giovedì 29 marzo 2007

l’Unità 29.3.07
«Quarantamila diessini vogliono il socialismo europeo»
Oggi assemblea della mozione Mussi. Deciderà la strategia per il congresso nazionale di Firenze
di Eduardo Di Blasi


Al Congresso di Firenze andranno per dare battaglia, per dare voce alla propria contrarietà al progetto del partito Democratico. Dopo aver raccolto il 15% dei consensi nei congressi di sezione, gli esponenti della mozione Mussi («A sinistra per il socialismo europeo»), si riuniranno oggi in assemblea nazionale presso la sala del Garante della Privacy di piazza Montecitorio per decidere le prossime mosse in vista dell’assise di Firenze. Non vogliono sentir parlare della parola «scissione», e rispondono al segretario dei Ds Piero Fassino che ieri, dalle colonne de l’Unità, lanciava un appello a marciare uniti. Gli chiederanno di «fermare in tempo la locomotiva del partito democratico».

«IL PROBLEMA non è se andiamo o non andiamo al Congresso di Firenze. Il problema è che anche l’apertura fatta ieri su l’Unità da Fassino, alla fine non modifica di una virgola la posizione del segretario sul partito Democratico. Quindi, adesso, la scelta che ci troviamo davanti appare chiara: o si abbandona la posizione che abbiamo assunto fin qui o si va avanti». Il senatore Cesare Salvi non vuole sbilanciarsi sul contenuto della discussione che oggi interesserà il gruppo dirigente della mozione «A Sinistra per il Socialismo Europeo» di Fabio Mussi. Dalle nove e mezza della mattina alle quattro del pomeriggio, in una assemblea a porte chiuse, i componenti del Consiglio nazionale e del Consiglio nazionale dei garanti, i parlamentari italiani ed europei, i coordinatori regionali e provinciali e i dirigenti sindacali vicini alla mozione, si ritroveranno nella sala conferenze, presso la sede del Garante per la Privacy di piazza Montecitorio. «I congressi di sezione ci hanno detto che oltre 40mila compagni credono nel socialismo europeo - spiega il deputato Valdo Spini, tra i firmatari della mozione - Ci rivolgeremo alla maggioranza per chiedere di ragionare sui punti ancora controversi, come i tempi della discussione e l’approdo internazionale. Ma proporremo anche un disegno politico. Bisogna comprendere che sono in moto anche fatti esterni, e che una convergenza di tutta la sinistra italiana è un fatto possibile». Spini ha apprezzato, nei giorni scorsi, la posizione assunta dal segretario dello Sdi Enrico Boselli («Ha chiarito che il rilancio socialista non si può limitare a pezzi della diaspora dell’ex Psi e dell’ex Psdi»), ma non è solo da quella parte che sembra guardare l’ala sinistra dei Ds. L’orizzonte verso il quale navigano i firmatari della mozione Mussi non sembra finire prima del Congresso nazionale (al quale i delegati del «nuovo correntone» saranno presenti), ma quello che accadrà dopo, o durante l’assise di Firenze. Marco Fumagalli approva il distinguo di Cesare Salvi: «La discussione è posta in quei termini. Anche se io sposterei l’asse: non dobbiamo pensare a cosa sia utile che facciamo per noi, ma cosa sia utile che facciamo per l’Italia. Il tema è proprio in questi termini: i Ds scompariranno. Cosa è utile che noi facciamo?».
La domanda non sembra di facile soluzione. Anche perchè, stando a quanto afferma la combattiva deputata vicentina Lalla Trupia («Noi chiediamo a Fassino di tirare il freno. Per quello che mi riguarda il Pd, così come sta nascendo, non è un partito nuovo ma l’ultimo di quelli vecchi»), l’opzione che basti rallentare per raddrizzare la rotta non appare la più semplice da portare avanti. Fulvia Bandoli rimanda al mittente la proposta di Fassino: «Gli appelli pressanti di Fassino a Mussi e alla sinistra Ds ad entrare nel Pd denotano un rispetto ancora modesto delle opinioni diverse e finiscono per farci passare come “coloro che non vorrebbero l’unita”. In effetti la realtà è diversa e l’unità in questo caso non c’entra nulla: dopo il congresso inizia la fase costituente del Pd e mano a mano i Ds si scioglieranno come la Margherita in un nuovo partito, dunque siamo tutti in uscita dai Ds». Massimo Villone rincara: «Mi sento come uno che sta a casa sua e che viene cacciato dalla forza pubblica per ordine del padrone di casa...». Abdon Alinovi analizza: «Il rovesciamento della linea di Pesaro, cioè il rafforzamento dei Ds come forza aggregante della sinistra, dell’Ulivo e dell’Unione non è stato compiuto dalla sinistra. Sarebbe assurdo condividere ora la responsabilità dello scioglimento Ds e di uno sbocco che toglie autonomia e potenzialità alle sinistre ed alle stesse forze cattoliche-democratiche. Coltivo ancora la speranza che si mediti, al di fuori del trionfalismo sostenuto dall’aritmetica, al turbamento che esiste nella coscienza profonda del partito e dell’elettorato». Una riunione alla Camera, ieri sera, ha messo a punto il documento da presentare oggi in assemblea. A Firenze per dare battaglia.

l’Unità 29.3.07
Angius chiede un referendum sull’adesione al Pse
«Il 9% per una corrente che due mesi fa non esisteva neppure è un grande risultato»


GAVINO ANGIUS è soddisfatto. «Raccogliere 23mila voti con una mozione che non è una corrente, e che fino a due mesi fa non esisteva come aggregato umano è stato un fatto straordinario». Adesso, però, chiusi i congressi di sezione e «pesate» le rispettive idee, è il momento di ritornare a discutere. Così, al terzo piano di Palazzo Madama, il vicepresidente del Senato ribadisce le linee guida della propria mozione «Per un partito nuovo, democratico e socialista» (un partito democratico e socialista, di sinistra, parte integrante del Pse, e, soprattutto, «laico») e segna la differenza tra il «suo» partito Democratico e quello disegnato dalla mozione del segretario Piero Fassino. «Non diciamo la stessa cosa, e la maggioranza non può dire che l’85% del partito è favorevole al Partito Democratico, sommando i suoi voti con i nostri. Altrimenti - scherza - anche io posso dire di aver vinto il Congresso con l’85% dei consensi». Tornando sulla questione politica Angius lancia, assieme alla neonata componente, tre proposte alla maggioranza del partito. Una fase costituente che non si concluda «prima della fine del 2008», un’ulteriore verifica congressuale al termine di questa («dovremo verificare gli esiti politici e lo scioglimento del nostro partito»), l’adesione al Pse. Sul tema Angius lancia una doppia proposta: i Ds dovranno chiedere ai partner politici, durante la fase costituente, l’adesione formale al Pse. Nel caso i «partner politici» rispondessero di «no», propone l’idea di un «referendum» tra gli iscritti di tutti i soggetti del patto costituente. Certo, annota, in una pagina intera di intervista all’Unità, «il segretario del partito è riuscito a non citarci neanche una volta, anche quando ha aperto alla minoranza» (il segretario Ds, in una intervista rilasciata ieri sera al Tg1 ha aperto anche alla componente Angius-Zani: «Vogliamo realizzare il Pd con tutta la ricchezza del nostro partito e quindi io dico sia alla mozione Angius che alla mozione Mussi e a chi le ha sostenute: state dentro il nostro partito, state con noi, siate parte della costruzione di questo progetto»). Ma Angius avverte: «Il manifesto dei saggi sul partito democratico è inaccettabile, un ostacolo insormontabile. Cacciari lo trovò orripilante». Avvisa: «Preoccupa la lotta di potere interna alla Margherita rispetto alla grandiosità dell’obiettivo». Spera «in un congresso che non sia una kermesse o una messa cantata». Ritiene che se il Pd si caratterizzerà come una «forza di centro, chi a sinistra proporrà nuove iniziative troverà vasti spazi». Non guarda verso il progetto del Prc. Non dispiace il progetto socialista di Boselli. Per adesso, però la prospettiva resta quella del Pd, democratico, laico e socialista.
e.d.b.

Corriere della Sera 29.3.07
Klee - Kandinsky, un’arte per due
di Arturo Carlo Quintavalle


Coniugarono spiritualità e astrazione fondando la modernità

Due importanti mostre, «Kandinsky e l'astrattismo in Italia 1930-1950» a Palazzo Reale, curata da Luciano Caramel e «Paul Klee teatro magico» alla Fondazione Mazzotta, sono una occasione eccezionale che Milano offre per comprendere le matrici dell'arte moderna, ben al di là dell'esplicito racconto di Pablo Picasso.
Se le radici della astrazione, e non solo di quella in Italia, sono nella pittura di Wassily Kandinsky, quali sono le discendenze, chi sono i creati di Paul Klee? C'è un dialogo fra Klee e Wols, fra Klee e molti fra i protagonisti dell'Informale, fra i pittori dell'Action Painting e in genere con gli artisti che operano sulle «scritture»?
Le vicende di Kandinsky e di Klee sono diverse ma le loro storie si intrecciano nel secondo decennio e poi nel periodo della Bauhaus, negli anni Venti. Li accomuna lo studio nell'atelier Von Stuck a Monaco, ma il momento nodale del loro incontro coincide con la pubblicazione de Lo spirituale nell'arte di Kandinsky e poi con la collaborazione dello stesso Klee all'Almanacco del Cavaliere Azzurro (1912) curato dal russo insieme a Marc. Nel saggio sullo Spirituale, l'idea che arte sia espressione di un sentire globale che attraversa le forme e i colori, e li trasforma, suggerisce un dialogo dell'opera dipinta nella direzione della poesia espressionista fino a Trakl e del racconto letterario da Hoffmann in avanti, e propone le idee che erano di Wörringer nel volume Astrazione e empatia (1908), dove il peso delle forme determinerebbe le emozioni in chi guarda. La posizione di Kandinsky si trasforma; dopo il periodo di Murnau attorno al 1908-1910, progressivamente l'artista sceglie di abbandonare la figurazione per l'astrazione: niente più titoli descrittivi, niente più immagini definite, ma la scomposizione progressiva delle forme fino al dialogo del dipinto con la creazione musicale da cui si assumono coloriture, temi, ritmi.
Klee, d'altro canto, sceglie una strada diversa: dopo qualche tangenza con le ricerche cubista e futurista fra 1911 e 1912, e dopo il dialogo a Parigi con Robert Delaunay che gli farà scoprire il colore (che poi l'artista mitizzerà come scoperto nel viaggio in Tunisia del 1914), eccolo concepire la funzione del pittore come alchimista, dunque interprete del mondo. Per lui, quindi, la pittura è un microcosmo, sia essa orto botanico, giardino, città, e questo durerà per tutti gli anni Venti. Kandinsky e Klee collaborano alla Bauhaus e il russo sente il peso della ricerca di Klee: lo provano ad esempio alcune opere esposte a Palazzo Reale come Discreto 1, Falce, Moto scuro, tutte del 1926.
Ma nella seconda parte del decennio Kandinsky si avvia per strade diverse, quelle che teorizza in Punto Linea Superficie (1926) e da questa ricerca deriva appunto la idea di pittura astratta che si diffonde in Italia e in Europa nei tardi anni Venti e nei Trenta, arte come costruzione misurata, arte come racconto estraniato, assoluto.
Diversa la storia di Klee: per lui a partire dagli anni Trenta e fino alla morte, nel 1940, si apre una via nuova, che intende la pittura come scrittura che attraversa le tecniche più disparate con cui si trasforma, quasi alchemicamente, la materia. Per Klee il disegno è traccia quasi spermatica della ricerca, evocazione delle origini che attinge a modelli psicoanalitici. Klee era partito da una ricostruzione in chiave freudiana della propria infanzia nei Diari ma, nel corso del secondo decennio, la sua lettura del mondo assume valenze diverse, junghiane, che gli fanno scoprire il mondo come sistema di segni simbolici, di scritture possibili. Quando Wols riscopre la ricerca di Klee comprende il valore di quei nuclei, di quei grovigli di segni che diventano in lui emozioni, e muovono sempre da Paul Klee molti altri, da Jackson Pollock a Mark Tobey, per non parlare degli altri protagonisti della Action Painting fino a Rothko. L'idea dunque che dipingere sia prima di ogni altra cosa scrittura, magari tenendo conto di ritmi diversi, per Klee quelli di Mozart oppure di Bach, per Pollock i suoni delle culture centroamericane, per Tobey recupero delle grafie e dei ritmi estremo-orientali, va davvero alle radici dell'arte moderna e distingue in essa due grandi strade, quella del mondo come ragione e nello stesso tempo tensione verso l'assoluto che caratterizza la complessa, importante storia della astrazione, e quella dell'arte come dialogo con la materia, dell'arte in cui si condensano eventi simbolici dove ogni forma diventa un segno.
Per Picasso dipingere non era cercare, ma trovare; per Kandinsky era proporre un ordine nel dilatato espandersi del suono dipinto; per Klee dipingere era avvicinarsi, senza mai raggiungerlo, al centro della creazione, come a dire a quell'inconscio delle culture che Jung scopriva in Simboli di trasformazione (1912). Queste, credo, fino ai concettuali da un lato e ai graffitisti dall'altro, ancora oggi, sono le due strade dell'arte moderna.

saluteuropa.it 29.3.07
Cresce la bulimia tra le giovanissime e l'anoressia colpisce sempre più le "over 40"


Sono soprattutto donne, circa il 90% dei casi. E di ogni ceto sociale, a differenza di un tempo quando anoressia e bulimia riguardavano la fascia medio alta della popolazione. Diversa poi la localizzazione. L'anoressia è presente ovunque, nelle metropoli come nei piccoli paesi. Mentre la bulimia è più diffusa nelle grandi città. Inaspettata anche l'incidenza. Tra le giovani è prepotente la presenza della bulimia: nella fascia d'età tra i 12 e i 25 anni ne soffrono l'1% delle donne, contro lo 0,5% di chi ha un problema di anoressia. Nelle ultraquarantenni, invece, pressoché inesistente la bulimia: chi è in conflitto con il cibo, è anoressica. Devono far riflettere questi dati perché per la prima volta mostrano un identikit vero di chi soffre di mal di cibo. Se ne è parlato oggi nel corso dei lavori del 19° Congresso Nazionale dell'Andid, l'Associazione Nazionale dei Dietisti, in corso a Roma all'Aurelia Congress Center.

"Dati certi sulle over 40 non ce ne sono ancora dal momento che si tratta di una situazione recente - ha spiegato la dr.ssa Giovanna Cecchetto, Presidente Andid - ma notiamo un aumento di richieste di aiuto proprio in questa fascia di età e in alcuni casi persino dopo i 55-60 anni". È la punta estrema di un iceberg in continua espansione. Una vera e propria epidemia, come sono state definite l'anoressia e la bulimia. Perché riguarda adolescenti che non vogliono diventare "grandi". Ma anche donne che non sopportano l'arrivo della menopausa, vissuta come inizio della vecchiaia.

"In particolare per quanto riguarda le ultraquarantenni - ha continuato la Cecchetto - il cattivo rapporto con il cibo e il corpo ha di solito origini remote. Se infatti si ricostruisce il periodo dell'adolescenza della donna, si scopre che spesso aveva già avuto dei momenti se non di anoressia vera e propria, comunque di disequilibrio per quanto riguarda il comportamento alimentare".

Il conflitto con il cibo, dunque, è spesso alimentato dall'adesione a diete troppo severe. "Diete che - ha aggiunto - creano una vera e propria "dipendenza" dal grammo e portano a demonizzare proprio i cibi più appetibili e graditi (dolci, snack salati, bibite, ecc.) anziché fornire abilità di gestione e capacità di controllo sulle occasioni pericolose (ristorante, occasioni conviviali, ecc…). Diete che, essendo troppo restrittive e povere di calorie, affamano l'organismo e aumentano il desiderio dei cibi "proibiti", favorendo comportamenti variabili tra la restrizione e la perdita di controllo e di conseguenza, oscillazioni continue di peso, senso di insoddisfazione e scarsa stima di sé".

"Qualunque sia l'età d'esordio - ha spiegato il prof. Massimo Cuzzolaro, dipartimento fisiologia medica, Università degli studi La Sapienza di Roma - l'anoressia e la bulimia sono legate a una profonda sofferenza interiore. È difficile però che gli altri se ne rendano conto, tranne quando iniziano a manifestarsi i sintomi "visibili" della malattia.

Più eclatanti, quella dell'anoressia: magrezza eccessiva con un peso inferiore all'85% di quello ideale, pelle disidratata e con un colorito tendente al giallo, occhi cerchiati e arrossati, capelli opachi. Meno facili da individuare, quelli della bulimia, perché difficilmente si verificano oscillazioni significative di peso. Al contrario dell'anoressia, infatti, il segnale che fa riconoscere la bulimia è il desiderio irrefrenabile di mangiare. Le abbuffate sono delle vere e proprie crisi incontrollabili. Che, a seconda dei casi, possono avvenire tutti i giorni e anche più volte nell'arco della stessa giornata, oppure anche solo un paio di volte alla settimana, sia di giorno che di notte, alternate a giorni di digiuno con l'idea di bilanciare in questo modo ciò che si è ingerito. Si innesca così una spirale senza fine: le abbuffate danno piacere perché vengono vissute come una trasgressione, ma scatenano vergogna, stato di disgusto per se stesse, paura di ingrassare ed enormi sensi di colpa, che a loro volta portano a nuove crisi".

La cura consiste per ambedue le forme da una parte nel far affiorare il problema che ha scatenato la sofferenza e risolverlo. E dall'altra nella rieducazione a un'alimentazione equilibrata, rompendo la schiavitù della malattia e gli schemi che si auto-impongono i pazienti. "Un aspetto fondamentale della malattia - ha sottolineato la Cecchetto - sono i pensieri disfunzionali. In sostanza, sono pensieri di controllo del cibo e di manipolazione del corpo che vanno contro le naturali funzioni dell'organismo. Hanno un importante ruolo sia nella manifestazione, sia nel mantenimento della malattia. Affrontarli e riuscire a "scardinarli" con professionisti competenti e preparati come il dietista, lo psichiatra, e lo psicologo può risultare decisivo ai fini del trattamento".

Ma a che cosa stare attenti? Ci sono dei segnali caratteristici di tutte e due le forme. Presenti sempre, a qualsiasi età. "Il più comune - ha spiegato il prof. Cuzzolaro - è relativo all'esercizio fisico che viene praticato in modo esagerato. In pratica, non ha niente a che vedere con l'abituale attività che viene effettuata normalmente due, tre volte alla settimana. Agli esercizi invece si dedica del tempo tutti i giorni in modo maniacale, con crisi di astinenza se non si riesce ad andare un giorno in palestra".

Altrettanto diffuso è il vomito. "Chi soffre di anoressia - ha continuato - lo fa quando non riesce ad evitare di sedersi a tavola e a mangiare. Chi invece ha un problema di bulimia si induce il vomito dopo le abbuffate, per eliminare il troppo cibo ingerito".

