Prc, sbuffa infastidito. Arriva dal Giappone e nulla sapeva dell'editto prodiano. «Il richiamo del premier mi sembra estremamente negativo e fuori luogo». Dunque sottosegretario, lei sabato sarà in piazza del Popolo? «Non vedo perché non dovrei manifestare col mio partito. Ognuno è libero di protestare, ovviamente nei limiti di una manifestazione pacifica». La fitta delegazione di Rifondazione sarà guidata da Franco Giordano, il quale ieri, alla direzione del partito, ha lanciato un forte richiamo alla mobilitazione. Segno che ora il Prc teme il flop: un supercorteo gonfio di giovani, no global e pacifisti—estremisti (tra cui i rifondaroli indipendenti Francesco Caruso e Heidi Giuliani) e una gigantesca, semivuota piazza del Popolo buonista. Con la segreta speranza che il No Bush Day non passi alla storia della sinistra come la data del pubblico divorzio tra il Prc e i movimenti. Anche Oliviero Diliberto ha scelto la protesta soft. Per non disertare la piazza fermerà per un'ora il comitato centrale del Pdci e salirà sul palco assieme a Sgobio, Venier e alla presidente dei senatori comunisti, Manuela Palermi. Fabio Mussi invece non andrà. La sua Sinistra democratica ha scelto di non aderire, anche se qualche esponente di spicco come Carlo Leoni potrebbe affacciarsi al sit-in. E non ci sarà Alfonso Pecoraro Scanio, pure lui è ministro e a rappresentare i Verdi sarà il capogruppo Angelo Bonelli. Non da solo, forse... Gridare «guerrafondaio» al presidente degli Stati Uniti e rinfacciargli il rifiuto di ratificare gli accordi di Kyoto piacerebbe infatti anche a Paolo Cento, quasi pronto a sciogliere la riserva. «Se non avessi incarichi di governo la mia collocazione naturale sarebbe a manifestare — conferma il sottosegretario all'Economia — D'altronde Mastella ha manifestato contro i Dico e dunque la regola di Prodi non vale più». Esprimere il proprio sdegno contro l'illustre ospite è «del tutto legittimo» conclude Cento, il quale invita a spostare l'attenzione sull'altro corteo, quello antigovernativo dei Cobas e dei centri sociali: «Il vero nodo sarà quello che succede dall'altra parte...». Dall'altra parte, cioè al corteo No Bush No War (e anche No Prodi) che da piazza della Repubblica a piazza Navona vedrà sfilare Franco Turigliatto, Salvatore Cannavò, Fernando Rossi e il leader della Fiom, Giorgio Cremaschi, succede che in molti guardano agli scontri di Rostock e temono disordini. Il governo Prodi non si renda «complice del tremendo rischio che si ripeta la tragica repressione del 2001 a Genova» è l'appello del leader dei Cobas, Piero Bernocchi, mentre Marco Ferrando (Pcl) prevede che non ci saranno scontri ma una «grande, pacifica opposizione da sinistra al governo Prodi». E il Comitato 9 giugno, che raccoglie le adesioni al corteo di circa 200 sigle, prova a fermare gli allarmi strumentali: «È inquietante che si cerchi di schiacciare la mobilitazione nella logica della piazza dei buoni e del corteo dei cattivi...».
E così tra le due piazze, con una certa malizia, prova a infilarsi Marco Pannella. Il leader dei Radicali propone un'altra piazza del Popolo, una manifestazione che accolga Bush con cartelli «W gli Usa» e con slogan che inneggino alla democrazia a stelle e strisce: «Viva il popolo americano nostro fratello...».
Corriere della Sera 5.6.07
Saltammo giù dagli alberi rimanendo su due piedi
Nuova ipotesi: andatura bipede 15 milioni di anni fa
2,4 milioni di anni fa: compare il primo Homo
L'origine della teoria dallo studio degli oranghi
di Viviano Domenici
I nostri antenati impararono a camminare su due piedi quando ancora vivevano sugli alberi e non, come finora ritenuto, quando furono costretti ad abbandonare la vita arboricola e affrontare gli spazi aperti della savana.
Questa è l'ipotesi avanzata da tre zoologi britannici basata sull'osservazione del comportamento degli oranghi nelle foreste dell'isola indonesiana di Sumatra. Autori della ricerca, pubblicata sull'ultimo numero della rivista Science, sono Susannah Torpe e Roger Holder, dell'Università di Birmingham, e Robin Crompton, dell'Università di Liverpool, che hanno studiato gli orango nel loro ambiente naturale. Questi primati, che oggi vivono solo nelle foreste di Sumatra e del Borneo, conducono una vita prevalentemente arboricola, hanno un sistema di locomozione basato principalmente sull'uso degli arti anteriori per sospendersi e spostarsi tra i rami (brachiazione) e scendono sul terreno solo per attraversare brevi tratti privi di alberi, per bere o per raccogliere qualche frutto caduto; poi tornano sugli alberi evitando così possibili incontri coi predatori.
La loro struttura anatomica è quindi decisamente specializzata per vivere sugli alberi, ma i ricercatori si sono accorti che quando queste scimmie si spostano poggiandosi su rami robusti utilizzano tutte e quattro gli arti senza mai distendere completamente le articolazioni, come invece può fare chi — come l'uomo — ha un'andatura bipede.
Quando invece si spostano su rami più piccoli e flessibili, che rendono la situazione più precaria, gli orango si alzano sulle zampe posteriori e utilizzano le braccia, allargandole, per mantenere l'equilibrio. In questa particolare situazione gli orango si trovano molto spesso perché la frutta migliore è prevalentemente quella che cresce sui rami più alti, più soleggiati, ma più sottili e meno affidabili. Proprio in questi casi, hanno osservato i tre zoologi britannici, cioè quando devono arrivare a un frutto altrimenti irraggiungibile, gli orango distendono completamente le articolazioni delle anche e delle ginocchia, cosa che non fanno mai quando utilizzano tutti e quattro gli arti. Cioè assumono una posizione tipica solo di chi può camminare su due zampe, cioè noi e i nostri antenati australopiteci. Date queste osservazioni, i tre zoologi propongono l'ipotesi che l'andatura bipede sia apparsa quando il lontano progenitore di uomini e scimmie viveva ancora sugli alberi. Questo imporrebbe quindi di spostare la data della comparsa dell'andatura bipede almeno a 15 milioni di anni fa, momento in cui gli orango si separarono dal ramo evolutivo dal quale sarebbero successivamente emersi i gorilla (10 milioni di anni fa), gli scimpanzè (5-7 milioni di anni fa), gli australopiteci, la prima forma Homo (circa 2 milioni e 400 mila anni fa).
Uno spostamento all'indietro nel tempo che difficilmente sarà accettato senza discussioni dagli antropologi poiché l'ipotesi è basata non su studi sulla morfologia degli orango — di cui non è mai stata messa in luce alcuna tendenza allo sviluppo del bipedismo — ma solo sull'osservazione del comportamento di animali attualmente viventi. Proprio per questo, le prime critiche sono già emerse. Secondo l'antropologa Yvette Deloison, del Cnrs francese, «se l'antenato comune delle scimmie antropomorfe e degli ominidi avesse avuto un'anatomia che gli permetteva di fare tutto quello che fanno gli oranghi con mani e piedi, sarebbe stato già troppo specializzato per dar vita a quello che noi siamo oggi».
In attesa che l'ipotesi dei tre zoologi britannici passi il vaglio degli antropologi non rimane che tenerci ben saldi alla teoria che collega la comparsa dell'andatura bipede alla drastica riduzione delle foreste africane, che avvenne oltre cinque milioni di anni fa e che costrinse i nostro antenato ad affrontare, su due piedi, gli spazi aperti della savana. Il momento esatto in cui questo avvenne non lo sapremo mai, ma conosciamo con precisione la data della prima passeggiata su due piedi di cui abbiamo testimonianza concreta: 3 milioni e settecentocinquantamila anni. A tanto risalgono le impronte di due australopiteci che camminarono su un terreno fangoso a Laetoli, in Tanzania, mentre scappavano da un vulcano in eruzione.
Corriere della Sera 5.6.07
La Nobel iraniana, attivista per i diritti umani, critica duramente l'ex deputata di origine somala
Ebadi contro Hirsi Ali
«Attaccando in blocco l'Islam fa il gioco dei regimi teocratici»
Saranno le donne ad abbattere il potere dei mullah
di Alessandra Farkas
NEW YORK — La signora dai capelli corti indossa una giacca grigia di taglio maschile, mentre passeggia con aria sbarazzina nella hall di uno degli alberghi più kitsch di Manhattan, masticando con gran gusto una chewing-gum. «In Occidente mi sento più libera perché non debbo portare il velo», spiega Shirin Ebadi attraverso un'interprete che traduce dal farsi. «Odio il copricapo che sono costretta ad indossare in Iran, per non essere frustata». Alla vigilia della sua imminente trasferta in Italia — dove il 7 giugno parteciperà alla Conferenza sulla pace, la solidarietà e l'integrazione razziale organizzata all'Hotel Royal di Sanremo dalla Provincia di Imperia — l'avvocatessa iraniana, attivista dei diritti umani e premio Nobel per la Pace nel 2003, si trova negli Stati Uniti per una serie di conferenze universitarie su temi quali «la relazione tra Islam e diritti civili» e «il ruolo delle donne nella democrazia».
«Anche nei campus americani molti ignorano che l'Iran ha dato il voto alle donne ben prima della Svizzera», spiega la Ebadi, ex presidente di una sezione del tribunale di Teheran, licenziata dopo la rivoluzione islamica nel 1979. «Duemila anni fa il mio Paese era governato da due regine: Boran e Azarmidokht. E anche in futuro saranno le donne a liberare l'Iran, guidandolo fuori dall'attuale medioevo, non i soldati americani. Quando iniziai ero sola; oggi il Paese è pieno di giovani donne più agguerrite e brave di me».
Ovunque vada, tutti le rivolgono la stessa domanda: potrà mai la religione islamica accettare l'eguaglianza tra i sessi? «La mia risposta è sì. L'Islam, come le altre religioni, si presta a interpretazioni diverse. Il concetto di eguaglianza — puntualizza — non è affatto negato dal Corano». Il che spiega come mai in Arabia Saudita le donne non possono neppure guidare l'auto, mentre in Paesi quali Bangladesh e Pakistan sono state presidenti e ministri. O perché la poligamia, praticata in Iran, sia bandita in Indonesia.
«Se una donna iraniana vuole viaggiare e lavorare, ha bisogno del permesso scritto del marito. Ironicamente ciò vale anche per Fatemeh Javadi, vice del presidente Mahmoud Ahmadinejad: una donna. Nei nostri tribunali la testimonianza di due donne corrisponde a quella di un solo uomo. Perché la nostra vita vale la metà rispetto alla loro». La Ebadi non si stanca di ripetere le «eresie» che — come testimonia nel libro Il mio Iran (Sperling & Kupfer, pp. 320, e
17) — nel 2000 la catapultarono sulla lista dei condannati a morte dal regime di Teheran. Ma, al contrario di tanti intellettuali fuggiti in Europa e America, lei ha deciso di restare. «Il dissidente è come un pesce nell'oceano — teorizza —. Se lo butti in un acquario, smette di nuotare e di riprodursi». Eppure non se la sente di criticare gli esuli: «Quando sei certo di essere giustiziato, spesso non ti resta altro che scappare». E se a lei il premio Nobel ha conferito una certa immunità, la strada è ancora tutta in salita.
