CONVEGNI
L'attualità di Lombardi
Tornano d'attualità - nell'ambito di una sinistra che si pone il tema della riproposizione di una forza politica dai connotati e dall'ispirazione socialista e la stessa necessità che non scompaia la parola «sinistra», in Italia, a causa dell'imminente nascita del Partito democratico - figure politiche che potevano apparire, fino a ieri, del tutto inattuali. Come quella del socialista Riccardo Lombardi, che già ha visto una notevole ripresa d'attenzione da parte di studiosi e uomini politici e a cui ieri hanno dedicato un convegno dal titolo «A 60 anni dalla Costituente. Il pensiero di Riccardo Lombardi per una sinistra di governo» tre associazioni politico-culturali della sinistra italiana (Uniti a sinistra, Ars e Associazione rosso-verde). Inviso a destra (Montanelli lo definì «notturno e temporalesco»), mal sopportato a sinistra, dentro il suo partito, il Psi, dove era ritenuto un bastian contrario, e nel Pci che rifiutava la sua idea dell'alternativa di sinistra quando stava per lanciarsi nella politica del compromesso storico, Lombardi aveva caratteristiche oggi ben difficili a trovarsi, in un uomo politico. La serietà dell'approfondimento culturale e della riflessione teorica e la capacità di collegare la fermezza sui principi alle necessarie alleanze di governo e ai necessari compromessi politici, sono infatti oggi qualità rare, è stato il giudizio di diversi relatori. Azionista prima, socialista poi, fautore dei processi di decolonizzazione quanto dell'affrancamento della sinistra dall'Urss dopo i fatti d'Ungheria, Lombardi spese le sue energie migliori per imprimere una svolta riformatrice al primo centrosinistra, coniando un termine - «riforme di struttura» - che presto entrò nel linguaggio politico e poi, una volta esauritasi la spinta di quello, lavorando per dare una reale possibilità di «alternativa socialista» alla sinistra italiana. Ma non bisogna neanche dimenticare o sottacere, come hanno notato ieri l'economista Paolo Leon e il deputato ds Peppino Caldarola, il Lombardi che appoggiò la svolta del Midas di Bettino Craxi e il tentativo di restituire dignità all'autonomismo socialista, minacciato di stritolamento dalla politica del compromesso storico.
Ieri, peraltro, diversi relatori hanno sollecitato la sinistra a riconsiderare e rivalutare anche la figura di Bettino Craxi, che pose con forza il tema dell'identità socialista. E hanno evidenziato l'attualità di Lombardi che poneva il problema delle riforme di struttura, della programmazione economica e dell'intervento dello stato in economia, idee-forza care anche a un altro lombardiano d'antan, il presidente della Camera Fausto Bertinotti. Scelte che ponevano il problema del superamento del capitalismo, come dicevano anche molte socialdemocrazie europee e i laburisti inglesi, ma in forme diverse da quelle classicamente marxiste proposte dal Pci. «Cambiare il motore della macchina del capitalismo mentre la macchina è in corso», era un motto di Lombardi. Oggi, dunque, tutto quel vasto arco di forze che intende ragionare di nuova attualità della questione socialista in Italia e di rilancio dell'idea stessa di sinistra, al di là delle formule politiche e organizzative con cui intenderà affrontare la sfida, non può non riscoprire quella figura.
il manifesto 1.4.07
Il cielo stellato sotto il segno di Sigmund Freud
Il primo aprile di 50 anni fa, da una costola delle «edizioni scientifiche» Einaudi, Paolo Boringhieri inaugurò la sua casa editrice. E siglò con il figlio del fondatore della psicoanalisi un accordo per l'edizione di tutte le sue opere. Al progetto si associarono via via collaboratori preziosi, tra cui Giorgio Colli e Mazzino Montinari uniti dall'idea di pubblicare testi che ricalcassero le letture fatte da Nietzsche sull'onda di Schopenhauer Nel 1987 Paolo Boringhieri cede
di Marco Dotti
Nei primi anni Cinquanta, anche in Italia sembrò che stessero maturando i tempi per realizzare un'edizione completa delle opere di Sigmund Freud. Era una ipotesi di riflesso, che veniva avanzata sull'onda della inglese «Standard edition», della quale i primi volumi, a lungo progettati, erano apparsi nel 1953 a cura di James Strachey, un allievo di Ernst Jones che fu tra i primi a doversi confrontare col problema della sistemazione del corpus freudiano. Solo a tratti, e di certo a fatica, in Italia si stava facendo strada la consapevolezza di quanti veti gravassero ancora sull'opera del medico viennese, il cui nome - al pari di quelli di Spinoza, Einstein o Bergson - era stato oggetto di ripetuti ostracismi da parte dei solerti funzionari del Ministero della cultura popolare fascista; funzionari che, senza grandi sforzi, erano riusciti a imporre a influenti collaboratori delle terze pagine e agli editori il divieto di pronunciarsi favorevolmente nei confronti delle sue opere, bloccandone di fatto la ricezione e il dibattito.