Anche l'uso di farmaci è una caratteristica che riguarda ambedue i disturbi. C'è infatti un ricorso piuttosto elevato a lassativi e diuretici. "Nel caso dell'anoressia - ha spiegato - servono per accelerare la perdita di peso. Per quanto riguarda la bulimia invece, è il rimedio utilizzato per eliminare ciò che è stato ingerito con le abbuffate. Oltre ai farmaci, vengono anche utilizzati rimedi naturali con lo stesso scopo, come crusca, tisane, fibre".

In più, si modifica l'abbigliamento. C'è la tendenza a preferire abiti informi, larghi e di colori scuri, per nascondere il proprio corpo. Infine, ultimo ma non meno importante, c'è la tendenza a isolarsi, a ridurre al minimo i contatti sociali e a vedere raramente persino gli amici più cari.

Affari Italiani 29.3.07
Anoressia/ Sempre più precoce l'ossessione per la magrezza: inizia a 12 anni


Ragazzi - Il campione è costituito dagli allievi delle scuole superiori di Civitavecchia: Istituto professionale di Stato industria e artigianato (I.p.s.i.a.) “Luigi Calamatta”, Istituto onnicomprensivo: Istituto d’Arte, Alberghiero, Professionale Contabile-Turistico (I.i.s.) “Via Adige”, Liceo Psico-pedagogico “P. Alberto Guglielmotti”, Liceo Scientifico “Galileo Galilei”. I questionari presi in considerazione, in quanto compilati correttamente sono 530 (196 maschi, 334 femmine) suddivisi in tre diverse fasce d’età 15 anni (86 maschi, 132 femmine), 16 anni (68 maschi, 131 femmine) e 17 anni (42 maschi, 113 femmine). Sono stati esclusi quelli dei ragazzi di 14 e 18 anni in quanto non presenti in tutte le scuole. Dall’Edi sc (Symptom checklist) compilato dalle ragazze emerge, anche a conferma di quanto evidenziato dai dati precedenti, che moltissime di loro si limitano nell’assunzione di cibo perché preoccupate per la forma o il peso del corpo; iniziano a sottoporsi a queste limitazioni già in giovanissima età (media 12 anni).

Gran parte di loro, pratica attività fisiche tre volte a settimana, sia come forma di controllo del peso corporeo che per divertimento. Sono moltissime quelle che non praticano nessuna attività sportiva. Per quanto riguarda la “abbuffate” le ragazze affermano di aver avuto e di avere, con una frequenza almeno settimanale, episodi angosciosi di non controllo della quantità di cibo ingerito, in cui sentono di non potersi fermare, o di provarne piacere, ma non riescono a individuarne con precisione l’età d’inizio. Pur comparendo come pratica di “compenso”, non risulta frequentissimo il ricorso al vomito autoindotto mentre sono usati con una certa frequenza lassativi, pillole dimagranti, diuretici, integratori. Molte, alla domanda: “Che tipo di pillole dimagranti prendi?”, hanno risposto: barrette, preparati da sciogliere in acqua sostitutivi del pasto.

Molte ragazze hanno avuto difficoltà a rispondere alla domanda relativa l’anamnesi mestruale, tante sono le risposte non date, mostrando poca attenzione, interesse e conoscenza per un aspetto così importante di sé.

I dati emersi dall’Edi Sc (Symptom checklist), evidenziano delle differenze comportamentali dei ragazzi: alcuni dichiarano di limitare l’assunzione di cibo per preoccupazioni legate alla forma o al peso del corpo, moltissimi praticano esercizio fisico con assiduità, ma sono pochi quelli che lo fanno per controllare il peso, riguardo le “abbuffate”, i ragazzi sembrano averne con più frequenza rispetto alle ragazze, (anche 2/3 alla settimana) non accompagnate tuttavia da sensazioni di perdita di controllo o di angoscia, compare pochissimo l’induzione al vomito, il ricorso a lassativi e diuretici come pratiche di compensazione, mentre compare l’uso di pillole dimagranti.

Un dato che è interessante sottolineare è quello relativo la domanda:”Prendi abitualmente farmaci prescritti dal medico?”, a cui i ragazzi hanno risposto indicando come farmaco gli integratori.

Bdc/Adnkronos Salute 29.3.07
ANORESSIA: LO PSICHIATRA, VALUTARE RICORSO A RICOVERO OBBLIGATORIO


Roma, 29 mar. (Adnkronos Salute) - "In Italia è necessario riaccendere il dibattito sul ricovero obbligatorio per i casi gravi di anoressia. Non solo per prevenire la morte del paziente, ma anche per evitare le complicanze tipiche di questa malattia, fra cui ad esempio l'osteoporosi, molte delle quali sono irreversibili". Lo ha affermato lo psichiatra Massimo Cuzzolaro, del Dipartimento di Fisiologia medica dell'università 'La Sapienza' di Roma, durante un incontro stampa organizzato oggi nella Capitale in occasione del 19esimo Congresso nazionale dell'Associazione nazionale dietisti (Andid). (... )

LatinaOggi 29.3.07
La ricerca sulle immagini
Il maestro del cinema Bellocchio spiega agli studenti del Liceo Classico
di Licia Pastore


BELLOCCHIO, artista al di là e al di sopra delle etichette». E lo ha dimostrato davvero Marco Bellocchio sottoponendosi generosamente al fuoco incrociato delle numerosissime domande degli studenti del Classico «Alighieri». L’occasione è arrivata grazie all’iniziativa promossa dal preside Giorgio Maulucci, che ha proposto una rassegna partita il 26 marzo e conclusa ieri con il dibattito incontro. Quattro proiezioni che hanno ricostruito una parte del percorso artistico del maestro delle immagini Marco Bellocchio. Si tratta di «I pugni in tasca», di «Addio al passato», «Sorelle» e «Buongiorno notte». Una scelta che ha visto il Liceo «Alighieri» promotore di altre iniziative dedicate a Bellocchio, tornato tra gli studenti del Classico per la terza volta in pochi anni. Ed è stato proprio con «Buongiorno notte» che si è aperto il confronto con il regista piacentino. «Non è un film a tesi (il delitto del caso Moro). E’uno dei film più problematici e centrati di Bellocchio, un film per certi aspetti brechtiano, in cui prevale il controluce che obbliga il pubblico ad interrogarsi, a pensare». Il preside Maulucci ha presentato i lavori di Bellocchio sottolineando diversi aspetti con precisione certosina. «Guardando al percorso sia artistico che esistenziale del registra - ha detto il preside - compreso il periodo della collaborazione con lo psichiatra Massimo Fagioli, al quale risalgono i film più apertamente psicanalitici, Diavolo in Corpo del 1986 e il Sogno della Farfalla del 1994, oggi ci rendiamo conto che egli non ha rinnegato affatto il suo passato di ‘arrabbiato’. Si è semplicemente, sapientemente evoluto, approdando ad una maturità d’artista e di cineasta indiscussa e unanimamente riconosciuta. Per tale motivo continua a rimanere una delle voci più significative ancora aggressive ed attuali del cinema, prerogativa, questa, di ogni autore autentico». E il filo del dibattito si è sviluppato sull’accostamento delle musiche alle scene, la centralità della figura femminile, le scelte attuali della sinistra e il linguaggio delle immagini originali proposte da Bellocchio. Stimoli a saperne sempre di più. E gli studenti si sono lasciati sedurre dai discorsi di Bellocchio che ha fatto più volte riferimento all’Analisi Collettiva di Massimo Fagioli, elemento centrale della sua ricerca artistica e personale.

mercoledì 28 marzo 2007

un'altra e-mail ricevuta da "segnalazioni" sul caso della contestazione a Fausto Bertinotti alla Sapienza, lunedì

«Ho letto le e.mail e tutti gli articoli qui segnalati in merito alla contestazione subita ieri da Bertinotti alla Sapienza, e penso che per come è stata trattata da giornali e telegiornali manchino gli elementi fondamentali per inquadrare la vicenda. Vorrei tentare di rimediare, sperando di riuscire a proporre una chiave di lettura differente da quella ovunque spacciata come l'unica possibile.

Non entrerò nel merito della delle modalità della protesta, ma credo che alcune contestualizzazioni siano indispensabili. I giornalisti sono del tutto estranei alla realtà universitaria, alla quale si accostano solo in queste circostanze, ed i politici che commentano ne sanno ancora meno.
Sarò il più breve possibile ma non voglio dare nulla per scontato.

Forse il primo punto da chiarire riguarda proprio il tema della "non violenza". Nessuna delle due organizzazioni che ha partecipato alla protesta si qualifica come "non violenta" ma non è neppure possibile definirle violente solo in forza di questo, o identificarle come gruppi di facinorosi dediti all'insulto sistematico: si tratta infatti i organizzazioni di studenti, che frequentano e fanno esami.
L'attività principale della Rete per l'Autoformazione consiste nell'organizzazione di corsi e seminari, iniziative di studio collettivo, con o senza relatori esterni. Oggi ad esempio a Scienze Politiche si tiene un incontro organizzato da loro dal titolo "La Cina è vicina" al quale prenderà parte anche il preside della facoltà. Altra tematica al centro della loro attenzione è la crescente precarietà nel mondo della ricerca, ma per qualsiasi ulteriore chiarimento rimando al loro sito, dato che il pensiero complessivo sottostante non è semplice ed anzi è spesso contraddittorio.
Il Coordinamento dei Collettivi ha invece un carattere più "sindacale" e tende ad interessarsi di problematiche specifiche inerenti al diritto allo studio: tasse universitarie, alloggi, mense, numero chiuso per l'accesso ai corsi di studio, con speciale attenzione ai nuovi blocchi voluti dal ministro Mussi ai corsi di laurea specialistici che impediscono il proseguimento degli studi ai laureati triennali che non soddisfino arbitrari requisiti individuati dalle singole facoltà.

Un altro punto rilevante mi sembra quello della minoritarietà e quindi scarsa rilevanza della protesta: perché se è vero che è innegabile che cinquanta studenti rispetto alla popolazione della Sapienza sono pochissimi è vero pure che affermare che a sinistra di Bertinotti non c'è nessuno non è una spiegazione adeguata.
Un po' di storia, sperando di non annoiare…
Entrambe queste realtà – la Rete e il Coordinamento – sono state protagoniste del movimento che nell'autunno del 2005 ha tentato senza successo di opporsi alla ormai celebre Legge Moratti, osteggiata da tutto il centro-sinistra – ma che ancora sopravvive illesa, seppure congelata – riaprendo anche la discussione sulla precedente riforma Zecchino, il cosiddetto "3+2" voluto dal Ministro Berlinguer.
Si trattò di un momento di grande partecipazione che culminò con una manifestazione nazionale partecipata da più di centomila studenti, tra universitari e liceali, il giorno del voto della legge.
Per quella che è la mia conoscenza – molto limitata – delle precedenti esperienze di lotta nell'Università penso di poter dire che una delle particolarità di quella del 2005 sia stata l'attenzione speciale riservata a questioni non meramente materiali: la qualità della didattica e la libertà di ricerca. Alle recenti riforme si imputava – e si imputa tuttora – di aver frammentato i saperi al punto da impedire agli studenti una formazione di base solida e di aver frammentato i contratti di ricerca al punto da non consentire un'attività libera e serena, minandone la qualità. Abbiamo studiato le leggi che determinano i meccanismi attraverso i quali gli atenei ricevono i finanziamenti statali e li distribuiscono alle facoltà e queste ai dipartimenti, individuando una stretta correlazione tra questi e le scelte didattiche deleterie dei diversi Consigli dei Corsi di Laurea. Il problema è stato spostato in un certo senso dalla quantità alla "qualità" dei finanziamenti, ma di fronte ad un lavoro difficile e senza una rivendicazione di breve termine da portare avanti la partecipazione è calata e gli attriti tra le diverse organizzazioni sono emersi provocando rotture.
La finanziaria ha portato nuovi problemi, ma ad affrontarli non c'era nessuno o quasi. Le università si sono viste tagliare i fondi per le spese di medio termine – la corrente elettrica ma anche il rifornimento delle biblioteche (l'abbonamento annuo ad una rivista scientifica di prestigio costa circa 150.000 €) – di circa il 10% e le già misere borse di dottorato sono state tagliate di 40 euro, praticamente senza che volasse una mosca.
Ad ogni modo qualche attività ha avuto buon seguito. Ad esempio il Collettivo di Fisica (del quale faccio parte e che non è organico a nessuna organizzazione) ha ottenuto il ripristino dell'ordinamento semestrale abbandonato con l'attuazione del 3+2 in favore dei trimestri, raggiungendo almeno parzialmente l'obiettivo di arginare la frammentazione ed ha avviato un gruppo di studi per analizzare il problema dello strapotere delle gradi multinazionali editrici delle costosissime riviste di settore dalle quali la ricerca scientifica è completamente dipendente. Inoltre abbiamo recentemente intrapreso "L'iniziativa di ricerca Scienza&Guerra, per indagare i rapporti tra la comunità scientifica ed il potere" – alla quale partecipano studenti e ricercatori di diverse facoltà – discutendo della neutralità della scienza, della ricattabilità della figura ricercatore, ma anche di quale ruolo debba avere la scienza nella società e di molto altro che ancora non siamo riusciti a definire.

Ultimo punto: lo stato del dialogo con il governo, ovvero perché non ci sono le premesse per sedersi a discutere.
L'estate scorsa studenti della Rete e ricercatori precari dell'associazione PreCat (Precari Cattivi) hanno fatto incursione nella sala in cui si teneva un convegno dei Ds Scuola dove era presente il Ministro dell'Università e della Ricerca armati dei soliti striscioni al grido: "Mussi libero!". Oggetto della contestazione non era infatti il ministro ma il governo che voleva imporgli i tagli, in quella sede incarnato dal sottosegretario al medesimo ministero Luciano Modica, additato come "il sequestratore" ma fermamente difeso da Mussi stesso. Modica ha preteso di sostenere che qualunque ricercatore, anche l'ultimo dei precari, percepisce uno stipendio dignitoso, non inferiore ai 1300 euro ed ha fatto questo di fronte ad una schiera di assegnisti di ricerca (ricercatori a progetto) che indignati sventolavano il loro assegno mensile di neppure 950 euro. "Vi sbagliate!" replicava il signor Modica "prendete molto di più e non ve ne siete accorti!". Forse l'Università Italiana ha problemi più seri di quanto non si pensi se sforna gente che dopo 5 anni di studi universitari, 2 di dottorato e non so quanti di post-doc non è neppure in grado di leggere l'importo della propria busta paga.
La realtà è che non sono disponibili interlocutori in buona fede e che la gran parte degli studenti, così come pure dei cittadini italiani non di centro-destra, è convinta che opporsi ad un governo "di sinistra" sia semplicemente inutile, se non dannoso.
I problemi però restano e le zone di continuità con la politica del governo precedente sono più ampie di quanto non si pensi. Forse non c'è nulla che si possa fare, ma se l'Università prosegue su questa china di declino il Paese intero è condannato ad andargli dietro.

Inutile dire che qualunque richiesta di maggiori dettagli, spiegazioni (in particolare riguardo la connessione con il tema della guerra, che per motivi di brevità ho scelto di non affrontare), chiarimenti o anche repliche ed obiezioni, qualunque sincero interessamento è ben accetto. Andare in televisione pagando il prezzo di non far passare alcun contenuto non è un grande successo».

sofiapiloni@yahoo.it

l’Unità 28.3.07
DOPO LE CONTESTAZIONI
Rc si interroga su quanto accaduto a «La Sapienza». Su Liberazione scrive un leader del ’77 a favore, altri criticano il presidente
Bifo difende Bertinotti, don Vitaliano no...
di Wanda Marra

Il giorno dopo i fischi a Bertinotti alla Sapienza, Rifondazione fa quadrato intorno al Presidente della Camera. Ma non manca chi nelle minoranze del partito cavalca il dissenso, rimarcando il disagio che in alcune anime del Prc è ormai sul punto di rottura.
«A contestare Bertinotti non è stato il movimento pacifista, ma una piccola parte del movimento - spiega Giovanni Russo Spena, capogruppo di Rc in Senato - e quella parte che non si è ancora confrontata con il fatto che in politica sono necessarie mediazioni». E fa anche un’analisi “storica”: «La rottura si è consumata dopo il Congresso di Venezia sulla non violenza. Ma bisogna anche capire il rapporto forte tra i mezzi e i fini. A volte sono più non violenti dei mezzi per raggiungere dei fini». Russo Spena, però, non nega il disagio di «tutti noi, e mio per primo di votare delle missioni militari. Speriamo che con la Conferenza di pace questa sia l’ultima volta». Sottolinea come le contestazioni facciano parte della storia recente del Prc anche il deputato Ramon Mantovani. Mentre il senatore Tommaso Sodano rimarca le «brutte» modalità della contestazione, che definisce «pregiudiziale» e «prevenuta». Nessun timore dunque che una parte dell’elettorato di Rc si stia allontanando dal partito? «Non si tratta certo di un fenomeno di massa, che deve mettere in discussione la nostra linea politica», risponde Sodano. E ribadendo piena solidarietà a Bertinotti anche il capogruppo di Rc alla Camera, Gennaro Migliore fa notare come alla Sapienza non ci fossero che 50 persone.
Ma c’è anche chi dentro Rifondazione non la pensa così. Salvatore Cannavò, leader di Sinistra critica, che si è autosospeso dal partito dopo l’espulsione di Turigliatto, ci va giù duro: «Quella contestazione dimostra la profonda frattura che ormai esiste tra la politica istituzionale, quella del Parlamento per intenderci, e la società. È la frattura tra le ragioni del realismo politico e quelle dell'idealismo Questi ragazzi sentivano dire a Bertinotti no alla guerra “senza se e senza ma” e ora vedono che si mettono se e ma. Le persone che l'hanno contestato sono gente che fino a un paio d'anni fa lo adorava». Una posizione netta quella di Cannavò, che ormai da qualche tempo va dicendo che in realtà esistono due Rifondazioni: una che guarda a un nuovo soggetto anche con chi tra i Ds non entrerà nel Partito democratico, e una che guarda più a sinistra della stessa Rc. La sua non è però la posizione di tutta la minoranza. Claudio Grassi, leader dell’Ernesto, spiega che nella contestazione a Bertinotti sono stati usati termini «inaccettabili», che denotavano la non volontà di dialogo. Anche se rimarca il dissenso sulla missione in Afghanistan. Diverse interpretazioni in alcune figure vicine al partito. «Sono molto solidale con Bertinotti», dice Marco Revelli, uno degli intellettuali di riferimento di Rc, un tempo molto vicino al Presidente della Camera e ora molto critico. Aggiungendo che gli studenti «credono di poter risolvere, tramite fischi e urla, una questione profonda e terribilmente lacerante qual è quella della pace e della guerra». Secondo Revelli, «devono arrivare pensieri e non fischi» per risolvere il «nodo» del dibattito politico che «sulla pace, sulla guerra, sull'Afghanistan e sulle altre situazioni del mondo è molto al di sotto della serietà che sarebbe necessaria. E vedo in tutti i partiti, anche in Rifondazione, poco sforzo per essere all'altezza».
Si schiera nettamente dalla parte dei contestatori, invece, il prete no global, don Vitaliano Della Sala, molto vicino ai Disobbedienti (da dove proviene anche il deputato di Rc, Francesco Caruso) : «Pur di gestire spezzoni di potere, si sono svenduti la propria storia», denuncia, accusando Bertinotti di «aver svenduto sull'altare della governabilità e della poltrona la sinistra cosiddetta radicale, messa all'angolo dal centro moderato e dai Ds». Oggi, infine, «Liberazione» pubblica un articolo di uno dei protagonisti del ‘77 bolognese, Franco Berardi detto Bifo che difende Bertinotti, definendo «ignobile» dargli del guerrafondaio, mentre ricorda che far cadere il governo significa consegnare l’Italia al centrodestra.

