giovedì 12 aprile 2007

l’Unità 12.4.07
Ma la minoranza ds non si ferma
Al congresso parlerà solo Mussi e nessuno parteciperà alle commissioni


Decisive le riunioni che la seconda mozione terrà il 16 e il 18 aprile prima di Firenze

Sta commettendo «un grande errore ad andar via», come dice Prodi? Più si avvicina il congresso di Firenze, che darà il via alla fase costituente del Partito democratico, e più Mussi si convince del contrario. Il leader della sinistra Ds lo ha anche detto di persona al premier che per lui non ci sono le condizioni per proseguire in questa direzione, né la sua opinione è cambiata dopo aver letto l’altro giorno l’intervento del Professore su l’Unità. Anzi, ha commentato il ministro dell’Università con i suoi, quel testo non ha fornito risposte a nessuno dei nodi tuttora irrisolti, a cominciare dalla questione della collocazione internazionale. Nel frattempo, è anche venuto alla luce un sondaggio (di Mannheimer, sul Corriere della Sera di ieri), che dà il Pd al di sotto della somma di Ds e Margherita: «Il 23% di voti? Non mi sorprende», dice serio Mussi conversando in Transatlantico con i giornalisti. Aggiungendo con un mezzo alzarsi di baffo: «E nel sondaggio ci sono ancora io». È, per dirla con il vicepresidente della Camera Carlo Leoni, l’«ulteriore dimostrazione che si tratta di una operazione che ha poco fascino tra gli iscritti, figuriamoci tra gli elettori».
Non ci saranno ripensamenti, quindi. Anche perché appelli ai buoni sentimenti come quello di Livia Turco («mi pare una scelta di compagnicidio, siamo della stessa famiglia») fanno tutt’altro che breccia: «Il nostro è un ragionamento politico, vorremmo che ci rispondessero sullo stesso piano», viene spiegato dai sostenitori della seconda mozione. La sinistra Ds andrà a Firenze, ma consapevole che da lì le strade si divideranno. La decisione su come procedere sarà presa in una riunione che si terrà a Roma lunedì e poi ratificata dai 250 delegati della seconda mozione il 18 sera, a Firenze. L’ipotesi più accreditata, al momento, è però quella di segnalare in ogni modo che questo non è un congresso come gli altri ma è quello che scioglie i Ds, e che quindi anche il comportamento da tenere dovrà essere diverso dal solito. Il che vuol dire: non si partecipa ai lavori delle commissioni, né a quella politica né a quella per lo statuto, non si entra negli organismi dirigenti eletti dal congresso, parla soltanto Mussi (l’alternativa, al momento però minoritaria, è che intervengano tutti i leader della sinistra Ds). Il quale, però, se è vero che vuole evitare strappi almeno fino al termine delle amministrative di maggio, sta anche preparando le prossime mosse.
Sabato interverrà al congresso dello Sdi di Fiuggi, sottolineando la necessità che ci sia in Italia una grande forza di ispirazione socialista e collocata in Europa nel Pse. Poi, ma sempre con la dead line delle amministrative, verranno prese le decisioni operative, a cominciare dalla formazione di un gruppo autonomo alla Camera e al Senato (Sinistra democratica dovrebbe essere il nome). L’intero percorso andrà comunque discusso il 18 sera, anche se Mussi minimizza la portata di questa riunione: «È un appuntamento di rito prima dei congressi». In realtà, il leader della sinistra Ds sa che la scelta che si sta per compiere è tutt’altro che semplice per iscritti, quadri e gruppo dirigente della minoranza, e vuole che ogni passaggio sia «il più possibile condiviso».

l’Unità 12.4.07
Gramsci e Trotsky. Dialogo tra eretici
di Adriano Guerra


VITE PARALLELLE Furono due personaggi molto diversi l’italiano e il russo e divisi da opposte linee politiche. Ma il comunista sardo intervenne a difesa del comandante dell’Armata Rossa contro Stalin. Ed entrambi amavano il futurismo

Gramsci non è certo stato troppo tiepido con Trotsky, considerato in sintesi come «il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatte». E ancora «un cosmopolita superficialmente nazionale e superficialmente europeo», rispetto a Lenin considerato al contrario «profondamente nazionale e profondamente europeo». Qualche volta, quando nell’impossibilità di controllare una citazione era costretto a far ricorso alla memoria, con i rischi che ciò sempre comporta, le critiche di Gramsci a Trotsky possono apparire troppo dure e anche ingiustificate. Così ad esempio quando Trotsky viene rimproverato per aver accusato Labriola di «dilettantismo» (mentre in realtà altro era stato il discorso del leader sovietico). Tuttavia Trotsky non è stato mai considerato da Gramsci un nemico da stroncare. Non nel 1926 quando chiese - invano, come si sa - a Togliatti di intervenire per impedire che la maggioranza del gruppo dirigente russo raccolta attorno a Stalin non si limitasse a vincere il confronto con la minoranza ma puntasse a stravincere. E non negli anni del carcere e del confino quando nei Quaderni prese, e più volte, posizione contro le tesi di Trotsky, quelle - in primo luogo - della «rivoluzione permanente» o del rapporto fra «americanismo» e «modo di vivere» - ricordando però che alla base delle «soluzioni pratiche sbagliate», e sbagliate perché destinate a «sfociare in una forma di bonapartismo» - c’erano sempre però «preoccupazioni giuste». Parlando della liquidazione politica di Trotsky, espulso dall’Urss nel 1929, Gramsci si è chiesto poi nel 1935 se non ci si trovasse di fronte al tentativo di eliminare quel «parlamento nero» che sussiste sempre dopo l’abolizione del «parlamento legale». Sullo sfondo - par di capire - c’era sempre la questione del prezzo che l’Unione sovietica, e non solo essa, aveva pagato nel momento in cui con la cacciata della minoranza era stata posta fine nel partito russo alla dialettica destra-sinistra.
Nei Quaderni del carcere, dai quali abbiamo tratto le citazioni sopra riportate, il nome Trotsky non compare mai. Si parla di lui come di Bronstein ma più spesso di Leo Davidovich, di Leone Davidovici e ancora di Davidovi. Allo stesso modo, e per la stessa ragione, il nome di Lenin (Vladimir Ilic Uljanov) è stato italianizzato in Ilici e anche in Vilici, e quello di Stalin (Josif, Vissarionovic Dzugashvili) in un insospettabile Giuseppe Bessarione. Il tutto per rendere un poco più difficile il lavoro dei censori fascisti che imbattendosi sul nome di Trotsky avrebbero fatto un balzo sulla sedia, anche se un’opera importante, L’autobiografia, di Leone Davidovici, all’evidente scopo di far leva sull’antistalinismo dell’autore presentato come antisovietismo, era stata pubblicata a Milano da Mondadori. Quando però Gramsci, inserendoli in una lista di libri da inoltrare per l’acquisto probabilmente a Piero Sraffa, tentò di entrare in possesso delle opere scritte da Trotsky dopo la cacciata di quest’ultimo dall’Urss (La revolution defigurée e Vers le capitalisme ou vers le socialisme?, come si può leggere nella copertina del primo Quaderno) la censura fascista, e al livello più alto perché sarà lo stesso Mussolini a cancellare i due titoli dall’elenco, compì l’opera avviata da quella di Stalin.
Non si può però dimenticare che quando Gramsci preparò l’elenco dei libri per Sraffa, Trotsky era un autore all’indice anche all’interno del Pci («Le misure prese contro Trotsky e altri - si legge nella famosa e «famigerata» lettera inviata al prigioniero da Ruggero Grieco nel febbraio del 1928 - sono state, certo, dolorose, ma non era possibile fare diversamente»). La circostanza va segnalata perché fornisce la prova da una parte dell’indipendenza e dell’autonomia di giudizio di Gramsci e dall’altra della curiosità - curiosità politica, desiderio di sapere come stavano le cose rivolgendosi alle fonti dirette - con le quali il recluso guardava al conflitto che continuava fra gli eredi di Lenin, conflitto al quale Stalin avrebbe posto termine ordinando nel 1940 l’assassinio del rivale.
Nell’attenzione con la quale Gramsci guardava a Trotsky e alla sua battaglia c’era anche però un dato che forse è stato sin qui trascurato: il segno di un’antica ammirazione nei confronti non già e non tanto dell’uomo politico ma dell’intellettuale, quale era appunto Trotsky, cultore di storia, aperto ai problemi della vita culturale del suo paese, con interessi e curiosità che andavano al di là della politica in senso stretto e della Russia. Se si esaminano gli scritti di Trotsky e di Gramsci si può constatare in non pochi punti l’esistenza di una reale affinità fra due comunisti pur tanto diversi per formazione e storia personale. Si pensi al Trotsky di Letteratura e rivoluzione (tradotto e presentato da noi a suo tempo da Vittorio Strada per Einaudi), alle molte pagine dedicate da Trotsky alla polemica contro la cosiddetta «cultura proletaria», nonché a Belyi, Pilniak, Essenin, Blok. Si pensi alla polemica di Trotsky contro chi (F.T. Raskolnikov) scriveva che «La Divina commedia è preziosa perché permette di capire la psicologia di una classe determinata di un’epoca determinata». Naturalmente - era la replica di Trotsky - anche Dante è il prodotto di un determinato ambiente sociale. «Ma Dante è un genio. E se noi consideriamo la Divina commedia come una fonte di percezione poetica ciò avviene non perché Dante è stato un piccolo-borghese fiorentino del XIII secolo, ma in notevole misura nonostante questa circostanza». Questo era Trotsky. Un modo di guardare a Dante il suo - si dirà - di un altro secolo. Ma è anche perché quella battaglia sulla questione dell’autonomia dell’arte, insieme a tante altre dei secoli precedenti e degli anni successivi, è stata combattuta, se oggi Sermonti e Benigni possono leggere Dante davanti a migliaia di persone che magari non credono all’esistenza del diavolo e dell’inferno ma guardano alla Commedia come ad una «fonte di percezione poetica». In quanto a Gramsci, che fra l’altro aveva fondato a Torino nel 1921 un Istituto di cultura proletaria come sezione del Prolet’ Kult sovietico, non è poi naturale che trovandosi a Mosca nel 1922 per la 2° Conferenza del Comintern, si incontrasse più di una volta con Trotsky? E non solo per parlare di problemi strettamente politici come è dimostrato dal fatto che un certo giorno Trotsky gli chiese di scrivere una nota sul futurismo italiano da inserire in Letteratura e rivoluzione. «Caro compagno - si legge nella lettera di Trotsky del 30 agosto 1922 - non potrebbe comunicarmi qual è il ruolo del Futurismo in Italia? Quale fu la posizione di Marinetti e della sua scuola durante la guerra? Quale è la loro posizione adesso? Si è conservato il gruppo di Marinetti? Qual é il suo (di Gramsci, n.d.r.) atteggiamento verso il futurismo? Quale l’atteggiamento di D’Annunzio…?». La risposta di Gramsci porta la data dell’8 settembre 1922. Essa venne pubblicata per la prima volta in italiano sul Mondo di Pannunzio nel marzo 1953 e poi sia nel volume già citato, curato da Strada, sia nell’undicesimo volume delle opere di Gramsci (Socialismo e fascismo. L’ordine nuovo 1921-1922, Torino Einaudi, 1966). Vorrei ancora dire a conclusione che soltanto pochi anni or sono rintracciare i testi qui ricordati sarebbe stata impresa non facile. Sarebbe occorsa la pazienza di uno studioso appassionato, e penso ad esempio a Nicola Siciliani de Cumis (si vedano le sue note su Trotsky, Gramsci e il futurismo nel Quaderno n.1 di Slavia del gennaio 2001). Oggi tutto è reso più semplice dallo straordinario lavoro compiuto dall’Istituto Gramsci che ha messo a disposizione degli studiosi la Bibliografia gramsciana on line, con una banca dati, ora di 16.000 titoli, costantemente aggiornata da John M. Cammet, Francesco Giasi e Maria Luisa Righi.

l’Unità 12.4.07
Teo-politica, peccato di fondamentalismo
di Roberta De Monticelli


FEDE E POLITICA Una prospettiva che non esprime una nuova vitalità religiosa ma è indice del suo contrario. Perché la fede è, soprattutto, ricerca interiore. E i «martiri» non vanno in piazza a sventolare bandiere

Un «Dialogo» oggi a Milano
Anticipiamo l’intervento che Roberta De Monticelli terrà oggi, alle 18.15, presso il Salone d’Onore della Triennale di Milano in occasione dell’incontro L’avvenire del Cristianesimo. È il secondo di 5 appuntamenti, in programma ogni mese sino a settembre, dal titolo Dialoghi sul contemporaneo e oltre organizzati dalla facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele: filosofi e storici si confronteranno su grandi temi come evoluzionismo, multiculturalità, promesse e i rischi della democrazia. Il programma è disponibile sul sito www.unisr.it. Numero verde 800 33 90 33.