Frenato dallo scetticismo
Persino Cesare Musatti, che pure aveva assistito con entusiasmo a una conferenza di Strachey, decise ben presto di accantonare i suoi buoni propositi. Benché si fosse inizialmente convinto della necessità di suggerire agli editori a lui vicini un'edizione impostata su un criterio tematico (come, di fatto, era stata quella delle Gesammelte Schriften, pubblicata da Freud stesso), più che su quello cronologico scelto dall'inglese, si limitò poi a constatare che i tempi erano sì maturi per riavviare e riprendere il filo di un discorso scientificamente e filologicamente fondato su Freud e interrotto dagli anni neri del fascismo, ma il «mercato» editoriale non mostrava ancora altrettanta maturità. E comunque, a tutto sembrava disposto Musatti fuorché a sobbarcarsi un progetto che avrebbe comportato l'impiego di grandi risorse di tempo, e sforzi non indifferenti anche dal punto di vista economico. Soprattutto, a una simile impresa bisognava credere, e pochi sembravano disposti a farlo. Nel 1949, Musatti aveva pubblicato i due volumi del proprio Trattato di psicoanalisi nei «Manuali» Einaudi - una delle collane destinate, con la «Biblioteca di cultura scientifica», la «Biblioteca di cultura economica» e, soprattutto, la «collana viola», già diretta da Cesare Pavese e Ernesto de Martino, a costituire l'ossatura della futura casa editrice di Paolo Boringhieri, che sulla scommessa di pubblicare integralmente Freud avrebbe costruito gran parte della sua fortuna editoriale.
Le sollecitazioni di Pavese
Senza troppi imbarazzi, Musatti dovette costatare che i libri di Freud, sottoposti al vaglio della «pubblicabilità», passavano regolarmente fra le mani dei redattori, i quali però sembravano preoccupati soltanto di togliere importanti volumi alla concorrenza, o se dimostravano interesse lo dimostravano per quegli studi più riconducibili a contesti diversi dall'ambito specificamente psicoanalitico, quali la storia delle religioni o l'antropologia. In assenza di un interlocutore attento alle sue richieste, per la verità non troppo pressanti, Musatti si trovò dunque a rispondere alle sollecitazioni di Cesare Pavese, il quale gli aveva scritto: «Noi facciamo una collezione di etnologia e psicologia dove già appare un libro di Jung: I rapporti tra l'Io e l'Inconscio, e vorremmo includervi uno o due libri di Freud. Lei certamente è al corrente di quello che si è già fatto in Italia e potrà suggerirci qualche titolo libero, preferibilmente delle ricerche più antiche». Fra le richieste di Pavese vi fu anche quella di reperire opere anteriori al 1921, libere da vincoli editoriali. A quel punto Musatti non si fece pregare e pochi giorni dopo la richiesta di Pavese, a stretto giro di posta, gli replicò che, viste le sue esigenze, forse sarebbe stato opportuno valutare sia La psicopatologia della vita quotidiana, «l'opera di Freud che ha avuto maggior diffusione all'estero», sia i Casi clinici - effettivamente pubblicato nel 1952, per le Edizioni Scientifiche Einaudi, nella traduzione di Mauro Lucentini - ognuno dei quali, osservava lo psicoanalista triestino, «costituisce un vero piccolo romanzo, perché viene descritto il progressivo svilupparsi dell'analisi in forma per lo più assai brillante e suggestiva». A Giulio Einaudi, particolarmente preoccupato di non farsi «battere da Astrolabio sul tempo» - come avvenne per L'interpretazione dei sogni apparso per la casa editrice romana nel 1952 - Musatti aveva consigliato di riprendere «l'ultima notevole opera di Freud», Inibizione, sintomo e angoscia, già disponibile nella traduzione di Servadio. Eppure, come avrebbe osservato Paolo Boringhieri, al tempo ancora redattore della Einaudi, se pure «il seme gettato da Musatti non fruttificherà immediatamente», esso segnalerà da subito «una vera necessità culturale» destinata, nel giro di pochi anni, a concretizzarsi in una delle più importanti imprese editoriali del dopoguerra: l'edizione delle Opere di Freud.
Impostate secondo un criterio cronologico, anche se quello tematico a suo tempo suggerito da Musatti veniva recuperato nel «corpus freudiano minore» rappresentato dalle opere scelte e via via presentate nell'Universale scientifica Boringhieri, il corpus delle opere freudiane sarebbe uscito in libreria soltanto nel 1966, con la pubblicazione del terzo volume, L'interpretazione dei sogni, curato da Elvio Fachinelli, dopo un lavoro di revisione e uniformazione linguistica durato molti anni, presso le edizioni che nel frattempo erano state fondate dallo stesso Boringhieri.
L'atto di nascita
Il primo aprile del 1957, infatti, da una costola delle Edizioni Scientifiche Einaudi da lui dirette, Paolo Boringhieri aveva dato formalmente vita alla casa editrice che portava il suo nome. Riprendendo il filo di un discorso per lui mai interrotto, nel 1959 Boringhieri aveva raccolto la sfida e siglato un accordo con Ernst Freud, figlio di Sigmund, per un'edizione delle opere del padre. E dichiarò, allora, di non aver mai nutrito alcun dubbio sulla necessità indicata da Musatti di provvedere a una edizione «definitiva», intendendo con ciò «non un'edizione affrettata per far conoscere il più rapidamente possibile l'opera di Freud, ma l'edizione che per decenni potesse costituire il punto di riferimento per gli studiosi»: una convinzione, questa, che aveva maturato, a un certo punto, «per esperienza di mestiere», certo anche «che il mercato l'avrebbe resa possibile» e, probabilmente, persino redditizia.