Corriere della Sera 28.3.07
I FISCHI ALLA SAPIENZA
di Fabrizio Roncone

Figlia di lotta e madre di governo, lite in casa Mascia: «Vanessa non chiami me e Bertinotti guerrafondai»

ROMA- «Ne parliamo, ma a una condizione: lei deve scrivere subito, proprio all'inizio dell'articolo, che mia figlia è una ragazza intelligentissima e...». Forza, onorevole, aggiunga... «Mhm... deve scrivere pure che è del tutto libera di pensare e di agire, politicamente, come preferisce. Anche se poi quello che ha fatto l'altro giorno, all'università, beh... quello che ha fatto...». Allora, onorevole? «Mi fa incavolare, ma incavolare proprio di brutto».
Parola di mamma. Una mamma pazzesca. Tostissima. Una delle dure di Rifondazione. Graziella Mascia, filo di perle e cuore rosso. Una deputata che ancora parla come una militante. Che torna a casa (lunedì sera) e dice: accendiamo la tivù, vediamo chi ha osato contestare Fausto alla Sapienza.
Vediamo. «Eh... non è stato piacevole, lo ammetto, scoprire che tra i contestatori c'era anche Vanessa». Reazione? «Vuol sapere se abbiamo litigato?». Beh... «No, litigato no. Ma discusso, sì». In piccolo, nel vostro salotto, c'è un dibattito piuttosto simbolico per il partito della Rifondazione. «Simbolico?». Il movimento che vi molla, i giovani che contestano il realismo politico del líder maximo. «Diciamo che io e mia figlia abbiamo valutazioni diverse delle azioni parlamentari compiute, negli ultimi tempi, dal Prc».
Mamma e figlia, non più tardi di un mese fa, sfilavano nelle vie di Vicenza per protestare contro la costruzione della nuova base Usa. Cori e sciarpe. Bellissima coppia. Di lotta e di governo.
Di lotta, lei, Vanessa: la prima occupazione quando aveva 13 anni al liceo Mamiani, qualche spesa proletaria, qualche manifestazione un po' movimentata e poi sempre e ancora politica, anche adesso, a 23 anni, adesso che è studentessa universitaria, facoltà di Scienze politiche a Milano, ma militanza a Roma, nel centro sociale «Esc» («Eccedi, sottrai, crea»), centro sociale non qualsiasi, provocazioni piene di fantasia, un rapporto stretto con gli antagonisti del Nord-est, i quali insegnano che bisogna esserci quando ci sono i fotografi: come, appunto, lunedì mattina, all'università, alla Sapienza. Con Bertinotti che arriva, e con loro, con quelli dell'«Esc» che, spiccato senso mediatico, tempismo nell'azione, attaccano con gli sberleffi.
Di governo, la madre. «Guardi, più che di governo, di buon senso». Sarebbe, onorevole? «La politica è anche mediazione...». Bertinotti, veramente, fino a un anno fa, sosteneva che la politica dovesse cambiare la vita delle persone senza se e senza ma. «Infatti. Solo che ora ci troviamo in una coalizione, l'Unione, dove dobbiamo sempre trovare un equilibrio. Anche su temi importanti come quello della Pace. È grave trovare un equilibrio?». È grave, dicono i vostri giovani, finanziare le missioni militari. «E la conferenza di pace? Non è un'idea apprezzabile? Davvero facciamo sempre così tanti errori?». Fate cose per cui, sua figlia, stava lì con gli altri a strillare contro Fausto Bertinotti. «Buffone!». «Assassino!». «Guerrafondaio». «No, per carità, non stia anche lei a farmi la filastrocca». Seccante, eh? «Fastidioso». Però è ciò che gridavano, e pensavano, quegli studenti. «Guardi, l'ho detto pure a mia figlia: potete legittimamente contestare le nostre azioni politiche, ma non decidere se io sono o no "guerrafondaia". Questo, non lo permetto a nessuno». Neppure a sua figlia? «Neppure a lei».
C'è una madre che cerca comunque di capire le ragioni di una figlia, e c'è una figlia che contesta la madre, la politica della madre e del suo partito. «Non è semplice parlare con chi contesta — spiega ancora Graziella Mascia — ma non vorrei paragoni con i giovani del Sessantotto o del Settantasette. Perché quelli erano giovani che contestavano a prescindere i genitori e ciò che i genitori rappresentavano. Questi ragazzi qui, questa generazione che io chiamo "genovese", perché è dalla drammatica esperienza di Genova e del G8 che vengono, sono diversi. Con noi, insieme a noi, e per anni, hanno sfilato in mille cortei. Per la Pace e contro la guerra, contro Berlusconi, contro gli americani che vogliono costruire basi. Fino a ieri, per capirci, con mia figlia sono andata politicamente molto d'accordo...».
E lei, Vanessa? «Io che?». Perché ha contestato Fausto Bertinotti? «Senti, giornalista. Io non rilascio interviste». Basterebbe anche solo una piccola frase, signorina. «Signorina? Devi spa-ri-re. Capito?».

Corriere della Sera 28.3.07
LA PRECARIA SIMBOLO DELLA PROTESTA
di Paolo Brogi

Annetta l'«urlatrice»: ce l'ho con il suo ruolo, non con lui
L'ATTACCO DELLA RICERCATRICE
Nella foto, Annetta Curcio contesta Bertinotti alla Sapienza. Racconta: ho una borsa annuale di mille euro al mese

ROMA — Annetta torna alla Sapienza, sul luogo del delitto, nel pomeriggio. «Sei la nostra icona», le ripetono mentre va verso l'aula 13 di Scienze Politiche dove c'è un'«iniziativa». È lei, nuova icona del malcontento, la giovane immortalata sui giornali mentre urla qualcosa a Bertinotti.
«Cosa gli ho gridato esattamente non ricordo...», dice. «Ma è importante?».
La chiamano Annetta. «Annetta come?». «Curcio...», risponde e ride.
«Nessuna parentela con quello là».
Infatti viene da Cosenza, laurea in scienze politiche e tesi di sociologia urbana nel '96, dieci anni di «precariato» da dottoranda prima e poi da assegnista di ricerca, tre fratelli a Cosenza pure loro precari.
Annetta ha dunque 35 anni, campa con mille euro al mese di una borsa che finisce tra un anno, ne spende 500 per una stanza al Nomentano. «Ho l'età in cui le donne fanno un figlio — dice —. Ma io che futuro ho? Resto precaria...».
«Se abbiamo gridato assassino, buffone? Sono slogan della fase più concitata — spiega lei —. Lo abbiamo accolto con parole d'ordine più ironiche. Ma non ce l'avevamo con lui, quanto col ruolo che esercita. Con le scelte complessive del centrosinistra.
Avremmo contestato chiunque fosse venuto come sostenitore della presenza in Afghanistan. E poi qui abbiamo già contestato il ministro Mussi. Quello che se non mi danno i fondi, mi dimetto. Però è ancora lì...».
Contestazione a Bertinotti sguaiata e volgare, così il direttore di «Liberazione». «Fantastico. C'è un'intera classe politica che si concentra sullo stile. È evidente che hanno un grave problema di contenuti. Prima di andare al governo eravamo i precari da ascoltare. Ora invece siamo da dimenticare. Saremo una parzialità, ma importante...Se non altro per dire che il re è nudo».


Corriere della Sera on line 28.3.07

«Il parlamentare credente ha il dovere morale di votare contro il pdl»
Dico, i vescovi: «Cattolici tenuti ad obbedire»
Diffusa dalla Cei la nota sulla regolamentazione delle unioni di fatto: i fedeli non possono appellarsi al principio di pluralismo


ROMA - I cristiani sono tenuti ad obbedire al «magistero della Chiesa» e pertanto un fedele «non può appellarsi al principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società ». Lo affermano i vescovi italiani nella Nota diffusa a proposito dei Dico, le nuove norme per la regolamentazione delle unioni civili contenute del disegno di legge dei ministri Bindi e Pollastrini.
«UN UOMO E UNA DONNA» - «Non abbiamo interessi politici da affermare - dicono ancora i vescovi -; solo sentiamo il dovere di dare il nostro contributo al bene comune, sollecitati oltretutto dalle richieste di tanti cittadini che si rivolgono a noi». «Siamo convinti, insieme con moltissimi altri, anche non credenti - si legge poi nella Nota di tre pagine - del valore rappresentato dalla famiglia per la crescita delle persone e della società intera. Ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio, e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna».
«IL NO E' DOVERE MORALE» - Il Consiglio permanente della Cei ricorda un pronunciamento della Congregazione della dottrina della fede del 2003 per ribadire nel caso del disegno di legge sulle coppie di fatto l’appello ai politici cattolici a «votare contro» un progetto di legge «favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali». «Ricordiamo - è scritto ancora nella nota - l’affermazione precisa della Congregazione per la Dottrina della Fede, secondo cui, nel caso di un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge».
28 marzo 2007


Corriere della Sera 28.3.07
STORIA Un saggio di Gianni Scipione Rossi denuncia le contraddizioni del teorico fascista
Evola, i due volti dell'antisemitismo all'italiana
L'alibi «spiritualista» servì a coprire un vero razzismo biologico
di GIOVANNI BELARDELLI


Durante il fascismo furono molti gli uomini di cultura che accettarono la politica del regime contro gli ebrei, spesso vedendo in essa, come ha scritto Renzo De Felice, un'occasione «per mettersi in mostra, fare carriera, fare danaro, per sfogare i loro rancori contro questo o quel loro collega». Furono pochi, però, gli intellettuali che condivisero davvero l'ideologia antisemita, come Julius Evola che, vissuto fino al 1938 abbastanza ai margini del regime, cercò di fondare una «dottrina della razza» diversa, a suo dire, da quella di Hitler perché basata non su elementi «biologici» ma «spirituali».
Eppure nonostante ciò, nonostante Evola sia stato uno dei più convinti antisemiti italiani, proprio a lui ha continuato a guardare dopo il 1945 una parte, minoritaria ma significativa, dell'estrema destra italiana, affascinata dal suo pensiero radicalmente antimoderno, guazzabuglio teorico a base di decadenza dell'Occidente, Tradizione (con la maiuscola), esoterismo, religioni orientali. Ciò è potuto avvenire appunto attraverso la preliminare minimizzazione dell'antisemitismo evoliano, considerato per un verso come una esperienza terminata con il 1945, per l'altro come una teorizzazione che poco o nulla avrebbe avuto a che fare con l'antisemitismo di Mussolini e di Hitler.
Entrambi questi assunti sono efficacemente criticati da Gianni Scipione Rossi, in un saggio dedicato appunto all'antisemitismo di Evola ( Il razzista totalitario, Rubbettino editore). Sulla prima questione, l'autore documenta come Evola non abbia mai preso le distanze, dopo il 1945, dai propri scritti antiebraici, continuando a rimanere fedele a posizioni razziste: ancora nel 1969, in un articolo sul Borghese formulava l'incredibile proposta che gli americani risolvessero il problema razziale sgomberando «dai bianchi uno degli Stati minori dell'Unione per mettervi tutti i negri statunitensi».
Quanto alla seconda questione, cioè alla pretesa evoliana di avere elaborato un antisemitismo solo o essenzialmente «spirituale», e perciò — si sostiene — meno infamante, Rossi la definisce puramente e semplicemente una leggenda, alimentata ad arte dai seguaci, ma priva di qualunque effettiva consistenza. È indicativa, al riguardo, la stessa parabola percorsa da Evola che, partito da un atteggiamento di superiorità nei confronti dell'antisemitismo nazista (non perché antisemitismo, si badi, ma perché fondato su basi teoriche a suo avviso troppo «banali »), avrebbe poi visto nelle SS «una nuova nobiltà politica razzialmente, moralmente e spiritualmente selezionata», destinata a fondare una nuova civiltà.
Per Evola, non esistendo più razze pure, si trattava di valutare gli «incroci» per la percentuale di «arianità» che contenevano; senza alcuna possibilità che gli appartenenti a una razza «inferiore» potessero elevarsi fino a una razza «superiore». Un razzismo dunque, il suo, non meno determinista di quello a sfondo biologico. Del resto, si può ben dire che ogni corrente e ogni tipo di antisemitismo ha sempre preteso di fondarsi anche su elementi «spirituali», sostenendo di colpire gli ebrei sulla base dei valori negativi dei quali li riteneva portatori. Fino al punto, messo di recente in luce da Francesco Germinario in un saggio dedicato all'immaginario antiebraico (sull'ultimo numero della rivista Il presente e la storia), che tanti antisemiti di fine Ottocento mostravano di odiare gli inglesi quanto e più degli ebrei, perché li consideravano appunto la personificazione di quei valori — l'ideologia del profitto, il liberalismo — individuati come la quintessenza «spirituale» dell'ebraismo. Visto in questa luce, confrontato con le tante citazioni di antisemiti che avevano giudicato gli inglesi «più ebrei degli ebrei stessi», appare evidente come l'antisemitismo cosiddetto spirituale di Evola non avesse alcuna particolare originalità.
Del resto, fu Evola che scrisse nel 1937 la prefazione a un concentrato dei principali luoghi comuni antisemiti come i Protocolli dei savi anziani di Sion, il famigerato testo fabbricato anni prima dalla polizia zarista per mostrare l'esistenza di una cospirazione ebraica volta alla conquista del mondo. Vi scriveva tra l'altro: «Fosse pur falso il documento (cioè i
Protocolli), non esistesse pur quella congiura metodicamente organizzata di cui esso parla, resta purtuttavia che essa è come se fosse davvero esistita». All'epoca era già stato accertato che si trattava di un falso, ma questo evidentemente — per Evola come per ogni antisemita — non aveva alcuna importanza.
• Il libro di Gianni Scipione Rossi, «Il razzista totalitario», (Rubbettino editore, pagine 118, e 9), è da oggi in libreria

Repubblica 28.3.07
Bertinotti: bene Casini, ma la coalizione non cambia. Prc: sulle pensioni niente mediazioni con l'Udc
E ora la sinistra teme maggioranze variabili
di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - Se hanno baciato il rospo (Lamberto Dini) figuriamoci se non possono abbracciare il principe azzurro (il bel Pier Ferdinando Casini). Fermo restando che la «maggioranza non cambia - avverte Fausto Bertinotti - e deve continuare a fare la maggioranza». Sarà, ma ieri al Senato è stata ammainata la bandiera dell´autosufficienza che Rifondazione comunista aveva impugnato tante volte. Oggi il partito di Franco Giordano (e di Bertinotti) dice di non temere uno spostamento al centro dell´asse del governo. Malgrado il voto dell´Udc. «Non è possibile una politica dei due forni da parte di Prodi. Primo perché i numeri non bastano. Secondo, perché sarebbe il suo suicidio politico», dice il capogruppo di Prc Giovanni Russo Spena.
L´argomento però esiste, ne hanno ragionato a lungo dentro i partiti della sinistra radicale. È vero: i senatori dell´Udc sono 20 mentre ieri la sinistra radicale ha votato da sola contro un ordine del giorno di Calderoli raccogliendo ben 45 voti. Ovvero la sostituzione con i centristi è impossibile. Eppure i nodi della maggioranza allargata, dell´«appoggio esterno non dichiarato» di Casini, come lo chiamano a Prc, potrebbero venire al pettine. «Sulle politiche sociali non possiamo fare mediazioni con i centristi», avverte Russo Spena. Sono le pensioni la vera trincea di Rifondazione, lì non si accettano compromessi. «Oggi non abbiamo varato la politica della maggioranze variabili. Io - insiste Russo Spena - penso che Casini non abbia molti margini di manovra. Berlusconi lo massacrerà dopo il voto al Senato e lui non potrà imporre la sua linea al centrosinistra». Ma la riforma previdenziale è davvero una corda sensibile. «E di queste cose nell´Udc - si sente dire negli ambienti prc - si occupa Tabacci, un uomo vicino alla Confindustria».
Nella Margherita però la lettura è un´altra. Oggi anche i più critici di Dl con la sinistra radicale festeggiano soprattutto la vittoria dell´Unione e la crisi del centrodestra. «Questo è il dato - spiega Enzo Bianco - . Con Casini va bene il dialogo, ma non c´è nessun asse». Il sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti parla invece di «una fase politica nuova. Il voto dell´Udc è molto positivo. Non sostituisce la sinistra radicale, ma ne dovremo tenere conto anche in futuro». E Antonio Polito commenta: «È una situazione ideale. Un governo che sa allargare la maggioranza costringe anche la sinistra radicale a comportamenti più responsabili».