«Mentre la Chiesa investe le sue energie comunicative parlando di celibato di preti, preservativi, Pacs e altri temi che dividono, i laici si occupano sempre più di temi spirituali… La Chiesa parla di sesso e di politica, i laici dello spirito e del divino». Così scriveva recentemente Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di filosofia dell’Università San Raffaele di Milano.
Già a partire da Pio XII, affacciarsi alla Modernità, per i Papi, ha voluto dire esporsi alle folle, alle piazze, e poi sempre più intensamente all’amplificazione e comunicazione mediatica e globale della loro voce. Ultimamente, poi, non si è esitato ad offrire alle folle una prospettiva che è insieme religiosa e politica - e i politici, endemicamente a corto di idee, non hanno esitato a raccoglierla. Lasciamo i politici al loro mestiere e veniamo alla prospettiva teo-politica, radicata in un’identità religiosa, che viene oggi offerta al Paese. Nel linguaggio liberale corrente, una prospettiva teo-politica è già di per se stessa un peccato di fondamentalismo.
Si legge spesso che le tendenze fondamentalistiche, anche in casa cristiana anzi cattolica, sono solo un eccesso, una specie di sfogo di crescita, della nuova vitalità che distingue oggi il fenomeno religioso. Ma non è vero che il fondamentalismo sia un eccesso di vita per la religione, perché è anzi il suo esatto contrario, vale a dire la sua morte. Se crediamo almeno che l’essenza di ogni religione degna del nome, e squisitamente poi l’essenza della religione cristiana, sia l’atteggiamento che di fronte al male insegna a cercarne in primo luogo la radice in se stessi, e a imboccare quel doloroso cammino di trasformazione, che non finisce mai, e che ogni giorno fa i conti con l’uomo vecchio, con la sua angoscia e la sua volontà auto-affermativa. Questo cammino, che conosce certo anche i giorni di grazia e di gioia, tutto è però fuorché affermazione, proclamazione, difesa della propria identità, cioè del proprio io - anche nella veste potenziata e uniformata del proprio «noi», affermato sulle piazze in opposizione ad altre piazze («noialtri»). Questo pare il senso profondo della frase pronunciata dell’Arcivescovo di Milano al convegno di Verona, secondo la quale è meglio essere cristiani senza dirlo che dirlo senza esserlo. Una frase che ha radici molto antiche nel cristianesimo. «Il padre vostro che abita nel segreto» - così Gesù chiama il Padre, e invita a pregare nel segreto della propria stanza.
Ma, si dice, essere testimoni, essere martiri, è altrettanto importante che pregare in segreto. Sì, ma i martiri, chi li ha mai visti riempire, agitando bandiere, una piazza, o addirittura uno stadio? Di «martiri», cioè di veri testimoni, noi conosciamo e onoriamo quelli che la propria identità non l’hanno affatto affermata con la forza del «noi» sulle piazze, ma l’hanno offerta, in solitudine, alla piazza avversa, esattamente come ha fatto Cristo.
Ecco allora un primo senso in cui si può, un poco più in profondità, dire che l’ideologia è contraffazione della sapienza spirituale. In primo luogo blocca e impedisce, esattamente, quell’atteggiamento di guardare alla trave nei propri occhi prima che alla pagliuzza negli altrui, che sembra l’inizio di ogni rinnovamento interiore. Di ogni renovatio mentis, appunto - perché è così che anche si intende quella «metanoia», quel «cambiamento di mente» che i Padri latini tradussero anche poenitentia: questo modo della conversione religiosa, apparentato con la conversione filosofica eppure anche diverso. Dico apparentato, perché anche il filosofo platonico si «converte», si rivolge con tutta la persona dalla terra al cielo, girandosi con fatica dal suo posto nella caverna della tribù umana, per volgere gli occhi verso una fonte di luce che tutti gli altri prigionieri - legati alle catene delle loro quotidiane motivazioni, lo sguardo fisso allo schermo delle ombre - non riescono a vedere. Ma molto diversa, anche, la conversione religiosa, perché il filosofo platonico dal fondo della caverna volge lo sguardo alla luce del sole che proietta le ombre sulla parete, e vede sì che le cose vere sono in questa luce e non nelle ombre proiettate: ma né quando si gira per salire al sole, né quando si gira nuovamente per ridiscendere fra gli uomini e portare loro notizia della luce, si guarda dentro, per così dire, né vede l’ombra accumulata in sé.
L’ombra: non necessariamente soltanto la tenebra del cuore, ma anche la confusione della mente - e del resto sono due ombre che si alimentano a vicenda. E una delle peggiori ma più diffuse forme di insincerità è il disagio dell’intelligenza in materia di cose dello spirito, quando ce lo si nasconde. Simone Weil parla di un «disagio dell’intelligenza» che affligge il cristianesimo fin dai suoi inizi, ed è dovuto «alla maniera in cui la Chiesa ha concepito il suo potere di giurisdizione...». E parla in questo contesto della necessità di «pensare da capo la nozione di fede». Da capo, di nuovo. Ora, io credo che ogni volta che questo disagio si fa acuto, ci si trova a non aver più nomi per il divino, a non aver più proposizioni per la fede.
Non è questa, in fondo, la situazione dei più fra noi? E non da ora, certamente. Siamo nati in un mondo in cui i nomi di Dio sembravano abusati, e le proposizioni a riguardo, prive di luce.
Ma se invece che dell’ancora più abusata «morte di Dio» parlassimo di una dissociazione fra l’essere e il sentire, fra la relazione che ognuno di noi instaura con il divino, comunque lo chiami, e la coscienza che ne ha, descriveremmo, io credo, con più esattezza quello che accade. Che il divino non ha più nomi, e lo smarrito ma felice consentirvi non ha proposizioni in cui enunciarsi. Non perché il vento «che soffia dove vuole» abbia mai smesso di soffiare, e di incendiare alcune vite umane: ma perché troppi dei nomi e troppe delle proposizioni tramandate hanno alle nostre orecchie un suono falso. Non dunque perché venga meno l’amore di verità, ma proprio al contrario, perché questo amore si fa più intenso ed esigente man mano che si cresce - e se non ci fosse amore di verità, nulla potrebbe suonare falso.
Ma allora questo dissociarsi dell’essere e del sentire possiamo vederlo come un vero e proprio, doloroso e forse a sé ancora ignoto, rinnovarsi del nostro essere in relazione al divino. Come uno spogliarsi, anzitutto, della vecchia pelle: della vecchia coscienza, come gli animali al tempo della muta. E se la vediamo così, questa spoliazione, non possiamo non vederla anche come l’inizio di un rinnovamento.
E allora, guardandoci all’indietro, vediamo che così sempre è avvenuto. Ogni volta che il sentimento del divino si è rinnovato perché, in una nuova maturità umana, si è approfondito; ogni volta che la luce di un uomo divino ha fatto sì che improvvisamente, come all’individuo avviene per effetto d’amore, si allargasse e approfondisse la visuale di una comunità umana sul massimo valore - ogni volta che questo è successo, i vecchi nomi sono come caduti, e un dio ignoto, nascosto, segreto, è stato annunciato. Non lo ha fatto anche Paolo di Tarso, che proprio questo dio ignoto, al quale già il pantheon antico aveva fatto posto, disse di voler annunciare?

Repubblica 12.4.07
De Marchi fu uno degli italiani vittime di Stalin: la sua vicenda ricostruita dal regista-saggista Nissim
"L´amico di Gramsci nel gulag ha ispirato la svolta di Fassino"
di Michele Smargiassi


La figlia Luciana ha voluto rendergli giustizia

MILANO - La storia di una bimba senza paura ha rotto forse l´ultimo muro di smemoratezza rossa. Una storia vera, dimenticata, prossima a riemergere clamorosamente, che convoca su fronti opposti i nomi più altisonanti della storia comunista, Gramsci e Togliatti, attorno alla tragedia dei gulag sovietici, e alla tragedia nella tragedia dei comunisti italiani che ci finirono per delazione dei loro compagni. Quando poche settimane fa Piero Fassino ha ricevuto le bozze di Una bambina contro Stalin, il libro che sta scrivendo (uscirà il 6 giugno per Mondadori) Gabriele Nissim, regista e saggista impegnato sul fronte della memoria del Novecento, deve esserne rimasto colpito. Al punto da decidersi a un passo che nessuno dei suoi predecessori osò fare: varcare la porta della vergogna.
Dunque, Nissim, ha convinto lei Fassino a ricordarsi dei Gulag?
«Di sua iniziativa, un anno fa, mandò una corona di fiori al parco Valsesia, a Milano, dove inauguravamo un memoriale alle vittime dei gulag. Disse anche cose importanti sulla necessità di superare "ipocrisie e reticenze". Apprezzando quel gesto, gli mandai riservatamente le bozze del mio libro, assieme all´invito a venire il 29 giugno a Levashovo, vicino a San Pietroburgo, dove furono fucilate migliaia di vittime dello stalinismo e dove ora sorge il monumento ai "nomi restituiti". Qualche giorno fa mi ha telefonato: "verrò senz´altro"».
Che storia racconta il suo libro?
«Quella di Gino De Marchi, comunista, regista di cinema, amico di Gramsci, spedito in Urss dal partito nel ´21 perché già in odore di dissenso, stritolato e infine ucciso il 3 giugno 1938 dalla repressione staliniana. E quella di Luciana, sua figlia, che dall´età di tredici anni, cominciò una disperata battaglia di verità per rendergli giustizia, sulle cui carte si fonda la mia ricostruzione».
Storia comune a molti rifugiati politici italiani in Russia.
«Un migliaio gli internati italiani nei gulag: di cui trecento circa militanti comunisti. Storie già raccontate, ma spesso trascurando un elemento fondamentale: molti furono denunciati dai loro stessi connazionali. De Marchi fu arrestato già nel ´22, con l´accusa infamante di essere una spia fascista: fu proprio l´intervento di Gramsci a tirarlo fuori di galera, un anno dopo. Ma nel ´37 Gramsci non era più in grado di salvarlo. Nel "club" degli italiani a Mosca si discuteva: qualcuno passò gli appunti di quelle discussioni ai sovietici. De Marchi fu arrestato di nuovo, condannato senza processo, fucilato a Butovo, anche se per anni le versioni ufficiali lo daranno morto di peritonite».
Chi fu a denunciare De Marchi?
«Non voglio ancora svelare tutte le carte del mio libro. Ma tutti sanno chi guidava il gruppo degli italiani a Mosca in quel periodo: i Robotti, i Roasio...».
C'era anche Togliatti.
«E nulla poteva essere deciso senza che lui lo sapesse».
Come aveva reagito Gramsci alla persecuzione dell´amico?
«Anche qui mi permetta di essere riservato. Nel libro ci sarà un inedito gramsciano molto eloquente, scritto dopo il primo arresto. Vi si leggono riflessioni che furono la radice della sua successiva presa di distanza dallo stalinismo».
Comunisti italiani sia vittime che complici dei Gulag?
«È il grande rimosso nella storia del Pci e dei suoi eredi. Per decenni mogli e figli dei perseguitati cercarono di ottenere dal partito la riabilitazione dei loro cari. Le loro invocazioni furono lasciate cadere. Ancora nell´87 Alessandro Natta rispondeva a Nella Masutti, moglie di Emilio Guarnaschelli, che "la riabilitazione non riguarda noi, bisogna chiederla al Pcus"».
Cosa impedì a un Pci sempre meno filosovietico, e poi anche ai Ds, di affrontare una volta per tutte quel nodo spinoso?
«Un senso di disagio, se non di vergogna, nei confronti di quei dirigenti che non solo abbandonarono, ma denunciarono i loro militanti per salvare se stessi. Nella migliore delle interpretazioni, fu la voglia di guardare avanti dimenticando gli orrori del passato. È chiaro che i nuovi dirigenti del Pci, e quelli dei Ds, sinceramente democratici, non portano responsabilità per quei fatti. Ma evitare di fare i conti con le eredità politiche è una responsabilità morale grave».
Cos'è cambiato adesso? Cosa ha convinto il segretario dei Ds?
«Forse quella riflessione non era stata ancora chiesta con sufficiente forza. I libri servono anche a questo».
Cosa si aspetta da Fassino?
«Un gesto di grande moralità: riconoscere le sofferenze dei parenti di quelle vittime, la dignità della loro battaglia per tanti anni coperta dal silenzio».

Repubblica 12.4.07
Benedetto XVI rilegge Darwin
"L'evoluzionismo non basta per spiegare la creazione"
di Orazio La Rocca


In un libro le riflessioni del Papa sulle teorie del grande scienziato: "Non sono dimostrabili"