I fatti gli diedero ragione. Peraltro, Boringhieri era talmente persuaso della «bontà» del progetto che vi prestò le sue competenze linguistiche, nascondendosi con lo pseudonimo di «Ermanno Sagitario» fra i ventisette traduttori impegnati per oltre quindici anni nell'opera. Era nato a Torino nel 1921, la sua famiglia, proprietaria di uno dei più importati stabilimenti per la distillazione della birra, era originaria dell'Engadina, e faceva l'ingegnere quando a ventotto anni venne assunto da Luigi Einaudi con il preciso compito di occuparsi della cosiddetta «collana azzurra», dedicata alle scienze. Appassionato di filosofia, definito dai colleghi «il lavoratore cristiano», Boringhieri legò particolarmente con Felice Balbo, del quale, nel 1966, avrebbe pubblicato le Opere. Quando diede inizio alla propria attività come editore in proprio, Boringhieri aprì una sede in via Brofferio 3; tuttavia, per una parte della sua produzione mentenne ancora, almeno fino al 1960, il marchio delle Edizioni scientifiche Einaudi. Fu grazie al suggerimento di Giulio Bollati (per anni suo collega di studio e lavoro, che nel 1987 sarebbe divenuto, passata di mano la proprietà, direttore editoriale della casa editrice, da allora Bollati-Boringhieri) che Paolo Boringhieri inaugurò per i suoi libri un nuovo marchio, quella incisione quattrocentesca affiancata dal motto «Celum stellatum» che ancora oggi contraddistingue la casa editrice.
Come scrive l'attuale direttore editoriale, Francesco Cataluccio, nella sua premessa alla riedizione del Catalogo generale Bollati Boringhieri, fu negli anni trascorsi alla Einaudi che Boringhieri rafforzò le proprie idee sul fatto che la modernizzazione della società italiana non potesse compiersi se non attraverso la divulgazione della scienza; e la scienza andava promossa - fatto al tempo assolutamente innovativo - «non in non in antitesi ma accanto alle scienze umane». È chiaro come Boringhieri intendesse la questione in una accezione assai ampia e mai dogmatica: lo testimoniarono, del resto, la pubblicazione (concomitante a quella di Freud) dell'opera di Jung - condotta sulla base dell'edizione svizzera in diciannove volumi, e affidata alla direzione di Luigi Aurigemma - ma anche dei lavori di Marie Louise von Franz, di Jacobi, di Adler, di Abraham o di Pavlov, oltre alla prosecuzione della linea a suo tempo delineata da De Martino e Pavese, con la discussa «collana viola» a cui si sarebbero affiancate le opere di Heinsemberg e di Pauli fino alla pubblicazione, nel 1959, dell' Origine delle specie di Charles Darwin.
Particolarmente significativa fu poi la collana «Enciclopedia di autori classici», diretta a partire dal 1958 da Giorgio Colli, il brillante allievo di Gioele Solari, già condirettore con Balbo e Bobbio dell'einaudiana collana dei «Classici della filosofia».
In soli nove anni, dal 1958 al 1967, trovarono spazio nell'«Enciclopedia» ben novanta titoli, un risultato imponente raggiunto grazie al clima ottimale in cui lavorava un gruppo di ricerca affiatato, composto da allievi e studiosi che in gran parte avevano già seguito Giorgio Colli nell'esperienza alla Einaudi, e ai quali ora si affiancava la significativa figura di Mazzino Montinari.
Confortati da Boringhieri, Colli e i suoi collaboratori si ritrovarono uniti da un progetto comune e ambizioso, quello di pubblicare una serie di testi che in qualche modo ricalcassero le letture fatte da Nietzsche sull'onda di Schopenhauer, affiancando così alla proposta di testi chiave delle religioni orientali, la riproposta di un numero rilevante di classici della scienza e del pensiero europeo. Proprio Montinari, rievocando il clima e l'esperienza dell'«Enciclopedia» avrebbe poi ricordato come si fosse trattato, in primo luogo, di «formare una sorta di nuova comunità di lettori e collaboratori, pubblicando dei testi che all'intellettualità accademico-politico dominante non potevano che risultare inattuali e fuori moda, anzi in certi casi addirittura irritanti e scandalosi». Accanto a scritti di Ippocrate e Fermat, Platone e Leibnitz, Darwin e Newton, trovarono posto il Pascal del Trattato sull'equilibrio dei liquidi e l'Adam Smith della Ricchezza delle nazioni, lo Stendhal della Filosofia nova e lo Spinoza dell'Etica.
Una infilata di nuove collane
Alla collana diretta da Colli si affiancarono ben presto quelle dei «Classici della scienza», dei «Testi della fisica contemporanea», dal 1964, diretta da Pier Francesco Galli, il «Programma di Psicologia Psichiatria Psicoterapia» e, dal 1965, l'«Universale scientifica» - forse la più riconoscibile, anche graficamente - che in poco tempo permise a Paolo Boringhieri di presentarsi come uno degli editori più all'avanguardia ma al tempo stesso più attenti - lo si legge nell'introduzione al catalogo del 1960 - «a ogni livello di preparazione», interessandosi a «quasi tutti i campi della scienza». Egli - si legge ancora, in quella che rimane forse la migliore descrizione del suo programma etico, oltre che editoriale - «cerca un terreno d'incontro tra gli specialisti e i non specialisti, e nel far ciò, la considerazione scientifica delle cose viene confrontata con quella umanistica, attraverso i classici. L'interesse editoriale non è soltanto rapsodico, ma formativo, nella ricerca di un'unità della cultura e di prospettive vivificanti».