Repubblica 28.3.07
Come trovare l'equilibrio tra ragione e desiderio
di JOAQUÍN NAVARRO-VALLS


Se c´è un pregio nel vivere in un mondo dominato dai media elettronici è che possiamo sapere sempre tutto di tutti. Apparentemente, almeno. È sufficiente fare una carrellata dei programmi televisivi pomeridiani per rendersi conto della totale esibizione che viene fatta di ogni aspetto personale ad un pubblico semplice e in un orario accessibile, senza alcuna inibizione.
Per quanto mi riguarda, non si tratta di lasciarsi andare a superficiali giudizi di disapprovazione verso qualcosa o qualcuno, ma soltanto riflettere su alcuni cliché che guidano l´attuale comportamento collettivo dove il dominio dalle emozioni e dai sentimenti è prevalente se non assoluto. Tanto che si ha l´impressione di assistere ad un ragionare non con la ragione ma con le emozioni e i sentimenti.
Si potrebbe dire che siamo di fronte ad un fenomeno di attualità, se non fosse per il fatto che tali atteggiamenti erano conosciuti bene anche in passato. La cultura greca, culla della nostra civiltà, ci offre un contributo ampio in merito alla questione. La scuola degli Stoici, per esempio, aveva considerato attentamente tutti quei modi di agire propriamente umani che si esprimono in una inclinazione naturale ed irrazionale verso un piacere. Impulsi, passioni, desideri, legati spesso tra loro, nascono dalla tendenza assolutamente fondamentale negli animali a conservare la propria vita e ad ottenere ciò che è necessario per la sopravvivenza della specie.
Nel caso dell´essere umano, però, le cose si complicano. È per questo che le scuole Cirenaiche, celebri per il loro culto dei piaceri, consideravano con molta attenzione e prudenza gli aspetti irrazionali che muovono l´uomo verso l´appagamento incontrollato dei bisogni elementari.
Epicuro affermava, in tal senso, che nel rapporto tra l´uomo e i piaceri subentra un aspetto tutto particolare, definibile con il termine moderno di "inquietudine". Il consumo di un piacere fine a se stesso si traduce quasi sempre in un "turbamento" dell´anima, perché l´uomo, al contrario degli altri animali, è spinto a trovare nel piacere stesso qualcosa di più della mera fruizione temporanea di una sensazione, qualcosa di riconducibile alla sfera spirituale.
Questo tipo di conclusione assomiglia a quella a cui era giunto il poeta simbolista Baudelaire: la sfrenata consumazione di un piacere produce alla fine soltanto una grande solitudine. Mi sembra, tutto sommato, un buon punto di partenza per capire l´uomo di oggi, le sue inquietudini, le sue amarezze. O almeno alcune di esse.
La considerazione degli istinti e dei piaceri non dovrebbe, infatti, accompagnarsi né alla loro condanna, né alla loro esaltazione, ma semplicemente ad una loro valutazione all´interno di un discorso antropologico complessivo, che tenga conto di tutti gli aspetti autenticamente umani, sensibili o intellettuali, emotivi o razionali che siano. Platone, davanti all´alternativa se le soddisfazioni passionali siano un bene o un male, rispondeva sempre con un esplicito "dipende". Perché nell´uomo il raggiungimento degli ideali più spirituali è affiancato sempre dalla dinamica del desiderio e della soddisfazione soggettiva. La cosa importante, in ogni caso, è non perdere la libertà che da la padronanza di sé e si alimenta da motivi razionali e non soltanto da impulsi emotivi.
La peculiarità specifica della persona umana è non soltanto quella di conoscere a che cosa tende ma di valutare il desiderio stesso. Questo distanziarsi dai sentimenti per giudicarli sta tra le cose che distinguono radicalmente "l´homo sapiens" da qualsiasi altra forma di vita, anche quella dei primati più evoluti. Ed è la caratteristica che permette al genus "homo" di diventare persona.
Ogni persona non può limitarsi soltanto a desiderare i cibi che mangia, o ad amare le cose che reputa belle, ma ha un desiderio di conoscere il valore di ciò che ama e di ciò che considera piacevole. Negare questo fatto sarebbe come ritenere che qualcuno potesse amare una persona senza mai averla conosciuta, oppure desiderare di guardare un quadro o di ascoltare una sinfonia senza sapere realmente di che cosa si tratta, che significato possegga, ecc...
È chiaro che il fatto stesso di avere dei desideri per l´uomo non equivale automaticamente a conoscere il valore di ciò che desidera, e, meno ancora, significa sapere perché desidera qualcosa. Ma una volta conosciuto l´autentico valore di una cosa, nessuno di noi sarebbe pronto a sacrificarne il possesso per una cosa ritenuta peggiore. Quando, infatti, ci rendiamo conto che la compagnia di una persona è migliore di quella di un mazzo di carte, è chiaro che preferiamo andare a cena con gli amici, piuttosto che rimanere da soli a fare un solitario.
Certamente, sappiamo tutti quanto sia difficile a volte rimanere razionali davanti alla forza dei desideri, perché questi sono capaci di produrre in noi, se non controllati, una immagine travolgente, distorta e alterata sia della realtà che di noi stessi. Tuttavia, come ha rilevato Spaemann, nell´uomo «gli atti del pensare, del preferire e del volere sono, esclusivamente nell´essere umano e non negli animali, delle variabili indipendenti» con cui è possibile «giudicare» e «guidare» i propri istinti e con cui è possibile anche liberarsi dal loro dominio.
Una visione umanamente equilibrata non può pertanto né fare a meno delle passioni, né farsi trascinare dalle passioni, ma dovrebbe giungere ad una armonia razionale e volontaria di se stessi che permetta di avere dei buoni desideri e dei buoni sentimenti, facendo in modo che le forze istintuali che permettono la sopravvivenza della vita non divengano strumento di distruzione.
Conoscersi è, in definitiva, lavorare sulle stesse tendenze istintive e su se stessi, per convogliare e finalizzare razionalmente la vitalità delle passioni a quanto è giusto volere per essere - sarebbe meglio dire, per diventare - persone umane.
Oscar Wilde, con il suo umorismo, ammetterebbe che questo esercizio è un lavoro quotidiano che può produrre nel comportamento di una persona «sensibili miglioramenti». E a cominciare a sapere qual è il valore delle cose. Oltre al valore di noi stessi.

Repubblica 28.3.07
Apre ad Arezzo sabato 31 marzo
Il monarca della pittura che dominava colore e prospettiva
L´incanto metafisico discende da questo suo lucido e implacabile sguardo da scienziato della visione
Arte e scienza non furono ambiti separati: la sua opera è nutrita delle leggi ottiche sulla rifrazione luminosa
Non fu solo un grande artista ma investigò a fondo la matematica
Insieme ai capolavori una selezione di disegni, medaglie e manoscritti
di PINELLI


Arezzo. Sebbene Piero della Francesca abbia avuto in sorte una vita assai più lunga di quanto mediamente non fosse concesso di vivere ai suoi tempi e abbia inoltre svolto un´attività artistica molto intensa e feconda, il catalogo delle sue opere giunte fino a noi risulta, sfortunatamente, quanto mai esiguo. Se a ciò si aggiunge che parecchie di esse sono affreschi inamovibili o dipinti su tavola che è sconsigliabile spostare dai luoghi in cui sono custoditi, è facile comprendere perché di Piero non sia mai stata organizzata in passato, né potrà esserlo in futuro, una rassegna capace di esibire un cospicuo numero di sue opere autografe. Né fa eccezione, da questo punto di vista, la grande mostra che si inaugura ad Arezzo (Piero della Francesca e le corti italiane, 31 marzo-22 luglio), la quale, tuttavia, anche per l´intelligenza con cui è stata progettata da due grandi studiosi come Carlo Bertelli e Antonio Paolucci, costituisce un´occasione straordinaria per assaporare in tutta la sua grandezza e complessità l´arte di questo «monarca della pittura» (Luca Pacioli), che l´abate Lanzi definì, a giusto titolo, «un de´ pittori da far epoca nella storia».
L´esposizione sapientemente allestita nel museo statale di Arezzo fa infatti dialogare quei pochi capolavori di Piero che è stato possibile ottenere in prestito (il San Girolamo dell´Accademia di Venezia, il Ritratto di Sigismondo Malatesta del Louvre, il Dittico dei duchi di Urbino degli Uffizi, la Madonna di Senigallia) con una folta selezione di dipinti, disegni, medaglie, manoscritti e quant´altro è stato giudicato utile a ricostruire le tappe della carriera di Piero e la trama di intense relazioni che egli seppe intessere in tutte quelle città e corti dell´Italia centro-settentrionale - da Firenze a Roma, da Ancona a Ferrara, da Rimini ad Urbino - , nelle quali agì da protagonista, assorbendo la lezione di artisti più anziani di lui, come Domenico Veneziano, Pisanello, Angelico, Luca della Robbia, Donatello, i maestri fiamminghi, segnandone indelebilmente altri (da Girolamo di Giovanni a Fra Carnevale, da Antoniazzo a Lorenzo da Viterbo, da Melozzo a Giambellino, da Bartolomeo della Gatta a Signorelli), e dialogando alla pari con umanisti e scienziati del calibro di Leon Battista Alberti, Guarino Veronese e Luca Pacioli.
Mai come in questa occasione, tuttavia, la mostra non va interpretata da chi la visita come la meta unica del proprio viaggio, ma come il punto di partenza ed il prezioso viatico di un itinerario che lo porti, innanzi tutto, davanti a quel vertiginoso capolavoro che è il ciclo con la Leggenda della Vera Croce nella chiesa aretina di San Francesco: un´opera il cui restauro, diretto non molti anni fa da Giorgio Bonsanti e dalla compianta Anna Maria Maetzke, può davvero aspirare a quell´aggettivo "miracoloso", che si dispensa fin troppo benevolmente a operazioni conservative assai meno ardue e felicemente condotte. Da Arezzo, poi, il visitatore si recherà nella non lontana città natale dell´artista, quella Sansepolcro nel cui Museo civico potrà ammirare il maestoso Polittico della Misericordia e l´affresco con la Resurrezione, per poi spostarsi nella vicina Monterchi, dove si troverà a tu per tu con l´incantevole affresco della Madonna del Parto.
Dopo di che, perché no?, i più motivati potranno seguire le tracce del febbrile andirivieni di Piero tra Toscana, Umbria, Marche e Romagne, recandosi a Perugia (Polittico di Sant´Antonio), ad Urbino (la Flagellazione) e a Rimini (l´affresco nel Tempio Malatestiano). E qui mi fermo, anche se sarei tentato di segnalare ai tanti che neppure ne sospettano l´esistenza, che a Roma, dove Piero dipinse tante opere purtroppo andate perdute, una ne rimane, seppur ridotta quasi ad una larva, in S. Maria Maggiore, sulla volta di una cappella che per primo Roberto Longhi seppe riconoscere come indubitabilmente affrescata dal grande borghigiano.
Esibendo rari e preziosi manoscritti dei trattati di matematica e prospettiva redatti da Piero, la mostra mette anche nel giusto risalto questo meno noto risvolto della personalità dell´artista: egli non fu infatti soltanto un inimitabile pittore, ma investigò anche a fondo la matematica e, soprattutto, fu un grande studioso di geometria, ottica e prospettiva. Arte e scienza, del resto, non furono mai per lui ambiti separati e non comunicanti: la rappresentazione del mondo che Piero distilla dal suo pennello è filtrata attraverso l´ordito concettuale dei numeri e delle proporzioni, così come è nutrita di scienza prospettica e di leggi ottiche sulla rifrazione luminosa e sui valori cromatici. L´incanto metafisico che emana dalla sua pittura discende da questo suo lucido e implacabile sguardo da scienziato della visione, che traduce il mobile spettacolo della realtà fenomenica in una rappresentazione calma e solenne, severamente impersonale, che tuttavia non è astratta né incapace di cogliere la pelle sensibile delle cose, ma se mai è del tutto disinteressata ad esprimere le passeggere emozioni dei personaggi che ne animano le storie. Ecco perché essi ci appaiono stagliarsi maestosi ed «impassibili come macigni», secondo la mirabile definizione coniata da Berenson per le tre celebri ed enigmatiche figure che giganteggiano in primo piano nella Flagellazione di Urbino.
Una tavoletta, questa, su cui si sono finora inutilmente accaniti gli esegeti che hanno voluto a vedervi a tutti i costi chissà quali messaggi politici, mentre forse altro non è, come ho suggerito in un saggio che ha trovato eco favorevole nel catalogo della mostra, un´abbagliante dimostrazione pratica, offerta da Piero a Federico da Montefeltro, della sconvolgente rivoluzione operata dalla nuova scienza prospettica, che aboliva irreversibilmente le tradizionali gerarchie iconografiche e abitudini percettive, facendo giganteggiare le figure rappresentate in primo piano e rimpicciolendo proporzionalmente quelle dislocate in lontananza, e ciò del tutto indipendentemente dalla loro importanza all´interno del racconto visivo.

In viaggio con Piero
Quella luce che incantò Camus, Huxley e Pasolini

Da Arezzo a Monterchi e Sansepolcro, è ricco l´itinerario che attraversa i luoghi e i capolavori del maestro in un ricco telaio di ascendenze e discendenze
Le aste dei ceri. L´esordio fu assai modesto: allievo di Antonio d´Anghiari, dipingeva le aste dei ceri
Il primo dipinto. È la "Madonna con Bambino" il primo dipinto ora in mostra, già esposto una sola volta nel 1954
Molti scrittori furono folgorati dallo splendore della "Leggenda della Vera Croce". In mostra anche le opere di artisti che lo influenzarono o ne rimasero segnati come Veneziano Signorelli, Perugino e Alberti

Arezzo. Quando Aldous Huxley arrivò davanti alla Resurrezione di Piero della Francesca ebbe una folgorazione: «È il miglior dipinto del mondo», annotò nel suo diario. E Pier Paolo Pasolini fu ispirato dalla Battaglia di Eraclio e Cosroe: «Quelle braccia d´indemoniati, quelle scure/schiene, quel caos... «. Ma l´effetto Piero ha colpito Gabriele d´Annunzio, Albert Camus...
Non è un caso. È Piero della Francesca il fondatore della modernità artistica per il sintetismo prospettico tra forma e colore, come ebbe a teorizzare per primo Roberto Longhi, ed è questa la storia che racconta la mostra Piero della Francesca e le corti italiane, che apre ad Arezzo il 31 marzo nelle sale del museo statale d´arte medievale e moderna. È un´indagine sulla capacità dell´artista di incidere nella cultura del suo tempo, il suo decisivo contributo alla formazione dell´arte ferrarese, umbra, marchigiana. Al contempo l´esposizione è accompagnata da un itinerario che attraversa le sue terre e i suoi capolavori: la città stessa di Arezzo, con il ciclo de La leggenda della Vera Croce che è nella basilica di San Francesco e la Maddalena che è in Duomo; Monterchi, con la Madonna del Parto; Sansepolcro, con la Resurrezione e il Polittico della Misericordia.
Sansepolcro, anticamente Borgo San Sepolcro, è il paesino dove cominciò il percorso artistico di Piero, dov´era nato nel 1412, come dimostrano le ultime ricerche di James Banker e come racconta la prima delle nove sezioni di questa evocazione di un tempo di splendori e di profondi turbamenti. È un viaggio tra i gialli, i rossi, i cieli tersi di capolavori assoluti del maestro arrivati ad Arezzo - il Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta, prestato dal Louvre, il Dittico dei Duchi d´Urbino degli Uffizi, la Madonna di Senigallia della galleria nazionale delle Marche - circondati da un centinaio di opere di artisti che lo influenzarono o che attinsero alla sua lezione: Domenico Veneziano, Fra Carnevale, Pisanello, Leon Battista Alberti, Bono da Ferrara, Jacopo Bellini, Luca Signorelli, Rogier Van der Weyden, Pietro Perugino, Melozzo da Forlì, Antoniazzo Romano, Pedro Berruguete.
È un complesso telaio di ascendenze e discendenze (che Roberto Longhi portò fino a Cézanne), dagli esordi semplici e modesti: uno dei primi pagamenti di Piero, nel giugno del 1431, fu per "dipegnere l´aste dei ceri" della Confraternita dei Laudanesi di S. Maria della Notte di Borgo San Sepolcro. Lavorava con Antonio d´Anghiari, in qualche modo uno specialista di stemmi e stendardi, ma l´anno successivo era già "pittore" e non più apprendista. E già allora probabilmente avviò ricerche prospettiche se è vero, come scrisse il Vasari, «attese Piero nella giovinezza alle matematiche».
A Borgo e nelle sue vicinanze restò a lungo, tra il 1437 e il 1438 probabilmente arrivò a Perugia, a fianco di Domenico Veneziano, insieme al quale lavorò a Firenze dal 1439. Sono date importanti per capire la maturazione dello stile di Piero di cui ad Arezzo viene presentata una Madonna con Bambino, una tavola proveniente dalla collezione Contini Bonacossi ora di proprietà straniera, in Italia esposta una sola volta, nel 1954. È per un gruppo di storici il primo dipinto dell´artista a noi arrivato, ora datato dai curatori, Carlo Bertelli e Antonio Paolucci, 1435, lasciando intuire visite e incontri antecedenti a quelli ormai statuiti e che lo videro, negli anni, oltre che nel capoluogo toscano a Urbino, Pesaro ed Ancona, a Roma e Ferrara, a Rimini e Loreto.
Frenetici spostamenti, pittore davvero "globale", Piero entrò nella piena maturità artistica a metà del XV secolo. Lo testimoniano in mostra il San Girolamo e il Ritratto di Sigismondo Pandolfo Matalesta ("figlio" dell´affresco che eseguì dopo la metà del Quattrocento a Rimini), a Sansepolcro il Polittico della Misericordia, ad Arezzo La leggenda della Vera Croce che l´artista realizzò nell´arco di quattordici anni, dal 1452 al 1466. In questo splendido ciclo colpiscono le scene di battaglia (che richiama una sezione della mostra), quella di Eraclio e Cosroe e quella di Ponte Milvio in cui il paesaggio che si intravede tra le zampe dei cavalli, la tranquillità del quotidiano, si oppone al furore di uno scontro che diventa vittorioso nel momento in cui Costantino protende in avanti la Croce.
Ma è la luce di Piero, chiara, solare, a giocare un ruolo fondamentale in questo affresco eseguito nella fase più matura dell´artista, sopravvissuto a mille ingiurie: dalla costruzione del campanile che insiste sulla zona dominata dal "Sogno di Costantino", il primo notturno della storia, agli incendi che affumicarono gli smaglianti colori della Leggenda. Per ottenere fantastici effetti di luce sui 275 metri quadrati della cappella, al «buon fresco» Piero affiancò una esecuzione a secco e tecniche tipiche della pittura su tavola: usò lacche, pigmenti legati con sostanze grasse. Arrivarono così i verdi, gli azzurri, i rosa, i bianchi delle vesti, che hanno il candore di quella che indossava Giovanni VIII Paleologo, imperatore d´Oriente, che arrivò a Firenze nel 1439 e che probabilmente Piero ammirò quando era insieme a Domenico Veneziano.
È da collocare nel periodo di questo ciclo la Flagellazione, dall´enigmatica e controversa lettura (ma non è stata spostata da Urbino) e, nella seconda metà degli anni Sessanta la Resurrezione di Sansepolcro e la Madonna del parto che è a Monterchi, straordinariamente affascinante nella sua semplicità. All´interno di una volumetria conica di un color rosso cupo appare la Vergine, gli occhi abbassati in segno di umiltà verso la presenza del Figlio, che abita il corpo ingrossato dalla gravidanza sotto la larga veste. Una mano si appoggia al ventre per segnalarne il prezioso contenuto mentre due angeli, che prendono forma dallo stesso cartone invertito, alzano la tenda con un gesto largo e di araldica fissità. Le tre teste sono prospetticamente disposte a triangolo.
Sono invece degli anni Settanta, dell´ultimo periodo, la Madonna di Senigallia, dal volto più squadrato ma anche più dolce dove il dominio dei grigi diventa più intransigente castigando l´effetto coloristico, e il Dittico con i ritratti di Battista Sforza e Federico da Montefeltro, che aveva radunato un cenacolo di cultura "internazionale": accanto a Piero lavorarono Francesco di Giorgio Martini, Laurana, Guido di Gand, Berruguete. È un dipinto segnato dall´estrema finezza della tavolozza e da un paesaggio profondo e chiarissimo, dove le catene dei monti quasi si dissolvono tra terra e cielo. È un ambiente rarefatto, che rende quasi inafferrabile il soggetto, anche se la compostezza imperturbata del Duca porta sul volto tracce che rivelano vicende personali, il suo carattere e la sua interiorità. Il condottiero è presentato di profilo con il cappello calato sulla fronte, di cui è leggibile un breve tratto verticale, e tra fronte e naso compare un brusco salto, quasi un´innaturale interruzione, innaturale perché determinata da una ferita di spada subita da Federico in guerra, e non da un tratto anatomico originario. Il ritratto di Battista, egualmente di profilo è quasi sicuramente posteriore alla sua morte tanto che Adolfo Venturi lo definì "maschera cerea di defunta".
È un capolavoro in cui convivono naturalismo e trasfigurazione, introspezione e componente psicologica del soggetto regolato da precisi rapporti matematici che rispecchiano l´armonia dell´universo. È una sacralità teorizzata da Piero nel De Prospectiva Pingendi (in mostra) dove si spiegano le tre parti della pittura: "disegno, commensuratio et colorare". "Commensuratio" ovvero la misurazione geometrica, proporzionale e prospettica, quasi a sottintendere un´identificazione della pittura con la prospettiva i cui piani sono il luogo d´incontro tra disegno e colore. «E i maggiori lumi che di tal cosa ci siano sono di sua mano...», commentò nelle Vite Giorgio Vasari
È il maestro dei maestri, della luce, di cui fu privato, come in una sorta di contrappasso dantesco, negli ultimi anni di vita. Piero della Francesca morì il 12 ottobre del 1492, cieco. Quello stesso giorno Cristoforo Colombo scoprì l´America. Una delle tre caravelle, la Santa Maria, secondo la tradizione, portava conficcato nell´albero maestro un pezzo di legno della croce di Cristo, argomento trattato dal maestro nel suo capolavoro, La leggenda della Vera Croce, il ciclo che ad Arezzo ancor oggi domina la chiesa di San Francesco.