«Quando mi scelsero per il Nobel, il governo aspettò 24 ore prima di annunciarlo. E lo fece in piena notte, al termine di un notiziario che nessuno guarda». In Iran la Ebadi continua a sentirsi «censurata al 100 per cento». «Per questo viaggio tanto. Voglio che il mio messaggio esca e si diffonda». Ai tempi del Nobel, l'allora presidente Khatami sminuì il premio come «un atto politico, privo d'importanza». Qualcuno parlò di «gelosia», giacché nel 2001 lo stesso Khatami era stato, senza successo, candidato al Nobel. «È un vero peccato, perché non sono mai stata una sua rivale. Sono un avvocato dei diritti umani e mai e per nessun motivo entrerò in politica». Perché?
«Preferisco giudicare il governo dall'esterno. Perché anche la democrazia più avanzata rischia di trasformarsi in dittatura, se non la si critica».
Ma un conto è attaccare i poteri dispotici, un altro è prendersela con la religione, come fa la scrittrice d'origine somala Ayaan Hirsi Ali. «Le sue tesi — spiega la Ebadi — sono pericolose, reazionarie e identiche a quelle delle dittature islamiche che dice di aborrire. La signorina Ali sostiene che, per qualsiasi azione intrapresa da governi non democratici in Iran e Arabia Saudita, la colpa ricade sull'Islam.
È la stessa identica tesi di quei regimi. Che si difendono dalle accuse di tirannia affermando di "limitarsi a seguire regole e precetti dell'Islam"».
Il suo timore è che il messaggio di Hirsi Ali possa fomentare l'odio antislamico, già molto in voga in Europa. «Io preferisco enfatizzare i tanti punti in comune tra Islam, giudaismo e Cristianesimo. Dobbiamo invitare la gente alla riconciliazione e alla concordia, non incitarla al conflitto e alla violenza». Anche il contrasto Iran-ebrei, a suo dire, è fittizio: «Sin dai tempi dell'imperatore Ciro il Grande, gli ebrei erano amati e benvenuti in Persia. L'antisemitismo non è nel nostro Dna».
In Iran, oggi, continua ad avere molti amici ebrei: «Certo, la rivoluzione islamica ha introdotto regole discriminatorie nei loro confronti. Ma ciò è vero per qualsiasi gruppo religioso non sciita. I più perseguitati oggi sono i baha'i». Nella lista nera del regime ci sono anche centinaia di intellettuali, scrittori, femministe e dissidenti che la Ebadi rappresenta da anni, completamente gratis.
Lo scorso aprile la scrittrice ha lanciato una provocatoria proposta al governo di Teheran: indire un referendum, sotto l'egida dell'Onu, per far decidere al popolo iraniano se perseguire il programma nucleare. «Ahmadinejad continua a dire che è il popolo a chiedere il nucleare e che il suo programma è a scopi pacifici. Il mondo non gli crede; quindi non gli resta che democratizzare il sistema politico. Perché solo quando i cittadini potranno supervisionare le azioni dei loro leader, che oggi decidono tutto clandestinamente, nascondendosi dietro porte chiuse, potremo dormire sonni tranquilli». Tra una battaglia e l'altra riesce a trovare un po' di tempo per scrivere? «La scrittura è il ristoro che mi alleggerisce le spalle appesantite dal mio lavoro di avvocato. Magari non dormo, ma trovo sempre la maniera di scrivere. Lo faccio soprattutto negli aeroporti, tra un volo e l'altro».
Il suo nuovo libro, in uscita l'anno prossimo, è dedicato alla diaspora iraniana. «La rivoluzione islamica — racconta — ha disperso il mio popolo attraverso il mondo. Secondo l'Unesco, l'Iran ha il più elevato tasso di fuga di cervelli rispetto a qualsiasi altro Paese del pianeta. La mia nuova opera esplorerà questo doloroso e inarrestabile fenomeno». Rimpianti? «Mi dispiace di non essere riuscita ad incontrare papa Wojtyla, candidato con me al Nobel, il primo che mi telefonò per congratularsi. Era già molto vecchio e malato e purtroppo non ce l'abbiamo fatta a conoscerci di persona».
il Riformista 5.6.07
FAUSTO 2 L'INCONTRO DI SABATO
Solo lui può ripensare la sinistra. E da Fagioli lo ha dimostrato
di Antonio Ghirelli
L'«analisi collettiva» che Fausto Bertinotti ha tenuto venerdì scorso con gli allievi di Massimo Fagioli all'Auditorium di Roma riscuotendo enorme successo, merita qualche riflessione per una serie di buone ragioni. La prima riguarda l'oratore: uno dei pochi dirigenti del movimento democratico che, al di là della sua collocazione nella "sinistra alternativa" e di un palese autocompiacimento, offre serie garanzie di cultura umanistica oltre che politica, di brillante intelligenza e di un'ansia di ricerca che è davvero poco diffusa nell'era del Partito democratico e di Forza Italia.
La seconda, e ancor più importante, ragione di interesse per ciò che dice e fa l'ex sindacalista lombardiano, chiama in causa il pauroso sbandamento di cui è preda non tanto il centrosinistra, che è una coalizione ancor più casuale e caotica della defunta Casa delle libertà, quanto la stessa costellazione della sinistra.
E accaduto, infatti, ciò che tanti di noi compreso il sottoscritto avevano previsto quando si è cominciato a concretare il progetto della trasformazione nel Pd dell'alleanza elettorale dell'Ulivo: l'ala più moderata degli ex popolari ha già cominciato nelle elezioni amministrative a trasferirsi all'ombra di Pezzotta, mentre quella più coerente dei Democratici di sinistra ha dato eloquenti segni di insoddisfazione, oscillando tra l'astensionismo e l'arruolamento nelle tre formazioni alternative: l'ex correntone, il Pdci e Rifondazione. Per giunta, la disfatta del nuovo partito nel Nord ha provocato la reazione allarmata di quei sindaci e governatori piantati in asso dall'elettorato, e quindi tentati di regionalizzare il Pd anche per reagire all'esclusione del comitato dei 45. Le liti e le gelosie tra i capi del Pd centrale, più la dispettosa rivolta di Bordon e pochi altri secessionisti, hanno completato un quadro che non è solo desolante ma anche allarmante perché rischia di moltiplicare, anziché ridurre, il numero dei partiti in concorso e quindi di accentuare la confusione e la inefficienza del governo.
In questo contesto è fin troppo facile pensare che soltanto Bertinotti potrebbe tentare l'unificazione o la federazione di partiti e di gruppi riluttanti all'assorbimento della sinistra in una formazione moderna, ma moderata e sostanzialmente di ispirazione cattolica, come il Pd che tra l'altro si trova a operare in una fase storica di strenua mobilitazione del Vaticano nel segno dell'ortodossia dottrinaria proprio (e quasi esclusivamente) nel nostro Paese. Ed è alla luce di questa situazione, mentre il mondo delle banche e delle imprese mostra modesti ma indiscutibili segni di ripresa, che la partecipazione del presidente della Camera alla "analisi politica" degli allievi di Fagioli e in particolare alcune sue esternazioni prendono risalto.
Lasciamo stare gli apprezzamenti autocritici su Sironi e su Céline che possono apparire anche un po' ingenui, ma già l'ammissione che la destra non è necessariamente «rozza e ignorante» e che una ricerca può essere «buona» indipendentemente da chi la conduce, è un passo avanti nel rifiuto del settarismo. Ancor più significativa è la condanna della violenza nonché dell'idea che «prima è la presa del potere e poi la sua trasformazione», talché la rivoluzione diventi per Bertinotti soprattutto «un processo di liberazione», in nome di una «rottura con il passato», ossia con il comunismo di obbedienza sovietica.
Ma nell'atto stesso in cui l'oratore dell'Auditorium prospetta queste sostanziali varianti al teorema della Terza Internazionale, egli tiene a sottolineare che «una sconfitta non segna per forza in modo negativo il valore di un'esperienza»: una proposizione discutibilissima dal momento che stiamo parlando di settant'anni di storia, di massacri e sofferenze inaudite per centinaia di milioni di esseri umani, una frase che ha in molti l'aria di rappresentare una concessione tattica a gran parte dei sostenitori della sinistra alternativa. Subito dopo, però, Beninotti ha parlato di «una sconfitta della storia grande e terribile del comunismo», sostenendo legittimamente che essa «non cancella il problema della necessità della liberazione dall'oppressione e dallo sfruttamento, tanto più nella fase attuale, dominata dalla globalizzazione, dalla mercificazione totale delle cose, ma anche degli uomini».
C'è dell'esagerazione in questa analisi, la quale esula la considerazione delle mirabili conquiste scientifiche, mediche e tecnologiche che la società postindustriale registra, delle memorabili riforme nel campo dei diritti individuali e sociali, della travolgente riscossa dei paesi già coloniali. Ma, nella sostanza, il problema delineato da Bertinotti trova tutti noi socialisti assolutamente concordi. Ciò che ci lascia perplessi, invece, è la contraddizione tra l'ammissione che bisogna prendere coscienza dell'impossibilità di vincere «senza ripensamenti e senza indagare in nuovi territori» (cioè senza una seria autocritica sul fallimento del comunismo) e la pretesa di imporre una sinistra "alternativa" alla socialdemocrazia, senza uno straccio di altrettanto seria strategia che non si riduca al movimentismo o alla difesa tetragona di un welfare ormai anacronistico (e, comunque, realizzato a suo tempo dai revisionisti e non dai bolscevichi). E allora? Dividerci in nome di un'alternativa immaginaria fa semplicemente il gioco delle multinazionali, delle grandi concentrazioni bancarie e della nostre ingorde corporazioni. È un suicidio.
il Riformista 5.6.07
FAUSTO 1. IL SUO SAGGIO SULL'EUROPA E LA SINISTRA
Chi sta al governo non può far opposizione L'ibrido di Bertinotti esclude il riformismo
di Rino Formica
Dobbiamo esser grati al presidente Bertinotti per aver risollevato il dibattito teorico a sinistra con il saggio L'Europa e la Sinistra. Il paradosso del vuoto e della necessità sulla nuova rivista da lui diretta. Rischiava, tutta la discussione, di annullarsi nel vuoto politico non dell'Europa (come afferma sin dal titolo il presidente della Camera forse dimentico che quel vuoto è stato recentemente occupato dalla destra sarkoziana) ma nel vuoto della discussione sul nuovo Partito democratico che si sta spegnendo nell'elaborazione dei regolamenti e procedure elettorali ai quali viene meccanicisticamente affidata la scelta del leader.
Tornando al contributo dell'onorevole Bertinotti, non può sfuggire la portata e l'ammirazione della fatica, vale a dire lo sforzo di definire i nuovi confini della sinistra (dopo la fusione ulivista), affermare le ragioni politiche e storiche dell'identità della sinistra, della maturità di un progetto unitario del complesso della sinistra, dove per "complesso" non si intende l'aggregazione quantitativa di forze, esperienze e soggetti che si muovono in questo campo, ma un'area che va politicamente organizzata e che comprende la sinistra operaia e sindacale (quella legata alla centralità della fabbrica e della figura del lavoratore, centralità negata dal nuovo capitalismo che invece vuole relegare il soggetto lavoratore nella frammentazione sociale e politica) e poi, i movimenti sociali, i movimenti delle vecchie e delle nuove radicalità, gli eretici di ogni stagione, e giù sino ai soggetti, alle nuove marginalità e alienazioni, alle nuove sofferenze sociali e individuali.