Nel 1987, sette anni dopo aver portato a termine la pubblicazione dell'Opera di Freud, Paolo Boringhieri (scomparso lo scorso agosto) cedette all'amica Romilda Bollati le azioni di controllo della casa editrice, che assunse il nome di Bollati Boringhieri. Era dunque arrivato il momento di ritirarsi a vita privata. La direzione fu assunta da Giulio Bollati, assistito fino al 1993 da Armando Marchi, che si prodigò nel promuovere una sorta di «rinnovamento nella continuità», aprendo nuove collane - «Temi», «Varianti»e, dal 1991, le «Variantine», segnate dal successo editoriale del Servabo di Luigi Pintor, «Nuova Cultura», che ospitò il discusso saggio di Claudio Pavone sulla Resistenza come guerra civile e «Pantheon».
L'apertura a altri temi
Erano tutte collane indirizzate al potenziamento dei settori dell'arte e della letteratura, oltre che della storia e delle scienze sociali, e per la prima volta nel catalogo vennero introdotti anche libri dedicati alla fotografia. «Non vedo perché», dichiarava Bollati rispondendo a chi gli rimproverava di aver virato troppo sul versante delle letteratura, una casa editrice scientifica sia condannata a esprimersi «per formule e per cifre». «La scrittura è uno strumento conoscitivo: vogliamo lasciarla fuori dalla porta per un vieto ossequio ai generi, alle specializzazioni? Una casa editrice scientifica deve assolutamente occuparsi del linguaggio... Nella scoperta scientifica c'è gioco, ma c'è anche espressione, c'è anche stile, c'è anche fantasia».
Festeggiamenti
La presentazione del catalogo, mostre, concerti
In occasione del cinquantenario della sua inaugurazione da parte di Paolo Boringhieri e del suo ventennale come Bollati Boringhieri la casa editrice torinese ha in programma una serie di iniziative speciali distribuite nell'arco di tutto il 2007. L'8 maggio, a Roma, verrà presentato quel prezioso patrimonio della nostra cultura che è il Catalogo Storico. Inoltre, sarà inaugurata una mostra itinerante con tavole originali disegnate da Enzo Mari per le copertine dell'Universale Scientifica Boringhieri: sarà possibile vederle nelle librerie Feltrinelli di diverse città, da Udine a Napoli, da Firenze a Mantova, da Roma, a Bologna e Milano; a ogni inaugurazione saranno presenti autori, redattori e collaboratori della casa editrice. Ancora a maggio, l'assegnazione dell'annuale premio per l'editoria intitolato a Giulio Bollati sarà l'occasione per un convegno sull'editoria scientifica al quale prenderanno parte editori e autori italiani e stranieri. Infine, il 17 settembre, in occasione del Settebremusica torinese, Helene Grimaud, la celebre pianista che ha esteso la sua fama raccontando in «Variazioni selvagge» la sua vita insieme ai lupi dai lei allevati, terrà un concerto durante il quale verranno ricordati i cinquan'anni della casa editrice
il manifesto 1.4.07
Prc, la paura di non avere confini
Alla conferenza d'organizzazione di Rifondazione entra nel vivo il dibattito sul futuro del partito, della Sinistra europea e del «cantiere». Tra il fascino della sfida e il timore di perdersi in un territorio troppo vasto
di Matteo Bartocci
«C'è un grande disagio tra di noi ma io credo che sia il frutto di una vittoria. Se emergono contraddizioni nei Ds non dobbiamo essere preoccupati». Può stupire ma quando Paolo Ferrero prende la parola dal palco di Carrara è dopo tre giorni di dibattito che finalmente emerge con chiarezza il non detto che da giovedì divide e preoccupa la conferenza di organizzazione di Rifondazione: la nascita di un soggetto politico unitario della sinistra senza aggettivi. Un fantasma che per la prima volta dall'89 torna ad aggirarsi in Italia se non in Europa.
Su come conciliare Rifondazione, la Sinistra europea e la new entry «cantiere della sinistra» ovvero un soggetto politico nuovo, la conferenza di Carrara ha sorvolato. «Il futuro della sinistra alternativa - insiste invece Ferrero - è fatto di forme di aggregazione che mettono assieme i diversi senza ricondurli a uno solo. Non è più tempo di partiti unici, il Prc c'era, c'è e ci sarà, continuerà a lavorare nella Sinistra europea ma contribuirà ad allargare il campo lavorando nel 'cantiere' con quelli che comunisti non sono o non hanno un partito ma fanno le battaglie con noi. Quello che diciamo della società multietnica, multiculturale, aperta, deve valere anche per la politica».
Il re è nudo. In tempi di crisi della rappresentanza non sarà un partito unico né una confederazione di partiti come proposto con testardaggine da Oliviero Diliberto e dal Pdci. Sarà però un soggetto politico nuovo senza confini. Per ora avanti con prudenza, con una certa «doppiezza» che consenta di parlarne tutelando soprattutto l'unità del partito.