CITTÀ DEL VATICANO - La ricerca scientifica? «Da sola non è in grado di spiegare le origini della vita». Le teorie sull´evoluzionismo di Charles Darwin? « Non sono dimostrabili».
Parola di papa Ratzinger, secondo il quale alla base dell´inizio di «ogni cosa», a partire dalla vita, non ci può essere solo «il caso», ma un «disegno» collegabile direttamente a Dio. Benedetto XVI lo ha esposto in un simposio a porte chiuse lo scorso mese di settembre, nella residenza pontificia estiva di Castel Gandolfo, presenti 40 ex suoi allievi degli anni in cui insegnava teologia.
Tema di quell´incontro, Creazione ed evoluzione, quasi una lezione sulle teorie darwiniane tenuta da Ratzinger che per la prima volta dall´elezione papale volle toccare, così, uno dei temi più scottanti che negli ultimi anni hanno contrassegnato il difficile dialogo tra fede e ragione.
Dopo 8 mesi, l´intervento che papa Benedetto XVI fece davanti ai suoi ex allievi ora ha dato vita e forma ad un libro dal titolo «Creazione ed evoluzione» pubblicato mercoledì scorso in Germania e che presto sarà distribuito in tutto il mondo tradotto nelle principali lingue. Tesi portante del ragionamento ratzingeriano è che l´origine della vita, «opera» di Dio, non «può avere una spiegazione scientifica perché la scienza, malgrado le aperture, i progressi raggiunti, è pur sempre limitata». Quanto a Darwin, «la sua teoria sull´evoluzionismo - sostenne papa Ratzinger a Castel Gandolfo - non è completamente dimostrabile perché mutazioni di centinaia di migliaia di anni non possono essere riprodotte in laboratorio».
«La scienza - fu il ragionamento del pontefice - ha aperto tante nuove strade alla ragione, portandoci verso nuovi approfondimenti. Ma nella gioia per l´estensione delle sue scoperte, la scienza tende a portare via da noi dimensioni della stessa ragione di cui abbiamo ancora bisogno». E ancora, «i risultati della scienza sollevano domande che vanno oltre il suo canone metodico», ma che non possono essere spiegate solo con gli stessi canoni scientifici. Gli interrogativi sulle origini della vita, si legge ancora nel nuovo libro di Ratzinger, «stanno sempre più reclamando una dimensione della ragione che abbiamo perso», mentre il dibattito sull´evoluzione - secondo il Pontefice - si basa in effetti «sulle grandi questioni della filosofia» e sugli interrogativi legati «a dove vengono e dove stanno andando l´uomo e il mondo».
Ad ascoltare queste analisi, lo scorso settembre accorse un nutrito gruppo di intellettuali, docenti universitari, filosofi e scrittori aderenti al «Circolo degli allievi del professor Joseph Ratzinger», ex allievi che avevano studiato col futuro Benedetto XVI nelle università tedesche di Frisinga, Monaco, Tubinga e Ratisbona. Al summit filosofico di Castel Gandolfo partecipò, tra gli altri, anche l´arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schoenborn, ex allievo dell´allora arcivescovo Ratzinger all´università di Monaco nel 1972-73. Lo stesso cardinale Schoenborn domani pomeriggio sarà uno dei relatori alla presentazione di un´altra fatica teololgico-letteraria di Benedetto XVI, l´attesissimo libro su Cristo dal titolo Gesù di Nazareth (Rizzoli). Accanto al porporato, nell´aula Paolo VI in Vaticano, interverranno Daniele Garrone, decano della facoltà di teologia all´università Valdese di Roma, padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede e portavoce del Papa, e Massimo Cacciari, ordinario di Estetica alla Facoltà S. Raffaele di Milano. Schoenborn aveva, in un certo senso, anticipato il dibattito di Castel Gandolfo pubblicando lo scorso luglio un articolo su Darwin sul New York Times, dove tra l´altro aveva sostenuto la provocatoria tesi di un «Dio designer» e criticato «il darwinismo ideologico».

Liberazione 11.4.07
«Servirebbe un gesto come quello di Mitterrand. Le due sinistre devono comprendersi»
Bertinotti: «Mi piacerebbe dire al Pd tutto a monte e ricominciamo da capo...»
di Frida Nacinovich


Un libro, lo scrittore, e il giornalista che lo intervista. Questa volta però è tutto un po' speciale. L'autore de "la città degli uomini" è Fausto Bertinotti, il presidente della Camera. L'intervistatore è Paolo Mieli, direttore del "Corriere della sera". La sala della stampa estera è troppo piccola per contenere gli spettatori. Politici e cittadini comuni, uomini di spettacolo e dirigenti Rai, ragazzi e anziani interessati al dibattito. Qui si parla di politica, di storia, di sogni, di ideali, identità. La città futura, appunto. Il "giovane saggio" - così Mieli chiama Bertinotti - non si tira indietro. Spiega, puntualizza, offre un consiglio anche al Partito democratico che a giorni spiccherà il volo. «Se potessi pronunciare un incantesimo - dice il presidente della Camera - sarebbe quello di poter dire "a munt", come facevamo da bambini quando l'urlo "a munt" azzerava il gioco e faceva ricominciare». Tutto a monte, per ricominciare. Ma gli incantesimi agli adulti non sono concessi, li possono fare solo i bambini. «Quello che dico non è abbandonare, ma ricominciare - spiega allora Bertinotti - perché tutte le formazioni forti hanno in comune innanzitutto una cultura politica e questa si costruisce con un lungo processo o con un colpo di ingegno, con un'invenzione come quella di Mitterand a Epinay». Chi non è contro il capitalismo esca da questa sala, disse Mitterand. Un'espressione magari rozza ma sicuramente forte, decisa.
Il pubblico ascolta interessatissimo, non perde una battuta. Mieli riesce a portare la discussione dalle speranze degli anni '60 e '70 alla difficile fase politica attuale.
E ora? Per Bertinotti c'è bisogno di costruire una cultura politica comune, attraverso un processo inclusivo. «Non basta dire: venite. Occorre determinare le condizioni perché ciò accada. Iniziando dalla democrazia, dalla riforma della politica e dalla forma partito. Se non ora, quando lo si deve fare? Se fossi un leader del Partito democratico mi proporrei di portare dentro anche la sinistra radicale, così come se ora fossi un leader della sinistra radicale avrei l'ambizione di includere anche tutta la sinistra riformista. Includere vuol dire cogliere la verità interna dell'altro».
Al direttore Mieli, che gli chiede chi potrà essere il leader capace di fare ciò, Bertinotti con una battuta risponde: «Io...». Applausi, magari qualcuno lo spera anche. Ma è solo una battuta. Il presidente della Camera spiega subito che nei Ds e nella Margherita esistono molti leader capaci di affrontare questo percorso, anche se l'elemento importante non è il leader, ma il progetto. «Il leader, comunque, per essere tale deve disporsi all'impresa, deve buttare il cuore oltre l'ostacolo, deve rischiare. Un nuovo partito non può nascere per inerzia». E ancora: «Un leader si giudica ex post. Uno può diventarlo per carisma oppure, come è per la Chiesa, per grazia di Stato. Non è vero che nei Ds e nei Dl non ci sono leader, tutti possono diventarlo ma bisogna saper rischiare».

Bertinotti:«Riformisti e radicali devono cercarsi, competere, includersi»
Il presidente della Camera, intervistato da Paolo Mieli alla presentazione del suo libro, parla del futuro, illustra proggetti e sogni. "Ci vorrebbe un gesto come quello di Mitterrand ad Epinay..."
di Frida Nacinovich

Il Partito democratico e le sorti della sinistra. Bertinotti non aggira l'ostacolo e va dritto al cuore del problema, si dice convinto che per i prossimi dieci anni la scena politica italiana vedrà la presenza di due sinistre: «Non c'è una soluzione monopartitica, ci sarà una competitività e una ricerca di convergenza e vincerà chi avrà più capacità di calamitare, di presentare la sua nuova identità». Due realtà in competizione tra loro, che cercheranno di convergere. Ma che saranno in competizione.
C'è anche lo spazio per un siparietto tra il presidente della Camera e il leader radicale Marco Pannella, arrivato anche lui alla presentazione de "la città degli uomini". Al direttore del "Corriere della sera" che gli chiede come mai non ci sia mai stata una fusione delle posizioni di Bertinotti con quelle di Pannella, il presidente della Camera risponde: «Invece di fonderci abbiamo "rubato" da Marco Pannella. A lui dobbiamo la testata del quotidiano di Rifondazione, "Liberazione", ma poi abbiamo continuato a rubare: gli abbiamo preso la non violenza ... e continueremo a rubare». Immediata la replica di Pannella: «Quelli erano e sono dei doni. Non millantare una capacità di furto che non hai».
Presente e passato a confronto, ricordi e stretta attualità, con la voglia di guardare oltre, al futuro. Il '68 non fu un'epoca di violenza, ma «una grande occasione storica mancata dalla sinistra», spiega Bertinotti. «Il '68-'69 fu un grande momento di cambiamento che però la sinistra non capì per tempo. La sinistra di allora non comprese cosa si agitava in Italia e in Europa. Non capisco come si faccia a ricordare quegli anni come quelli del terrore e della violenza, fu invece un momento di grande partecipazione e democrazia per i giovani e nelle fabbriche, che si incrociò con il movimento femminista. Le sinistra in Italia e in Europa non seppero incrociare quella domanda di cambiamento radicale e così persero l'occasione di favorire un grande rinnovamento e quel ciclo terminò politicamente con l'uccisione di Aldo Moro e socialmente con la lotta alla Fiat». Bertinotti ricorda anche l'incapacità delle forze più aperte della sinistra di portare a termine l'idea di una uscita dal capitalismo, il riformismo rivoluzionario di Ingrao, di Lombardi e di Trentin rimase anch'esso «una rivoluzione incompiuta». Seduto in prima fila, Sandro Curzi applaude. Il presidente della Camera rivendica la sua formazione di militante politico, di «socialista di sinistra, non nel senso della sinistra di un partito, ovvero del Psi, ma della concezione del superamento della società capitalistica a partire da un'idea di libertà, per questo negli anni più recenti ho parlato di un comunismo della liberazione».
La guerra in Afghanistan e gli sviluppi della vicenda Mastrogiacomo, si parla anche di questo nella sala della stampa estera. «Domani c'è una capigruppo - precisa Bertinotti - la mia previsione è che si chiuderà con la richiesta di intervento in aula del governo, con un autorevolissimo esponente dell'esecutivo, già questa settimana, penso giovedì».
Il cinema è stata una delle passioni giovanili e uno dei momenti di formazione per il presidente della Camera. Bertinotti ricorda come la prima tappa di quel percorso culturale fu sicuramente il neorealismo ma poi, aggiunge, «così come leggevamo di nascosto i fumetti, devo ammettere che mi è sempre piaciuto Totò, cosa che allora non potevo dire apertamente». Bertinotti riesce anche a ridimensionare uno stereotipo di Paolo Villaggio: «Ho visto dieci volte o più la "Corazzata Potemkin", sempre con dibattito a seguire». Tra gli altri filoni cinematografici, il presidente della Camera ricorda la «nouvelle vague» francese, il grande cinema del nord Europa, ma anche naturalmente il cinema americano e non soltanto il Marlon Brando di "Fronte del Porto", ma anche quello del "Selvaggio" e poi devo dire pure James Dean e la "Gioventù Bruciata".
Fausto Bertinotti avrebbe titolato il libro "la città delle donne". Una citazione felliniana per disegnare un futuro possibile, auspicabile della politica italiana.

Corriere della Sera 12.4.07
APPELLO SU «LEFT»
E c'è un caso ebraico «Dal Manifesto via quelle radici cristiane»
di M.Gu.

ROMA — Erano mesi che lo staff di Palazzo Chigi lavorava per ricucire i rapporti con la comunità ebraica, resi a dir poco faticosi dalle scelte di politica estera nell'area mediorientale. Il lavorio diplomatico cominciava a dare i suoi frutti, finché tra gli ebrei italiani ha cominciato a circolare il Manifesto del partito democratico, il documento fondativo della nuova forza riformista redatto dai dodici «saggi» dell'Ulivo.
Dove le sole radici citate nel Vangelo del Pd sono quelle del Cristianesimo e dell'Illuminismo. Il settimanale Left Avvenimenti, diretto da Alberto Ferrigolo e Andrea Purgatori, domani sarà in edicola con un articolo in cui esponenti di spicco della comunità chiedono a Prodi di «ritoccare» il Manifesto, se non aggiungendo un cenno alle radici giudaico-cristiane, almeno togliendo il passaggio incriminato. Quelle in cui è scritto, nero su bianco, che i valori che ispirano la nostra Costituzione «hanno le loro radici più profonde nel Cristianesimo, nell'Illuminismo e nel loro complesso e sofferto rapporto. Traggono alimento sia dal pensiero politico liberale, sia da quello socialista, sia da quello cattolico democratico».
Un passaggio decisamente infelice secondo Amos Luzzatto (nella foto), già presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane.
«Aver messo le radici cristiane — osserva lo storico esponente della sinistra ebraica — è una concessione alle componenti cattoliche che faranno parte del futuro Pd». E poi, conclude, «mettere nella stessa riga Cristianesimo e Illuminismo è come voler apparentare cani e gatti».
Fernando Liuzzi, esponente del Gruppo Martin Buber—Ebrei per la pace, piuttosto che aggiungere un cenno all'Ebraismo toglierebbe i riferimenti al Cristianesimo. E assai critico è l'economista Giorgio Gomel: «Queste radici sono un falso storico... Bastava richiamarsi alla Costituzione repubblicana». E via così, una critica dopo l'altra. Victor Magiar, consigliere dell'Ucoi: «Questa gaffe sulle radici la dice lunga sul fatto che non c'è slancio in avanti». E quando l'autore dell'articolo, Tobia Zevi, chiede al «profondamente ebreo» Emanuele Fiano se resterà nel Pd a dispetto dell'omissione degli ebrei, il deputato dell'Ulivo risponde convinto: «Non credo che rimarrà così».