Vasto programma, unificare politicamente le forze già organizzate nelle forme politiche tradizionali con la sinistra eretica e movimentista, con il soggetto alienato. Da Gramsci a Marcuse, insomma. Il contesto in cui il progetto bertinottiano si muove è segnato dal trionfo e dal dilagare del nuovo capitalismo vorace come sempre di tempo di lavoro e di non lavoro, il cui paradigma scientifico e tecnologico «sposta la soglia dello sfruttamento alla mente stessa dell'uomo», per usare le parole di Bertinotti. Ma non l'avevamo anche capito dai Gründrisse di Marx?
Cosa può opporre la sinistra a questo progetto totalizzante? Al dilagare del "vuoto politico" riempito soltanto dal neoegemonismo del capitale che sradica la classe operaia dal luogo storico della fabbrica per ricacciarla nella dimensione individuale, nel mondo alienato della società dei consumi?
La sinistra (ovvero l'ibrido bertinottiano di Partito-chiesa più movimenti ereticali) non può opporre certamente le esperienze delle socialdemocrazie, né dei socialismi italiano ed europeo degradati a «culture liberalsociali», cornpromesse con il neoliberismo responsabile di questo sconquasso politico e sociale. Non può riproporre il compromesso socialdemocratico che dal dopoguerra a oggi ha rappresentato (secondo il nostro modesto giudizio) una stagione di conquiste economiche e civili ma che, secondo il presidente della Camera, ha rappresentato la condizione dell'invadenza capitalistica. La massima concessione che Bertinotti può concedere all'attualità del socialismo è quella di separare il proprio corso dai socialisti.
Allora, se dobbiamo tralasciare socialismi e riformismi, socialdemocrazie e compromessi socialdemocratici, se dobbiamo lasciare nell'armadio quarant'anni di storia del movimento operaio italiano ed europeo, qual è lo strumento in grado di «collocare l'iniziativa in una società attraversata, oltre che da movimenti di cambiamento, da divisioni e frantumazioni di ogni sorta, da solitudini e scoppi di violenza, da individualismi e egoismi tribali»? Bertinotti ha la risposta: un nuovo soggetto della sinistra.
Chiediamo a Bertinotti una precisazione: sarebbe un nuovo soggetto iscritto nel solco del socialismo europeo, che si richiama a quella tradizione? No, ribadirebbe Bertinotti, è un nuovo soggetto della sinistra e basta. Ma alla nettezza della risposta non corrisponde altrettanta chiarezza di profilo per la sinistra immaginata e desiderata. E un composto formato da tanti pezzi non tutti componibili e compatibili. Troviamo la sinistra elitaria di provenienza azionista (quella che le masse un giorno capiranno), la sinistra operaista e sindacalista, la sinistra libertaria, i movimenti forgiati nelle lotte del Sessantotto nutriti dall'ideologia del comunismo rivoluzionario e i nuovi movimenti che a quell'esperienza si sono ispirati e che a quell'ideologia si sentono estranei.
È questo il nuovo soggetto della sinistra? La sinistra che deve opporsi alla destra larga di Sarkozy in Francia e dei Sarkozy sparsi in tutta Europa? E praticabile l'unificazione delle forme ereticali nate dalla crisi del comunismo e del massimalismo? E possibile riannodare tali forme attorno al Partito di classe, a quel che resta del partito togliattiano berlingueriano? Ne dubitiamo.
Piuttosto che la riunificazione del variegato mondo ereticale della sinistra attorno al suo nucleo di ortodossia (altro esperimento estremo del presidente Bertinotti!), a noi sembra più realistico pensare a un soggetto di sinistra che si riconosca nell'orizzonte e nella cultura dell'idealità di emancipazione e di progresso, che è propria del socialismo, e nello stesso tempo sappia rinnovarsi e proporsi si come forza di governo di alternativa democratica e riformista alla destra.
Questa sinistra l'abbiamo chiamata del socialismo largo, che attragga non il caleidoscopio delle radicalità. degli elitarismi e delle eresie del comunismo, ma costruisca un soggetto che includa forze organizzate in un progetto di avanzamento della condizione umana e civile e che incardini questo progetto nelle condizioni dell'oggi, un progetto che riconosca sì le contraddizioni della modernità ma che sappia indicare le strade per la loro risoluzione in un rapporto con le altre forze di sinistra e del centro democratico. Un progetto di governo per un paese moderno come il nostro, per oggi e non per un lontano futuro.
Quello che Bertinotti non spiega è il procedimento attraverso il quale il movimentismo che per sua natura e costituzione è a vocazione antigovernativa, strutturalmente all'opposizione, anticipatrice e valorizzatrice delle contraddizioni presenti e potenziali ma non attrezzato e interessato a ricercare le soluzioni pratiche, diventa compatibile con la cultura di governo. Non si chiede di trasformare le culture antagoniste in cultura di governo ma quanto meno di essere il pungolo di una cultura di governo.
Vorremmo dire al presidente Bertinotti che chi governa non può essere allo stesso tempo opposizione. Tra l'altro la cultura di "governo" che anima il partito di cui Bertinotti è insostituibile esponente non prevede la parlamentarizzazione delle radicalità diffuse e organizzate nella società (linea che fu ad esempio del vecchio Pci), ma intende coltivarle nella loro caratteristica "naturale" di opposizione permanente al sistema, nella loro vocazione radicale e rappresentarle nella loro contrapposizione sistemica. A meno che Bertinotti non dica che l'odierna collocazione governativa della sinistra antagonista è un incidente della storia, buono solo per dimostrare al contrario quanto sia dannoso per questa parte della sinistra intrattenere rapporti con le culture riformiste, dal momento che la condizione della governabilità di per sé mortifica e impoverisce la potenza liberatrice dei movimenti.
Senza dare lezioni ad alcuno, né tanto meno al presidente Bertinotti, ricordiamo che per chi voglia porsi sul terreno della sinistra del socialismo europeo, la democrazia dell'alternativa non può intendersi come incidente della storia, perché questa è precisamente la storia del socialismo europeo.
LETTERA APERTA AL MONDO DELLA CULTURA E DELLO SPETTACOLO: ABOLIAMO L’ERGASTOLO
“L’ergastolo è una pena che rende il nostro futuro uguale al passato, un passato che schiaccia il presente e toglie speranza al futuro. È una morte bevuta a sorsi. È una vittoria sulla morte perché è più forte della morte”.
Scrivono così oltre trecento persone condannate all’ergastolo e detenute nelle carceri italiane e si rivolgono al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed alla senatrice del PRC-SE Maria Luisa Boccia, prima firmataria del disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo.
È un messaggio forte (“siamo stanchi di morire un pochino tutti i giorni. Abbiamo deciso di morire una volta sola, le chiediamo che la nostra pena sia tramutata in pena di morte”), un grido di fronte al quale non si può girare la testa e far finta di nonsentire.
La questione dell’abolizione dell’ergastolo, una pena che esclude per il condannato la prospettiva di una nuova vita, è questione da sempre al centro delle battaglie progressiste, è un obiettivo irrinunciabile di civiltà giuridica, è il cardine di quel “diritto penale minimo e mite” che solo può invertire la spirale perversa che continuamente si crea tra le urla scomposte del giustizialismo, l’emarginazione di intere fasce sociali, la negazione dei diritti e della speranza.
Per questa ragione l’Associazione Antigone, la Sinistra Europea e il Partito della Rifondazione Comunista hanno organizzato un pubblico convegno il 18 giugno sull’argomento (Roma, ex Hotel Bologna, ore 17) e lanciano un appello al mondo della cultura e dello spettacolo perché possa veicolare questo grido di dolore e di sollecitazione che viene dalle carceri e spingere le forze parlamentari ad una scelta coraggiosa, opportuna e civile. Per aderire: associazione.antigone@tin.it; gennaro.santoro@rifondazione.it
Prime adesioni
Giorgio Arlorio, Ascanio Celestini, Simonetta Cossu, Sandro Curzi, Erri De Luca, Leo Gullotta, Wilma Labate, Carlo Lizzani, Citto Maselli, Mario Monicelli, Piero Sansonetti, Pasquale Scimeca, Daniele Vicari.
il manifesto 5.6.07
Le due piazze di Rifondazione
Il 9 giugno «no Bush» a Roma mette in difficoltà il partito.
Che promuove ufficialmente il sit-in di piazza del Popolo. Ma molti «simpatizzanti», a partire da Action, saranno al corteo antagonista
di Alessandro Braga
Roma. Rifondazione comunista starà con il piede in due scarpe. Ovvero, con i suoi militanti divisi in due piazze. Gestire politicamente la questione non sarà per niente facile.
Sabato a Roma arriverà George W. Bush e la piazza, come in qualunque luogo del mondo dove metta piede il presidente statunitense, si prepara ad accoglierlo con contestazioni. A Roma, le piazze saranno addirittura due: una stanziale, piazza del Popolo, dove la sinistra di governo assieme a Arci, Fiom e altre associazioni pacifiste ha organizzato una giornata di canti, balli e dibattiti per «suonarle e cantarle» a Bush; l'altra, in movimento, è quella della sinistra radicale non di governo, che attraverserà in corteo la città e, oltre a Bush, contesterà anche il governo italiano.
Non sarà una giornata di mobilitazione in cui ci saranno da una parte i «buoni» e dall'altra i «cattivi». Anche perché al corteo parteciperanno tante persone che sono elettori di quei partiti che se ne staranno a piazza del Popolo. Semplicemente, spiegano gli organizzatori del No Bush No War Day, quelli del corteo insomma, «ci saranno due manifestazioni perché agisce una contraddizione tra due piattaforme diverse tra loro rispetto alla visita di Bush, al ruolo degli Stati Uniti e alle responsabilità del governo italiano nella guerra permanente».
Fino alla fine, del resto, molti tra i partecipanti al corteo hanno cercato di dialogare con la piazza del Prc. Non certo i Cobas o il Partito comunista dei lavoratori, per cui la deriva governista di Rifondazione è inaccettabile da sempre ma, ad esempio, il Network delle comunità in movimento, che raggruppa tra gli altri Action, il centro sociale milanese Leoncavallo e addirittura i Giovani Comunisti, associazione giovanile dello stesso Prc.
Nunzio D'Erme ha dichiarato che «per il movimento è inaccettabile rinchiudersi in una piazza. Ma in quella piazza ci saranno tanti bravi compagni con cui vogliamo dialogare da subito». Resta il fatto, sottolineano però quelli del Network, «che di fronte alla venuta di un criminale di guerra rispondere con un concerto è inefficace. Come è improprio tacere le responsabilità del governo, soprattutto dopo che Prodi ha rivendicato la decisione di portare a termine il progetto Dal Molin».
Come per la manifestazione contro l'ampliamento della base americana di Vicenza, la patata bollente resta in mano a Rifondazione comunista. Allora, il problema era se «Vicenza valesse un governo». Ora, se è sufficiente un concerto, con contorno di dibattiti, per manifestare la propria contrarietà al presidente americano in visita in Italia.