Il disorientamento è comprensibile. «Nella triangolazione tra Prc, Se e 'cantiere' bisogna fare un passo in avanti.Il gruppo dirigente non ha fornito un quadro analitico all'altezza della sfida che abbiamo di fronte», butta lì Elettra Deiana, anche lei a disagio per una discussione fin qui molto identitaria. Più netto ancora Alfonso Gianni: «L'oggetto di queste giornate è la nascita di un nuovo soggetto politico, siamo chiamati a decidere il cosa, il come e il quando. E' a noi comunisti che spetta il compito di ricostruire l'intera sinistra, senza aggettivi e capace di raccogliere superandola il meglio della sinistra del secolo alle spalle».
Parole non smentite nelle conclusioni che pronuncerà stamattina Franco Giordano. Il segretario sarà però molto più prudente: rinnoverà la grande apertura verso la sinistra Ds fino a ventilare una «soggettività politica» più larga della sola Rifondazione ma terrà ben distinti i piani mantenendo intatta «l'anomalia Prc».
Infatti se da fuori può apparire poca cosa, la Sinistra europea è in realtà vissuta con fatica dal corpo del partito, quella platea di quadri che è il cuore della conferenza di organizzazione, dove in tanti criticano i contorni confusi della Linke all'italiana (Gianluigi Pegolo) oppure il mito dell'unità a sinistra che è evocato da decenni ma «tanti danni ha provocato» (Ramon Mantovani). «Basta con la distinzione tra le due sinistre - dice invece senza mezzi termini Pietro Folena - basta con la contrapposizione di bandiere del '900». Affermazioni respinte da una parte importante del partito, anche della maggioranza. Milziade Caprili per esempio critica una improbabile «rifondazione socialista» ma invita a mettere da parte la «rassegnazione» e a uscire in mare aperto a partire da quello che c'è: «Una conferenza di organizzazione - aggiunge con prudenza - non si fa per sciogliere un partito ma per superare i limiti di quello che c'è».
Al di là delle dichiarazioni però la Sinistra europea è contemporaneamente un punto di arrivo e un punto di partenza per Rifondazione. Un punto di arrivo perché è un esperimento limitato, parziale ma reale di innovazione della militanza e di forme della partecipazione politica non organiche a un partito. «Una soggettività plurale e a rete, una confederazione unitaria articolata su nodi e case della sinistra», dice il coordinatore della segreteria Walter De Cesaris nella sua relazione introduttiva indicando le prossime tappe: a giugno l'assemblea nazionale e in estate la nascita delle «case della sinistra». E' un'innovazione della forma partito nel dialogo con associazioni e individui che avrebbero più difficoltà a interagire con il Prc in quanto tale (Fiom o Arci per esempio).
Ma è innegabilmente anche un punto di partenza. Per paradosso, la Sinistra europea con tutte le sue difficoltà è una sorta di polizza vita del Prc. Senza di essa il partito arriverebbe al «cantiere» senza altra ipotesi che lo scioglimento o la condanna all'autoreferenzialità. E' un terreno medio e parziale ma necessario.
La prudenza di Giordano è comprensibile. Il dialogo con tutta la sinistra è la precondizione per fare blocco su alcuni punti irrinunciabili, basti pensare ai Dico - terreno su cui Fassino non può essere lasciato solo di fronte a Rutelli o all'offensiva dei Cei - o alle pensioni - in cui la Cgil deve trovare una leva nella maggioranza. Ma al di là delle cortine fumogene è innegabilmente alla sinistra fuori dal Pd che si guarda con occhi «unitari».
A chi dice che è un passo troppo piccolo rispetto alla fase nuova, gli uomini di Giordano rispondono che intanto è un passo. Il cantiere del partito democratico in fondo è aperto da 11 anni e non ha ancora messo su la prima pietra.4
l’Unità 1.4.07
«Rifondazione riunirà la sinistra in poco tempo»
Il senso del Cantiere. Ferrero: multiculturali e multietnici
Falce e martello addio? «È ancora troppo presto»
di Wanda Marra
«RIFONDAZIONE c’era ieri, c’è oggi e ci sarà domani. Continuiamo a lavorare alla Sinistra europea, ma non siamo portatori di nessuna forma settaria, per cui continuiamo ad allargare con il Cantiere della sinistra. Ma non è più il tempo dei partiti unici, né al
governo né all'opposizione. Servono forme di aggregazione, che mettano insieme elementi diversi, senza l'idea di ricondurli ad uno solo. Quello che diciamo per la società, che intendiamo multietnica e multiculturale, deve valere per le forme della politica. Questo è il futuro di una politica di alternativa”. E’ forse il più applaudito della giornata Paolo Ferrero, che intervenendo nel pomeriggio alla Conferenza di organizzazione del Prc di Marina di Carrara, prova con queste parole a delimitare i paletti della discussione in corso, a trovare una sintesi. Mettendo insieme non solo il futuro di Rifondazione come partito, ma anche come partito di governo: ”Basta stare a guardare che il governo faccia qualcosa e dare dei voti. Il ruolo di Rifondazione è duplice: dobbiamo lavorare per modificare i rapporti di forza e rompere l'impotenza che regna tra la nostra gente. Dobbiamo contrattare ma non appiattirci». E avverte: «Il 'Tesoretto' per la ridistribuzione del reddito è la parola d'ordine. Le prossime settimane sono il punto decisivo».