Corriere della Sera 12.4.07
CAPOGRUPPO DI PRC
Migliore: «Difendo il dissenso Ma non quello scritto sui muri»


ROMA — Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione alla Camera, che ne pensa della scritta «vergogna» usata contro monsignor Bagnasco e comparsa a Bologna?
«È da condannare, in maniera molto ferma. Come sono da condannare le scritte simili contro il presidente della Cei apparse in altre città. Sono gesti di intimidazione».
Ma Serafino D'Onofrio, esponente bolognese dell'Altra Sinistra (che comprende Rifondazione) ha detto in consiglio comunale che non va a scrivere sui muri, ma che condivide la parola «vergogna». E per questo non ha votato la mozione bipartisan di solidarietà al Presidente della Cei.
«Non voglio parlare di questo episodio. Ma sottolineo che bisogna distinguere nettamente gli atti intimidatori, tutti, gli atti che incitano alla violenza, dalle posizioni politiche. La polemica politica è su un altro piano, è separata, è fatta con mezzi diversi. Completamente differente dagli slogan che appaiono sui muri. E ripeto: la mia condanna della scritta contro Bagnasco è totale».
Ma questi attacchi a colpi di bombolette spray proliferano...
«Chi sceglie la scritta sul muro si nasconde. Mentre invece c'è bisogno di affrontare proprio davanti all'opinione pubblica il tema così importante delle libertà individuali e delle questioni eticamente sensibili. Anzi, ad essere sincero, io provo un vero senso di fastidio a discutere di chi e con chi si nasconde dietro una bomboletta spray, invece di discutere apertamente».
È innegabile però che ci sia un proliferare di attacchi contro l'arcivescovo di Genova, e anche contro il Papa, come nei giorni scorsi a Napoli. La sua condanna è così netta perché in fondo teme un'escalation di violenza?
«Non credo che in queste cose si possa determinare una specie di responsabilità oggettiva. Nel senso che le opinioni politiche non possono essere considerate come rilevanti nel determinare fenomeni così esecrabili. Ognuno si assume la responsabilità dei singoli gesti compiuti.
Ciò premesso, però, spero proprio che non ci sia nessuna escalation e nessuna violenza. Sono tutti episodi da condannare, senza eccezioni, senza se e senza ma, anche politici».
C'è chi paventa che, in questo momento, gli attacchi interni contro esponenti ecclesiastici si possano sommare ai rischi alimentati dall'estremismo di matrice islamica...
«Su questo sarei più cauto. Vedo meno un pericolo di proliferazione di attacchi jihadisti. E questo anche perché, per fortuna del nostro Paese e anche grazie all'azione dei servizi di prevenzione e intelligence, il rischio non si è mai concretizzato per nessuno. In ogni caso, su questo fronte, la migliore prevenzione è di non dare esca a nessuno scontro di civiltà».
Torniamo alle minacce alla Chiesa legate all'intolleranza che potrebbe essere generata dalle polemiche sulla politica interna in generale e sul caso «Dico», in particolare. Lei è stato pesantemente critico nei giorni scorsi con monsignor Bagnasco. Oggi, visto che piega stanno prendendo le cose, ripeterebbe quelle accuse?
«Continuerò a fare polemica politica. Anche perché la polemica su questi temi è reciproca, cioè anche da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Una vivace discussione, del resto, io la registro anche all'interno della comunità dei cattolici. Ma questa polemica, ripeto, non è per oggi. Non dobbiamo, per nessun motivo, confondere i due piani. Non è questo il giorno: non dobbiamo collegare la politica alle intimidazioni. Oggi per me c'è solo la condanna degli atti intimidatori contro Bagnasco».

mercoledì 11 aprile 2007

il Riformista 11.4.07
SAGGIO. IL DIARIO DELLA DONNA EBREA
II caso Ellen West. L'Anne Frank della psichiatria?
DI ANNELORE HOMBERG E CECILIA IANNACO


Una tragedia in due atti: suicidio e rilettura heideggeriana

L’obiettivo è “eliminare” la malattia, non il malato

Ellen West è il nome che lo psichiatra Ludwig Binswanger inventò nel 1943 per raccontare il caso clinico di una giovane donna ebrea, di probabile nazionalità americana e origini tedesche; un caso che diventerà paradigmatico per la sua psichiatria fenomenologica o daseinsanalisi e che si era concluso tragicamente più di vent'anni prima, nell'aprile del 1921.
Se il saggio di Binswanger è ben noto ai lettori italiani, non altrettanto lo è la ricerca, dai risultati a dir poco sorprendenti, che lo storico della medicina Albrecht Hirschmüller ha condotto su questo caso clinico. Il lavoro di Hirschmüller - del quale abbiamo curato l'edizione italiana per la rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla - si basa sul diario di Ellen e su un ricco carteggio, entrambi inediti, che permettono di ricostruire la storia della donna in modo assai più ampio e veritiero di quanto non abbia fatto lo stesso Binswanger. Pochi sanno infatti che il caso West si articola in due momenti.
Il primo atto di questa pièce desolante si svolge in un solo anno, tra il 1920 e il 1921, e si conclude con il suicidio della paziente. Tutto inizia quando Ellen - che stava molto male e per la quale le diagnosi future andranno dall'anoressia alla schizofrenia - si rivolge allo psicoanalista Victor von Gebsattel, che più tardi si occuperà anche lui di psichiatria fenomenologica. Questo trattamento finisce dopo sei mesi quando Gebsattel, in piena crisi mistica, manda Ellen dal suo santone; Ellen si rifiuta e prova con un altro analista, a sua volta ossessionato dal tema dell'erotismo anale. Visibilmente peggiorata, nel gennaio 1921, la donna giunge alla famosa clinica di Kreuzlingen sul Lago di Costanza. di proprietà dei Binswanger. Il giovane direttore Ludwig la riceve amabilmente ma è contrario ad ogni tipo di trattamento approfondito. Come consulente chiama il professor Hoche, stimato docente universitario, che proprio l'anno precedente aveva elaborato quel micidiale progetto di «annientamento di vita indegna di essere vissuta» che sarà poi alla base dello sterminio nazionalsocialista dei malati di mente. In tre mesi Binswanger, Hoche e il marito di Ellen giungono al verdetto che per lei non c'è alcuna speranza di miglioramento; "sanno" che è destinata al suicidio e decidono di dimetterla. È probabilmente il marito stesso a fornirle il veleno con cui la giovane donna, tornata a casa, docilmente si uccide.
Il secondo atto della tragedia - se possibile ancor più sconcertante del primo - si svolge invece dopo un silenzio di oltre vent'anni, quando Binswanger decide di riprendere la storia della paziente non per comprendere come un simile fallimento terapeutico era potuto accadere, ma per rileggerlo con le lenti di quella filosofia heideggeriana che nel frattempo ha fatto sua, e alla luce della quale la morte di Ellen diventa «una realtà inevitabile», il «necessario adempimento del senso della sua vita».
Si rimane feriti dal cinismo - ma sarebbe meglio dire dalla fatuità - con cui Binswanger riconverte la storia dell'ebrea Ellen West in una teoria del suicidio come «gesto autentico», proprio negli anni in cui, sull'altra sponda del Lago di Costanza, altri ebrei vengono condotti verso i campi di sterminio. In realtà, un'attenta analisi del materiale raccolto da Hirschmüller fa emergere l'ipotesi che questo «essere per la morte», più che della paziente, fosse piuttosto un problema dello stesso Binswanger e della filosofia che aveva adottato.
La West al contrario, chiedendo insistentemente aiuto, aveva sperato di poter guarire e vivere. Il suo cupo diario ritrae una persona drammaticamente braccata su due fronti: all'interno dalla grave malattia ed all'esterno dalle persone che la circondavano. Proprio quest'ultimo aspetto, insieme agli slanci improvvisi di speranza ed alla gioia di vivere che le pagine, in alcuni momenti, comunque trasmettono, fa apparire nella mente un'immagine che vorremmo cacciare: l'immagine di un altro diario, quello di Anne Frank.
Ricordare oggi la vera storia di Ellen West è importante per sottolineare l'esigenza di una psichiatria che, per essere tale, deve innanzitutto rifiutare un'impostazione teorica che nega l'idea di curabilità se non addirittura quella stessa di malattia mentale. Una psichiatria che al contrario tiene ben saldi i concetti medici di diagnosi, cura, guarigione anche se vengono applicati alla mente e non al corpo. Solo così si arriva a una prassi che, diversamente da quella nazista e purtroppo anche da quella di Binswanger, è volta ovviamente ad "eliminare" la malattia, e non il malato.
il Sole - 24 Ore Domenica 8.4.07
Avventuriera della mente
Di Luigi Sampietro


Nome: Ayn. Cognome: Rand. Luogo e data di nascita: San Pietroburgo 1905. Segni particolari: poco conosciuta in Italia. Questa in sé non sarebbe una notizia se Ayn Rand, pseudonimo di Alissa Zinovievna Rosenbaum, figlia di genitori ebrei non osservanti ed emigrata negli Stati Uniti nel 1926, non avesse pubblicato nel 1937 un romanzo, Atlas Shrugged, che ha lasciato il segno nella società americana. Al punto che, nel 1999, le Poste federali le hanno dedicato un francobollo.
Incluso a suo tempo nella lista dei 175 “Libri del secolo”, compilata dalla New York Public Library (accanto ad Ulysse di J. Joyce, The Invisibile Man di Ralph Eleison, Mein Kampf e The joy of cooking), in un sondaggio condotto dalla Library of Congress congiuntamente a The Book of the Month Club, rispondendo alla domanda “qual è il libro che nella vostra vita ha fatto la differenza?”, il pubblico interpellato ha collocato Atlas Shrugged al secondo posto, dopo la Bibbia.
Atlas Shrugged si compone di più di 1000 pagine complessive (14 anni di lavoro) e in Italia uscì da Garzanti nel 1958 come La rivolta di Atlante, nella bella traduzione di Laura Grimaldi di cui Corbaccio ha appena ristampato – refusi d’epoca compresi – il primo volume che si intitola Il tema. Seguiranno L’uomo che apparteneva alla terra (in maggio) e L’Atlantide (in novembre).
Considerando il mezzo milione di copie che, come scrivono, “The New York Times” e “The Washington Post”, Ayn Rand ancora vende ogni anno e gli oltre 25 milioni di copie complessive che ha venduto finora (a La rivolta di Atlante, tradotto in 18 lungue, bisogna aggiungere un altro best seller, La fonte meravigliosa, 1943, liberamente ispirato alla vita di Frank Lloyd Wright, da cui, nel 1949, fu tratto un film diretto da King Vidor e interpretato da Gary Cooper e Patricia Neal) si potrebbe pensare ad un fenomeno commerciale.
E di questo si tratta. Ma c’è dell’altro. I libri di Ayn Rand non sono romanzi di avventura – un tanto al chilo – ma semmai sono avventure della mente. Romanzi filosofici. Coinvolgenti e alla portata di tutti, scivolano via come le grandi storie del suo “maestro” Victor Hugo e, per un altro verso, come le piccole storie dell’amato Mickey Spillane con i suoi personaggi in bianco e nero. Vi si parla di etica e di giustizia, dell’origine del male e delle limitazioni della libertà, della dignità dell’uomo e del significato delle parole “indipendenza”, “integrità”, “onestà” e “responsabilità”. Il che vuol dire tutto ciò di cui parliamo anche noi tutti i giorni, magari indirettamente – in casa., in ufficio, in autobus - attraverso i nostri commenti e pettegolezzi. Con la differenza che i personaggi di Ayn Rand – inventori, imprenditori e artisti in lotta contro burocrati e faccendieri corrotti – interpretano se stessi fino in fondo. Titanicamente. Ed è questo un modo di affrontare il mondo che ha sempre affascinato i lettori in quell’età – l’adolescenza – definita a suo tempo da Jean Piaget come “l’età degli universali”. L’età dei grandi progetti.
Morta nel 1982, Ayn Rand diede luogo, con i suoi libri, ad un movimento filosofico chiamato “oggettivismo”. Il periodo del suo maggior successo fu la prima metà degli anni Sessanta, soprattutto tra gli studenti di college. Tra questi anche Hillary Clinton che, in una recente intervista, ha dichiarato: “Naturalmente c’è stato un momento in cui Ayn Rand è stata tra le mie letture”. Nei decenni successivi, l’interesse per il suo pensiero e i sui libri ha raggiunto un pubblico più generico, se non più vasto. Generalmente, anche se non necessariamente, schierato a destra e propenso a far proprio il suo primo comandamento: “Cominciamo con l’abolire tutte le tasse. Il resto verrà da sé”. Ma la destra di Ayn Rand, se tale è, va circoscritta all’ambito morale. A meno di non volere spregiudicatamente (come qualcuno fa) collocare dalla stessa parte, per via delle loro propensioni sociali, comunismo e nazismo allo stesso modo. (le Repubbliche socialiste sovietiche, il partito nazional-socialista, la Repubblica sociale) in quanto contrapposti alle convinzioni liberiste della Rand e alla sua invincibile avversione nei confronti di tutto ciò che comporta la subordinazione dell’individuo alla collettività (partito, nazione, Stato, Chiese).
Quel che Ayn Rand sviluppa in forma polemica – e, bisogna dirlo, con foga melodrammatica – nei suoi romanzi, è la dottrina, tipicamente americana, del diritto dell’individuo alla propria personale felicità. La sua filosofia è una sorta di religione secolare, estranea ad ogni trascendenza, e fondamentalismo, che si fonda sull’idea dell’”egoismo razionale”. Una virtù, secondo Ayn Rand, bollata come vizio nella tradizione giudaico-cristiana, e poi dai marxisti e tutti gli statalisti che hanno sempre predicato l’altruismo e il sacrificio di sé.
Ayn Rand collocava invece lo sviluppo e la realizzazione delle potenzialità dell’individuo al punto più alto della scala morale, e li indicava come l’unica via verso una società prospera. Come tuttora affermano i suoi seguaci, solo se libero di sprigionare la propria energia e solo se capace di divincolarsi da tutte le forme dirette e indirette di controllo della collettività, l’uomo può attingere alle più alte vette della creazione. L’arte di Michelangelo o il prodigio tecnologico – di cui tutti beneficiano – di una Microsoft.
Detestata dall’intellighenzia che era comunque sempre mesmerizzata dalla sua energia, (“Sono attratto da quella donna orribile”, scriveva Edmund Wilson) e definita a sproposito “fascista” da qualche denigratore accaldato, Ayn Rand fu una proterva fautrice dell’”utopia capitalista” (ché tale la si deve definire nei suoi romanzi).
Ora la domanda è questa. Com’è possibile che da noi sia tuttora semi-sconosciuta? Può avere perfettamente ragione chi sostiene che non c’è di che e che non abbiamo perso niente. Ma ha completamente torto chi, se le cose stanno come penso, ha teso un cordone sanitario attorno alla sua figura e non ne ha mai parlato. A sinistra, in Italia, è passato di tutto, dai guanti neri delle Pantere nere ai proclami del Comandante fotogenico. Ma nessuno ha mai trovato il tempo per illustrare il fenomeno Rand. Gli Arcadi dell’accademia e dei media hanno sempre ritenuto di dover militare contro il Sistema concentrando la propria attenzione sulle minoranze Usa e ripetendo quello che i colleghi sacrosantamente dicevano nelle università d’Oltreoceano. E si sono sempre dimenticati (?) di spiegare, a noi che non siamo dentro, ciò con cui si identificava e si identifica la maggioranza silenziosa che sta tra i poveri e gli stramiliardari. L’immaginario dello sterminato ceto medio che di fatto è sempre vissuto e ancora vive cercando di mettere in atto – magari senza nemmeno dirlo - il credo esaltato di Ayn Rand.