Per il gruppo dirigente di Rifondazione pare proprio di sì. Michele De Palma, della segreteria nazionale, ha spiegato che «la manifestazione a cui aderirà il Prc sarà diversa da quella organizzata dai gruppi dell'estrema sinistra non di governo». Un piede qua e uno là insomma, un occhio alla piazza e uno agli alleati di governo. Che questo basti ai militanti della base non è così sicuro. Almeno a giudicare dalle adesioni al corteo di pezzi del Prc: da alcuni deputati a consiglieri comunali di tutta Italia, fino a semplici militanti, saranno molti i rifondaroli che marceranno contro Bush. Tutta l'area di Sinistra Critica sarà al corteo e non a piazza del Popolo. Di più, i Giovani comunisti fanno parte del Network delle comunità in movimento, tra i promotori del corteo. E il Network guarda alla Sinistra europea come cantiere praticabile per l'unità dei movimenti. Se ciò non avvenisse, dicono, «Sinistra europea rischierebbe di nascere già morta per via di un processo che coinvolge i partiti politici istituzionali, ma che bypassa il dibattito politico vero». Il rischio per Rifondazione non è solo quello di perdere contatti con il movimento, ma con i suoi stessi militanti e elettori.
Le ultime elezioni amministrative hanno già dato un segnale in questo senso: il Prc ha pagato con un sensibile calo di consensi il suo primo anno di governo. Un'ulteriore ambiguità potrebbe aumentare il numero di quegli elettori che si ritroverebbero costretti, non sentendosi più rappresentati, a scegliere alle prossime tornate elettorali la via dell'astensione.
il manifesto 5.6.07
Ora di religione. Appello al premier: sconfessi Fioroni
di Francesca Longo
Un'ulteriore novità per i ragazzi che quest'anno affronteranno l'esame di maturità: se non sei stato esonerato dall'ora di religione cattolica ci sono crediti in più. L'iniziativa ha fatto mostra di sé mesi fa in una ordinanza ministeriale ed è finita sul tavolo del Tar del Lazio dietro segnalazione della Consulta romana per la laicità delle istituzioni (cui molte associazioni, chiese protestanti, unione delle comunità ebraiche ecc. hanno aderito). Al ministro Fioroni arriva la notizia che il Tar ha accolto l'istanza di sospensione dell'ordinanza ministeriale, sebbene solo con un provvedimento cautelare, e si rivolge al Consiglio di stato. E il Presidente della sesta sezione del Consiglio di stato annulla provvisoriamente (però sino al giorno successivo agli scrutini) l'ordinanza cautelare del Tar: pertanto, almeno per quest'anno, un buon voto in religione (cattolica) è d'aiuto per risollevare le medie. Grazia divina, evidentemente.
Scrive il Tar: «Sul piano didattico, l'insegnamento della religione non può a nessun titolo concorrere alla formazione del credito scolastico per gli esami di maturità, che darebbe postumamente luogo ad una disparità di trattamento con gli studenti che non seguono né l'insegnamento religioso e né usufruiscono di attività sostitutive». Scrive la Consulta per la laicità: «Nell'attuale situazione gli scrutini si svolgeranno secondo la volontà del ministro, ma il successivo pronunciamento nel merito del Tar Lazio, che deve ancora avvenire, con molta probabilità ne porrà in dubbio l'esito annullando la parte impugnata dell'ordinanza ministeriale. Si verificherebbe così una situazione di incertezza giuridica sul corso e sugli esiti degli esami di stato, la cui responsabilità non potrà che ricadere sul governo. Chiediamo a Romano Prodi di adoperarsi in tempi rapidissimi affinché impedisca questo grave scempio della laicità della scuola pubblica e vengano ristabiliti lo status quo ante, la legalità e la certezza del diritto, dal momento che il governo può annullare in sede di autotutela le contestate e discriminatorie innovazioni apportate dall' ordinanza ministeriale 26/2007». I tempi devono essere davvero rapidi: gli scrutini si terranno la prossima settimana. E al premier si rivolge anche la Rete degli studenti, che parla di «scandalose ambiguità createsi a ridosso degli impegni di fine anno che danneggiano solo e unicamente gli studenti nel proprio diritto di essere valutati indipendentemente dalla scelta o meno di una materia facoltativa». La Rete attiverà uno sportello on line «per reclami e ricorsi degli studenti che si trovino discriminati».
Repubblica 5.6.07
Cercasi guida disperatamente
Perché la sinistra ha smarrito il carisma
Un paese che appare senza un vero ricambio politico e generazionale
La crisi di identità è maturata dentro scelte politiche poco coraggiose
di Francesco Merlo
In Italia abbiamo capi e padroni, abbiamo "imperium" ma non abbiamo leadership, abbiamo bulli e abbiamo comandanti, abbiamo "dux" ma non abbiamo leader. E infatti abbiamo avuto Mussolini ma non Churchill; non abbiamo avuto De Gaulle e Mitterrand ma Togliatti e De Gasperi, che traevano la loro grande forza dalle potenze estere, erano gli autorevoli rappresentanti consolari delle due metà del mondo, erano insomma leader per conto d´altri, leader senza leadership. Alla fine, molto raramente abbiamo avuto un´autonoma leadership e dunque veri leader nazionali, che sono infatti significati non tradotti e non traducibili nella nostra pur bella e ricca lingua, benché siano essenziali alla democrazia prima ancora che al nascente Partito democratico.
Supremazia, egemonia, guida dei propri uomini, controllo del Parlamento, autorevole e non autoritaria influenza politica, dirigenza e direzione: leadership è parola inglese che rimanda al mare perché viene da leader, da to lead, che vuol dire condurre, e da ship che è la nave, ma è anche è il suffisso che nella lingua inglese dà qualità all´astrazione, come in scholarship e in citizenship, e deriva dal germanico skop e quindi skip e appunto ship, nave, che in antico tedesco si dice schif, in greco skaphos e schyphos e in latino scapha ed è sempre lo stesso campo semantico, quello del bastimento e dell´imbarcarsi perché la leadership nella civiltà anglosassone viene battezzata sul mare, nel confronto con l´oceano, con quel "sea power" che è motore della storia.
Senza volere qui rifare la storia dell´influenza del "sea power" nell´evoluzione dell´umanità ci basta ricordare che la seconda guerra mondiale è stata vinta dai navalisti e persa dai continentalisti, e che l´Italia è lontana dall´etimo stesso della leadership, perché, pur essendo una penisola, una quasi isola, la sua non è storia di navi, di flotte, di controllo delle acque, di ufficiali di marina che avevano un´educazione da statisti, di marinai che diventavano leader perché si misuravano con la forza degli oceani, di portaerei che erano un modo di accorciare le distanze e controllare il mondo. E infatti ancora oggi la formazione della nostra classe dirigente è lontana dagli orizzonti internazionali, non c´è nessun leader italiano che si qualifichi attraverso strategie mondiali, dal nuovo ruolo della Cina e dell´India alla forza dell´Islam… Difficilmente la leadership italiana si affaccia al mondo. Campioni di fantasia e di inventiva abbiano avuto il ministro della Devoluzione e quello dei Rapporti con il Parlamento, quello per gli Italiani nel mondo e quello per gli Affari regionali, e abbiano persino il ministero per l´Attuazione del programma di governo che è una sorta di ministero della Supercazzola con scappellamento a destra o a sinistra, ma abbiamo, senza nulla togliere alle qualità di Massimo D´Alema, per tradizione, un politica estera approssimativa e abborracciata, con gli avanzi di cucina delle politica interna, idea arcitaliana appunto, radicatissima nella nostra storia, con alleanze mai sicure, trattati mai definitivi, con il nemico che è anche amico e viceversa.
Come si forma la leadership in Italia? Ebbene, non c´è nulla di più lontano dalla idea occidentale della leadership. Le ambizioni infatti si muovono nell´ombra, malcelate sotto cumuli di ipocrisia, non c´è nessuno che osi dire «io voglio fare il presidente del consiglio, o della repubblica o il segretario del partito democratico», come ha fatto per esempio per esempio Sarkozy che già tre anni fa conquistava l´Ump, il partito dell´ostile Chirac, e intanto confessava di pensare all´Eliseo «tutte le mattine mentre mi faccio la barba». In Italia invece tutti hanno paura di bruciarsi e di esporsi, Veltroni non osa sfidare D´Alema, la Finocchiaro si finge umile, Rutelli lavora nell´oscurità, nessuno si fida di nessuno, si inventano candidati civetta e finte primarie con il vincitore bloccato, si punta su qualcuno solo per farlo impallinare, non c´è nulla di pulito, di chiaro, di laico, e alla fine la scelta del leader, quale che sia la carica da ricoprire, sarà il frutto di negoziati estenuanti, di compromessi al ribasso e mai di una forte competizione a viso aperto. La scelta viene via via depotenziata politicamente e umanamente. Quasi sempre il prescelto è un politico di basso profilo, possibilmente già vecchio, meglio se un po´ acciaccato, si spera che sia un utile brav´uomo, il quale ovviamente alla prima prova difficile, alla prima sconfitta amministrativa per esempio, o si rifugia nella retorica o si esprime in una rabbia inconsulta minacciando di dimettersi. Ricordate come Tony Blair seppe prendere su di sé l´impopolarità della guerra in Iraq e riuscì a vincere per la terza volta le elezioni politiche?
Invece il leader italiano somiglia al titano Enceslao che scala l´Olimpo e crede di essere diventato un dio. Giove afferra quell´omuncolo e lo scaglia sulla terra mettendogli sullo stomaco un´immensa montagna, l´Etna. E il tapino sta lì, costretto a fare il morto, a trattenere il respiro... Solo quando non ne può più tossisce e si agita, si scuote, si gratta, starnutisce. E allora apriti cielo, la terra trema, le bocche del vulcano sputano fuoco e pietre, il cielo si oscura.
Né va meglio nella cosiddetta società civile, all´università per esempio, che, unico paese occidentale, l´Italia considera il serbatoio fintamente tecnico della politica. E´ tipico di un Paese arretrato trarre i suoi quadri dirigenti dall´università. La leadership nei paesi occidentali si forma nella scuole di alta amministrazione, oppure nell´alta politica o ancora nelle professioni. La classe dirigente italiana, invece, o viene dalla burocrazia dei partiti, o è una specie di università allargata con tutte le miserie della gestione del potere universitario spavaldamente praticate in nome della cultura. All´università il clientelismo si chiama cooptazione, la mafia si chiama scuola o baronia, la gerontocrazia si chiama scienza, il traffico delle cattedre si chiama concorso. Ma la sostanza è che la leadership universitaria è autoreferenziale, immutabile, cerimoniale, fondata sul culto del vecchio, sulla ossificazione delle idee, sulla mummificazione della cultura e dunque anche della politica.
E dovrebbe essere superfluo spiegare che il leader guida e il padrone comanda e che nella cultura della leadership, scriveva Comte, «ogni partecipazione al comando è degradante». Non ci sorprende dunque che i governi italiani, quelli di sinistra come quelli di destra, siano in perenne crisi di consenso, si dissipino in un gorgoglio di comandi, un flottare di ordini, perché appunto la mancanza di leadership ordina e riordina e preordina e postordina e sputacchia disordinatamente discorsi e sentenze, encicliche e omelie, ordini di servizio e servizi d´ordine, ma non governa, non guida, non dirige, non traccia la rotta di un Paese che rimane «nave senza nocchiero in gran tempesta». La leadership italiana sembra l´epifania postcoitale perché, come si sa, nel nostro Paese, «cumannari è megghiu di futtiri».