l’Unità 28.3.07
«Subito il confronto sul futuro de l’Unità»
Ieri assemblea pubblica dei redattori
La Fnsi: non è possibile stravolgere il giornale


Sono sei anni che l’Unità è tornata nelle edicole. E quello di oggi è un compleanno amaro. Molte le incognite sul futuro. «L’Unità è un patrimonio insostituibile e faremo di tutto per difenderne l’identità. Non è possibile stravorgerla, farne un giornale residuale con soli 15 giornalisti», sottolinea Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione della Stampa, aprendo ieri i lavori dell’assemblea pubblica, nei locali dell’Associazione Stampa romana. Dopodomani si riunirà il Cda della Nie, la società editrice del quotidiano. Da qui l’appello di Comitato di redazione, Fnsi e Asr: «Azionisti uscite dall’ombra. Subito il confronto». E Umberto De Giovannangeli del Cdr precisa: «Il giornale vende oggi 54mila copie in edicola. Non poca cosa senza un supporto industriale e d’investimento, mentre le continue richieste di un rilancio sono rimaste lettera morta». Il silenzio dell’azienda è stato rotto solo da mezze informazioni: tra queste, la decisione della Nie di affidare ad una società di consulenza «che non ha mai avuto a che fare con il settore dell’editoria, la Value & Partners, la definizione di un piano industriale ed editoriale. Piano quest’ultimo che invece spetta alla direzione», precisa il Cdr. Insomma, l’Unità è di nuovo ad un bivio: «O c’è il rafforzamento del giornale o c’è un suo ridimensionamento. La via del galleggiamento non è accettabile», conclude De Giovannangeli.
La saletta di piazza della Torretta a Roma, si riempie. Ci sono i giornalisti de l’Unità, le agenzie di stampa, cronisti di altri quotidiani, esponenti del mondo del cinema e dello spettacolo. Arrivano Beppe Giulietti di Articolo21 che «se dovesse servire» si attiverà in Parlamento e apre il sito dell’associazione alla vertenza, Bruno Tucci dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, c’è Silvia Garambois, Fulvio Abbate, Adele Cambria, Bruno Guerra, Giuseppe Campos Venuti... Molti anche gli attestati di solidarietà: Ettore Scola, Dario Fo e Citto Maselli, il gruppo regionale Ds della Toscana. Mentre si cercano le sedie per far accomodare i registi Amedeo Fago, Beppe Gaudino, Isabella Sandi, Giuseppe Piccioni e Antonella De Lillo. Ed è un coro: «Non stravolgere l’Unità».
Serventi Longhi ha ancora il microfono in mano quando entra Ugo Gregoretti. Il regista, giornalista e scrittore ascolta tutto il dibattito, poi tira fuori dalla tasca tre fogli e comincia a leggere: «“Cara Unità”, questa era il familiare appellativo con il quale i tuoi lettori e sostenitori comunicavano con te per esprimerti dubbi, speranze, incertezze, domande e passioni. Aveva un bel suono “Cara Unità”: intimo, confidente, filiale, paterno. Veniva usato da i vecchi militanti e dai meno anziani iscritti da poco al Partito comunista, come me, che vi entrai nel ‘70, a quarant’anni, e mi vergognavo un po’ perchè a fronte dei vecchi compagni di avviata mi sentivo un parvénu(...). Suona bene ancora oggi questo modo di invocare il tuo spazio, forse è un po’ desueto ma poetico, musicale. Chi si sognerebbe mai di scrivere ad altri quotidiani appellandoli “Caro Corriere della Sera” o “Caro Sole 24 ore”! (...). “Cara Unità”, sono passati da allora quasi quarant’anni (...) il Pci non esiste più, anzi esiste ancora ma ormai vuol dire solo “personal computer”; ma l’affezione che nutro per te è talmente profonda da farmi dire: sono e sarò sempre con te».

Riformista Lettere 28.3.07
La nascita del PD

Caro direttore, ho letto con divertito stupore la lettera del compagno Antonio Finelli, la cui memoria sembra denunciare qualche lacuna rispetto alle vicende della politica negli anni che lo hanno visto esponente di spicco del Psi modenese. Finelli non si accontenta di manifestare la sua convinta, legittima adesione al progetto del Pd. A sostegno della posizione congressuale, si avventura nell’ardita ricerca dell’autorevole e nobile sponda di Riccardo Lombardi citato, con ben altra intenzione, in un pregevole intervento di Gigi Covatta, proposto di recente, in bella evidenza, dal “Riformista”. Dopo avere posto lo stravagante quesito sulla compatibilità della militanza lombardiana con il Pd, conclude la corretta rassegna delle scelte politiche compiute dal leader della sinistra socialista con la seguente incredibile affermazione: «Venendo ai giorni nostri, non ho dubbi che di fronte al progetto del partito nuovo, il Pd, lui sarebbe della partita...». L’appartenenza non superficiale alla corrente lombardiana e la conoscenza della storia e del pensiero di Riccardo Lombardi, segnato anche da una forte cultura laica e azionista, mi consentono di ritenere per nulla plausibile il suo ingresso nel Pantheon di Fassino (Gramsci, Berlinguer, Gobetti, De Gasperi, Moro, Don Minzoni, Spinelli, La Malfa, Gandhi, Einstein, Mandela, Luther King, Ernesto Rossi). Finelli dimentica che non gli piaceva il “compromesso storico”. Credo che gli piacerebbe ancora meno, con tutto il rispetto per gli amici diellini, il Margheritone. E, poi, vale sempre la vecchia massima «Scherza con i fanti....».
Pasquino Ferrioli membro della direzione Ds e dell’Associazione “Laburisti” di Ferrara

martedì 27 marzo 2007

La morte di Palinuro
Eneide, Libro VI vv.336-383



Ecce gubernator sese Palinurus agebat,
qui Libyco nuper cursu, dum sidera servat,
exciderat puppi mediis effusus in undis.
Hunc ubi vix multa maestum cognovit in umbra,
sic prior adloquitur: «Quis te, Palinure, deorum
eripuit nobis, medioque sub aequore mersit?
Dic age. Namque mihi, fallax haud ante repertus,
hoc uno responso animum delusit Apollo,
qui fore te ponto incolumem, finesque canebat
venturum Ausonios. En haec promissa fides est?»
Ille autem: «Neque te Phoebi cortina fefellit,
dux Anchisiade, nec me deus aequore mersit.
Namque gubernaclum multa vi forte revolsum,
cui datus haerebam custos cursusque regebam,
praecipitans traxi mecum. Maria aspera iuro
non ullum pro me tantum cepisse timorem,
quam tua ne, spoliata armis, excussa magistro,
deficeret tantis navis surgentibus undis.
Tris Notus hibernas immensa per aequora noctes
vexit me violentus aqua; vix lumine quarto
prospexi Italiam summa sublimis ab unda.
Paulatim adnabam terrae; iam tuta tenebam,
ni gens crudelis madida cum veste gravatum
prensantemque uncis manibus capita aspera montis
ferro invasisset, praedamque ignara putasset.
Nunc me fluctus habet, versantque in litore venti.
Quod te per caeli iucundum lumen et auras,
per genitorem oro, per spes surgentis Iuli,
eripe me his, invicte, malis: aut tu mihi terram
inice, namque potes, portusque require Velinos;
aut tu, si qua via est, si quam tibi diva creatrix
ostendit (neque enim, credo, sine numine divom
flumina tanta paras Stygiamque innare paludem)
da dextram misero, et tecum me tolle per undas,
sedibus ut saltem placidis in morte quiescam.
Talia fatus erat, coepit cum talia vates:
«Unde haec, o Palinure, tibi tam dira cupido?
Tu Stygias inhumatus aquas amnemque severum
Eumenidum aspicies, ripamve iniussus adibis?
Desine fata deum flecti sperare precando.
Sed cape dicta memor, duri solatia casus.
Nam tua finitimi, longe lateque per urbes
prodigiis acti caelestibus, ossa piabunt,
et statuent tumulum, et tumulo sollemnia mittent,
aeternumque locus Palinuri nomen habebit.»
His dictis curae emotae, pulsusque parumper
corde dolor tristi: gaudet cognomine terrae.


Ecco si fa avanti Palinuro, il nocchiero che poco prima durante la navigazione libica, mentre osservava le stelle era caduto dalla poppa gettato in mezzo alle onde. Quando lo riconobbe, a stento nella nera ombra, così per primo gli parlò:
- O Palinuro, quale dio ti ha strappato a noi e ti sommerse nel profondo del mare? Orsù, parla. E infatti Apollo, che mai prima ho trovato bugiardo, solo con questo responso ha deluso il mio animo, quando profetizzava che saresti scampato al mare e saresti giunto sulle terre Ausonie. È questa, forse, la fede promessa?
E Palinuro rispose:
- Né il tripode di Apollo ti ingannò, o duce figlio di Anchise, né un dio sommerse me nel mare. Infatti, trascinai con me il timone strappato con molta forza, al quale ero aggrappato, col quale governavo la navigazione e che mi era stato dato da custodire. Giuro sui mari tempestosi di non aver preso nessun grande spavento tanto per me quanto per la tua nave, che, spogliata degli strumenti e privata del nocchiero potesse naufragare allo scatenarsi di così grandi marosi. Il violento Noto per tre notti tempestose mi trascinò sull'acqua per gli immensi mari; appena al sorgere della quarta alba scorsi l'Italia sollevato sulla cima di un'onda, lentamente m'avvicinavo a nuoto alla terra, già in salvo l'avevo raggiunta, se una gente crudele non mi avesse assalito col ferro e ignara non mi avesse giudicato una facile preda gravato com'ero dalla veste bagnata mentre cercavo di afferrare colle mani adunche le aspre sporgenze di una rupe. Ora mi tiene l'onda e mi rivoltano i venti sul lido. Perciò ti prego per lo splendore giocondo del cielo e per le brezze, per il genitore e per le speranze di Iulo che cresce, i invitto, strappami da questi mali; o ricoprimi di terra (e tu lo puoi ben fare) e cerca i porti di Velia, oppure, se c'è qualche modo, se la divina tua madre te ne mostra qualcuna, infatti non credo che ti prepari senza la volontà degli dei a traversare così grandi fiumi e la palude Stigia, porgi la destra a un infelice e conducimi con te sulle onde affinché almeno nella morte io possa riposare in una dimora tranquilla.
Aveva detto queste parole, quando la veggente gli rispose così:
- Da dove ti arriva, o Palinuro, un desiderio così empio? Insepolto tu vedrai le acque Stigie e il crudele fiume delle Eumenidi e raggiungerai la riva senza aver ricevuto l'ordine di Caronte? Smettila di sperare che i decreti degli dei si possano mutare pregando. Ma afferra riconoscente queste parole, conforto della tua dura sorte. Infatti, i popoli vicini, spinti in lungo e largo per le città da prodigi celesti cercheranno di placare le tue ossa e innalzeranno un tumulo e sulla tua tomba condurranno vittime sacre e il luogo avrà in eterno il nome di Palinuro.
Da queste parole vengono rimossi gli affanni e per un poco è scacciato il dolore dal triste cuore: si rallegra Palinuro per il nome dato alla terra.


due e.mail a proposito della contestazione fatta ieri alla Sapienza a Fausto Bertinotti, inviate a "segnalazioni" dai protagonisti

1) Per completezza vi segnalo il comunicato stampa emesso dopo le notizie trasmesse dai primi telegiornali:

*E' STATA UNA CONTESTAZIONE GIOIOSA E IRONICA*
*IL PROBLEMA E' LA GUERRA, NON UNO SLOGAN*

Oggi gli studenti e le studentesse hanno contestato il presidente della Camera Fausto Bertinotti in quanto esponente di una maggioranza che vota la guerra in Afghanistan e i tagli all´università mentre si aumentano le spese militari. Rifiutiamo il tentativo di svuotare di contenuti quanto è avvenuto oggi, spostando l´attenzione su uno slogan. Ridurre a questo la protesta è ridicolo, se non fosse un segnale preoccupante di come l´attuale governo si relaziona con le istanze dei movimenti. Non ci facciamo mettere all´angolo: il problema è la guerra e chi la vota, non chi la contesta. Ma quale violenza? E' stata una protesta gioiosa, ironica, dai contenuti forti che non ha impedito ad alcuno di prendere parola. Il nostro problema non è se Bertinotti è un "assassino" ma la dura realtà della guerra che stermina ogni giorno migliaia di vite. Di questo parliamo non di uno slogan!
Coordinamento dei Collettivi La Sapienza Rete per l'autoformazione

2) Non so quanto questo possa essere di interesse, ma mi sembra importante fare alcune precisazioni riguardo ai fatti di questa mattina alla Sapienza.

In primo luogo, il convegno a cui Bertinotti ha partecipato era organizzato da Comunione e Liberazione, un'organizzazione politica cattolica integralista.
Quelli che lo hanno accolto con un grande applauso al suo ingresso sono quelli che all'università parlano di disegno intelligente, contro l'aborto, contro i dico, di don Giussani e del Papa.
Come loro solito, non hanno firmato la loro iniziativa come "Comunione e Liberazione", ma genericamente come studenti. E' per questo che la stampa ha potuto tacere questo importante particolare.

Quelli che fuori lo contestavano erano il Coordinamento dei Collettivi e la Rete per l'autoformazione, due strutture diverse e non una sola come la stampa riporta. Due strutture che non si parlano molto in questo periodo, ma che prima hanno pensato e oggi hanno messo in atto insieme la contestazione.
Inoltre, c'era un discreto numero di studenti come me che non aderiscono né all'una né all'altra struttura.
Il Coordinamento dei Collettivi, tra l'altro, è un'organizzazione legata a Sinistra Critica: una corrente interna al PRC.

Oltre ai "buffone" e agli "assassini" (inteso come rivolto alle istituzioni che Bertinotti rappresenta in questo momento), gli studenti hanno cercato di comunicare con slogan e striscioni i motivi della loro contestazione: denunciare le contraddizioni dei partiti e delle istituzioni che parlano di non violenza e finanziano la guerra, che parlano di non violenza e tacciono sulla base di Vicenza, che parlano di non violenza e tacciano di violenti chi esprime il proprio dissenso.

Andando oltre i fatti: l'immagine di Bertinotti che attraversa scortato un pezzo di quel movimento che vorrebbe rappresentare, che entra in un aula affollata da un pezzo di quel macigno alla cui forza resistiamo e la scorta di Bertinotti che con i ciellini chiudono le porte impedendo a chi non ne fa parte di partecipare al convegno parla e urla più forte degli studenti. Di quegli studenti che urlavano per non stare in silenzio e che la non violenza che fa la guerra riscchia di uccidere, come altri che urlavano sono stati uccisi.

Appena Bertinotti è arrivato un mio compagno, che è uno del Coordinamento e che fino all'anno scorso aveva la tessera del PRC, gli si è avvicinato per dargli un volantino. Bertinotti l'ha preso e l'ha ringraziato, lui gli ha risposto ed ha sorriso. Bertinotti gli ha teso la mano, "non posso" ha risposto lui.
Michael Vu




Repubblica 27.3.07
LA PRIMA VOLTA DI FAUSTO
di MIRIAM MAFAI

Non erano più di una cinquantina, pare, i giovani e le ragazze che ieri mattina all´Università di Roma hanno accolto con insulti e cartelli di protesta il presidente della Camera Fausto Bertinotti, che si avviava a partecipare a un convegno di Comunione e Liberazione. Non più di una cinquantina e tuttavia l´episodio non può essere sottovalutato né liquidato come qualcuno ha fatto alla stregua di esempio di maleducazione politica o «analfabetismo istituzionale». Le grida e le proteste dei giovani e delle ragazze presenti sulla scalinata dell´Università (un luogo che ha visto nel corso degli anni ben più corpose e in qualche caso drammatiche contestazioni) portano infatti alla luce un disagio presente non solo e non tanto nelle stesse file di Rifondazione Comunista, quanto in una parte forse minoritaria ma non trascurabile del movimento. O meglio dei movimenti che a suo tempo, nel nostro come in altri paesi, si sono mobilitati contro la guerra. Nel nome della pace «senza se e senza ma». Frange legate ai centri sociali più radicali e alle posizioni più estremiste.
Bertinotti le ha definite "schegge impazzite", ma la conversione della stessa Rifondazione Comunista ad una cultura istituzionale, responsabile e della «non violenza» è un dato molto recente. Non del tutto acquisito. Non del tutto metabolizzato. E al quale una parte almeno dei movimenti giovanili, alternativi, - vezzeggiati e corteggiati da Rifondazione fino al punto da portarne i leader in Parlamento - sono rimasti finora estranei. Se non ostili. Non è poi così lontano il tempo in cui anche esponenti di partiti oggi al governo partecipavano ai cortei con i quali si escludeva, sempre e comunque, il ricorso alla forza, in nome di una interpretazione per lo meno forzata e arbitraria dell´articolo 11 della nostra Costituzione. E, del resto, non è proprio in coerenza con quella cultura che alcuni senatori di Rifondazione hanno rifiutato, poche settimane fa, di votare le scelte di politica estera illustrate al Senato dal ministro D´Alema? Non è in coerenza con quella scelta e con quella linea che anche oggi il senatore Turigliatto ed altri con lui minacciano di non votare, in Senato, il decreto per il rifinanziamento delle nostre missioni militari all´estero?
C´è nel nostro paese una sinistra, minoritaria e marginale quanto si vuole, che resta tenacemente ferma sulle parole d´ordine che ne mobilitarono i sentimenti e le passioni non molto tempo fa. È una sinistra estrema, anti-istituzionale per definizione, nel cui arcipelago peraltro crescono anche posizioni violente. Rifondazione in passato ha cercato di "cavalcare la tigre" ma ormai si è solidificata una cultura alternativa che entra in contraddizione con le scelte politiche di una forza di governo.
Spetta inevitabilmente alla sinistra, a quella che per molti anni è stata vicina a tutti i movimenti, alimentandone anche le speranze più generose e infantili, il compito di conquistare - dove è ancora possibile - a una visione più realistica della politica quelle passioni e quelle coscienze: ma senza civettare con le posizioni più radicali, evitando ogni ambiguità e affermando le proprie idee con la dovuta chiarezza. Il corto circuito tra movimenti e le scelte politiche di governo di cui ieri, all´Università di Roma abbiamo avuto un primo esempio può essere un´occasione importante per Rifondazione Comunista per affrancarsi definitivamente da quelle "schegge impazzite" che possono forse portare qualche voto ma sono politicamente pericolose.