l’Unità 11.4.07
Prodi convince. Ma Mussi non cambia idea
La lettera del premier all’Unità fa rientrare i dubbi degli ulivisti Dl. Resta la contrarietà della sinistra Ds


(...) Qualcuno però sembra già perso: Fabio Mussi e il premier hanno avuto un colloquio nei giorni scorsi, ma né la chiacchierata né l’intervento di ieri hanno convinto il leader della sinistra Ds a partecipare alla fase costituente del nuovo soggetto. Il ministro dell’Università riunirà i suoi il 16 per decidere la linea da tenere al congresso, che sarà poi ratificata in un incontro con tutti i delegati della minoranza il 18 sera a Firenze. L’ipotesi più accreditata, per ora, è comunque che prenderà la parola soltanto Mussi al Pala Mandela e che gli esponenti della sinistra diessina non parteciperanno alle commissioni di lavoro né accetteranno di entrare a far parte degli organismi dirigenti eletti dal congresso.
(...)

l'Unità 11.4.07
Abusi in parrocchia, quel vertice «segreto» in Vaticano
Firenze, lo scandalo della «Regina della Pace»: si muove la procura, indagato il sacerdote
Dalla Santa Sede «no comment», ma il 2 aprile riunione ad hoc con Ratzinger e l’arcivescovo Antonelli
di Osvaldo Sabato


SI MUOVE la procura e il parroco fiorentino don Lelio Cantini finisce sotto inchiesta. L’ipotesi di reato su cui è indagato il prelato è di abusi sessuali pluriaggravati e continuati su minori. Contro l’ex sacerdote della parrocchia «Regina della Pace» nei giorni scorsi c’erano state delle denuncie di alcuni suoi ex fedeli per una serie di violenze sessuali, psicologiche e di plagio su intere famiglie, che hanno scosso l’ambiente religioso, e non solo. Mentre di don Lelio Cantini si sono perse le tracce dopo la sua fuga precipitosa da Viareggio, per la Curia fiorentina, chiusa nel silenzio assoluto dell’arcivescovo Ennio Antonelli e del suo ausiliario Claudio Maniago, sono giorni difficili. Specie per Maniago visto che fu proprio don Cantini che ha seguito e curato da vicino la vocazione dell’attuale vescovo ausiliario. Quest’ultimo non ha mai nascosto la sua vicinanza spirituale con don Cantini tanto da spingerlo a celebrare con il prete indagato per abusi sessuali il secondo anniversario della sua nomina a vescovo, avvenuta l’8 settembre del 2003. In quel periodo don Cantini era già un prete chiacchierato, ma il vescovo Maniago non ha ritenuto sufficiente questo particolare per indurlo a pretendere le distanze. Per qualcuno si fa strada l’impressione che l’ex parroco possa aver goduto di coperture molto in alto che hanno permesso di tenere sommersi questi fatti sempre più inquietanti. Dubbi e domande sui tanti perché di questa brutta storia, ancora senza una risposta. Anche le autorità vaticane che si trincerano dietro un ferreo «no comment», in realtà sapevano, ma hanno fatto finta di non sapere.
Infatti da ambienti religiosi si è saputo che durante un incontro privato il 2 aprile scorso a Roma, fra Papa Ratzinger e il cardinale Antonelli con il suo ausiliario Maniago, uno degli argomenti trattati sia stato proprio questo. Ed è molto probabile che Antonelli torni a parlare di questa vicenda con il Papa la settimana prossima, quando si recherà in Vaticano in visita «ad limina». Ma basterebbero le testimonianze, gli esposti e i memoriali presentati alla Curia di Firenze già a partire dal gennaio del 2004 e al Papa, per avere un quadro chiaro. Infatti, secondo questi racconti, don Lelio Cantini, dal 1975 e per anni, avrebbe abusato di ragazze dai 12 ai 17 anni e si sarebbe fatto consegnare denaro e altri beni e avrebbe plagiato ragazzi da indirizzare poi al seminario con l’intenzione di creare un vero e proprio potere rispetto a quello ufficiale. Insomma, si tratta di episodi molto gravi e con risvolti penali tanto da spingere la procura ad aprire un fascicolo. Per ora, come ha spiegato il procuratore capo, Ubaldo Nannuci, «nessuna delle presunte vittime si è rivolta all’autorità giudiziaria» e che l’inchiesta dovrà verificare «se è vero ciò che ha riportato la stampa sull’argomento» e l’epoca dei fatti «anche perché l’unico dato, per adesso, è la rimozione del sacerdote dalla parrocchia, avvenuta nel 2005». In realtà don Lelio Cantini è stato prima allontanato per motivi di salute dalla parrocchia «Regina della Pace» e poi dalla diocesi al termine del «processo penale e amministrativo», culminato con la decisione della Congregazione della Fede di vietare all’ex parroco la celebrazione della messa in pubblico e la confessione fino al 2010.

Abusi in canonica già dal 1975
Giovani, giovanissime: ragazze dai 12 ai 17 anni. Sarebbero loro le vittime delle «attenzioni» di don Lelio Cantini. È il quadro aberrante che emerge dalle loro denunce, dopo anni di silenzio. Ma non solo violenze sessuali: il parroco si sarebbe fatto consegnare denaro e altri beni e avrebbe plagiato ragazzi da indirizzare poi al seminario con l’intenzione di creare un vero e proprio «potere» rispetto a quello ufficiale. Il tutto sotto l’occhio delle gerarchie, che sapevano ma non hanno ritenuto di fare altro che un «rimprovero», come spiegato ieri su l’Unità dall’ex arcivescovo Piovanelli. Un gruppo di fedeli si era rivolto al Papa denunciando i casi di abuso nel marzo 2006, nell’ottobre dello stesso anno si erano fatti sentire sempre presso la Santa Sede anche alcuni sacerdoti della diocesi.

Repubblica 11.4.07
Quei comunisti spariti nei gulag una tragedia nascosta dal silenzio
di Simonetta Fiori


Prima la tragedia, poi un tenace silenzio imbarazzato. Quello tra la sinistra italiana e i gulag è stato un rapporto difficile e controverso, lungamente segnato dalla guerra fredda. Se tra gli anni Sessanta e Settanta una memorialistica d´autore riuscì a rompere il velo di reticenze - Una giornata di Ivan Denisovic, il romanzo choc di Solgenitsyn, uscì da Einaudi nel 1963, Arcipelago Gulag nel 1974 da Mondadori - è nel decennio successivo che la storiografia è divenuta più consapevole, fino alle ricostruzioni complete messe a punto negli anni Novanta dalla Fondazione Feltrinelli, grazie anche all´apertura degli archivi sovietici.
L´inclinazione prevalente, tra i militanti del Pci, è stata per diversi decenni quella di voltare la testa da un´altra parte. Confessò una volta Eric J. Hobsbawm: «Ho preferito rivolgere altrove la mia lente di storico per non dover scrivere dei gulag». Una delle prime e più clamorose testimonianze italiane fu quella di Dante Corneli, un operaio comunista di Tivoli finito nel lager di Stalin. Il suo Il redivivo tiburtino uscì nel 1977. A incoraggiarlo era stato Umberto Terracini, con l´argomento che occorreva far conoscere «quel mondo di orrori anche alla gente nostra, a cui la realtà sovietica è stata troppo a lungo nascosta». Nel 1964 la denuncia dell´ex comunista Guelfo Zaccaria - Duecento comunisti italiani tra le vittime dello stalinismo - non aveva avuto largo seguito.
Anche la sinistra non comunista - negli anni più bui della guerra fredda - aveva scelto quella che Valiani chiamava "astensione silenziosa". Ha raccontato Andrea Graziosi che quando Franco Venturi tornò disgustato nel 1950 da Mosca, dove per tre anni era stato addetto culturale presso l´ambasciata, i suoi amici azionisti lo invitarono a un sorta di prudenza. «Si avvertiva come imminente il pericolo di una reazione clerico-fascista. Sparare contro l´Urss avrebbe significato indebolire la sinistra italiana». Meglio parlar d´altro, almeno fino al Cinquantasei.
Non erano state poche le vittime italiane della repressione politica in Urss, tra 1919 e il 1951. Quasi un migliaio di persone, dicono le ricerche di Elena Dundovich e Francesca Gori: trecentocinque arrestati, cento condannati a morte e fucilati, centoquarantuno destinati ai campi di lavoro correzionale, gli altri privati dei diritti civili, emarginati, allontanati dai posti di lavoro. Un numero che potrebbe apparire esiguo rispetto ai milioni di vittime sovietiche, ma che getta luce sui rapporti tra Mosca e il Partito comunista italiano. Specie dopo l´assassinio di Kirov, il 1 dicembre del 1934, un clima di sospetto crescente avvolse la comunità italiana. Sempre più capillare il controllo dell´Nkvd - la polizia politica sovietica - sull´emigrazione straniera di ogni nazionalità. Come un ossessivo ritornello risuonavano le accuse. Trotzkismo o - nella variante italiana - bordighismo. Terrorismo. Spionaggio. Un aiuto fondamentale alle "indagini" proveniva dai funzionari che lavoravano nella "sezione quadri" della Terza Internazionale. Furono gli stessi leader comunisti a consegnare i loro compagni al dittatore georgiano. A queste gravissime responsabilità non si sottrassero i dirigenti italiani Palmiro Togliatti e Antonio Roasio, Domenico Ciufoli e Paolo Robotti: alti e medi funzionari del Pci pronti a passare informazioni all´Nkvd. Tra i perseguitati non solo emigrati politici, ma anche ballerini e circensi, decoratori e musicisti, operai e contadini: tutti inermi davanti ai plotoni d´esecuzione ordinati da Stalin.
L´incubo non sarebbe finito con la guerra. Negli anni Quaranta, chi desiderava tornare a casa doveva sottoporsi al giudizio dei dirigenti del Pci. Occorreva garantire che, una volta in Italia, non si sarebbe sporcata l´immagine dell´Urss. Spettò a Paolo Robotti, cognato di Togliatti e implacabile stalinista, misurare la "condizione morale" dei richiedenti. Molti furono "i casi dubbi", meglio trattenerli a Mosca. Gli altri costretti a tacere, ancora per molto tempo.

Repubblica 11.4.07
Bertinotti all'Ulivo "A monte, ricominciamo"
di Alessandra Longo


ROMA - Chi potrebbe essere il capo di un nuovo rinascimento a sinistra? «Io!». Fausto Bertinotti ride con la leggerezza di chi, fuori dalla mischia per incarico istituzionale, può permettersi la battuta senza rischiare di provocare l´ennesimo, noiosissimo, polverone quotidiano. Siamo a Roma, nella sede della Stampa Estera, dove il presidente della Camera presenta il suo ultimo libro «La città degli uomini», frutto della collaborazione con Sergio Valzania. Sala piccola e affollata, Marco Pannella in piedi, Paolo Mieli, direttore del Corriere, nelle vesti di provocatore. Allora, presidente, facciamo finta che lei debba dare dei consigli a chi sta lavorando al Partito Democratico.
Bertinotti non si fa pregare. Ma sì, visto che è fuori dalla politica, può girarci intorno, raccontando, per esempio, di «quell´urlo che facevamo da bambini». Si iniziava un gioco, il gioco magari sfuggiva di mano e, allora, bastava gridare forte: «A munt!», «A monte!», e tutto veniva magicamente azzerato, «si ricominciava daccapo». Dice il già lider maximo di Rifondazione: «Se potessi proporre un incantesimo, sarebbe questo». Cancellare quel che non va con un grido si può solo nell´infanzia e, visto che il Partito Democratico lo fanno i grandi, Bertinotti è prodigo di consigli adulti. Niente azzeramenti, niente rinunce, ma una ripartenza all´insegna del progetto: «Tutte le fondazioni forti hanno bisogno di formare una cultura politica e questa si costruisce in due modi. O attraverso un lungo processo, o grazie ad un colpo d´ingegno come quello che portò Mitterrand a rifondare il partito socialista a Epinay».
Un progetto, dunque, per prima cosa, un partito che «nasce non per inerzia, perché non c´è altro da fare, ma per volontà, disegno, soprassalto di energia». E ancora non basta, dice Bertinotti. Ci vuole la «capacità di calamitare, di includere. Se io fossi un dirigente del Partito Democratico mi proporrei di portare dentro anche la sinistra radicale. Così come se io fossi la sinistra radicale proverei ad inglobare quella moderata». Viene in mente il vecchio slogan prodiano, «Competition is competition».
Il Grande Capo di Rifondazione, ora terza carica dello Stato, non dà per scontato nulla: «Vince chi accumula culture politiche, chi dà conto di una nuova identità. Per i prossimi dieci anni le sinistre saranno due, quella radicale e quella riformista. Non c´è una soluzione monopartitica, ci sarà competitività e una ricerca di convergenza». Già, ma il leader? Mitterrand era Mitterrand, ricorda Mieli. Giura Bertinotti: «Nei Ds e nella Margherita molti possono affrontare questo percorso. Certo, per essere leader, bisogna buttare il cuore oltre l´ostacolo, rischiare». Lui, il presidente della Camera, a suo tempo ha impresso ai suoi accelerazioni e svolte importanti. Quella della non violenza, dice ridendo, «l´ho rubata a Pannella». Mieli rintraccia un altro colpo di reni nelle pieghe dell´ultimo libro. A pagina 87, Bertinotti parla di Medio Oriente. Si fa «violenza culturale su una civiltà» - scrive - non solo quando si continua ad occupare «regioni sensibili del mondo islamico», ma anche quando si nega la Shoah o quando ci si «rifiuta di riconoscere la realtà storica dello Stato di Israele».