Repubblica 5.6.07
Quando erano i partiti che dettavano la linea
Fintantoché la sfera del confronto politico era saturata dall’opposizione fra Dc e Pci, non c’era spazio per decisioni personalistiche
di Edmondo Berselli
Nel clima del dopoguerra, dominato dalle grandi visioni ideologiche e dalle contrapposizioni "di civiltà", la leadership politica era una funzione sfuggente. Il 1945 aveva segnato il crollo dei totalitarismi nell´Europa occidentale, mentre l´Unione Sovietica centrata sulla dittatura di Stalin era circondata dall´alone della vittoria contro il nazismo. Così, le figure di spicco nei partiti che si riaffacciavano alla democrazia rappresentavano la sintesi di pensieri forti e anzi di storie che avevano percorso il Novecento.
Più che dalla figura del leader, la scena era occupata dal partito: il Pci doveva essere il moderno Principe, secondo la lezione di Gramsci, teso a conquistare un primato egemonico; mentre la Dc si riproponeva come partito-società, capace di aderire a tutte le pieghe della collettività. Fra i ritratti nelle Case del popolo o all´ombra dei campanili, il partito di massa, appariva in grado di esprimere, attraverso la sua organizzazione capillare, un´intelligenza collettiva.
Certo, la leadership esisteva: ma era una polarità individuale che si irradiava sulla struttura politica, che a sua volta la rafforzava. Alcide De Gasperi incarnava la dottrina sociale della chiesa, un cattolicesimo liberale che faceva i conti con il popolarismo delle origini, il viaggio dentro il fascismo e lo sforzo strenuo di rilanciare il paese dopo la tragedia della guerra.
A sua volta, Palmiro Togliatti, "il Migliore", riassumeva in se stesso un´avventura rivoluzionaria che recava dentro di sé una carriera come esponente dell´internazionalismo, la lotta antifascista che in cui si era distinto come "Ercoli", il capo comunista clandestino, l´uomo dell´Hotel Lux, l´ufficiale di campo del socialismo sovietico. In Italia, era il leader assoluto che tuttavia esplicava il suo ruolo all´interno della procedura del Pci, scritta sulle regole del centralismo democratico. Mentre De Gasperi appariva semmai come un "primus inter pares", soggetto ben presto alle manovre e ai veti dell´organizzazione dc, Togliatti era il capo indiscusso di un´istituzione perfetta.
L´organizzazione comunista era riuscita a intimorire e infine a subordinare il Partito socialista di Pietro Nenni, che soltanto con la transizione al centrosinistra e all´accordo con la Dc avrebbe ritrovato il sentiero dell´autonomia politica; ma soprattutto dava l´idea di una macchina autoriferita quanto infallibile, in grado di collocare al proprio interno ogni protagonismo e ogni personalità, dall´ortodossia pragmatica e riformista di Amendola al "lavoro di massa" in chiave prerivoluzionaria di Ingrao.
Non si usava nemmeno, la parola leader: nelle file dc si cominciò a parlare dei "cavalli di razza" quando apparvero protagonisti come Amintore Fanfani e Aldo Moro. Ma se Moro impersonava effettivamente una leadership culturale, per la sua capacità di pensare all´evoluzione integrale del sistema politico, con uno sguardo al possibile perfezionamento del "bipartitismo imperfetto", a Fanfani invece si imputava un piglio semi-gollista, una più visibile propensione al comando che si scontrava facilmente con l´inclinazione "dorotea" del corpo del partito e alla sua diffidenza per le concentrazioni di potere.
Lo spirito democristiano infatti si rivelava più compiutamente nelle personalità politicamente duttili di Mariano Rumor e di Flaminio Piccoli, e fuori dall´area del doroteismo nel pragmatismo assoluto di Giulio Andreotti, per il quale le categorie politiche sono sempre risultate astrazioni (non è un caso che proprio il pratico Andreotti fosse chiamato a gestire il governo di solidarietà nazionale con i comunisti). Per qualche aspetto invece il calore della leadership era più sentito a sinistra, proprio perché era l´integrale struttura del partito a convergere nella figura del segretario: processo simbolico e funzionale a cui va aggiunto il fascino popolare di un capo come Enrico Berlinguer, le cui caratteristiche personali eccedevano i confini politici del Pci, qualificandolo come un possibile simbolo nazionale.
Ma fintanto che la sfera del confronto politico era saturata dalla contrapposizione fra Dc e Pci, non c´era spazio per l´emergere di figure in grado di plasmare la politica su un profilo personale. Anzi, per diversi anni uno dei leader più visibili fu una personalità laterale alla politica, il capo della Cgil Luciano Lama. Perché il tema della leadership divenisse istanza politica rilevante, fu necessario l´emergere di una posizione eccentrica, rappresentata negli anni Ottanta da Bettino Craxi: «capo del governo e insieme dell´opposizione», come lo descrisse Adriano Sofri, portatore di un´ipotesi mitterrandiana di alternativa alla Dc che prevedeva la sostanziale subordinazione dei comunisti, intorno al quale nacquero le prime teorizzazioni sul capo carismatico e sul "decisionismo".
Dovevano cioè rompersi quegli equilibri, come scrisse su MicroMega uno dei primi ideologi dell´onda lunga socialista, Giuliano Ferrara, fondati su «un´egemonia democristiana da null´altro corretta se non da un potere di veto comunista». La crisi dei partiti storici invitava a recuperare le categorie schmittiane della decisione e la configurazione weberiana del leader. Intorno all´immagine di Craxi si sono giocate le prime sperimentazioni leaderistiche della politica italiana. Che naturalmente sarebbero diventate utili con il tracollo della "Repubblica dei partiti", allorché si affermò lo schema dell´alternanza.
Che cosa c´è infatti dopo i partiti, se non la concentrazione del potere nel leader, alimentata dalla vertigine massmediatica? Quando le forze politiche tradizionali si disintegrano come la Dc e il Psi dopo Tangentopoli, o affrontano metamorfosi infinite come il Pci a partire dal 1989, viene il momento della contrapposizione giocata tra immagini pubbliche, in cui la "personalizzazione" della politica tende a superare il vecchio elemento ideologico o il suo residuo.
Non c´è soltanto la "scesa in campo" di Silvio Berlusconi, il re televisivo: con le nuove regole elettorali anche nel territorio, ossia nei comuni e nelle altre unità amministrative, la personalizzazione e quindi il "fattore" della leadership si diffonde in tutto il sistema politico. Plasma l´azione pubblica, ma anche l´organizzazione degli staff e delle coalizioni; diventa un totem su cui si misurano carriere e scelte programmatiche, su cui si allestiscono strumenti di selezione come le primarie. E alla fine, scontata la maggiore facilità rispetto alla sinistra con cui la destra può affidarsi al leader, potrebbe anche lasciare il campo a una sindrome nuova, in cui il comando, il ruolo da conquistare, si infittisce di mediazioni e tatticismi, e alla fine potrebbe istituire l´ultima variante, segnata da un´assenza, da uno spazio vuoto: il fantasma della leadership senza leader.
Repubblica 5.6.07
Il modello populista e le democrazie europee
di Antonio Gnoli
«In una democrazia di massa il concetto di "leadership" può variare di importanza a seconda del ruolo che vi svolgono i partiti», dice Yves Mény, politologo francese, Presidente dell´Istituto Universitario internazionale di Firenze, autore fra l´altro di un apprezzato saggio sui temi del populismo.
«Nell´Europa democratica del ventesimo secolo, per esempio, il leader non era scelto dall´elettorato, ma era l´espressione di un apparato. Per arrivare a ricoprire la posizione di vertice occorreva un cammino lungo e spesso lento, e soprattutto soggiacere alle regole del partito. Solo in rare occasioni il leader entrava in contatto con le masse. Le quali a loro volta si riconoscevano più nei simboli del partito che nei discorsi del capo. Negli Stati Uniti, dove i partiti sono soprattutto macchine elettorali, la leadership come riconoscimento popolare di una guida individuale si è affermata con più facilità. Nel modello americano, una campagna elettorale si fa più sul carattere della persona che sul programma.
La situazione di questi ultimi anni, segnata dall´indebolimento delle ideologie, ha spinto l´Europa verso un´americanizzazione della politica. I partiti – si pensi anche al caso italiano – non sono più concepiti principalmente come risorse simboliche e sempre meno mediano tra le istituzioni e il popolo. È in questo clima che può nascere o rafforzarsi la leadership individuale. Essa implica un insieme di qualità personali che dopo Max Weber si è presa l´abitudine di chiamare carismatiche.
Non è detto che il carisma corrisponda sempre a qualità reali di chi lo esercita. In una società mediatica, il politico che oggi vuole il consenso tenderà a non scontentare l´elettorato. Sempre più spesso il discorso del leader è gestito e calibrato quotidianamente sulla base delle reazioni ai sondaggi e delle analisi sull´opinione pubblica. Non è un caso che la recente campagna elettorale di Sarkozy sia stata caratterizzata dalle tematiche legate all´identità razziale e a una forte critica del Sessantotto, due motivi graditi alla maggioranza dei francesi. È chiaro dunque che la leadership oggi, più che in passato, si riconosce nei caratteri di una persona che riflette le aspettative dell´opinione pubblica. Essa ha più possibilità di imporsi, se nasce da una crisi della politica. Nei momenti di rottura – una guerra, una svolta radicale, il crollo di un sistema – il leader può emergere in tutta la sua forza. È a questa altezza che si colloca l´esperienza populista. La leadership populista si autoistituisce, piegando le regole e le strutture alle esigenze e ai bisogni del capo del movimento. Ma la sua durata è limitata nel tempo, ha vita breve a meno di non riuscire ad assestarsi istituzionalmente».
Repubblica 5.6.07
Fenomenologia del leader carismatico
L’occidente in crisi sedotto dal capo
di Carlo Galli
Definizione. Il leader non crea la storia ma sa leggere la crisi in atto e catalizza le energie sociali mettendole in moto verso una direzione possibile
Se il mondo antico interpretava spesso la politica come l´azione di un nocchiero che guida la nave della città, l´età moderna ha privilegiato, da parte "borghese", la centralità dei cittadini e l´impersonalità universale del comando dello Stato; mentre a sinistra si è creduto che la storia si muova in virtù di grandi forze oggettive e necessarie, che l´agire politico abbia come soggetti le masse, e che la dirigenza politica debba solo interpretare correttamente i segni dei tempi. Queste convinzioni hanno fatto sì che rispetto ai democratici e ai socialisti la destra – col suo culto del capo come l´eroe che ci lascia solo il compito di credere, obbedire, combattere per un destino che egli ci addita – sia stata più propensa a porre la leadership al centro della riflessione politica.
Ma la scienza politica fra Otto e Novecento ha scoperto, con i teorici delle élites (Mosca, Pareto, Michels) e con Max Weber, la leadership, plurale e singolare. Agli individui e alle masse si sono così aggiunti, come protagonisti della politica, oligarchie e capi. In particolare, Weber ha individuato fra i tipi di potere legittimo, oltre a quello tradizionale e a quello legale, anche quello carismatico: il potere personale innovatore, rivoluzionario, che deriva a un capo dal possedere uno straordinario dono di grazia (il carisma), e dal venire obbedito per questo. E la storia del XX secolo ha conosciuto grandi figure di leader; nefasti, come Hitler, Stalin, Mussolini, ma anche capi democratici come Roosevelt, liberali come Churchill, nazionalisti come De Gaulle. E se non il carisma in senso rivoluzionario, una evidente credibilità personale - determinata dalla coerenza degli intenti e dalle sofferenze patite - ha contrassegnato anche la leadership di De Gasperi, Togliatti, Nenni e Saragat.