Repubblica 27.3.07
Lo specchio rotto del subcomandante
di FILIPPO CECCARELLI

Una vita in piazza e poi, a Montecitorio, la missione impossibile: fare il rivoluzionario nelle istituzioni
Dall´arcobaleno al Palazzo e Fausto ora deve pagare pegno
Dieci mesi di messaggi generosi e contraddittori, di lotta e di governo

Gli hanno gridato: «Assassino» e «Buffone». E subito c´è da dire che sul primo insulto il presidente della Camera ha mantenuto, sia a caldo che a freddo, un ammirevole fair-play. Anche pensare a Bertinotti come a un «guerrafondaio», del resto, improperio di rinforzo pure volato ieri fuori dall´aula universitaria, appare la più palese delle assurdità; e infatti nel torrente di dichiarazioni solidali, non c´è voce che abbia omesso di ricordare la scelta non-violenta dell´ex leader di Rifondazione, la svolta culturale gandhiana da lui impressa e via discorrendo. Ma quel «buffone»? Ecco, qui la faccenda un po´ si complica.
E non tanto perché l´oltraggio - lo stesso peraltro riservato a Berlusconi nei corridoi del tribunale di Milano - fuoriesce decisamente dai tradizionali confini della politica. O perché da ben altre fantasmagoriche insolenze fu accolto Luciano Lama, trent´anni orsono, in quella stessa università. No. E´ l´effetto di quel povero e fatidico insulto che fa la differenza. Per cui di colpo Bertinotti è trasalito, consegnando alla cronaca uno scatto molto meno banale di quanto possa apparire: «Buffone? Buffone sei tu se dici così» ha risposto a uno dei tanti che gli si agitavano attorno. E poi, attenzione qui: «Chiedetemi scusa». Voi a me.
C´è parecchio di Bertinotti, oggi, in questa frase. C´è il consueto garbo e c´è una comprensibile sorpresa; ma soprattutto c´è o pare di cogliere in lui qualcosa che un tempo non c´era. Il senso di un potere lesionato; di una maestà improvvisamente offesa. Aspettarsi delle scuse, chiederle, al limite pretenderle, è umano e forse perfino educato. La cortesia e perfino l´eleganza del personaggio sono note e riscuotono ammirazione in tutti, dal cardinal Ruini a Valeria Marini, dall´intera Casa Savoia al cantante Zucchero. Eppure, stavolta, ripreso dopo la burina universitaria nella cornice super-istituzionale del Tg1, il presidente della Camera è apparso, più che ferito o amareggiato sul piano politico, decisamente seccato per quella violazione al suo status personale, al suo rango presidenziale, alle sue prerogative di comprimario, in qualche modo, della Repubblica.
Così ha finito anche lui per mettere in campo, il Sub-Comandante Fausto, il classico argomento che usano tutti gli alttri potenti in questi casi: i contestori erano pochissimi; e gli altri, dentro, mi hanno applaudito assai. Vero. Pure vero (ma questo non l´ha detto così) che le proteste erano abbastanza semplificate, per non dire grossolane. Ma da uno che ha appena pubblicato, con Mondadori, un libro dall´impegnativo titolo «La città degli uomini», e altrettanto pensosamente impervio suona il sottotitolo «Cinque riflessioni in un mondo che cambia», beh, ecco, magari una sesta riflessione sul possibile valore simbolico dei fischi e delle offese, per un´eventuale ristampa la si potrebbe pure prendere in considerazione.
Perché il Tractatus meta-agostiniano di Bertinotti sarà anche uno schianto, il capolavoro che mancava, e infatti già è stato presentato da Fazio e domani lo sarà in mille altri salotti d´eccellenza, ma la masnada di ieri, che non l´ha letto, per certo gli ha gridato: «E´ comoda la poltrona, eh?». E con tutto che quei quattro gatti di estremisti, magari violenti, non fanno scuola né tantomeno opinione, forse è bene ricordare che quella domandina impertinente gira da un bel po´ nella testa di parecchi. E così, a proposito: nel giugno scorso, quando il presidente della Camera pensò di limitare i danni assistendo a una parata militare con la spilletta pacifista appuntata al bavero, saltò su a dire un fior d´intellettuale, per giunta d´area rifondarola, Massimiliano Fuksas: «Come è noto, il potere rende stupidi dopo cinque minuti».
Anche questo assioma, in realtà, è discutibile. Tutt´altro che sciocco, né molto più esibizionista di tanti altri politici di questo tempo, nel maggio scorso Bertinotti ha avuto almeno l´onestà di partecipare a un pubblico incontro su «Narcisismo e leadership». Qui ha ammesso di essere narcisista, un pochino, pur rigettando con energia il concetto della vanità.
Il punto è che né l´amore per se stesso né il sopraggiunto benessere di Palazzo; né l´eroico passato sindacale né l´autocelebrazione libresca; tanto meno le frequenti ospitate televisive, le scorribande mondane, i viaggi rivoluzionari e quel curioso e vagamente comico turismo spirituale che prima o poi, finalmente, lo porterà sul Monte Athos con adepti e collaboratori, insomma, nulla di tutto questo aiuta oggi Fausto Bertinotti a svolgere bene il suo compito. Né a dargli un ruolo, che resta difficile, anzi ancora più difficile per il semplice fatto che parecchi dalla sua stessa parte, nel suo stesso popolo, pensano che lui sia cambiato. Che si sia messo comodo. Che abbia ceduto alle tentazioni e alle comodità del potere. E quindi un po´ si sentono anche traditi. E allora taglia ch´è rosso: «Assassino», «Guerrafondaio», «Buffone», nelle forme più rozze e primitive. Mentre in quelle più perfide e sofisticate Bertinotti resta: «Una bella orchidea di regime», copyright di Marco Pannella.
Forse è l´inevitabile destino che tocca agli ex rivoluzionari. A prescindere, evidentemente, dagli indubbi sforzi culturali che hanno portato Bertinotti a togliere da Rifondazione quella coltre polverosa, vetero-marxista, burocratica; e anche a costo di oscurare gli obiettivi meriti, il primo dei quali è di aver condotto il partito in contatto con i movimenti e le realtà scomode, ma vitali.
Viene piuttosto da chiedersi se lo sapesse in anticipo, Berlusconi, quando fece capolino nella stanza di Montecitorio dove a pochi minuti dal voto amici e familiari stavano festeggiando il nuovo presidente della Camera: «Adesso dovete applaudire il nonno» disse allora il Cavaliere, rivolto ai nipotini. Quindi attaccò con il tifo per il Milan, che lo unisce alla gente più varia, e brindò pure lui. Anche questo, dopo tutto, poteva essere un buon segnale.
Sono passati ormai dieci mesi da quel giorno: e chi potrebbe, con un briciolo di cuore, sostenere che la dignità del Parlamento e in particolare della Camera è cresciuta? E chi mai si azzarderebbe anche solo a pensare che di questo passo le distanze tra le istituzioni rappresentative e l´elettorato vanno colmandosi? A febbraio, poco prima che partisse la manifestazione contro il raddoppio della base militare americana di Vicenza, Bertinotti ha trovato il modo di far sapere che gli dispiaceva di non esserci. Che con lo spirito sarebbe stato lì. Ma anche quel «vorrei ma non posso» ha finito per scontentare un po´ tutti, come l´astuta spilletta arcobaleno. Quelli che volevano che stesse zitto, e quegli altri che invece lo consideravano un atteggiamento da pesce in barile.
Generosi e contraddittori, nel frattempo, seguitano a distillarsi i messaggi del bertinottismo di lotta e di governo, di strada e di Palazzo, di «noi» e di «ego». Preti e trans-gender, fervore e soddisfazione, vacanze in Bretagna con aereo di servizio e sale di meditazione interconfessionale. Il cielo e la terra, in definitiva, ma soprattutto quello che riesce a entrarci, possibilmente senza fischi né improperi.

Repubblica 27.3.07
Bertinotti contestato per l'Afghanistan
Un gruppo di studenti: assassino. E lui: schegge di antipolitica
di CARMELO LOPAPA

Cartelli e slogan all´arrivo alla Sapienza. Poi applausi nell´aula magna
Il presidente della Camera era ospite di un convegno organizzato da Cl
Botta e risposta con un manifestante. "Buffone". "Buffone sei tu, chiedimi scusa"

ROMA - «As-sas-sino, as-sas-sino». Fausto Bertinotti è appena sceso dalla blindata, la quindicina tra guardie del corpo e agenti della Digos lo circonda, ai piedi della scalinata della facoltà di Lettere della Sapienza di Roma. Sono le 11 del mattino e al presidente della Camera - venuto per partecipare all´incontro organizzato dall´Asvi, una ong legata a Comunione e liberazione - basta dare un´occhiata in alto per capire che la contestazione organizzata da una cinquantina di studenti è ben più aspra di quanto la Questura avesse preannunciato al suo staff. «Bertinotti? No, thanks», si legge sullo striscione più grande. E sugli altri: «Berti-not in my name. Basta guerre, basta basi», o «Fausto, da Kabul a Vicenza, ma ‘ndo sta la non violenza?», o «Dal comunismo alla Comunion», o ancora «8/3/07 la Camera vota la guerra in Afghanistan, giorno in-Fausto». Sono una cinquantina, studenti appartenenti soprattutto a due diverse organizzazioni universitarie, la «Rete per l´autoformazione» e il «Coordinamento dei collettivi» universitari.
«Andiamo comunque, non si può andare solo dove ci applaudono», dice il presidente ai collaboratori, dopo essere stato informato di quel che lo attende. Chiede alla scorta di non aprirgli con maniere brusche un corridoio tra la folla. Sobrietà, dispone, come sempre. «Assassino», gli urlano a muso duro reggendo cartelli e striscioni e circondandolo. «Vergogna», «è comoda la poltrona?», «guerrafondaio», «buffone», non appena Bertinotti mette piede in facoltà e fino all´ingresso dell´aula magna. Al «buffone» l´ex leader del Prc si inalbera, sarà l´unico momento: «Questa non è democrazia. Buffone sei tu, se dici così. Chiedetemi scusa». Macché. La polizia riuscirà a fatica a impedire l´ingresso dei movimentisti nell´aula. Dentro, un´ora di assemblea in cui Bertinotti strapperà applausi a più riprese dagli studenti, molti dei quali vicini a Cl. Nel frattempo, i contestatori si riuniscono a porte chiuse nella vicina aula autogestita al piano terra. Per dirsi che «la contestazione è perfettamente riuscita» e per decidere di respingere l´offerta di dialogo avanzata dal presidente della Camera. E sì, perché su richiesta di Bertinotti vertici della Questura sono andati a proporre ai movimentisti un confronto. Invano. «Ha tentato di inaugurare la contestazione partecipata. Nessuna mediazione è possibile - si leggerà nel documento diramato poco dopo dal «Coordinamento» e dalla «Rete per l´autoformazione» - Le uniche risposte che può darci sono politiche». E giù con le rivendicazioni, dal «ritiro delle truppe dall´Afghanistan» alla «abrogazione della legge Moratti e della legge 30». Francesco, Scienze politiche: «Ce l´abbiamo con lui perché ha strumentalizzato i movimenti. E poi mette piede dopo anni alla Sapienza per far cosa? Per partecipare a un incontro con Cl». Giorgio, facoltà di Fisica: «Era il politico della non violenza. Ha tradito». Laura, Scienze della comunicazione: «Sulla guerra sono in continuità con Berlusconi».
L´operazione per loro è stata un successo, non lo attenderanno all´uscita. Bertinotti invece sì, ha voglia di replicare, davanti a microfoni e taccuini. Citando Mao: «La politica non è un pranzo di gala. Ma questa di oggi è un´area estrema della sinistra che rifiuta la politica, che contesta la non violenza». Concetto che ribadirà in serata, intervistato dal Tg1: «L´episodio dimostra che per la sinistra non c´è solo il terreno della lotta culturale contro il moderatismo, ma anche contro quelle schegge dell´estrema sinistra che rifiutano la politica e la non violenza». Nulla a che fare comunque con la contestazione del ´77 alla Sapienza, di cui fu bersaglio Luciano Lama, leader Cgil: «Questo era un gruppo di una cinquantina, sparuto, isolato. Allora fu un fenomeno di massa dallo sviluppo drammatico». Solidarietà da tutto il centrosinistra, a cominciare dal premier Prodi, per il quale «sono legittime espressioni di pochi, ma non sono il polso del paese». Ma anche da Casini e Maroni. Gli unici distinguo da Turigliatto, espulso dal Prc («La contestazione è il sale della politica») e da Cannavò di Sinistra critica: «È segno che sulla guerra c´è un problema».

Corriere della Sera 27.3.07
L'ex portavoce, conduttrice di «Otto e mezzo»: il '77? Oggi come allora il governo ci divide e c'è una parte che mugugna
di Aldo Cazzullo

Rifondazione e i primi fischi da sinistra «Come osano? Fausto uomo di pace»
La difesa delle «sue» donne Gagliardi e Armeni: colpito a freddo solo per andare in tv

ROMA — Il contestatore contestato. Da «estremisti di sinistra», come li definisce lui stesso, che giocano a evocare («I Lama in Afghanistan» dicono i cartelli) gli autonomi che trent'anni fa sancirono una rottura a sinistra, cacciando da questa stessa università di Roma uno dei leader storici del comunismo italiano, il segretario della Cgil.
Un parallelo ovviamente impossibile. E non solo perché Bertinotti non è più sindacalista Cgil da tempo, e il suo posto di oggi è quello che trent'anni fa aveva il suo punto di riferimento, Pietro Ingrao. Forse, al di là delle suggestioni storiche — ora come nel '77 si consuma una rottura tra un movimento che non si riconosce nelle scelte della sinistra istituzionale —, la contestazione di ieri va inserita nel contesto biografico di Fausto Bertinotti. Che nella sua vita sindacale e politica è stato più volte contestato, ma per aver rifiutato un accordo o per aver rotto con Prodi; contestazioni «da destra». La contestazione «da sinistra», sia pure porta con un'arroganza che ha suscitato in lui incredulità più che fastidio, è una novità che segna, se non un passaggio di barricata, la difficoltà di conciliare il nuovo ruolo con la sua antica storia.
Così, dopo la contestazione, e prima dell'intervista al Tg1, Bertinotti ha riunito i collaboratori più stretti. Un appuntamento già preso, per discutere il progetto di una nuova rivista, è diventato l'occasione per un confronto. In cui tutti si sono stretti a difesa del leader. Soprattutto le «sue» donne, le giornaliste a lui più vicine, Rina Gagliardi, editorialista di Liberazione, e Ritanna Armeni, la conduttrice di Otto e mezzo che è stata a lungo sua portavoce.
«Sono indignata. Anzi, diciamolo: sono incazzata — dice la Gagliardi —. Ma chi sono questi? Come si permettono di insultare un uomo di pace come Fausto, di urlare in faccia a uno che si è battuto tutta la vita per i deboli e i lavoratori? Chi sono? Sono dei violenti che non rappresentano nessuno tranne se stessi. Chi li conosceva prima? Chi aveva mai sentito parlare del gruppo Kombinat, o Rekombinat, o come si chiamano? Non è stata una contestazione spontanea. È stata un'operazione orchestrata. Molto pensata. A freddo. Una trappola mediatica. I precedenti non mancano: è successo con Pansa, con Prodi; bastano poche decine di facinorosi che fischiano e urlano per finire nei titoli di testa del telegiornale. Un circuito perverso».
La Gagliardi non si nasconde che Bertinotti deve però fronteggiare un problema politico. Lei stessa ha combattuto in due editoriali un duello con Marco Revelli, molto critico della stagione politica che vede Rifondazione al governo e il suo leader alla presidenza di Montecitorio. «È ovvio che la posizione ambiziosa di Rifondazione può essere criticata da sinistra. Una parte, secondo me piccola, è in dissenso non tanto con la nostra linea politica, ma con la politica in se stessa; per loro, ogni compromesso è sbagliato per il semplice fatto che è un compromesso. Ma quanto accaduto all'università di Roma non c'entra niente con le dinamiche dei movimenti. Non è la spia di nulla che ci riguardi. Mi rifiuto di pensare che ci siano pezzi del movimento per la pace che considerino giusto trattare Bertinotti in quel modo. Questi sono segni di un estremismo sciocco che è sempre esistito ed esiste ancora. E non farei paragoni con il Settantasette. Io sono sempre stata critica sia con Lama e il Pci, che tentò di riprendere il controllo del movimento, sia con gli autonomi. Quella fu una vera rottura storica. Oggi vedo solo un gruppo di violenti. Fausto è consapevole che la sua biografia lo espone, in questa fase, al rischio della contestazione. Se lo aspetta, è sempre disponibile al confronto, anche oggi si è offerto di incontrare una delegazione dei suoi oppositori; ma quelli non hanno voluto». Ciò non toglie che Bertinotti ne abbia sofferto. Lui che da sinistra ha contestato tutti: la segreteria del Psi, al punto da lasciare il partito della giovinezza; la segreteria della Cgil, dove capeggiava l'opposizione interna; la segreteria del Pds, abbandonato per Rifondazione; e poi l'ala «destra» del suo partito, che sotto la guida di Cossutta scelse di andarsene. «Fu allora che Fausto si trovò a fronteggiare una contestazione dura, anche personale. Ma era la sinistra governativa che gli rimproverava la rottura con Prodi — racconta Ritanna Armeni —. Me lo ricordo bene, quel momento. Gli piovve addosso di tutto: i tg, Nanni Moretti, la Ferilli; per anni alle feste dell'Unità abbiamo avuto un'accoglienza freddina. Ora Fausto è accusato all'opposto di essere troppo governativo...».
Premesso che il confronto con il Settantasette è improprio, la Armeni coglie un'analogia: «Allora come oggi, la questione del governo tende a dividerci. Da una parte chi considera gli uomini di sinistra che diventano ministri o rappresentanti delle istituzioni come traditori; dall'altra chi vede la nuova esperienza come il modo più efficace per affrontare le istanze sociali. Le condizioni sono molto cambiate in questi trent'anni: allora c'era un grande partito comunista che perseguiva la solidarietà nazionale e veniva contrastato da un grande movimento di massa; e il Pci entrò all'università con i suoi fabbri che scardinarono i cancelli e con il "Dodge", il camion rosso dei grandi cortei romani. L'episodio di oggi è una cosa piccola, e fatta a freddo. Ma il messaggio lanciato dai fischi della Sapienza corrisponde a un'idea presente in una parte della sinistra. Il mugugno, lo scontento esistono. Sintomi diversi della stessa malattia».