Repubblica 11.4.07
In Inghilterra vivono così un milione di adolescenti. Ma il fenomeno interessa anche Giappone e Usa, e da poco il resto d'Europa
"Neets", la generazione degli autoesclusi
di Cinzia Sasso


A "scoprirli" uno studio della London School of Economics sui costi sociali di un fenomeno in ascesa: 6-7 miliardi di euro all´anno
L´acronimo inglese letteralmente indica ragazzi "non impegnati nel mondo dell´educazione, del lavoro e dell´apprendistato"

LONDRA - A scoprirli e battezzarli, sperduti per le strade di Londra, mescolati agli altri adolescenti nelle vie delle città dell´Inghilterra, vestiti come tutti con i pantaloni bassi, le felpe e i berrettini da baseball e incollati agli iPod, non è stata questa volta una ricerca sociologica: a individuare i "Neets" come l´ultima tribù da tenere sotto osservazione, è stato uno studio della London School of Economics intitolato "The Cost of Esclusion". Sono i risvolti economici di quella che viene definita «una generazione tradita», il miliardo di sterline l´anno che costano i loro comportamenti, i 6-7 miliardi di euro che la loro marginalità costa alla collettività, le ragioni che hanno portano stavolta ad accendere un faro su di loro. Sui ragazzi che non vanno a scuola, che non hanno un lavoro, che quel lavoro nemmeno vogliono imparare o cercare.
"Neets" significa giovani "non in education, employment or training". Significa insomma i marginali, gli esclusi, quelli senza arte né parte, quelli che le scelte di oggi porteranno ad essere anche gli emarginati di domani. Significa, in altre parole, ragazzi senza futuro.
Sono una tribù numerosa, fatta di almeno un milione di giovani. Ragazzi o poco più, la loro età è compresa tra i 16 e i 24 anni, perché oggi l´adolescenza si trascina e fino a quell´età. Sarebbe ancora possibile essere studenti, oppure cominciare a fare pratica in qualche mestiere, trovare insomma una propria strada. Ma i "Neets", una loro strada non la vogliono e non la cercano. Sono disinteressati a tutto, se non proprio cinici comunque indifferenti. Abbandonano gli studi e poi non fanno niente. Nel momento in cui si registra in Inghilterra uno dei tassi di disoccupazione più bassi, intorno al 9%, loro lo sono per almeno il doppio. Nullafacenti oggi, destinati ad essere disoccupati domani.
Un fenomeno che esiste anche in altri paesi del mondo: in Giappone, ad esempio; e anche in Europa. Ma gli esperti britannici proprio per questo si dicono ancora più preoccupati: i "Neets" inglesi sono almeno il doppio di quanti siano i loro compagni tedeschi e francesi. Come se questa malattia di vivere avesse attecchito più qui che altrove. E così il presente incerto si trasforma in una seria ipoteca sul futuro: lo studio eseguito dalla London School of Economics per l´associazione Prince´s Trust, fondata dal principe Carlo proprio per aiutare i giovani a completare l´istruzione e a trovare una strada nel mondo del lavoro, prevede che le conseguenze saranno anche peggiori. Tagliati fuori dal mondo, alla ricerca di un qualche modo per campare, questi giovani facilmente finiranno nella piccola criminalità. Martina Milburn, capo del progetto voluto dal principe di Galles, dice: «Questo problema ha dei costi sociali ed economici altissimi. E le nostre previsioni sono sicuramente più ottimiste di quel che sarà la realtà». L´esclusione sociale costa tra i 6 e i 7 miliardi di euro l´anno, e con quella cifra sarebbe possibile ridurre di un punto le tasse; l´aumento della criminalità minorile significa per lo Stato un esborso di 1 miliardo di sterline l´anno; e poi gli economisti conteggiano le perdite per l´educazione mancata e la futura assistenza di una classe sociale di disoccupati. Il Governo ha già aiutato 700mila giovani tra i 18 e i 24 anni, ma ha scoperto che è molto difficile tradurre il sostegno momentaneo in qualcosa di definitivo. Forse, a occuparsi dei "Neets" dovranno essere anche i sociologi: fare i conti non basta; per aiutare la generazione tradita bisogna capire perché si è perduta.

Repubblica 11.4.07
Maria Rita Parsi, psicologa: "Un fenomeno in crescita che va oltre la tradizionale dispersione scolastica"
"Depressi e soli, ora anche in Italia"


ROMA - Il fenomeno "Neets" anche in Italia?
«Sì, negli ultimi due anni stiamo assistendo allo stesso fenomeno. Sono ragazzi che non vogliono andare più a scuola, ma non è la tradizionale dispersione scolastica, si chiudono in se stessi, più che in casa stanno nella loro stanza, non vivono in branco, non cercano il rapporto con gli altri».
Perché accade?
«Sono ragazzi, spesso tra i 12 e i 17 anni, segnati da profonda solitudine e da una depressione. In genere hanno problemi familiari, vivono con genitori che hanno tra loro un´alta conflittualità o sono figli di coppie separate ma il genitore con cui abitano è spesso afflitto a sua volta da problemi, affettivi o economici, e sono loro che devono contenerne il disagio».
Il loro comportamento è dunque una reazione ai problemi degli adulti?
«Sì, si devono annullare, svuotare la mente, e si lasciano andare magari in compagnia di qualche amico come loro, con gli stessi problemi».
Come si può affrontare questa deriva?
«Non con i soliti strumenti. Il problema è che mancano punti di riferimento e i ragazzi sono in contatto costante con modelli di superficialità. Intorno a loro la famiglia si scioglie ma non è questo il problema ma il modo in cui avviene: è tutto molto adultocentrico. Sono ragazzi a cui nessuno dice nulla e devono rovistare tra i rifiuti che gli adulti lasciano per trovare una loro identità. Allora dicono: basta, io mi fermo».
(m.c.)

Repubblica 11.4.07
Il "Simposio" di Platone
Tra ragione e follia
Qual è il senso dell'amore in un grande classico
di Umberto Galimberti


Pubblichiamo parte di un intervento che terrà alle 21 di stasera a Roma, nella chiesa di San Lorenzo in Lucina (il ciclo d´incontri sul "classico di una vita" è organizzato da Progetto Italia Telecom).

Il Simposio di Platone è, tra i dialoghi del filosofo di Atene, il più vertiginoso perché mette in tensione l´ordine della ragione, che Platone ha inaugurato per l´intero Occidente, con l´abisso della follia che Platone definisce: «Più bella della saggezza d´origine umana». Mediatore tra l´uno e l´altro mondo è Amore il cui compito è di tradurre e interpretare i messaggi della follia inaccessibili alla ragione e le parole della ragione incomprensibili alla follia.
Folle è il mondo degli dèi che, concedendosi a tutte le metamorfosi, non si attengono al principio di identità e di non contraddizione che sono i cardini della ragione. Del resto già Eraclito aveva detto che: «Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma», mentre «l´uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l´altra», in una parola non mescola, come invece fa il dio, tutte le cose, ma istituisce quelle identità e differenze che, tra loro disgiunte e connesse, istituiscono l´ordine della ragione che è prerogativa dell´uomo e non del dio.
Accade però che nel Simposio Platone non considera l´anima razionale da lui inaugurata nella sola prospettiva dell´ordine a cui contribuisce. Sa infatti da quale caos l´ha evocata perché conosce le passioni che hanno alimentato la crisi di cui si è fatta interprete la tragedia, non ignora la temibile apertura verso la fonte opaca e buia di ogni valore sociale che chiama in causa il fondamento stesso della città, sa che la ragione e il sapere che la esprime si ottengono, come la buona armonia nella città, espellendo il katharma, il residuo del sacrificio, il rifiuto del discorso che non sta alla regola, ma sa anche che bisogna sacrificare agli dèi perché è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in sequenza non oracolare e non enigmatica. Per questo, nell´edificare il cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, Platone non chiude l´abisso del caos, ma lo riconosce come minaccia e dono, come sede di parole incontrollabili, come dimora degli dèi, e perciò dice: «I beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino».
Per Platone infatti anche la follia è un´esperienza dell´anima, nella consapevolezza che le esperienze dell´anima sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e disporle in successione ordinata perché, al di là di ogni ordine razionale, l´anima sente che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale, che ogni tentativo di comprensione totale emerge da uno sfondo abissale che è caos, apertura, spalancamento, disponibilità per tutti i sensi. Intermediario tra il mondo della ragione e il mondo della follia è Amore, per accedere al quale bisogna soffrire quella malattia che Socrate chiama «a-topia» e che noi potremmo tradurre con «dis-locazione». Per accedere agli abissi della follia che ci abita occorre infatti dislocarsi dal recinto protetto dalla ragione, abbandonare le dimore dell´io e, per non perdersi nella follia, occorre che ad accompagnarci sia l´amato, che noi amiamo proprio perché egli ha colto e in qualche modo riflesso la nostra follia. Amore, infatti, è sì un evento duale, ma non tra me e te, ma, grazie a te, tra il mio ordine razionale e l´abisso della mia follia.

Repubblica 11.4.07
La scomparsa dello storico Antonio Rotondò
Frugando tra le carte degli eretici
Grande conoscitore della critica dei dogmi religiosi tra Rinascimento Riforma e Illuminismo
di Adriano Prosperi


E´ scomparso nei giorni scorsi all´età di 77 anni Antonio Rotondò. Per chi lo ha conosciuto e stimato è difficile parlarne al passato: proprio di recente avevo letto in un bollettino editoriale del suo editore l´annuncio della prossima pubblicazione non solo delle opere che alimentavano regolarmente la collana da lui diretta ma anche di nuovi volumi di studi suoi.
Li aspettavo non solo con la certezza che ne avremmo imparato molto su libri, uomini e idee del passato ma anche col senso di sollievo per il ritorno di una misura severa e alta di indagine storica degna dei grandi maestri a cui Rotondò amava richiamarsi. Si era formato a Firenze, alla scuola di Delio Cantimori e di altri celebrati maestri di quella Facoltà di Lettere e Filosofia che all´inizio della seconda metà del secolo scorso dominava per l´alta qualità della sua offerta il panorama degli studi universitari italiani: in seguito, dopo un periodo di insegnamento liceale a Modena fecondo di studi e di amicizie, con l´avvio torinese del suo insegnamento aveva trovato in Franco Venturi e in Luigi Firpo i modelli intellettuali a cui rifarsi. Credeva nella trasmissione di valori intellettuali e di civile moralità attraverso l´insegnamento dalla cattedra: e lo stile con cui lo praticava e lo illustrava gli assicurava l´affetto e la stima degli allievi almeno in misura uguale a quella delle facili ironie di colleghi.
Antonio Rotondò era un grande conoscitore dei percorsi e dei protagonisti della cultura italiana ed europea della prima età moderna, specialmente delle vicende intellettuali di umanisti, di riformatori e di eretici e del modo in cui si erano passati la fiaccola della critica razionale dei dogmi religiosi tra Rinascimento, Riforma e Illuminismo. Era anche un attento studioso di vicende intellettuali del nostro tempo, come mostra l´ampio saggio che aveva di recente dedicato alla figura e all´opera di Sebastiano Timpanaro. Ci sarà tempo per parlarne perché l´opera sua lascia un segno che non si cancellerà facilmente: sappiamo bene che questo è uno di quei giudizi che si spendono di frequente al momento della scomparsa di professori e studiosi ma che poi raramente si realizzano. Ebbene nel caso di Rotondò si potrebbe dire che è la stessa inattualità della sua opera nel contesto attuale della storiografia italiana a far pensare che vi si dovrà tornare sopra se e quando verranno tempi migliori. Inattuale, ad esempio, almeno per un costume o malcostume oggi corrente, era la sua dedizione all´edizione filologicamente accurata delle fonti: ci si chiede in quante monografie, saggi e noterelle si potrebbero spicciolare i tesori di conoscenze e gli anni di ricerca concentrati negli apparati delle edizioni di testi curate in anni ormai lontani da Rotondò per due capiscuola dell´eresia radicale del ‘500 italiano, Camillo Renato e Lelio Sozzini. Da quella severa scuola di studi su eretici e riformatori italiani del ‘500, scelta per influsso del suo primo maestro - Delio Cantimori - Rotondò era passato a indagare i percorsi dell´idea di tolleranza lungo la pista che dai sociniani portava all´Olanda del `600. La sua dedizione alla ricerca storica condotta in proprio e a quella che sotto la sua guida veniva portata avanti dai suoi allievi avevano fatto di lui una presenza di rilievo in Italia e un convinto protagonista degli studi sulla storia intellettuale italiana ed europea della prima età moderna. Un tratto personale di pedagogica severità unito a una straordinaria competenza specifica nelle aree a cui dedicava le sue ricerche, lo rendevano un esempio raro di maestro da cui si poteva imparare l´artigianato della ricerca storica nel senso migliore della parola: il taglio classicamente sobrio e controllato e il robusto apparato erudito di saggi e libri, non solo dei suoi ma anche di quelli di suoi allievi e collaboratori filtrati al vaglio della sua incontentabile passione di lettore, era il segno di riconoscimento della scuola e la garanzia di indagini solitamente ineccepibili. L´augurio che si deve fare oggi all´università italiana è quello di avere altri uomini del suo stampo.