Quella di Ferrero è però una delle sintesi possibili, dopo tre giorni di dibattito, che almeno un dato l’hanno evidenziato con forza: il Prc a questo punto è davanti a un passaggio non secondario e anche difficile, come molti sottolineano dal palco, di cui si vede l’inizio, ma non l’approdo finale. C’è un progetto a breve termine, la Se, che si va definendo come esperienza “confederativa”. Poi c’è l’idea, lanciata da Bertinotti, e ribadita da Giordano, di un Cantiere della sinistra, aperto a tutti. Nel frattempo, lo scenario politico è in movimento, con Mussi e i suoi, che nel Pd non entreranno e mostrano interesse per un soggetto a sinistra. E con loro Rc si deve confrontare (già domani alcuni dei suoi dirigenti saranno insieme a qualche esponente della sinistra Ds in un incontro sul futuro della sinistra in Europa): attraverso una nuova “soggettività politica”, come adombrato da Giordano? E con quali forme? Inutile negare, allora, che la Se appare più un passaggio, che un punto d’arrivo. «Dovrà essere una soggettività confederativa. E c’è spazio poi per un discorso più ampio a sinistra”, spiega il coordinatore della segreteria, De Cesaris, in apertura di giornata.
Ma a dire chiaramente che bisogna andare oltre è il Sottosegretario, Alfonso Gianni: «Dobbiamo andare più in là, anche dello stesso progetto della Se. Nel nostro paese il problema non è aprire cantieri, è chiuderli con un prodotto finito, visibile e fruibile. Abbiamo tempi brevi per farlo: mesi, non anni. Bisogna porre il tema della costruzione di un nuovo soggetto politico: tocca ai comunisti, liberamente comunisti quali noi siamo, il compito di ricostruire l'intera sinistra». Una sinistra “senza aggettivi” la definisce Gianni.
Ma anche sugli aggettivi si differenziano le posizioni. Con Folena, che afferma la necessità di tornare al «socialismo delle origini». E il vicepresidente del Senato, Caprili, che rimanda al mittente questo consiglio: «Noi siamo un’altra cosa. Siamo comunisti. Va bene guardare alla Se, al Cantiere, all’emergenza politica. Ma partendo da Rifondazione comunista». L’autonomia e la simbologia del Prc non sono in discussione, ha chiarito Giordano. Insomma, Falce e Martello non si toccano. Questo sicuramente per oggi, ma per domani? «Non è in discussione ora se abbandonare questa forma del partito, ma come riformarla, rafforzarne il radicamento – dichiara un vecchio “compagno”, Peppe Tazzese, responsabile del Tesseramento di Rc – ma verrà un momento in cui sarà attuale. E si discuterà su come riusciremo a metterci insieme in un corpo più ampio. Se un giorno Falce e Martello dovessero scomparire non piangeremo». «Non mi pare si stia andando verso il socialismo. Ma in ogni modo sia chiaro che non sono disposta a rinunciare alla mia identità comunista», avverte invece Bianca Bracci Torsi, che viene dalla Resistenza. Un approccio più laico arriva dai più giovani: «Non credo tanto nei simboli. Ma la Falce e Martello rappresenta una parte importante della nostra storia e della nostra cultura. Ora però, bisogna discutere come ci si rapporta allo spazio lasciato libero a sinistra dal Pd», spiega Michele Piras, segretario regionale della Sardegna.
l’Unità 1.4.07
Bagnasco senza freni accomuna Dico, pedofilia e incesto
È bufera sulle parole del capo della Conferenza episcopale. Poi la Cei tenta una marcia indietro: è stato male interpretato
L’attacco quotidiano ai Dico arriva per voce dell’arcivescovo Angelo Bagnasco, presidente Cei, che sulla scia della guerra di Ruini dice: «Se cade l’etica, poi è difficile dire no anche a incesto e pedofilia, come è accaduto in Inghilterra e Olanda».
Parole che provocano una bufera politica. Concetti difesi dalla destra e da Mastella, attaccati dai ministri Pollastrini e Pecoraro Scanio. Il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, cattolica e credente, è sconcertata: «Certi vescovi dovrebbero andare in missione e rendersi conto di cosa significa sostenere davvero le famiglie italiane». E solo a tarda sera la Cei tenta una marcia indietro. Le parole di Bagnasco sarebbero state male interpretate.
I DICO equiparati all'incesto o alla pedofilia: aberrazioni. Per paradosso o per convinzione il presidente della Cei, l'arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco parlando venerdì sera ai «comunicatori» della sua diocesi spiega la Nota dei vescovi indirizzata ai politi-
ci sulle coppie di fatto. Parla di senso comune, libertà individuale e dei criteri antropologici dei valori etici, di un criterio oggettivo per giudicare il bene e il male. Invita ad utilizzare gli argomenti della ragione, comprensibili da tutti. E a farlo con rispetto e moderazione. Poi a proposito delle coppie di fatto arrivano le parole forti. Almeno stando ai resoconti dei quotidiani genovesi e delle agenzie di stampa. «Perché dire di no a varie forme di convivenza stabile giuridicamente, di diritto pubblico, riconosciute e quindi creare figure alternative alla famiglia. Perché dire di no?» si domanda retoricamente. E passa ad una serie di equiparazioni: «Perché dire di no all'incesto come in Inghilterra dove un fratello e sorella hanno figli, vivono insieme e si vogliono bene? Perché dire di no al partito dei pedofili in Olanda se ci sono due libertà che si incontrano? Sono situazioni limite, usate in senso paradossale o accostamenti arditi per spiegare i no della Chiesa ad una possibile deriva etica? «Se il criterio sommo del bene e del male è la libertà di ciascuno, come autodeterminazione, come scelta, allora se uno, due o più sono consenzienti, fanno quello che vogliono perché non esiste più un criterio oggettivo sul piano morale e questo criterio riguarda non più l'uomo nella sua libertà di scelta, ma nel suo dato di natura». Insiste l'arcivescovo di Genova: «La questione problematica che ci ha consegnato il Novecento è non sapere più chi è la persona umana».