Repubblica 27.3.07
Frank Gehry
La mia casa di vetro piena zeppa di fantasmi
Un film di Sydney Pollack sull'architetto
di FRANCESCO ERBANI


Sarà presentato oggi a Roma il documentario sul "creatore di sogni che ha firmato il Guggenheim di Bilbao
Fra i protagonisti della pellicola, Julian Schnabel, Dennis Hopper, Thomas Krens e Bob Geldof

Los Angeles, una giornata luminosa. La casa è circondata da un giardino con alte piante grasse. Dice Frank Gehry: «Quando la comprammo capii che avrei dovuto fare qualcosa prima di traslocarci. E mi affezionai subito all´idea di lasciarla intatta, di non manometterla. Era intorno alla vecchia costruzione che avrei realizzato il nuovo edificio». Ora intorno a quella casa c´è un grande involucro di vetro, lo spazio è quasi raddoppiato. «Ci dissero che c´erano i fantasmi. Di notte i vetri, non essendo ortogonali, danno vita a un gioco di specchi. Così, stando seduti qui, si vedono passare le macchine. Si vede la luna nel posto sbagliato. Magari è là, ma si riflette qui. E non capisci più dove sei».
Nasce così la casa di un architetto. Un architetto cubista, che «sa vivere l´istante». «Io vorrei saperlo fare», spiega Dennis Hopper, l´attore di Easy Rider, ora anche pittore, «lui lo fa creativamente. Coglie al volo un´idea, capisce quello che vogliono e pensano i suoi interlocutori e in un attimo inizia a creare». Frank Gehry, l´inventore del Guggenheim di Bilbao, si racconta in un film di Sydney Pollack (Frank Gehry creatore di sogni) che uscirà nelle sale venerdì, ma che stasera viene presentato alla Casa dell´Architettura di Roma, a cura della Bim distribuzione. Pollack è il regista di La vita corre sul filo e di Tootsie, e quando Gehry gli disse: «Vorrei che fossi tu a dirigere questo lavoro», gli rispose che non aveva mai fatto un documentario e che non sapeva nulla di architettura. «Per questo sei perfetto», replicò l´architetto.
Gehry è ritratto al lavoro, mentre appallottola un cartoncino argentato insoddisfatto da una parete che scende giù lineare, mentre si arrampica su un ponteggio. Di lui parlano l´architetto Philip Johnson e il pittore Julian Schnabel, imbacuccato in un accappatoio bianco, in mano un bicchiere di whisky, Thomas Krens, il direttore della Fondazione Guggenheim, Milton Wexler, lo psicanalista che lo aveva in cura, morto alcuni giorni fa, il musicista Bob Geldof.
Da giovane, Gehry - il cui vero nome è Goldberg, ebreo, nato in Canada nel 1929 e poi trasferito in California - faceva il camionista, poi si iscrisse ad architettura, ma venne bocciato all´esame di prospettiva. Un professore lo invitò a cambiare facoltà. «Ma io archiviai l´incidente come persecuzione antisemita». La sua carriera inizia negli atelier degli artisti, più che negli studi con i suoi colleghi - e in fondo la linea retta, l´angolo retto gli resteranno antipatici per sempre: per qualcuno la sua forza è nello scarto dalla norma, per altri le sue predilezioni formali lo vincolano troppo a una gamma preconcetta di effetti stupefacenti. «Certi miei colleghi hanno una concezione tetragona dell´architettura», dice Gehry, «può essere solo X. Non X meno qualcosa o X più qualcosa. X e basta, solo norme e costrizioni. Se ti azzardi a fare così per loro non è più architettura. L´innovazione viene avvertita come una minaccia. Ma una volta che hai saltato il fosso non ti puoi più fermare».
La sua passione è il modo in cui la luce si rifrange. Racconta Charles Jencks, anche lui architetto: «È interessante come ha finito casa sua. Un giorno è salito in bagno per radersi, ma non c´era abbastanza luce. Allora ha preso un martello ed ha aperto un´asola nel tetto, verso il sole californiano. Poi si è fatto la barba». Mentre costruiva la sua casa, contemporaneamente portava a termine un mastodontico centro commerciale. Invitò a cena il proprietario che dentro quel prisma irregolare di vetro strabuzzò i suoi occhi da magnate: «Che diavolo ha fatto?», gli chiese. «Be´ per casa mia mi sono divertito a sperimentare un po´». «Ma se le piace questo, non può piacerle quello»: e punta il dito verso il centro commerciale. E Gehry: «Ha ragione, non mi piace». «E perché l´ha fatto?». «Per guadagnarmi da vivere». «Fa male. Dovrebbe smettere». «Ha ragione». E così, nonostante a quel cantiere lavorassero una cinquantina di persone, Gehry decise di fermare tutto.
Wexler, lo psicanalista, racconta di quando si presentò da lui. Si sentiva alla bancarotta e incapace di far accettare ai clienti le cose che faceva. Lo misero in un gruppo di quindici pazienti, ma per due anni non disse una parola, finché qualcuno non sbottò: «Basta con quest´aria sprezzante». Fu come togliere il tappo, confessa ora Gehry.
Nel film sfilano i progetti, il palazzo del ghiaccio e la Concert Hall della Disney, le tante case californiane, fino al Guggenheim di Bilbao. Domanda Pollack: «Quella sensualità da dove ti viene?». «Semplice evoluzione. Cercavo il modo di esprimere emozioni in oggetti tridimensionali. La cattedrale di Chartres, quando entri, ti obbliga a inginocchiarti». A Schnabel il museo della città basca ricorda la maestosità egizia di Luxor. A qualcun altro fa pensare a un oggetto piovuto dallo spazio cent´anni fa. Una giornalista spagnola rievoca l´orgoglio collettivo di una comunità cittadina - gli abitanti di Bilbao - che pareva morta e che ora è rinata, anche per quel museo. Dissente lo storico dell´arte Al Foster: «Gehry ha sfruttato misure ipertrofiche per azzerare il resto con un edificio che di per sé è un´opera da ammirare. Talvolta penso che Frank si sia speso troppo in fretta, che abbia concesso troppo ai suoi committenti. Crea una sorta di oggetto sublime da cui l´osservatore si sente sopraffatto, ma che è un´immagine perfetta da far circolare tra i media e per il mondo come un marchio di fabbrica».
«Mio Dio cosa ho fatto!», esclamò Gehry quando vide il Guggenheim appena realizzato. Ma l´insicurezza è un gioco delle parti. «Non fatevi ingannare da quell´aria da tenente Colombo», avverte Thomas Krens, «impermeabile spiegazzato, andatura strascicata, basso profilo… Frank ha l´ego più smisurato della categoria. Lo so perché ne è consapevole anche lui».
Inquadrando bene la telecamera, Gehry pronuncia il suo dettato: «L´espressione architettonica è soggetta a regole e dovrebbe muoversi entro certi binari. Al diavolo! Non ha senso!». Qualcun altro, un giornalista del New York Times, prova a rendere più brutale questo concetto di libertà, con il vilipendio dell´architetto che non si fa notare, che si mescola. E compiendo l´apologia di quello che invece si fa notare, non si mescola, sostenendo che è a questo che serve l´architettura, che è così che dovrebbero evolversi le città. È l´elogio dell´archistar, di quelli che Leonardo Benevolo ha definito "i protagonisti impazienti", scultori, più che architetti, obbligati a riprodurre un certo manierismo individuale e debordanti verso la produzione virtuale.

l’Unità 27.3.07
Togliatti e il Concordato
I costi della pax religiosa
ANNIVERSARI Sessant’anni fa la scelta di votare l’articolo 7, con le polemiche e le conseguenze che ne derivarono. Fu una decisione non facile motivata dal pericolo di un assedio ideologico contro la repubblica e che ancora fa discutere
di Michele Prospero


Con 350 voti a favore e 149 contrari, sessant’anni fa venne approvato l’articolo 7 della costituzione. Il testo recepiva il vecchio concordato siglato dalla chiesa con il fascismo e accordava una successiva modifica, da attuarsi nell’accordo tra le parti, e senza le procedure aggravate della revisione costituzionale. Quel 24 marzo fece scalpore soprattutto l’apporto decisivo del Pci che si distaccò dalle altre forze laiche e socialiste. Nella mente di Togliatti maturò in extremis il cedimento sulla menzione esplicita nella carta dei patti del 1929, che egli stesso aveva definito «un triste amplesso di Pietro e Cesare». Solo il 19 marzo egli annunciò l’orientamento del Pci. Una decisione improvvisa senza dubbio. Ma pesò nella sua scelta anche una più lenta rivelazione dei caratteri triviali della società italiana emersa a tinte fosche dopo il 2 giugno. La lezione del referendum tormentava la sua coscienza di capo politico. Non ci fu una sola regione del sud in cui la repubblica vinse. La stella dei Savoia e l’altare del Vaticano rappresentavano un inquietante ostacolo contro la democrazia progressiva di oggi, così come in passato avevano osteggiato ogni timido vento liberale sulla penisola. Il popolino e i preti. Fantasmi grondanti di sangue che si aggiravano a Napoli e dintorni. Il viaggio oltreoceano di De Gasperi poi non lo aveva certo rassicurato. Il cerchio si stava stringendo attorno ai comunisti. Un tarlo opprimente, che alimentava il timore della marginalizzazione imminente, indusse Togliatti a una mossa imprevista che provocò qualche mugugno in illustri intellettuali come concetto Marchesi.
Il leader del Pci metteva in conto i costi reali di quell’operazione ma calcolava che maggiori sarebbero stati i vantaggi sperati. Tra i costi possibili c’era di sicuro quello paventato a suo tempo da Gramsci. E cioè che il concordato era un grave anacronismo entro uno Stato di diritto che doveva affidare la sfera religiosa al diritto comune e non ricorrere alla mediazione di accordi istituzionali tra enti sovrani coesistenti nello stesso territorio. Togliatti sapeva bene che i patti lateranensi assumevano quella cattolica come la autentica fede dei padri, come il fondamento di un’integrale unità spirituale del popolo. E quale religione vera, essa andava difesa contro le insidie di altre fedi, viste come rotture dell’armonia spirituale con il loro illecito proselitismo. Vantaggi patrimoniali, finanziari, giurisdizionali e simbolici andavano alla chiesa. Allo Stato poi toccavano poteri giurisdizionali d’ascendenza medievale come il controllo sulla nomina dei vescovi e il loro giuramento davanti al capo dello Stato. Il papa soddisfatto non esitò a definire il duce un uomo della provvidenza e a promuoverlo a vero capo della civiltà. Non ci fu Stato totalitario con il quale la chiesa non firmasse un benevolo concordato. Lo fece con Hitler, con Dollfuss, con Salazar, con Franco, con Horthy. La democrazia non rientrava tra le corde spirituali della chiesa. Queste cose Togliatti le sapeva, ma valutò che la via dell’accordo con una potenza estranea fosse tra i rospi da ingoiare. Per i suoi critici, l’ombra oppressiva del passato, più che un roseo progetto di futuro, si proiettava sul voto a favore dell’articolo 7.
Il concordato - come mise in luce Arturo Carlo Jemolo - fu un vero scambio indecente con uno Stato autoritario. Non senza traumi la costituzione lo recepì, affermando che quello della chiesa era da ritenersi un ordinamento giuridico originario. La chiesa fu proclamata come un ordine sovrano con il quale si poteva negoziare con gli arnesi del trattato internazionale. L’ordinamento costituzionale dello Stato venne di fatto minato nelle sue prerogative, anche se dinanzi a privati o ecclesiastici che agiscono in conformità dei precetti del diritto ecclesiastico. Ma violando le norme dell’ordinamento statale, era sempre quest’ultimo che prevaleva. È sempre la sovrana discrezionalità dello Stato a consentire deroghe, a circoscrivere gli spazi della libertas ecclesiae catholicae, ad assegnare competenze al diritto canonico. Lo spazio della chiesa si estende solo ove lo Stato rinuncia a intervenire. Lo stesso concordato a rigori non è la sola via legittima per regolare la materia. Se salta il principio dello stare pactis, è sempre ipotizzabile, ma è molto costosa, la sua modificazione unilaterale secondo l’articolo 138. Questa soluzione però aprirebbe tante frizioni in merito alla violata soggettività internazionale del Vaticano. Per questo nelle modifiche del 1984 è stata seguita la via dell’intesa reciproca. Essenziale è risultato comunque il lavoro della Corte costituzionale che ha sempre più precisato gli spazi dei diritti soggettivi, la protezione giuridica alle altre fedi e agli atei.
L’articolo 7 ha rallentato il cammino dei diritti individuali ma non ha impedito alla fine l’avvicinamento dell’Italia ai requisiti del moderno Stato costituzionale laico. Questo anche perché nel ’47 non passarono le velleità delle destre, cattolica e monarchica, che si proclamavano defensores fidei e pretendevano il recupero della dizione di religione di Stato già contenuta nello statuto albertino. Questo scempio dei diritti fondamentali almeno fu impedito. E il principio concordatario fu chiamato a coesistere con i valori della libertà religiosa che si intendevano perseguire in una cornice ispirata alla coerente laicità. Una frizione esplodeva tra le norme di derivazione pattizia, sovente dal contenuto particolaristico e utilitaristico, e l’eguaglianza e la libertà visti come valori e principi supremi della carta. Il concordato è ancora oggi una lima confessionale sorda che si insinua nell’ordinamento costituzionale e lo corrode lentamente introducendo status differenziati nella cittadinanza? Secondo i suoi critici il principio supremo di laicità e libertà è chiamato a convivere con un criterio regolativo di segno del tutto opposto: l’autorità e il privilegio.
Quel voto imprevisto di sessant’anni fa non garantì al Pci di restare al governo, evitò forse altre lacerazioni che avrebbero insidiato il faticoso lavoro di redazione della costituzione. Il problema storico dell’alienazione politica dei cattolici consigliò alterazioni tutt’altro che modiche nel catalogo delle libertà fondamentali pur di portare comunque avanti la conquista più significativa, la costituzione repubblicana come frutto della sintesi di grandi culture politiche. Agli inizi il percorso fu tutt’altro che agevole. Non mancarono sollecitazioni a definire uno Stato confessionale che accordava alla chiesa privilegi e contraeva la libertà dei soggetti. Va detto che nei primi anni della repubblica, il diligente lavoro di supporto dei giudici, che marciavano con un’etica confessionale più che con un senso del diritto positivo, non si fece attendere. Nell’affidamento della prole, il genitore timorato di Dio era sempre preferito al coniuge ateo, anche se irreprensibile. Solo la scure della corte costituzionale sanò con il tempo alcune manifestazioni di pacchiana intolleranza alla luce della corretta interpretazione della carta del ’48, che sancì nell’articolo 8 il diritto di libertà religiosa. Secondo l’alta corte, in un coerente Stato costituzionale, i diritti fondamentali della persona non possono essere condizionati da considerazioni relative alla consistenza numerica delle confessioni. Neanche possono essere tollerati vantaggi (fiscali, militari, scolastici, mediatici) che si risolvono di fatto in una sensazione di discriminazione in chi ne è escluso.
Se la pace religiosa era l’obiettivo politico contingente del cedimento comunista, il voto favorevole all’articolo 7 non sembrava però averla avvicinata. Madonne pellegrine, comitati civici e scomuniche da parte del Sant’Uffizio ci furono ugualmente. Il voto del 24 marzo non riuscì a bloccarle. Microfoni di Dio lanciavano anatemi terribili. Il sostegno all’articolo 7 non bastò a dissuaderli. E oltre Tevere si disegnavano operazioni Sturzo per mettere insieme cattolici e destra radicale. De Gasperi ebbe il suo da fare per garantirsi un margine di manovra laico e autonomo dalla chiesa. Il cuore del clero in certi frangenti batteva per la Spagna del caudillo. Era lì che la religione aveva trovato spazio immenso nel diritto pubblico. Modesti nell’immediato furono dunque gli effetti politici del voto comunista. Più consistenti si rilevarono purtroppo i colpi inferti al principio di eguaglianza e di libertà religiosa. Per definizione i diritti fondamentali sono espansivi, il godimento di essi cioè non comporta l’esclusione di altri. In virtù del concordato, avviene proprio il contrario. La fruizione di taluni vantaggi giuridici da parte di alcuni soggetti ha effetti negativi sulla sfera della libertà degli altri.
La chiesa anche oggi torna a reclamare, oltre ai diritti pubblici soggettivi già garantiti dalla costituzione, il riconoscimento del carattere pubblico e non solo privato della fede. Ma è questa una proposta che spezza la coerenza di uno Stato costituzionale. La chiesa non può essere assimilata alle cosiddette società intermedie perché il suo compito non è quello di gettare un ponte di collegamento tra il singolo e lo Stato, e le finalità che in piena autonomia organizzativa persegue non sono coincidenti con quelle pubbliche dello Stato. Il fulcro dei diritti in uno Stato costituzionale sono gli individui, non le comunità. Dove il carattere pubblico della fede persiste troppo a lungo, ad esempio in alcune norme del codice penale che parlano di «religione dello Stato», si determinano odiose discriminazioni in nome della protezione della religione di maggioranza. Un diritto penale senza distinzioni di religione per certi versi è ancora un obiettivo da raggiungere. Senza far valere una laicità positiva ed inclusiva però si differenzia lo status delle persone e si viola nel profondo il valore indisponibile dell’eguaglianza.
Secondo la Corte costituzionale è ormai appurata l’irrilevanza assoluta del criterio quantitativo per la valutazione delle fedi. Per alcuni tribunali invece i simboli della religione maggioritaria sono dei non-simboli perché non sono momenti d’identificazione di una parte ma valgono per tutti a prescindere dalla loro provenienza e delimitano l’identità culturale del popolo. Dei simboli cattolici come «identità del nostro popolo» parla il parere del consiglio di Stato, che presenta la costituzione come un posteriore riconoscimento di valori (libertà, eguaglianza, tolleranza) propri, già in origine, della religione. La costituzione insomma non istituisce i diritti di libertà, li eredita dalla fede. Anche la chiesa rigetta sempre con più insistenza un ordinamento secolarizzato che non postula il connotato pubblico della fede e torna a parlare di diritti di natura, di verità eterne superiori al diritto positivo e a postulare persino l’obbligo politico dei deputati di attenersi alle disposizioni etiche del clero. Le richieste di un diritto pubblico vigilato dalla chiesa svelano che quello della laicità e delle libertà moderne è un discorso che non è stato chiuso il 24 marzo di sessanta anni fa.