Da queste figure, pur così diverse tra loro, emerge che il leader è la personalità che, con un gesto innovatore, sa smarcarsi dalle élites, e che opera nella sua persona una sintesi politica concreta tra l´emergenza puntuale del momento storico e un più vasto orizzonte che egli scopre e addita - e così fornisce alla esperienza comune se non ‘il´senso, almeno uno dei sensi possibili - . Il leader insomma sa dire Io con tanta forza da provocare il formarsi non episodico di un Noi, e persegue la propria visione personale rendendola condivisibile da molti.
Ma il leader non crea la storia; piuttosto, egli sa leggere le crisi in atto e catalizza le energie sociali, mettendole in moto verso una direzione possibile. E´ un trascinatore egli stesso coinvolto nel processo a cui dà impulso. E´ tanto autore del proprio tempo quanto prodotto dal tempo. E´ un visionario pratico, che coniuga l´etica della convinzione con quella della responsabilità. Ha bisogno della collettività, come questa di lui. Questa miscela di interpretazione personale e di movimento collettivo si manifesta di solito nei momenti di emergenza, nelle guerre, nelle rivoluzioni, nei processi di formazione di imperi e Stati; ma anche le ricostruzioni, le uscite dalle crisi, sono opera di grandi leader (Roosevelt e De Gasperi, tra gli altri).
Il rapporto del leader col proprio tempo non è però garantito: ci sono leader solo potenziali, fuori del proprio tempo, anacronicisti, e quindi senza efficacia; e tempi che conoscono crisi e difficoltà ma non hanno leader che indichino la via. Tempi cioè - e sono i nostri - in cui le forme della politica, le istituzioni, sono stanche e svuotate; mentre la sostanza della politica, il suo potere invasivo e persuasivo, passa altrove, e si abbatte direttamente sulla vita - sul corpo e sulle menti - delle persone. Tempi in cui le forze che attraversano la società sono talmente ipertrofiche da non apparire più governabili, e in cui le sfide, fattesi planetarie, sembrano fenomeni naturali, non politici; tempi in cui la contingenza non è più un´eccezione ma una quotidianità straripante e sfuggente, che non si sa come afferrare per darle una forma. Tempi in cui si reagisce alle sfide non con energia collettiva, ma con la ricerca di vie di fuga individuali o di gruppo; in cui la politica si è spezzettata in una miriade di vicende, di aspirazioni e di sofferenze, che non richiedono o che sembrano non avere più una soluzione pubblica.
I leader - in Occidente - si fanno quindi più rari non tanto perché la pianta-uomo abbia cessato di dare frutti eccellenti quanto perché si è trasformata la politica, nelle sue categorie portanti e nella percezione diffusa che se ne ha. E´ sempre più raro che ci sia un Io perché più fievole si è fatta l´esigenza che la politica serva a creare un Noi, a indicare un orizzonte da raggiungere, una storia praticabile. In questi tempi la politica è una gestione del presente resa interessante da ‘personaggi´, da leaderini vanitosi e inconcludenti, da aspiranti pifferai magici; e la personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, fenomeni di facciata, prendono il posto della leadership, che è una questione di sostanza.
In questi tempi di disorientamento, quindi, prima di rispondere alla domanda sui leader - cioè su chi ci conduce, e verso dove - bisogna interrogarsi su dove va quella complessa e variabile combinazione di ragione, persuasione, forza, interesse, immaginazione, diritto, che chiamiamo politica; cioè porre la questione della sua trasformazione. Saranno leader coloro che, nel bene e nel male, sapranno dare risposte condivise - se sono ancora possibili - a questo interrogativo; che scommetteranno sulle nuove vie - se ci sono, e se mobilitano ancora i cittadini - grazie alle quali la politica possa ancora essere l´insieme dei processi e delle azioni con cui si costruisce un mondo comune.
Corriere della Sera 5.6.07
La sinistra radicale. Sottosegretari pronti a «tradire» il premier. Ma il Prc teme il flop della piazza buonista
di Monica Guerzoni
ROMA — Disobbedire. Scendere in piazza contro George W.Bush a dispetto delle preghiere di Romano Prodi. È la tentazione che serpeggia nel governo, dove l'appello a restare a casa, mormorato dal premier venerdì durante il vertice coi segretari, ha lasciato piuttosto freddi gli alleati dell'ala sinistra. I ministri, salvo sorprese dell'ultim'ora, non deluderanno il Professore, mentre tra i sottosegretari qualcuno è pronto a smarcarsi. A dispetto degli ultimi appelli, scanditi da chi teme ripercussioni su Palazzo Chigi.
«Mi aspetto manifestazioni civili e pacifiche», è il garbato monito del ministro prodiano Giulio Santagata. «Non possiamo accettare un tale spirito antiamericano» prende le distanze dagli alleati Mauro Fabris, braccio destro di Mastella. E pure Piero Fassino dev'esser preoccupato se dice di attendersi, dagli esponenti del governo, «una certa riservatezza».
Alfonso Gianni, sottosegretario del Prc, sbuffa infastidito. Arriva dal Giappone e nulla sapeva dell'editto prodiano. «Il richiamo del premier mi sembra estremamente negativo e fuori luogo». Dunque sottosegretario, lei sabato sarà in piazza del Popolo? «Non vedo perché non dovrei manifestare col mio partito. Ognuno è libero di protestare, ovviamente nei limiti di una manifestazione pacifica». La fitta delegazione di Rifondazione sarà guidata da Franco Giordano, il quale ieri, alla direzione del partito, ha lanciato un forte richiamo alla mobilitazione. Segno che ora il Prc teme il flop: un supercorteo gonfio di giovani, no global e pacifisti—estremisti (tra cui i rifondaroli indipendenti Francesco Caruso e Heidi Giuliani) e una gigantesca, semivuota piazza del Popolo buonista. Con la segreta speranza che il No Bush Day non passi alla storia della sinistra come la data del pubblico divorzio tra il Prc e i movimenti. Anche Oliviero Diliberto ha scelto la protesta soft. Per non disertare la piazza fermerà per un'ora il comitato centrale del Pdci e salirà sul palco assieme a Sgobio, Venier e alla presidente dei senatori comunisti, Manuela Palermi. Fabio Mussi invece non andrà. La sua Sinistra democratica ha scelto di non aderire, anche se qualche esponente di spicco come Carlo Leoni potrebbe affacciarsi al sit-in. E non ci sarà Alfonso Pecoraro Scanio, pure lui è ministro e a rappresentare i Verdi sarà il capogruppo Angelo Bonelli. Non da solo, forse... Gridare «guerrafondaio» al presidente degli Stati Uniti e rinfacciargli il rifiuto di ratificare gli accordi di Kyoto piacerebbe infatti anche a Paolo Cento, quasi pronto a sciogliere la riserva. «Se non avessi incarichi di governo la mia collocazione naturale sarebbe a manifestare — conferma il sottosegretario all'Economia — D'altronde Mastella ha manifestato contro i Dico e dunque la regola di Prodi non vale più». Esprimere il proprio sdegno contro l'illustre ospite è «del tutto legittimo» conclude Cento, il quale invita a spostare l'attenzione sull'altro corteo, quello antigovernativo dei Cobas e dei centri sociali: «Il vero nodo sarà quello che succede dall'altra parte...». Dall'altra parte, cioè al corteo No Bush No War (e anche No Prodi) che da piazza della Repubblica a piazza Navona vedrà sfilare Franco Turigliatto, Salvatore Cannavò, Fernando Rossi e il leader della Fiom, Giorgio Cremaschi, succede che in molti guardano agli scontri di Rostock e temono disordini. Il governo Prodi non si renda «complice del tremendo rischio che si ripeta la tragica repressione del 2001 a Genova» è l'appello del leader dei Cobas, Piero Bernocchi, mentre Marco Ferrando (Pcl) prevede che non ci saranno scontri ma una «grande, pacifica opposizione da sinistra al governo Prodi». E il Comitato 9 giugno, che raccoglie le adesioni al corteo di circa 200 sigle, prova a fermare gli allarmi strumentali: «È inquietante che si cerchi di schiacciare la mobilitazione nella logica della piazza dei buoni e del corteo dei cattivi...».
E così tra le due piazze, con una certa malizia, prova a infilarsi Marco Pannella. Il leader dei Radicali propone un'altra piazza del Popolo, una manifestazione che accolga Bush con cartelli «W gli Usa» e con slogan che inneggino alla democrazia a stelle e strisce: «Viva il popolo americano nostro fratello...».
Corriere della Sera 5.6.07
Saltammo giù dagli alberi rimanendo su due piedi
Nuova ipotesi: andatura bipede 15 milioni di anni fa
2,4 milioni di anni fa: compare il primo Homo
L'origine della teoria dallo studio degli oranghi
di Viviano Domenici
I nostri antenati impararono a camminare su due piedi quando ancora vivevano sugli alberi e non, come finora ritenuto, quando furono costretti ad abbandonare la vita arboricola e affrontare gli spazi aperti della savana.
Questa è l'ipotesi avanzata da tre zoologi britannici basata sull'osservazione del comportamento degli oranghi nelle foreste dell'isola indonesiana di Sumatra. Autori della ricerca, pubblicata sull'ultimo numero della rivista Science, sono Susannah Torpe e Roger Holder, dell'Università di Birmingham, e Robin Crompton, dell'Università di Liverpool, che hanno studiato gli orango nel loro ambiente naturale. Questi primati, che oggi vivono solo nelle foreste di Sumatra e del Borneo, conducono una vita prevalentemente arboricola, hanno un sistema di locomozione basato principalmente sull'uso degli arti anteriori per sospendersi e spostarsi tra i rami (brachiazione) e scendono sul terreno solo per attraversare brevi tratti privi di alberi, per bere o per raccogliere qualche frutto caduto; poi tornano sugli alberi evitando così possibili incontri coi predatori.
La loro struttura anatomica è quindi decisamente specializzata per vivere sugli alberi, ma i ricercatori si sono accorti che quando queste scimmie si spostano poggiandosi su rami robusti utilizzano tutte e quattro gli arti senza mai distendere completamente le articolazioni, come invece può fare chi — come l'uomo — ha un'andatura bipede.
Quando invece si spostano su rami più piccoli e flessibili, che rendono la situazione più precaria, gli orango si alzano sulle zampe posteriori e utilizzano le braccia, allargandole, per mantenere l'equilibrio. In questa particolare situazione gli orango si trovano molto spesso perché la frutta migliore è prevalentemente quella che cresce sui rami più alti, più soleggiati, ma più sottili e meno affidabili. Proprio in questi casi, hanno osservato i tre zoologi britannici, cioè quando devono arrivare a un frutto altrimenti irraggiungibile, gli orango distendono completamente le articolazioni delle anche e delle ginocchia, cosa che non fanno mai quando utilizzano tutti e quattro gli arti. Cioè assumono una posizione tipica solo di chi può camminare su due zampe, cioè noi e i nostri antenati australopiteci. Date queste osservazioni, i tre zoologi propongono l'ipotesi che l'andatura bipede sia apparsa quando il lontano progenitore di uomini e scimmie viveva ancora sugli alberi. Questo imporrebbe quindi di spostare la data della comparsa dell'andatura bipede almeno a 15 milioni di anni fa, momento in cui gli orango si separarono dal ramo evolutivo dal quale sarebbero successivamente emersi i gorilla (10 milioni di anni fa), gli scimpanzè (5-7 milioni di anni fa), gli australopiteci, la prima forma Homo (circa 2 milioni e 400 mila anni fa).