Quell’accostamento dell’incesto e della pedofilia alle coppie di fatto è ritenuta «inaccettabile» e «incredibile» da politici del centrosinistra e dai movimenti omosessuali. Dura la reazione del ministro per le Pari opportunità, Barbara Pollastrini che di dice «stupefatta» dall'utilizzo di espressioni «che trascendono il dissenso legittimo» dalla proposta di legge sui Dico e che finiscono «con il ferire la dignità delle persone». Il ministro Alfonso Pecoraro Scanio spera in un equivoco e auspica un chiarimento, perché «il paragone tra le convivenze e la pedofilia o l'incesto è gravissimo». L'Arcigay, con il segretario Aurelio Mancuso, suggeriscono al presidente della Cei di fare «mea culpa» per «le aberrazioni di cui si macchiano tanti sacerdoti» a danno di bambini e bambine. Plaude all’arcivescovo il centrodestra. Commenta Francesco Storace (An): «Oggi Bagnasco ha detto elementari verità». Mentre il ministro Mastella osserva: «Non è possibile che ogni volta che qualche vescovo interviene su cose normali, di buon senso religioso e laico, ci siano intemperanze, atteggiamenti un po’ isterici».
La eco delle reazioni arriva sino a Macerata, dove il presidente della Cei, con il cardinale Ruini, partecipa all’ordinazione a vescovo della città di monsignor Claudio Giuliadori. In un primo tempo Bagnasco si limita a dire: «Bisogna vedere come le mie parole sono state riportate. Non ho avuto modo di vedere le agenzie...». Poi, nel pomeriggio, arriva la puntualizzazione affidata all'arcidiocesi di Genova: fa testo quanto scritto da Avvenire. L’arcivescovo è stato mal interpretato: «Nessuna equiparazione, nelle sue parole, tra i Dico e l'incesto o la pedofilia». Lo sottolinerà anche il quotidiano della Cei. Sotto accusa le sintesi giornalistiche, definite «parziali e fuorvianti». Sarebbe diverso il contesto delle affermazioni sotto accusa. Si dà conto di un Bagnasco che invita a «comunicare» facendo riferimento al retto uso della ragione e a una «corretta antropologia». Che parla di «confronto retto, onesto, il più possibile pacato e rispettoso». Ci sono pure quelle citazioni sull’incesto e sulla pedofilia, ma per segnalare il rischio della mancanza di «un criterio oggettivo per giudicare il bene e il male». Quegli accostamenti, però, continuano a bruciare.
l’Unità Lettere 1.4.07
Il cardinale Scola, arcivescovo di Venezia, ha affermato che «nella società italiana manca una dialettica rispettosa delle opinioni di tutti». Paradossalmente ha ragione. Infatti nella sfera genericamente politica i media pubblici e privati consentono bene o male una pluralità di informazioni disegualmente divisa in cinque : un quinto di politici laici, due quinti di politici dichiaratamente cattolici (di destra e sinistra), e due quinti di prelati che fanno politica. Nella sfera genericamente culturale dedicata alle concezioni del mondo, religiose e non, il 99 % dello spazio è dedicato alla religione cattolica e a tutto il suo indotto parrocchiale e associazionistico, e l' 1 % a protestanti ed ebrei. Ma questi ultimi in TV solo dopo le due di notte. Zero agli atei e alle loro organizzazioni rappresentative. Eppure l' on.le Casini aggiunge che se la chiesa viene privata del diritto di parola rischia di tornare nelle catacombe. Ma qui il problema è che nelle catacombe ci sono solo gli atei. Nessuno in Italia vuole togliere la parola alla chiesa cattolica che afferma in ogni momento di essere l' unica a detenere la verità assoluta. Il vero e unico problema è che solo la chiesa cattolica esercita pienamente il diritto di parola in questo Paese. E lo esercita per contestare i valori espressi da tutte le altre componenti sociali e culturali, senza che ad esse venga dato nemmeno uno spazio minimo di contraddittorio. Non possiamo accettare che laicità dello Stato si affermi solo nel consentire ad un unico soggetto la piena libertà d' espressione, perchè così facendo appare come uno Stato totalitario e teocratico. Non garantendo il pluralismo dell' informazione (nemmeno nei media pubblici dove è tenuto per legge), lo Stato impone di fatto la segregazione e l' apartheid mediatico, soprattutto degli atei .