Corriere della Sera 27.3.07
Quattro membri della segreteria del sindacato votano la mozione del ministro. Epifani non si schiera
E Mussi ha conquistato mezzo vertice della Cgil
di Enrico Marro


ROMA — Gli scossoni che hanno colpito i Ds in vista del congresso del 19-21 aprile a Firenze stanno investendo con intensità la Cgil. Mezzo gruppo dirigente del più grande sindacato italiano ha scelto la mozione di Fabio Mussi «A sinistra». Si identifica cioè con quel pezzo dei Ds, capeggiato oltre che dal ministro dell'Università anche da Cesare Salvi, Fulvia Bandoli e Valdo Spini, che si oppone al matrimonio con la Margherita e alla nascita del «partito democratico». Mussi riunirà i suoi giovedì a Roma per decidere, tra l'altro, se partecipare al congresso di Firenze o se uscire prima dal partito di Fassino e D'Alema, per aprire subito un dialogo con Rifondazione comunista e/o con i socialisti di Enrico Boselli alla ricerca di un nuovo soggetto politico. Tra i cinque promotori della mozione Mussi c'è un personaggio di spicco della segreteria Cgil, Paolo Nerozzi. Ma anche altri 3 segretari confederali l'appoggiano: Fulvio Fammoni, Morena Piccinini (che ha la delicata delega sulle pensioni) e Carla Cantone, responsabile dell'organizzazione.
La segreteria Cgil risulta così spaccata a metà, perché ai quattro «mussiani» si contrappongono i quattro che sostengono la mozione Fassino per il partito democratico: Mauro Guzzonato, Achille Passoni, Nicoletta Rocchi e Marigia Maulucci (benché non più iscritta ai Ds). C'è poi Paola Agnello Modica, vicina alla sinistra radicale, ma senza partito (uscì da Rifondazione quando ci fu la scissione del Pdci). Resta infine il più importante, il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, diessino, ex socialista. Epifani ha scelto di non schierarsi con alcuna mozione (fece così anche due anni fa quando la divisione era tra il «correntone» e i dalemiani). E così la bilancia resta in equilibrio.
Fuori dalla segreteria confederale i mussiani possono contare sull'appoggio di importanti segretari di categoria: Enrico Panini (scuola), Carlo Podda (pubblico impiego), Franco Chiriaco (agroalimentare), Betty Leone (pensionati). A questi bisogna aggiungere i leader di strutture regionali come la Lombardia (Susanna Camusso), il Lazio (Walter Schiavella), la Puglia (Domenico Pantaleo), il Molise (Italo Stellon). Di assoluto rilievo, infine, il sostegno a Mussi di Raffaele Minelli, presidente del direttivo della Cgil (il parlamentino di Corso Italia) e dell'Inca (il patronato della Cgil), nonché sindacalista vicinissimo ad Epifani.
In Cgil, insomma, l'opposizione al partito democratico è molto forte. Con motivazioni diverse. C'è una parte che ha scelto Mussi e Salvi perché è su posizioni intransigenti in materia di welfare e mercato del lavoro, più vicine a quelle di Rifondazione che a quelle di Fassino e D'Alema. È il caso per esempio di Podda, Panini e Chiriaco. Ma c'è anche una parte che non vuole il Pd perché lo vede come un nuovo compromesso storico tra ex comunisti ed ex democristiani che annullerebbe lo spazio politico della famiglia laico-socialista. Spiega così, per esempio, la sua scelta l'ex socialista Susanna Camusso. La conclusione è comunque questa: se finora il grosso della Cgil si è identificato con i Ds (e prima con il Pds e il Pci) non sarà così se nascerà il partito democratico. Si passerà da un punto di riferimento egemone a una pluralità di referenti.
La scomposizione dei Ds avviene mentre il sindacato si avvia a trattare col governo e le imprese sulle riforme per la competitività e lo Stato sociale. Le divisioni già presenti a sinistra sulle pensioni (da Fassino a Giordano, passando per Salvi) potrebbero inasprirsi se si dovesse arrivare a un'ipotesi di accordo lungo le linee tracciate da Romano Prodi (aumento dell'età pensionabile e taglio dei coefficienti) e se i mussiani dovessero uscire dai Ds e avvicinarsi a Rifondazione. E questo potrebbe agire da freno sulla disponibilità della Cgil all'accordo, oltre al freno già rappresentato dalla posizione intransigente dei metalmeccanici (Fiom) di Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi. Ma Nerozzi nega: «L'autonomia della Cgil dai partiti sta sopra ogni altra cosa. Noi condividiamo il documento unitario con Cisl e Uil e quanto votato dalla Cgil nel direttivo». Epifani, commentando l'inizio del negoziato con Prodi, ha detto: «Non sarà una passeggiata». Non lo sarà neppure nella Cgil.

Corriere della Sera 27.3.07
Dalle pozzanghere alle Piramidi Mai snobbare le «follie» dei filosofi
di Giulio Giorello


Talete speculava sia nel mondo delle idee, sia in quello degli affari
Sembrano oscuri, ma ci aiutano a cercare ciò che è vero, bello e giusto

Talete (VII-VI secolo a.C.) predisse un'eclissi e divenne uno dei Sette Savi, stando a quel che racconta Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi. Ci si conquista fama imperitura guardando il cielo! Ma se si cammina troppo a testa in su, si può inciampare in un sasso e cadere, finendo col bere l'acqua di una pozzanghera, «destando le risa di una schiavetta tracia». Stiamo ancora parlando del Savio di Mileto: questa volta la fonte è Platone.
Eppure Talete non visse sempre con gli occhi rivolti agli astri o — se preferite — con la testa nelle nuvole, se è vero che, prevedendo con largo anticipo un abbondantissimo raccolto di olive, si sarebbe premurato di acquistare quasi tutti i frantoi della zona per affittarli a caro prezzo al momento opportuno. Quello che i manuali abitualmente considerano il primo dei filosofi era capace di «speculazione» non solo nel mondo delle idee, ma anche in quello degli affari. Inoltre, Talete era anche un provetto matematico. La tradizione vuole che, recatosi in Egitto, abbia sfruttato accortamente le sue conoscenze geometriche (come quel teorema detto appunto «di Talete» sulla similitudine dei triangoli per cui talvolta il nostro eroe viene maledetto dagli studenti della media superiore) per escogitare un elegante metodo indiretto per calcolare l'altezza delle piramidi, cosa per la quale fu generosamente ricompensato dal Sovrano — salvo seguire subito il consiglio di un cortigiano: «Prendi l'oro e vai via. I potenti non amano la geometria!». E, presumibilmente, nemmeno la filosofia, almeno quando va di pari passo con quel tipo di indagine spregiudicata che secoli dopo Talete abbiamo chiamato scienza. Dunque, non solo un liberista, ma addirittura un libertario!
Di aneddoti del genere se ne potrebbero raccontare molti altri, magari per sfatare l'immagine del filosofo come un tipo completamente avulso dalla realtà — anche se si narra del grande Plotino (III secolo d.C.) che era così assorto in sublimi meditazioni «da dimenticare perfino di avere un corpo». C'è stato invece chi ha solennemente dichiarato che l'uomo non è altro che ciò che mangia, come pretendeva nell'Ottocento Ludwig Feurbach, salvo essere poi tacciato di idealismo dal collega e rivale Karl Marx, il burbanzoso e capelluto rivoluzionario di Treviri, per il quale la filosofia doveva non «interpretare», bensì «cambiare il mondo». Come è noto, Marx non volle fare il capitalista alla Talete, ma gettò invece le basi (ovviamente teoriche) del comunismo moderno. E agli inizi del secolo scorso Lenin esortava i socialdemocratici russi con queste parole: «Compagni, bisogna sognare!». Stalin, Mao e Castro ringraziano.
Forse coglieva nel segno il visionario Borges quando ammoniva che i grandi sistemi edificati dai filosofi non sono che un ramo della letteratura fantastica. Un'agile enciclopedia filosofica potrebbe allora essere usata come guida per il museo della fantasia dell'uomo, animale, per dirla con Aristotele, a un tempo «razionale» e «lunare» (quando decolla verso il cielo delle idee). Aggiungerei della donna. Cosa sarebbe stato John Stuart Mill senza la sua Harriet Taylor che gli fece gustare il frutto proibito della libertà, per non dire delle grandi pensatrici del Novecento come Hannah Arendt o Simone Weil?
È però sbrigativo concludere che tutto ciò sia stato solo moonshine, per usare la parola inglese che indica insieme il chiaro di luna e una più o meno lucida follia. Potranno talvolta sembrarci oscuri i concetti, astruso il linguaggio, lambiccato il ragionamento: non dobbiamo però dimenticarci che senza quella Tela di Penelope che è la filosofia (ogni addetto ai lavori gode nel disfare l'opera dei predecessori o dei rivali) non saremmo stati capaci di articolare le nostre intuizioni di quello che è bello, buono, vero e giusto. E nemmeno avremmo avuto la critica dell'autoritarismo, l'elogio del dubbio, la libertà di sbagliare (e quella di imparare dagli errori), l'insofferenza per la tirannide e la demolizione di ogni forma di totalitarismo. Un vecchio adagio recita: «Prima vivere, poi filosofare». Ma la filosofia, come diceva appunto Hannah Arendt, è la vita della mente.

Corriere della Sera 27.3.07
La «famiglia naturale»?
Non esiste, perché la natura è violenza, caos e incesto
di Dacia Maraini


Il Papa sostiene, con ostinato candore, che si deve difendere la famiglia naturale. Ma cosa intende per natura, viene da chiedere. Ogni normativa sociale, se guardiamo bene, va contro natura. Nel mondo naturale il più grosso mangia il più piccolo, il più robusto schiavizza il più debole, le madri si accoppiano con i figli, i padri con le figlie, i fratelli con le sorelle. In natura non esiste morale, se per morale intendiamo prescrizioni che gli uomini si scelgono per vivere nello stesso Paese, nella stessa città, nella stessa casa, senza scannarsi a vicenda. Proprio per difendere la famiglia artificiale creata dall'uomo, sono state stabilite discipline che impediscono il vivere selvaggio del nucleo originale: l'incesto per esempio, presente in tutte le specie, anche nell'uomo, addirittura ammesso in certe circostanze storiche — vedi gli antichi egiziani — è stato proibito, come racconta bene Malinowski, per permettere alle prime tribù di espandersi, andare a cercare altre tribù, intrecciare rapporti e quindi aprire scambi di idee, di conoscenze, di esperienze. Se per etica intendiamo i regolamenti che una società stabilisce per vivere meglio insieme, evitando le grandi ingiustizie, punendo i trasgressori e aiutando i più deboli, certo l'etica non è un prodotto della natura ma una difficile e nobile prassi che l'uomo avoca a sé, in nome di un Dio che sceglie di applicare la giustizia, concetto assolutamente contrario alla natura. La giustizia a volte sembra un'utopia, ma ciò che rende umani gli uomini è proprio il continuo ossessivo tentativo di sostituire la crudeltà brutale delle cose con una voglia di comunità, di uguaglianza, di fraternità.
Ogni volta che la natura crea un disastro, l'uomo cerca di rimediare.
Perché la natura vuole sì la riproduzione dell'uomo, ma spesso e volentieri solleva le sue forze devastatrici che distruggono con un solo colpo migliaia di corpi umani.
Anche l'omosessualità esiste in natura, come dimostrano tanti popoli che l'hanno ammessa e praticata legalmente. Eppure spesso è stata proibita, soprattutto quando c'era pericolo di estinzione per un popolo, quando metà dei figli morivano di malattia e c'era un bisogno assoluto di braccia da lavoro. Con la crescita di un certo benessere e con la sovrappopolazione, cambiano le prospettive e l'intolleranza diminuisce. Certo la natura, quando vuole riprodursi, accoppia due persone di sesso opposto. Ma poiché abbiamo guastato e corrotto l'aria che respiriamo e l'acqua che beviamo, gli uomini soffrono sempre più di sterilità. E per ovviare a un dato naturale — la sterilità — le società avanzate hanno inventato l'adozione, che non esiste in natura, hanno inventato la riproduzione assistita che aiuta coloro che vogliono avere figli, a farli. Infine potremmo anche chiederci cosa c'è di naturale nella castità dei preti. Nessuno mette in discussione la legittimità della loro scelta, ma ciò non dà diritto a chi preferisce la verginità, di decidere come gli altri, uomini e donne, debbano vivere la propria sessualità.
Cosa c'è di naturale nell'educazione? Nei libri? Nelle scuole? Nella scienza? E perfino nella monogamia? L'uomo per natura è poligamo, come lo sono la maggioranza degli animali. Anche le donne per natura sono probabilmente molto più poliandriche di quanto si pensi. Eppure la civiltà ha scelto la monogamia proprio per difendere quella famiglia del tutto artificiale che si oppone, per ragioni morali, e quindi non naturali, allo sperpero e al caos. Insomma un poco più di prudenza nell'uso della parola natura perché può rivoltarsi contro chi la usa.
E' l'uomo ad aver costituito una struttura «artificiale» per difendersi da disastri e disordine

Corriere della Sera 27.3.07
Un saggio che parte dalla confessione di Darwin: «Mi sento il cappellano del diavolo»
L'origine del peccato e l'evoluzione del male
Boncinelli: non esiste il bene senza cognizione del dolore
di Stefano Moriggi


Un'indagine tra natura e cultura, biologia ed etica

«Non è dalla polvere che nasce il male», ammoniva la sapienza di Giobbe. Allora da dove? «Nasce dall'uomo e rimane circoscritto al suo mondo», risponde uno scienziato come Edoardo Boncinelli nel suo nuovo libro Il male (Mondadori). Charles Darwin confessava di sentirsi come «un cappellano del Diavolo» nel narrare il «vangelo di crudeltà» che si dispiega in natura. Eppure, ci dice Boncinelli, non si può «rimproverare al leone di sbranare una piccolo antilope». Se lo facessimo, cadremmo vittima di quell'illusione che ci porta a «proiettare» le nostre emozioni e valutazioni sul resto della natura. Solo quando si è capaci di interrogarsi sull'origine dei patimenti — nostri o altrui — la sofferenza diventa male. Boncinelli vede il processo che ha portato alla comparsa degli esseri umani, e quindi la loro stessa storia, come una progressiva emancipazione. Forse una scimmia è più libera di un cane e noi siamo più liberi sia del cane sia della scimmia. Passando dalla schiavitù degli istinti all'emergenza del pensiero razionale e simbolico si conquista lo spazio della libertà in cui possiamo credere il vero o il falso, e agire per il bene o per il male.
Non ci pare fuori luogo citare uno dei Cattivi pensieri di Paul Valéry. Si dice usualmente che il pollice opponibile sia «ciò che distingue in modo più netto l'uomo dalla scimmia». Ma noi esseri umani abbiamo forse un'altra bizzarra proprietà, «quella di dividerci da noi stessi... Abbiamo l'anima opponibile». Se Valéry ha indovinato, «allora si spiegherebbero le parole comprendere o afferrare». Infatti, «afferriamo» ovvero «comprendiamo» tanto gli oggetti quanto i concetti — e questi due modi del «prendere» non sono affatto disconnessi tra loro. Le capacità manuali hanno avuto un ruolo decisivo nello sviluppo dell'intelletto umano, grazie a un reciproco scambio tra mani e cervello. Per dirla con Christian de Duve, Nobel per la medicina (1974), «gli ingegneri sono venuti prima dei filosofi». Mano e cervello insieme vogliono dire anche strumento, macchina, tecnica. Al tempo stesso, l'estensione della complessa e sofisticata libertà umana costituisce anche l'apertura alla responsabilità. «Siamo gli animali di gran lunga più liberi, ma proprio per questo dobbiamo in qualche maniera riempire il vuoto lasciato dal depotenziamento degli istinti, tanto sul piano cognitivo quanto su quello comportamentale». A ciò provvede quello scambio di cose e idee che non solo l'economia ma le istituzioni consentono di articolare anche tra gruppi differenti e di generazione in generazione, grazie ai principi della convivenza, alle regole di condotta, alle norme giuridiche, ai valori morali. Questi «puntelli» — come li definisce Boncinelli — riducono il disordine che sarebbe prodotto da una competizione sfrenata, rassicurano chiunque vi si conformi in quanto membro di una comunità, emarginano il trasgressore come un vero e proprio attentatore al benessere collettivo.
A questo punto, il male è stato definito: quelle norme, quelle regole vengono assolutizzate in imperativi etici che devono valere in ogni tempo e in ogni luogo, e guai a non tenerne conto; se così accadesse, il male dilagherebbe in tutta la sua potenza corrosiva e disgregante. «Quante volte — constata Boncinelli — abbiamo sentito dire che non ci sono più valori»? Per denotare tutto questo i filosofi usano una parola dalle molteplici sfumature, nichilismo: i valori si scoloriscono, e tutto quello che prima aveva senso e significato sembra svuotarsi. Che cosa c'è, dunque, alla radice del male? Non solo il dolore, ma la cognizione del dolore, sospesa tra natura e cultura, tra biologia ed etica. Ma non sarà l'indifferenza il male peggiore? Una specie animale può soppiantarne un'altra in una data nicchia ecologica: ecco il dettato di una natura che non si cura delle proprie creature. Possiamo limitarci a dire lo stesso se qualcosa di analogo capita con due popolazioni umane? Il nichilismo ci lascerebbe privi di qualunque metro di giudizio per distinguere una situazione dall'altra. Ci ricondurrebbe a sancire la prevalenza del più forte, come pensavano i cosiddetti «darwinisti sociali», contro i quali polemizzavano energicamente lo stesso Darwin e il suo «mastino» Thomas Huxley.
Sulla scia di Darwin, Boncinelli prospetta in chiave evolutiva la stessa questione dei criteri morali e dei valori. Sull'evoluzione biologica si è innestata l'evoluzione culturale: norme e valori sono strumenti che ci consentono non solo di sopravvivere, ma di vivere meglio. Non diversamente dagli strumenti costruiti con il pollice opponibile, possiamo continuare a perfezionarli, facendoci carico della responsabilità di tradurre in concrete leggi e istituzioni quella libertà che faticosamente ci stiamo guadagnando. Però, la nostra anima opponibile è ben più ambigua della tecnica, nel senso che può impiegare gli stessi «strumenti» anche per vivere peggio, o per distruggere la vita. Questo, e solo questo, è ciò che chiamiamo male. Una creatura perversa di quella libera immaginazione senza la quale, ovviamente, nemmeno il bene ci sarebbe.
• Il libro di Edoardo Boncinelli, «Il male», è da oggi in libreria per Mondadori (pagine 272, e 17,50)


ASCA 27.3.07
CAMERA: BERTINOTTI DOMANI INCONTRA CARDINALE BERTONE

Roma, 27 mar - Domani pomeriggio il cardinale segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone fara' visita a Montecitorio. Il cardinale anzitutto si incontrera' con il presidente della Camera Fausto Bertinotti. L'incontro avverra' nello studio del presidente alle 19,30. Subito dopo il cardinale Bertone raggiungera' la piccola chiesa di S. Gregorio Nazianzieno, all'interno del complesso monumentale della Camera, in Vicolo Valdina, l'ex monastero alle spalle di Campo Marzio ora sede di uffici e di sale convegni della Camera. Qui il cardinale celebrera' una messa per tutti i deputati e i dipendenti della Camera. Il cardinal Bertone sara' accompagnato da monsignor Rino Fisichella che della chiesa di S. Gregorio e' il rettore. La visita di cortesia al presidente Bertinotti e la messa non sono in se' una novita' in assoluto. Vi sono molti precedenti in questo senso (in genere collegati al Natale mentre oggi si e' alla vigilia della settimana di Pasqua), ma le altre volte riguardavano il presidente della Cei (Conferenza episcopale italiana) e non il segretario di Stato vaticano. In questo senso, si tratta di una novita' in assoluto. Il giorno sucessivo Montecitorio vedra' la visita di un altro prelato, si tratta di mons. Giuseppe Betello, il nuovo nunzio in Italia, che iniziando il suo mandato, compie una serie di visite di presentazione con le cariche istituzionali italiane. min/min