Uno spostamento all'indietro nel tempo che difficilmente sarà accettato senza discussioni dagli antropologi poiché l'ipotesi è basata non su studi sulla morfologia degli orango — di cui non è mai stata messa in luce alcuna tendenza allo sviluppo del bipedismo — ma solo sull'osservazione del comportamento di animali attualmente viventi. Proprio per questo, le prime critiche sono già emerse. Secondo l'antropologa Yvette Deloison, del Cnrs francese, «se l'antenato comune delle scimmie antropomorfe e degli ominidi avesse avuto un'anatomia che gli permetteva di fare tutto quello che fanno gli oranghi con mani e piedi, sarebbe stato già troppo specializzato per dar vita a quello che noi siamo oggi».
In attesa che l'ipotesi dei tre zoologi britannici passi il vaglio degli antropologi non rimane che tenerci ben saldi alla teoria che collega la comparsa dell'andatura bipede alla drastica riduzione delle foreste africane, che avvenne oltre cinque milioni di anni fa e che costrinse i nostro antenato ad affrontare, su due piedi, gli spazi aperti della savana. Il momento esatto in cui questo avvenne non lo sapremo mai, ma conosciamo con precisione la data della prima passeggiata su due piedi di cui abbiamo testimonianza concreta: 3 milioni e settecentocinquantamila anni. A tanto risalgono le impronte di due australopiteci che camminarono su un terreno fangoso a Laetoli, in Tanzania, mentre scappavano da un vulcano in eruzione.
Corriere della Sera 5.6.07
La Nobel iraniana, attivista per i diritti umani, critica duramente l'ex deputata di origine somala
Ebadi contro Hirsi Ali
«Attaccando in blocco l'Islam fa il gioco dei regimi teocratici»
Saranno le donne ad abbattere il potere dei mullah
di Alessandra Farkas
NEW YORK — La signora dai capelli corti indossa una giacca grigia di taglio maschile, mentre passeggia con aria sbarazzina nella hall di uno degli alberghi più kitsch di Manhattan, masticando con gran gusto una chewing-gum. «In Occidente mi sento più libera perché non debbo portare il velo», spiega Shirin Ebadi attraverso un'interprete che traduce dal farsi. «Odio il copricapo che sono costretta ad indossare in Iran, per non essere frustata». Alla vigilia della sua imminente trasferta in Italia — dove il 7 giugno parteciperà alla Conferenza sulla pace, la solidarietà e l'integrazione razziale organizzata all'Hotel Royal di Sanremo dalla Provincia di Imperia — l'avvocatessa iraniana, attivista dei diritti umani e premio Nobel per la Pace nel 2003, si trova negli Stati Uniti per una serie di conferenze universitarie su temi quali «la relazione tra Islam e diritti civili» e «il ruolo delle donne nella democrazia».
«Anche nei campus americani molti ignorano che l'Iran ha dato il voto alle donne ben prima della Svizzera», spiega la Ebadi, ex presidente di una sezione del tribunale di Teheran, licenziata dopo la rivoluzione islamica nel 1979. «Duemila anni fa il mio Paese era governato da due regine: Boran e Azarmidokht. E anche in futuro saranno le donne a liberare l'Iran, guidandolo fuori dall'attuale medioevo, non i soldati americani. Quando iniziai ero sola; oggi il Paese è pieno di giovani donne più agguerrite e brave di me».
Ovunque vada, tutti le rivolgono la stessa domanda: potrà mai la religione islamica accettare l'eguaglianza tra i sessi? «La mia risposta è sì. L'Islam, come le altre religioni, si presta a interpretazioni diverse. Il concetto di eguaglianza — puntualizza — non è affatto negato dal Corano». Il che spiega come mai in Arabia Saudita le donne non possono neppure guidare l'auto, mentre in Paesi quali Bangladesh e Pakistan sono state presidenti e ministri. O perché la poligamia, praticata in Iran, sia bandita in Indonesia.
«Se una donna iraniana vuole viaggiare e lavorare, ha bisogno del permesso scritto del marito. Ironicamente ciò vale anche per Fatemeh Javadi, vice del presidente Mahmoud Ahmadinejad: una donna. Nei nostri tribunali la testimonianza di due donne corrisponde a quella di un solo uomo. Perché la nostra vita vale la metà rispetto alla loro». La Ebadi non si stanca di ripetere le «eresie» che — come testimonia nel libro Il mio Iran (Sperling & Kupfer, pp. 320, e
17) — nel 2000 la catapultarono sulla lista dei condannati a morte dal regime di Teheran. Ma, al contrario di tanti intellettuali fuggiti in Europa e America, lei ha deciso di restare. «Il dissidente è come un pesce nell'oceano — teorizza —. Se lo butti in un acquario, smette di nuotare e di riprodursi». Eppure non se la sente di criticare gli esuli: «Quando sei certo di essere giustiziato, spesso non ti resta altro che scappare». E se a lei il premio Nobel ha conferito una certa immunità, la strada è ancora tutta in salita.
«Quando mi scelsero per il Nobel, il governo aspettò 24 ore prima di annunciarlo. E lo fece in piena notte, al termine di un notiziario che nessuno guarda». In Iran la Ebadi continua a sentirsi «censurata al 100 per cento». «Per questo viaggio tanto. Voglio che il mio messaggio esca e si diffonda». Ai tempi del Nobel, l'allora presidente Khatami sminuì il premio come «un atto politico, privo d'importanza». Qualcuno parlò di «gelosia», giacché nel 2001 lo stesso Khatami era stato, senza successo, candidato al Nobel. «È un vero peccato, perché non sono mai stata una sua rivale. Sono un avvocato dei diritti umani e mai e per nessun motivo entrerò in politica». Perché?
«Preferisco giudicare il governo dall'esterno. Perché anche la democrazia più avanzata rischia di trasformarsi in dittatura, se non la si critica».
Ma un conto è attaccare i poteri dispotici, un altro è prendersela con la religione, come fa la scrittrice d'origine somala Ayaan Hirsi Ali. «Le sue tesi — spiega la Ebadi — sono pericolose, reazionarie e identiche a quelle delle dittature islamiche che dice di aborrire. La signorina Ali sostiene che, per qualsiasi azione intrapresa da governi non democratici in Iran e Arabia Saudita, la colpa ricade sull'Islam.
È la stessa identica tesi di quei regimi. Che si difendono dalle accuse di tirannia affermando di "limitarsi a seguire regole e precetti dell'Islam"».
Il suo timore è che il messaggio di Hirsi Ali possa fomentare l'odio antislamico, già molto in voga in Europa. «Io preferisco enfatizzare i tanti punti in comune tra Islam, giudaismo e Cristianesimo. Dobbiamo invitare la gente alla riconciliazione e alla concordia, non incitarla al conflitto e alla violenza». Anche il contrasto Iran-ebrei, a suo dire, è fittizio: «Sin dai tempi dell'imperatore Ciro il Grande, gli ebrei erano amati e benvenuti in Persia. L'antisemitismo non è nel nostro Dna».
In Iran, oggi, continua ad avere molti amici ebrei: «Certo, la rivoluzione islamica ha introdotto regole discriminatorie nei loro confronti. Ma ciò è vero per qualsiasi gruppo religioso non sciita. I più perseguitati oggi sono i baha'i». Nella lista nera del regime ci sono anche centinaia di intellettuali, scrittori, femministe e dissidenti che la Ebadi rappresenta da anni, completamente gratis.
Lo scorso aprile la scrittrice ha lanciato una provocatoria proposta al governo di Teheran: indire un referendum, sotto l'egida dell'Onu, per far decidere al popolo iraniano se perseguire il programma nucleare. «Ahmadinejad continua a dire che è il popolo a chiedere il nucleare e che il suo programma è a scopi pacifici. Il mondo non gli crede; quindi non gli resta che democratizzare il sistema politico. Perché solo quando i cittadini potranno supervisionare le azioni dei loro leader, che oggi decidono tutto clandestinamente, nascondendosi dietro porte chiuse, potremo dormire sonni tranquilli». Tra una battaglia e l'altra riesce a trovare un po' di tempo per scrivere? «La scrittura è il ristoro che mi alleggerisce le spalle appesantite dal mio lavoro di avvocato. Magari non dormo, ma trovo sempre la maniera di scrivere. Lo faccio soprattutto negli aeroporti, tra un volo e l'altro».
Il suo nuovo libro, in uscita l'anno prossimo, è dedicato alla diaspora iraniana. «La rivoluzione islamica — racconta — ha disperso il mio popolo attraverso il mondo. Secondo l'Unesco, l'Iran ha il più elevato tasso di fuga di cervelli rispetto a qualsiasi altro Paese del pianeta. La mia nuova opera esplorerà questo doloroso e inarrestabile fenomeno». Rimpianti? «Mi dispiace di non essere riuscita ad incontrare papa Wojtyla, candidato con me al Nobel, il primo che mi telefonò per congratularsi. Era già molto vecchio e malato e purtroppo non ce l'abbiamo fatta a conoscerci di persona».
il Riformista 5.6.07
FAUSTO 2 L'INCONTRO DI SABATO
Solo lui può ripensare la sinistra. E da Fagioli lo ha dimostrato
di Antonio Ghirelli
L'«analisi collettiva» che Fausto Bertinotti ha tenuto venerdì scorso con gli allievi di Massimo Fagioli all'Auditorium di Roma riscuotendo enorme successo, merita qualche riflessione per una serie di buone ragioni. La prima riguarda l'oratore: uno dei pochi dirigenti del movimento democratico che, al di là della sua collocazione nella "sinistra alternativa" e di un palese autocompiacimento, offre serie garanzie di cultura umanistica oltre che politica, di brillante intelligenza e di un'ansia di ricerca che è davvero poco diffusa nell'era del Partito democratico e di Forza Italia.
La seconda, e ancor più importante, ragione di interesse per ciò che dice e fa l'ex sindacalista lombardiano, chiama in causa il pauroso sbandamento di cui è preda non tanto il centrosinistra, che è una coalizione ancor più casuale e caotica della defunta Casa delle libertà, quanto la stessa costellazione della sinistra.
E accaduto, infatti, ciò che tanti di noi compreso il sottoscritto avevano previsto quando si è cominciato a concretare il progetto della trasformazione nel Pd dell'alleanza elettorale dell'Ulivo: l'ala più moderata degli ex popolari ha già cominciato nelle elezioni amministrative a trasferirsi all'ombra di Pezzotta, mentre quella più coerente dei Democratici di sinistra ha dato eloquenti segni di insoddisfazione, oscillando tra l'astensionismo e l'arruolamento nelle tre formazioni alternative: l'ex correntone, il Pdci e Rifondazione. Per giunta, la disfatta del nuovo partito nel Nord ha provocato la reazione allarmata di quei sindaci e governatori piantati in asso dall'elettorato, e quindi tentati di regionalizzare il Pd anche per reagire all'esclusione del comitato dei 45. Le liti e le gelosie tra i capi del Pd centrale, più la dispettosa rivolta di Bordon e pochi altri secessionisti, hanno completato un quadro che non è solo desolante ma anche allarmante perché rischia di moltiplicare, anziché ridurre, il numero dei partiti in concorso e quindi di accentuare la confusione e la inefficienza del governo.