Giulio C. Vallocchia
l’Unità 1.4.07
Cézanne a Firenze, il collezionismo senza scuola
di Renato Barilli
ANTOLOGIE A Palazzo Strozzi trenta opere del grande «provenzale» tornano nella città che le capì e le acquistò per la prima volta, ma che non riuscì a mutarne il fascino in ispirazione per altri artisti
Una mostra come Cézanne a Firenze, in atto a Palazzo Strozzi (a cura di Francesca Bardazzi) appare, al tempo stesso, esaltante e deprimente. Esaltante, perché non succede tutti i giorni di vedere una trentina di opere del padre incontestato dell’arte contemporanea, e per giunta riunite con giustificato motivo, in quanto acquistate, in epoche assolutamente pionieristiche, da «due collezionisti», come precisa il sottotitolo della rassegna fiorentina. Uno di essi, Egisto Fabbri (1866-1933), era nato proprio sotto il campanile di Giotto, anche se i casi della vita lo avevano portato a un destino internazionale. Adottato in pratica da uno zio facoltoso, il nipote, che lo ripeteva nel nome, poté svolgere i propri raffinati gusti di pittore in prima persona e di avveduto collezionista, essendo così tra i primi a intuire il genio cézanniano, avendo a fianco in tale scoperta un altro personaggio di gusti ugualmente raffinati, tedesco di origine, Charles Alex Loeser. I due, buoni amici nella vita elegante che conducevano presso la colonia anglofona di Firenze, spartirono anche l’amore coraggioso per i dipinti del grande Provenzale, e dunque questa attuale fedele ricostruzione delle loro scelte ci offre, sulle pareti di Palazzo Stozzi, una buona campionatura del genio cézanniano. C’è perfino un dipinto giovanile degli anni Sessanta dell’Ottocento, I ladri e l’asino, quando l’artista da giovane usava uno stile contorto, sbisciolato, in cui era già l’intuizione che l’universo contemporaneo tale è in quanto percorso da energie radianti, da «onde». Era il drastico rifiuto di quegli atomi sensoriali, allineati come in un diligente pallottoliere, cui invece ricorrevano i coetanei del Nostro, gli Impressionisti. Anche se poi lo stesso Cézanne doveva ammettere la necessità che a quel fare pulsante, a onde sferoidali, succedesse una sorta di «rettificazione» affidata alle faccette di un poliedro, e nasceva così la tipica sua maniera, consistente in una sventagliata di pennellate sicure di sé, autonome, pronte ad aprirsi a carciofo nello spazio, da cui sarebbero poi derivati il Cubismo e ogni altra ipotesi costruttivista. Di questi entusiasmanti esperimenti e primi passi nell’avventura spaziale del nostro tempo la mostra fiorentina offre un’antologia ristretta ma essenziale, limpidamente didattica, e di riflesso va dato il giusto merito ai due collezionisti andati in avanscoperta.
Ma, si diceva, ci sono pure ragioni di malinconia, di rimpianto per occasioni perdute, in quanto di tutto questo ben di Dio nulla è rimasto alla Città del Giglio: i due rabdomanti, dopo aver conservato con orgoglio le tele preziose per alcuni decenni nelle belle dimore che si erano procurati a Firenze e dintorni, andarono progressivamente disfacendosene, per ragioni varie. E dunque, se ora per un momento questi dipinti ricompaiono sulle rive dell’Arno, ciò avviene con provenienza dai quattro angoli del mondo, dove ritorneranno lasciandosi alle spalle un vuoto assoluto.
Ma ancor più triste, se ritorniamo al caso del collezionista fiorentino, Egisto Fabbri, dover constatare che questo interesse encomiabile per le innovazioni cézanniane rimase senza tracce nella sua personale attività artistica, qui utilmente documentata. Egli fu un buon ritrattista, con dipinti dedicati a soggetti di famiglia, ma sulle orme di un artista assolutamente distante dalle orme del genio di Provenza, e invece buon rappresentante di modalità assai più convenzionali, anche se oggi pure a lui si riconosce qualche grado di eccellenza, John Singer Sargent, con quelle sue pennellate solide, ariose, mirabili nell’inquadrare volti, sagome, abiti, ma pur sempre nel rispetto di un codice di normale naturalismo. Nulla a che spartire con le scansioni condotte dall’interno, con le indagini strutturali che consentivano all’artista francese di sovvertire i vecchi canoni di un mimetismo speculare. E se non guardava a Sargent, il nostro Fabbri si ispirava ad altri campioni della sfera impressionista, seppure di specie nordamericana, come Julian Weir o John La Farge, o consuonava con alcuni suoi coetanei toscani quali Alfredo Muller e Eduardo Gordigiani.
E neppure si può dire che quella miracolosa presenza di dipinti del fondatore della contemporaneità riuscisse ad esercitare un’azione fecondante, sull’arte fiorentina dei primi due decenni del secolo. Uno dei compiti aggiunti della mostra a Palazzo Strozzi, come indicato da un seconda metà del sottotitolo, sta nel ricostruire La mostra dell’Impressionismo del 1910, che appunto presso la città del Giglio si tenne in quell’anno, sotto la regia di Ardengo Soffici. Ma, come in ogni azione di questa contraddittoria figura, vi fu espressa una scelta incerta, esitante, sostanzialmente confusa, visto che accanto a un impressionista autentico come Pissarro vi comparvero pure Van Gogh, Matisse, Medardo Rosso, cioè nomi che «sparavano» in direzioni difformi. Fu un bagno nell’attualità, ma in modi indiscriminati. L’unico toscano che allora capì davvero la lezione di Cézanne, Amedeo Modigliani, dovette però andare a Parigi per apprenderla. E ci fu anche un altro giovane di quegli anni che ne ebbe un’efficace intuizione, seppure attraverso cattive riproduzioni in bianco e nero. Alludo a Morandi, che nella vicina Bologna andava componendo dei paesaggi i cui dati, proprio come nella lezione cézanniana, «facevano muro» in primo piano.