Repubblica 11.4.07
Settant'anni fa venivano uccisi in Francia i due fratelli antifascisti da tempo sotto stretta sorveglianza
I pericolosi Rosselli
"Anatomia di un omicidio politico": un nuovo saggio di Mimmo Franzinelli
di Lucio Villari


L´anno 1937 si apriva sullo scenario europeo di una guerra civile che, a cinque mesi dal suo inizio, di giorno in giorno appariva come il dissidio tra due civiltà: la guerra di Spagna. In molti, tra gli esuli antifascisti italiani, avevano fatto la loro scelta di campo, e «tutto nell´animo e nella volontà di Carlo Rosselli lo disponeva all´intervento in questa guerra». Così Aldo Garosci nel 1967, a trenta anni dell´assassinio di Rosselli, rievocava l´ultimo impegno politico del fondatore di «Giustizia e Libertà», il movimento che fu un alto e democratico rifiuto del regime, dell´ideologia, della violenza del fascismo e rappresentò la negazione, implacabile e anche irridente, della figura di Mussolini. La Spagna democratica e repubblicana, dunque, aggredita dalla «controrivoluzione». La «Spagna feudale e borghese» in lotta contro la «Spagna moderna e proletaria» (erano questi i termini, secondo Rosselli, dello scontro in atto in quel paese) era, in controluce, l´Italia del fascismo contro l´Italia della libertà. Carlo Rosselli pagherà con la vita questa simmetria e la scelta di combattere in Spagna in attesa di farlo in Italia («La rivoluzione spagnola è la nostra rivoluzione; la guerra civile del proletariato di Spagna è guerra di tutto l´antifascismo», aveva scritto il 31 luglio 1936, nei primi giorni del golpe di Franco). Pagherà per l´intransigenza antifascista allo stesso modo di Antonio Gramsci, consumato da nove anni di carcere. Furono i due ultimi rappresentanti, nel tempo dell´Italia imperiale e del diffuso consenso al duce, di una opposizione particolare, della élite di una Italia ideale che il fascismo non poteva tollerare oltre perché si trattava di avversari veri, non di semplici, anonimi nemici. Appartenevano infatti alla schiera sottile dei conoscitori del fascismo «reale», di coloro che avevano capito le ragioni storiche del suo potere e della sua menzogna politica.
Altri tre uomini avevano, come loro, combattuto il fascismo agli esordi con la forza delle idee e con gli strumenti della legalità costituzionale, dei diritti dei cittadini e di una cultura europea: Giovanni Amendola, Giacomo Matteotti, Piero Gobetti. Erano finiti sotto i colpi del nemico. L´Italia risorgimentale, l´Italia del socialismo democratico, l´Italia liberale che risorge nel proletariato moderno: questo avevano significato, in una dimensione strettamente politica, i loro nomi, e questo si mutava ora, un decennio dopo, nel pensiero e nell´azione di Carlo Rosselli come nelle parole scritte nei Quaderni del carcere di Gramsci. La partecipazione personale di Rosselli alla difesa della Spagna repubblicana voleva essere il segnale di un fronte nuovo nella guerra che la democrazia internazionale si apprestava a combattere contro il fascismo internazionale: «I profeti non sono più disarmati - aveva scritto Carlo il l5 gennaio 1937 dal fronte spagnolo sul giornale Giustizia e Libertà -. E i discendenti dei profeti, col fucile in mano, hanno acquistato una coscienza nuova».
Probabilmente a Carlo Rosselli importava poco sapere che i servizi di sicurezza italiani, Mussolini, Galeazzo Ciano (dal 1936 ministro degli esteri), l´Ovra e le spie infiltrate tra gli esuli antifascisti, seguivano non soltanto i suoi comportamenti e i movimenti «col fucile in mano», ma anche, e con molta preoccupazione, le idee, gli articoli, gli scritti di economia e di analisi politica e l´impianto teorico del suo «socialismo liberale»: la «terza via» tra socialdemocrazia e comunismo che egli stava elaborando da tempo. Nel 1930 era apparso a Parigi il suo libro Socialismo liberale dal quale era facile capire la serietà e le finalità di un preciso percorso ideologico e politico. I due termini scompaginavano infatti il tradizionale quadro politico dell´antifascismo perché mettevano in moto e in campo, insieme alla critica del sistema capitalistico, forze inedite e avversari potenziali all´interno della borghesia e della stessa classe operaia. Dunque, l´uomo andava attentamente sorvegliato.
Sotto attenzione era anche, in Italia, il fratello Nello, studioso del Risorgimento, di Mazzini, di Pisacane, di Giuseppe Montanelli, allievo di un odiato Gaetano Salvemini. Nello era rimasto in Italia a studiare, ma con sentimenti e idee altrettanto antifasciste di quelle di Carlo. Scalpitava («Tutto va a rotoli:- scriveva nel 1934 a Leone Ginzburg - dall´Europa agli affari privati. Il cerchio delle persone che puoi rispettare diventa sempre più minuscolo...») ed era infastidito del controllo, diretto o indiretto, politico e universitario, di Gioacchino Volpe, storico fascista e duttile uomo di regime, anche se non con lo spirito da inquisitore. Il pensiero di Nello, agli inizi degli anni ‘30 era costantemente altrove, soprattutto a Parigi.
Nello era vicino ai compagni di «Giustizia e Libertà», e l´affetto e le preoccupazioni per il fratello erano aumentate con lo scoppio della guerra di Spagna. Aveva comunque la possibilità di un passaporto per viaggi saltuari di studio all´estero, e nell´ultimo di questi in Francia fu accomunato a Carlo, trafitto da numerose pugnalate, nella tragedia del 9 giugno 1937. «Quando fu assassinato con suo fratello - scrisse Salvemini nel 1938 - Nello gli faceva una delle sue visite furtive di pochi giorni. Si era allontanato da Firenze da una settimana e faceva conto di ritornarvi entro pochi giorni. Carlo, e non Nello, era stato condannato a morte da Mussolini».
Dunque, sorveglianza assoluta, soprattutto nei confronti di Carlo. Il documento che qui sopra riproduciamo fa vedere bene il lavoro dell´infiltrato all´interno della «sigla»(era GL, Giustizia e Libertà). L´informatore riferisce di una riunione parigina il 2 maggio 1936. I primi nomi dei presenti sono quelli, appunto, di Carlo Rosselli, Aldo Garosci, Franco Venturi per finire con Max Ascoli. Accanto ai nomi i numeri in codice per i cifrari del servizio segreto. L´attenzione dell´informatore era rivolta esclusivamente a quel che diceva e pensava Carlo. Certamente questi erano gli ordini del Sim (Servizio informazioni militari, cioè il controspionaggio) e degli esponenti massimi del regime, con in testa Ciano. I tempi per agire erano ormai maturi.
«Il maggior pericolo viene da Rosselli e, a mio modo di vedere, è assolutamente necessario sopprimerlo». E´ il tranquillo parere di un italiano a Parigi al capo della polizia politica del giugno 1934, ed è riportato nel volume di Mimmo Franzinelli: Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico (Mondadori, pagg. 352, euro 18,50). Il documento è uno dei tanti pubblicati nel volume. Attraverso essi l´autore ricostruisce la preparazione in Italia e l´esecuzione per mano francese dell´assassinio dei fratelli Rosselli. Nella prima metà del volume si seguono le trame italiane e le complicità francesi della rete dentro la quale cadrà Carlo Rosselli.
La rete tessuta in Italia ha una giustificazione politica nelle parole di Michelangelo De Stefano, il più vicino collaboratore del capo della polizia Arturo Bocchini. Sono indirizzate a un ex ufficiale dei carabinieri che coordinava l´attività dei delatori sugli esuli antifascisti: «Tenga presente, caro commendatore, che il movimento più importante, più pericoloso, più attivo è, per ora, Giustizia e Libertà». E´ il 29 novembre 1935. Quattro mesi dopo la spia infiltrata a Parigi tenta anche una interpretazione culturale della pericolosità di Rosselli: «Ho dovuto persuadermi che il Rosselli è, senza dubbio, l´uomo più pericoloso di tutto il fuoruscitismo [nel linguaggio fascista si preferiva qualificare con un termine dispregiativo «fuorusciti» gli esuli antifascisti]. Egli è un "piccolo Lenin, figlio di papà", ma crede sul serio al suo ruolo rivoluzionario ed è totalmente sprovvisto di quel minimum di misticismo che spinge il rivoluzionario idealista a non imbruttire mai la propria opera. Per Rosselli tutti i mezzi sono buoni».
In generale, tutti i movimenti di Carlo Rosselli, le opinioni, gli spostamenti, la maggior parte delle lettere private inviate a compagni e parenti, erano conosciuti dai servizi italiani. Di questo Rosselli non era consapevole fino in fondo, anche perché alcuni dei destinatari delle sue confidenze erano in apparenza esuli antifascisti ma in realtà al servizio del controspionaggio italiano. I servizi segreti sapevano anche che la posizione di Rosselli era critica nei confronti dell´antifascismo all´estero e delle sue varie componenti, socialiste, comuniste, liberali, repubblicane, anarchiche, cattoliche. Gli informatori sapevano che la lotta al fascismo condotta da Rosselli voleva essere, rispetto a queste componenti, più profonda, più incisiva, più strategica. In una lettera, intercettata, di Rosselli al repubblicano Fernando Schiavetti era detto: «Non occorre che spieghi a te che la nostra concezione non ha nulla a che fare col vecchio massimalismo. Siamo pronti alla lotta concreta e a tutte le concessioni tattiche, purché resti energicamente perseguito il fine».
La guerra di Spagna metteva alla prova queste idee. Per il regime fascista occorreva dunque agire al più presto. Ed è a questo punto che scatta la complicità della estrema destra francese nelle persone di esponenti della Cagoule. Il nome, scelto da alcuni giornalisti, si riferiva al Comité secret d´action révolutionnaire un´organizzazione segreta che aveva l´obiettivo di rovesciare il Fronte popolare in Francia e i governi democratici che si ispiravano ad esso. Dunque la Cagoule si occupava di cose francesi. Perché alcuni loro elementi uccisero barbaramente i fratelli Rosselli? Chi sapeva, se non le spie e gli intercettatori italiani, del fatto che Carlo, tornato dalla Spagna con una grave flebite alla gamba, doveva curarsi ai primi di giugno presso le terme di Bagnoles-de-l´Orne in Normandia? Chi altri avrebbe potuto chiedere ai cagoulards di portare a termine l´eliminazione di Rosselli se non i massimi vertici del fascismo?
La seconda parte del volume di Franzinelli, con documenti relativi alle indagini delle autorità francesi e ai processi intentati sia agli esecutori del duplice assassinio sia, dal 1944 al 1949, agli esponenti fascisti italiani, a cominciare dal maggior collaboratore di Ciano, Filippo Anfuso, cioè dirigenti del Sim, ufficiali dei carabinieri, informatori, eccetera, conferma che l´ordine partì dal tenente colonnello Santo Emanuele che dal 1934 aveva un ruolo guida nel controspionaggio ed era in rapporti stretti col Ministro degli esteri Ciano. Nel processo del 1944 confessò di aver trasmesso ai cagoulards la direttiva di eliminare Carlo Rosselli «secondo quanto gli era stato ordinato dai superiori» e «con l´approvazione di Ciano e di Anfuso». Ma Anfuso sarà assolto nel 1949 con formula piena e Emanuele, dopo la condanna all´ergastolo del 1945 sarà assolto nel 1949 per «insufficienza di prove». Così i tribunali hanno risolto l´affaire Rosselli lasciando agli storici il compito di giudicare quanto accadde in quel giorno di giugno di settanta anni or sono.

Liberazione Lettere 11.4.07
"Suicidio" a Torino. Diverso non è inferiore


Caro direttore, nelle parole del ragazzo che si è ucciso a Torino («A scuola mi fanno sentire diverso»), mi ha colpito il significato negativo attribuito al termine "diverso". All'origine di questa tragedia c'è non solo l'omofobia ma, più in generale, un modo di pensare che vede la diversità come sinonimo di inferiorità. Il disprezzo per il diverso è antico come il mondo ed è spesso una forma di difesa (l'incontro con chi è diverso da noi ci può far paura, perché mette in discussione le certezze su cui abbiamo costruito la nostra vita). Ma il disprezzo trova alimento quando persone ritenute autorevoli pongono l'inferiorità del diverso al centro di affermazioni morali, religiose o politiche. Oggi vi è chi bolla l'amore omosessuale come "debole e deviato"; vi è chi tuona contro il relativismo e presenta i propri valori come assoluti, giudicando immorale chi si riconosce in altri valori. Quello che viene condannato come relativismo è in realtà il rispetto delle differenze, il capire che altri possono avere visioni della vita diverse dalla mia ma non per questo inferiori. Il problema riguarda anche i rapporti tra le culture: il papa a Ratisbona ha affermato la superiorità del cristianesimo e della civiltà occidentale, eredi della razionalità greca, rispetto all'Islam e, in generale, alle culture extraeuropee, che non hanno conosciuto questa razionalità. Si tratti di individui o di civiltà, il messaggio è sempre lo stesso: chi è diverso da certi modelli è da considerarsi inferiore. Nessuno, forse, ha detto a Matteo e ai suoi compagni che la verità è un'altra: essere diversi non impedisce di essere uguali per valore, possedendo ricchezze differenti ma ugualmente preziose. Quei ragazzi non hanno compreso la bellezza della diversità. Certo non hanno letto le parole che il gatto Zorba rivolge alla gabbianella di Sepúlveda quando la vede triste perché ha scoperto la propria diversità dai gatti: «Sei diversa da noi e ci piace che tu sia diversa».
Roberto Blanco via e-mail


il Riformista Lettere 11.4.07
Spot sui Dico

Caro direttore, ha cominciato a circolare sulle pagine dei quotidiani una pubblicità che meglio di qualunque slogan potrebbe ravvivareil morente dibattito sulle unioni di fatto. Involontaria o no, è davvero geniale. recita così: Penso quindi dico. Chi sostiene da sempre che per la laicità dello Stato e delle sue leggi si debba pensare invece che credere, non può che congratularsi con i creativi che l’hanno inventata
Paolo Izzo e mail


ancora sull'episodio della contestazione a Fausto Bertinotti alla Sapienza: una nuova e.mail
“Ed un gruppetto di 30 ha urlato: buffone, assassino”.
Siamo (o forse dovrei dire "sono", perché io fisicamente non c'ero) diventati trenta dai cinquanta - sessanta dei giornali di martedì. Trenta estremisti violenti, perché "la violenza sta nella menzogna" e "perché non ho mai visto un Bertinotti buffone o assassino"
[Massimo Fagioli, "Trasformazione", Left - 6/4/2007].