In questo contesto è fin troppo facile pensare che soltanto Bertinotti potrebbe tentare l'unificazione o la federazione di partiti e di gruppi riluttanti all'assorbimento della sinistra in una formazione moderna, ma moderata e sostanzialmente di ispirazione cattolica, come il Pd che tra l'altro si trova a operare in una fase storica di strenua mobilitazione del Vaticano nel segno dell'ortodossia dottrinaria proprio (e quasi esclusivamente) nel nostro Paese. Ed è alla luce di questa situazione, mentre il mondo delle banche e delle imprese mostra modesti ma indiscutibili segni di ripresa, che la partecipazione del presidente della Camera alla "analisi politica" degli allievi di Fagioli e in particolare alcune sue esternazioni prendono risalto.
Lasciamo stare gli apprezzamenti autocritici su Sironi e su Céline che possono apparire anche un po' ingenui, ma già l'ammissione che la destra non è necessariamente «rozza e ignorante» e che una ricerca può essere «buona» indipendentemente da chi la conduce, è un passo avanti nel rifiuto del settarismo. Ancor più significativa è la condanna della violenza nonché dell'idea che «prima è la presa del potere e poi la sua trasformazione», talché la rivoluzione diventi per Bertinotti soprattutto «un processo di liberazione», in nome di una «rottura con il passato», ossia con il comunismo di obbedienza sovietica.
Ma nell'atto stesso in cui l'oratore dell'Auditorium prospetta queste sostanziali varianti al teorema della Terza Internazionale, egli tiene a sottolineare che «una sconfitta non segna per forza in modo negativo il valore di un'esperienza»: una proposizione discutibilissima dal momento che stiamo parlando di settant'anni di storia, di massacri e sofferenze inaudite per centinaia di milioni di esseri umani, una frase che ha in molti l'aria di rappresentare una concessione tattica a gran parte dei sostenitori della sinistra alternativa. Subito dopo, però, Beninotti ha parlato di «una sconfitta della storia grande e terribile del comunismo», sostenendo legittimamente che essa «non cancella il problema della necessità della liberazione dall'oppressione e dallo sfruttamento, tanto più nella fase attuale, dominata dalla globalizzazione, dalla mercificazione totale delle cose, ma anche degli uomini».
C'è dell'esagerazione in questa analisi, la quale esula la considerazione delle mirabili conquiste scientifiche, mediche e tecnologiche che la società postindustriale registra, delle memorabili riforme nel campo dei diritti individuali e sociali, della travolgente riscossa dei paesi già coloniali. Ma, nella sostanza, il problema delineato da Bertinotti trova tutti noi socialisti assolutamente concordi. Ciò che ci lascia perplessi, invece, è la contraddizione tra l'ammissione che bisogna prendere coscienza dell'impossibilità di vincere «senza ripensamenti e senza indagare in nuovi territori» (cioè senza una seria autocritica sul fallimento del comunismo) e la pretesa di imporre una sinistra "alternativa" alla socialdemocrazia, senza uno straccio di altrettanto seria strategia che non si riduca al movimentismo o alla difesa tetragona di un welfare ormai anacronistico (e, comunque, realizzato a suo tempo dai revisionisti e non dai bolscevichi). E allora? Dividerci in nome di un'alternativa immaginaria fa semplicemente il gioco delle multinazionali, delle grandi concentrazioni bancarie e della nostre ingorde corporazioni. È un suicidio.
il Riformista 5.6.07
FAUSTO 1. IL SUO SAGGIO SULL'EUROPA E LA SINISTRA
Chi sta al governo non può far opposizione L'ibrido di Bertinotti esclude il riformismo
di Rino Formica
Dobbiamo esser grati al presidente Bertinotti per aver risollevato il dibattito teorico a sinistra con il saggio L'Europa e la Sinistra. Il paradosso del vuoto e della necessità sulla nuova rivista da lui diretta. Rischiava, tutta la discussione, di annullarsi nel vuoto politico non dell'Europa (come afferma sin dal titolo il presidente della Camera forse dimentico che quel vuoto è stato recentemente occupato dalla destra sarkoziana) ma nel vuoto della discussione sul nuovo Partito democratico che si sta spegnendo nell'elaborazione dei regolamenti e procedure elettorali ai quali viene meccanicisticamente affidata la scelta del leader.
Tornando al contributo dell'onorevole Bertinotti, non può sfuggire la portata e l'ammirazione della fatica, vale a dire lo sforzo di definire i nuovi confini della sinistra (dopo la fusione ulivista), affermare le ragioni politiche e storiche dell'identità della sinistra, della maturità di un progetto unitario del complesso della sinistra, dove per "complesso" non si intende l'aggregazione quantitativa di forze, esperienze e soggetti che si muovono in questo campo, ma un'area che va politicamente organizzata e che comprende la sinistra operaia e sindacale (quella legata alla centralità della fabbrica e della figura del lavoratore, centralità negata dal nuovo capitalismo che invece vuole relegare il soggetto lavoratore nella frammentazione sociale e politica) e poi, i movimenti sociali, i movimenti delle vecchie e delle nuove radicalità, gli eretici di ogni stagione, e giù sino ai soggetti, alle nuove marginalità e alienazioni, alle nuove sofferenze sociali e individuali.
Vasto programma, unificare politicamente le forze già organizzate nelle forme politiche tradizionali con la sinistra eretica e movimentista, con il soggetto alienato. Da Gramsci a Marcuse, insomma. Il contesto in cui il progetto bertinottiano si muove è segnato dal trionfo e dal dilagare del nuovo capitalismo vorace come sempre di tempo di lavoro e di non lavoro, il cui paradigma scientifico e tecnologico «sposta la soglia dello sfruttamento alla mente stessa dell'uomo», per usare le parole di Bertinotti. Ma non l'avevamo anche capito dai Gründrisse di Marx?
Cosa può opporre la sinistra a questo progetto totalizzante? Al dilagare del "vuoto politico" riempito soltanto dal neoegemonismo del capitale che sradica la classe operaia dal luogo storico della fabbrica per ricacciarla nella dimensione individuale, nel mondo alienato della società dei consumi?
La sinistra (ovvero l'ibrido bertinottiano di Partito-chiesa più movimenti ereticali) non può opporre certamente le esperienze delle socialdemocrazie, né dei socialismi italiano ed europeo degradati a «culture liberalsociali», cornpromesse con il neoliberismo responsabile di questo sconquasso politico e sociale. Non può riproporre il compromesso socialdemocratico che dal dopoguerra a oggi ha rappresentato (secondo il nostro modesto giudizio) una stagione di conquiste economiche e civili ma che, secondo il presidente della Camera, ha rappresentato la condizione dell'invadenza capitalistica. La massima concessione che Bertinotti può concedere all'attualità del socialismo è quella di separare il proprio corso dai socialisti.
Allora, se dobbiamo tralasciare socialismi e riformismi, socialdemocrazie e compromessi socialdemocratici, se dobbiamo lasciare nell'armadio quarant'anni di storia del movimento operaio italiano ed europeo, qual è lo strumento in grado di «collocare l'iniziativa in una società attraversata, oltre che da movimenti di cambiamento, da divisioni e frantumazioni di ogni sorta, da solitudini e scoppi di violenza, da individualismi e egoismi tribali»? Bertinotti ha la risposta: un nuovo soggetto della sinistra.
Chiediamo a Bertinotti una precisazione: sarebbe un nuovo soggetto iscritto nel solco del socialismo europeo, che si richiama a quella tradizione? No, ribadirebbe Bertinotti, è un nuovo soggetto della sinistra e basta. Ma alla nettezza della risposta non corrisponde altrettanta chiarezza di profilo per la sinistra immaginata e desiderata. E un composto formato da tanti pezzi non tutti componibili e compatibili. Troviamo la sinistra elitaria di provenienza azionista (quella che le masse un giorno capiranno), la sinistra operaista e sindacalista, la sinistra libertaria, i movimenti forgiati nelle lotte del Sessantotto nutriti dall'ideologia del comunismo rivoluzionario e i nuovi movimenti che a quell'esperienza si sono ispirati e che a quell'ideologia si sentono estranei.
È questo il nuovo soggetto della sinistra? La sinistra che deve opporsi alla destra larga di Sarkozy in Francia e dei Sarkozy sparsi in tutta Europa? E praticabile l'unificazione delle forme ereticali nate dalla crisi del comunismo e del massimalismo? E possibile riannodare tali forme attorno al Partito di classe, a quel che resta del partito togliattiano berlingueriano? Ne dubitiamo.
Piuttosto che la riunificazione del variegato mondo ereticale della sinistra attorno al suo nucleo di ortodossia (altro esperimento estremo del presidente Bertinotti!), a noi sembra più realistico pensare a un soggetto di sinistra che si riconosca nell'orizzonte e nella cultura dell'idealità di emancipazione e di progresso, che è propria del socialismo, e nello stesso tempo sappia rinnovarsi e proporsi si come forza di governo di alternativa democratica e riformista alla destra.
Questa sinistra l'abbiamo chiamata del socialismo largo, che attragga non il caleidoscopio delle radicalità. degli elitarismi e delle eresie del comunismo, ma costruisca un soggetto che includa forze organizzate in un progetto di avanzamento della condizione umana e civile e che incardini questo progetto nelle condizioni dell'oggi, un progetto che riconosca sì le contraddizioni della modernità ma che sappia indicare le strade per la loro risoluzione in un rapporto con le altre forze di sinistra e del centro democratico. Un progetto di governo per un paese moderno come il nostro, per oggi e non per un lontano futuro.
Quello che Bertinotti non spiega è il procedimento attraverso il quale il movimentismo che per sua natura e costituzione è a vocazione antigovernativa, strutturalmente all'opposizione, anticipatrice e valorizzatrice delle contraddizioni presenti e potenziali ma non attrezzato e interessato a ricercare le soluzioni pratiche, diventa compatibile con la cultura di governo. Non si chiede di trasformare le culture antagoniste in cultura di governo ma quanto meno di essere il pungolo di una cultura di governo.
Vorremmo dire al presidente Bertinotti che chi governa non può essere allo stesso tempo opposizione. Tra l'altro la cultura di "governo" che anima il partito di cui Bertinotti è insostituibile esponente non prevede la parlamentarizzazione delle radicalità diffuse e organizzate nella società (linea che fu ad esempio del vecchio Pci), ma intende coltivarle nella loro caratteristica "naturale" di opposizione permanente al sistema, nella loro vocazione radicale e rappresentarle nella loro contrapposizione sistemica. A meno che Bertinotti non dica che l'odierna collocazione governativa della sinistra antagonista è un incidente della storia, buono solo per dimostrare al contrario quanto sia dannoso per questa parte della sinistra intrattenere rapporti con le culture riformiste, dal momento che la condizione della governabilità di per sé mortifica e impoverisce la potenza liberatrice dei movimenti.
Senza dare lezioni ad alcuno, né tanto meno al presidente Bertinotti, ricordiamo che per chi voglia porsi sul terreno della sinistra del socialismo europeo, la democrazia dell'alternativa non può intendersi come incidente della storia, perché questa è precisamente la storia del socialismo europeo.