Ho pensato di dover tornare sull’argomento, ma queste parole pesano come macigni e forse non voglio farlo. E’ tardi, ormai. E poi non mi piace ripetermi, non mi è mai piaciuto...
Che potrei dire? Ribadire che il coro cantava "assassini", riferendosi al governo e alle istituzioni rappresentate dal Buon Fausto e non un personale quanto surreale "assassino"? Insistere nel sostenere che legittimare C.L., un’organizzazione clericale dalle mille propaggini che inganna e manipola le matricole alle elezioni dei rappresentanti, che cerca di far accreditare il Creazionismo come teoria scientifica, che fa propaganda anti-abortista nell'Università e che sfrutta lavoratori disabili con le sue Cooperative Sociali per poi venire a parlarci - cambiando per l'ennesima volta nome - della povertà in Sud America, è assolutamente intollerabile? Forse sarebbe stato più appropriato gridare "ipocrita" che non "buffone", ma in certi casi è anche questione di ritmo. Queste cose però nella mia e.mail precedente non c’erano, eppure suonano come una ripetizione, forse perché le hanno scritte altri, forse perché sono pensieri vecchi che non afferrano il nodo del problema.

Potrei anche lasciare perdere e basta, sarebbe molto ragionevole, ma in realtà non posso. Dovrei pensare che cercare di far passare un'idea diversa qui sia impossibile, ma allora sarebbe impossibile in ogni luogo e le implicazioni sarebbero gravi. Se invece fosse possibile almeno fermarsi un momento, scansare le poltrone, le segreterie, le dirigenze ed affacciarsi dalla finestra: sono state date troppe cose per scontate, sono state fatte troppe semplificazioni, concentrandosi sull’aspetto culturale della politica si è finito per trascurare le ineliminabili connessioni tra i diversi piani.
Allora quello che posso e forse devo fare è lasciare da parte il caso specifico, l’episodio, e provare ad affrontare un discorso di più ampio respiro. E’ necessario, difficile ma necessario ed ho la presunzione di pensare che non sia solo un’esigenza personale.

“Dall’Afganistan a Vicenza, ma 'ndò sta la non violenza?” recitava uno degli striscioni anti-Bertinotti. “Estremisti che protestano contro la non violenza!” rispondeva Fausto.
Un partito di governo è e resta un partito di governo, il suo terreno di gioco è la gestione del potere e la sua priorità la conservazione del presente esecutivo: qualsiasi ipotesi di ricerca ne viene inficiata. Cristo, San Francesco, il monte Athos, Tonini, il presepe, la sala di meditazione, e ora persino Comunione e Liberazione: come distinguere un percorso personale di un vecchio comunista confuso da un calcolo preciso di uno scaltro uomo politico? Forse è un percorso personale calcolato di uno scaltro comunista confuso...

La verità è che quando un governo non ha opposizione parlamentare a sinistra, accade facilmente che le magagne grosse, quelle sulle quali l’opposizione è consenziente, non si riescano a scoprire se non se ne viene investiti in prima persona.
In questo contesto il ruolo di Rifondazione e degli altri partiti della cosiddetta “sinistra radicale” è strategico e fondamentale: rappresentano il filtro, la membrana semipermeabile che stabilisce la dose di realtà che può trapelare dai media. Gestiscono il dissenso, stabiliscono i livelli di malumore presenti nella società, definiscono le rivendicazioni di chi non ha rappresentanza e quindi gli è preclusa un’interazione diretta con il potere. Da Vicenza alla Val di Susa, dall’Atesia all’Università, all’Afganistan. Chi non vive queste situazioni dal di dentro le conosce nelle versioni elaborate dai partiti secondo i propri interessi politici: svuotano e riempiono quello che vogliono, come vogliono.
Il procedimento è standard e ormai molto ben collaudato. Una parte delle rivendicazioni dei cittadini vengono sussunte dalla politica, che le fa proprie, le sbandiera e vi attira l’attenzione del grande pubblico. Si presentano quindi due alternative: queste richieste possono venire accolte, allora partiti si propongono come i salvatori, i grandi mediatori “di lotta e di governo” lasciando cadere l’oblio su tutto il resto; in caso contrario quando possibile fanno sì che l’oblio investa l’intera faccenda, altrimenti attuano un’operazione più sottile e generano un tabù: la rivendicazione è illegittima ed innominabile, pena essere tacciati di qualsiasi nefandezza (”estremismo”, “violenza”, “anti-politica”... che poi che insulto è?). A Rifondazione questo ruolo calza particolarmente bene, hanno un talento speciale per questo tipo di pratiche... violente.

E non è vero che esistono solo loro: altrove ci sono persone, gruppi di persone del tutto comuni, che si movimentano, si mettono in gioco e fanno davvero una ricerca; magari meno intellettuale, con più pratica e meno parole, sicuramente non spirituale o trascendente. Non scrivono libri, non teorizzano, non dirigono, non hanno leader da invitare ad un incontro con i lettori. Si autorganizzano e sperimentano, ma meriterebbero un po’ di attenzione: con i partiti non c’è speranza. L’affermazione che il mezzo non è neutrale al fine e vera tanto per le rivoluzioni violente, che non possono portare alla liberazione di nessuna società, sia per le istituzione del potere borghese. Il “riformismo rivoluzionario” è e resta un ossimoro perché prevede che dati questi strumenti, queste regole di selezione per determinare chi deve gestire il potere, il governo ed il parlamento possano costituire un elemento di avanzamento, un’avanguardia, rispetto alla società e che possa trasformarla attraverso lo strumento legislativo, ovvero costruendo regole. La storia insegna che questo non può avvenire, la democrazia borghese esiste da un paio di secoli ormai. Possiamo invece pensare una rivoluzione che sia movimento di massa non violento? Un processo di trasformazione lento che investa direttamente i rapporti umani scardinando quelli di forza e che sedimenti lentamente? Bertinotti - voglio concedergli una parentesi di credito - probabilmente direbbe di sì, ma direbbe anche che intanto si possono fare buone leggi. Questo sosteneva qualche settimana fa da Fazio, intervistato sul suo nuovo libro, portando ad esempio lo Statuto dei Lavoratori che ha introdotto diritti prima impensabili. E’ falso: quei diritti sono stati prima pensati e chiesti con energia dai lavoratori stessi, che hanno lottato e costretto la politica ad accogliere alcune loro richieste. Stessa cosa è avvenuta per le rappresentanze nelle scuole e nelle università che oggi hanno però perso gran parte del loro significato, benché la legge non sia stata toccata: nelle università si ha difficoltà a raggiungere il 30% di votanti e gli eletti fanno capo frequentemente ad organizzazioni esterne all’interno delle quali cercano di fare carriera e praticano l’assenteismo militante. Il diritto formale, ma nella sostanza inutile, ha smesso di suscitare interesse. Sopravvivono invece i collettivi, aggregazioni spontanee di studenti che in modi anche diversissimi tentano di vivere differentemente i luoghi della propria formazione.
Ciò che è importante riconoscere, a mio avviso, è che nella costruzione di questo processo non si possono assumere posizioni neutrali e quella assunta dai partiti di “lotta e di governo” è ostruzionista. Per quello che hanno dimostrato finora, per la strada intrapresa, per gli strumenti scelti, una sinistra “né normale, né estremista” significa una sinistra radical-chic, una femme fatal vuota e pericolosa, piena di parole suadenti che dicono il falso perché sono scollate dalla realtà. Bertinotti ha detto che gli studenti della Sapienza erano violenti anche due anni fa, in occasione della contestazione a Fini che, invitato da Azione Studentesca, l’organizzazione degli studenti del suo partito, doveva venire a fare un comizio all’università. Un uomo politico usa il suo potere per condizionare le elezioni dei rappresentanti degli universitari e gli studenti sono violenti perché gli impediscono di parlare fischiando e facendo rumore: questa è la non violenza cieca e perbenista del Presidente della Camera.
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La chiuderei qui, ma dato che le ho sparate un po’ grosse riporto brevemente qualche esempio per chiarire da dove nascono le mie attuali convinzioni. Attuali, appunto, perché ai tempi dell’incontro di Villa Piccolomini la mia visione delle cose era molto diversa (l’episodio di Fini avvenne appena due mesi dopo e allora ero dispostissima a minimizzare).

Qualche tempo fa Franco Giordano è andato ad incontrare i lavoratori dell’Atesia per festeggiare i risultati ottenuti dal suo partito facendo pressione sul governo: ai lavoratori del call-center che avevano un contratto a progetto era stato offerto un contatto a tempo indeterminato. Lavorare 6 ore al giorno, distribuite su tutto l’arco della giornata, per 500 euro al mese o in alternativa il licenziamento in tronco. Questa seconda opzione è stata lasciata per altro come unica possibilità per alcuni membri del collettivo che aveva portato avanti la lotta. I violenti lavoratori dell’Atesia hanno accolto il segretario del Partito della Rifondazione Comunista peggio degli studenti contestatori della Sapienza. Dell’Atesia non si è più sentito parlare (ma se ne parlava poco anche prima perché il presidente dell’azienda, tale Tripi, è uno dei maggiori finanziatori della Margherita).
Nei giorni precedenti la manifestazione del 17 febbraio, al Presidio Permanente di Vicenza era giunta voce che i partiti (Verdi, Rifondazione e Comunisti Italiani) intendevano costituire la testa del corteo, scavalcando gli organizzatori. I vicentini hanno quindi chiesto a centri sociali, organizzazioni studentesche ed associazioni varie di anticipare l’appuntamento previsto in modo da far trovare ai baldi manifestanti partitici le cose fatte, temendo che questi riuscissero ad autoproclamarsi rappresentanti del movimento ed andassero in giro a parlare a nome loro. Pochi giorni dopo il governo andava sotto al senato sulla politica estera e Giordano, invitato a Ballarò, bacchettava i dissidenti a nome del popolo di Vicenza che chiedeva - a suo dire - che loro restassero al governo. Qualche ora prima il Presidio aveva diffuso un comunicato in cui dichiarava che le sorti del governo a loro non interessavano minimamente, che potevano anche cadere per quanto li riguardava visto che l’accordo definitivo con gli americani l’aveva fatto Prodi e la delibera di consenso del consiglio comunale l’aveva sollecitata il ministro Parisi. Ma a Ballarò c’era solo Giordano e la verità per tutti ha potuto essere solo la sua. E anche su questo è calato il silenzio. In questo modo si vorrebbe che ciascuno di coloro che si sentono traditi pensi di essere l’unico, più sfortunato, che questo governo fa cose buone per tutti ma che a lui, proprio a lui, cerca di fregarlo. Infondo però la gente non è così fessa e quest’inganno l’ha sgamato da tempo. Per questo nascono reti di solidarietà tra i movimenti di cittadini costituitisi in tutta Italia: parlano di democrazia, di autorganizzazione, di pace, di lotta alla militarizzazione del territorio, praticano stili di vita poco normali, per cui il vicino di casa diventa per un po’ il compagno di tenda. Sanno che i problemi sono comuni e condividono informazioni ed esperienze.
L’Afganistan è una questione più complessa: non vediamo immagini che non siano di repertorio da molto tempo, i burqa sono scomparsi dai nostri schermi insieme ai bambini mutilati e alle verdi valli del Panshir, i soldati italiani lì sono invisibili, del nostro “impegno” nella ricostruzione non si sa niente. L’Afganistan non esiste. Opporsi a qualcosa che non esiste è un’astruseria da estremisti, evidentemente: che cosa sarà mai una guerra in un luogo che non c’è? La lotta contro la guerra in Afganistan, per il ritiro delle truppe ma anche per la fine della depredazione da parte di privati protetti dai militari di una terra bellissima e devastata, è diventata qualcosa per soli addetti ai lavori. Non c’è mobilitazione dell’opinione pubblica e questa situazione risulta comoda a molti, ed ancora più comodo risulta poter identificare come estremista, violento, anti-politico chiunque attiri l’attenzione su questo argomento, screditandolo ed impedendogli di operare qualsiasi tipo di sensibilizzazione o informazione. Paolo Cacciari, coautore con Bertinotti del libro “Agire la non violenza”, ha però lasciato il partito a giugno dell’anno scorso, non appena capito che la segreteria gli chiedeva di votare il rifinanziamento alla missione militare: gandiano convinto ed onesto, dichiarò di non potercela fare.

Forse può bastare.

Sofia P: