«Ho letto le e.mail e tutti gli articoli qui segnalati in merito alla contestazione subita ieri da Bertinotti alla Sapienza, e penso che per come è stata trattata da giornali e telegiornali manchino gli elementi fondamentali per inquadrare la vicenda. Vorrei tentare di rimediare, sperando di riuscire a proporre una chiave di lettura differente da quella ovunque spacciata come l'unica possibile.
Non entrerò nel merito della delle modalità della protesta, ma credo che alcune contestualizzazioni siano indispensabili. I giornalisti sono del tutto estranei alla realtà universitaria, alla quale si accostano solo in queste circostanze, ed i politici che commentano ne sanno ancora meno.
Sarò il più breve possibile ma non voglio dare nulla per scontato.
Forse il primo punto da chiarire riguarda proprio il tema della "non violenza". Nessuna delle due organizzazioni che ha partecipato alla protesta si qualifica come "non violenta" ma non è neppure possibile definirle violente solo in forza di questo, o identificarle come gruppi di facinorosi dediti all'insulto sistematico: si tratta infatti i organizzazioni di studenti, che frequentano e fanno esami.
L'attività principale della Rete per l'Autoformazione consiste nell'organizzazione di corsi e seminari, iniziative di studio collettivo, con o senza relatori esterni. Oggi ad esempio a Scienze Politiche si tiene un incontro organizzato da loro dal titolo "La Cina è vicina" al quale prenderà parte anche il preside della facoltà. Altra tematica al centro della loro attenzione è la crescente precarietà nel mondo della ricerca, ma per qualsiasi ulteriore chiarimento rimando al loro sito, dato che il pensiero complessivo sottostante non è semplice ed anzi è spesso contraddittorio.
Il Coordinamento dei Collettivi ha invece un carattere più "sindacale" e tende ad interessarsi di problematiche specifiche inerenti al diritto allo studio: tasse universitarie, alloggi, mense, numero chiuso per l'accesso ai corsi di studio, con speciale attenzione ai nuovi blocchi voluti dal ministro Mussi ai corsi di laurea specialistici che impediscono il proseguimento degli studi ai laureati triennali che non soddisfino arbitrari requisiti individuati dalle singole facoltà.
Un altro punto rilevante mi sembra quello della minoritarietà e quindi scarsa rilevanza della protesta: perché se è vero che è innegabile che cinquanta studenti rispetto alla popolazione della Sapienza sono pochissimi è vero pure che affermare che a sinistra di Bertinotti non c'è nessuno non è una spiegazione adeguata.
Un po' di storia, sperando di non annoiare…
Entrambe queste realtà – la Rete e il Coordinamento – sono state protagoniste del movimento che nell'autunno del 2005 ha tentato senza successo di opporsi alla ormai celebre Legge Moratti, osteggiata da tutto il centro-sinistra – ma che ancora sopravvive illesa, seppure congelata – riaprendo anche la discussione sulla precedente riforma Zecchino, il cosiddetto "3+2" voluto dal Ministro Berlinguer.
Si trattò di un momento di grande partecipazione che culminò con una manifestazione nazionale partecipata da più di centomila studenti, tra universitari e liceali, il giorno del voto della legge.
Per quella che è la mia conoscenza – molto limitata – delle precedenti esperienze di lotta nell'Università penso di poter dire che una delle particolarità di quella del 2005 sia stata l'attenzione speciale riservata a questioni non meramente materiali: la qualità della didattica e la libertà di ricerca. Alle recenti riforme si imputava – e si imputa tuttora – di aver frammentato i saperi al punto da impedire agli studenti una formazione di base solida e di aver frammentato i contratti di ricerca al punto da non consentire un'attività libera e serena, minandone la qualità. Abbiamo studiato le leggi che determinano i meccanismi attraverso i quali gli atenei ricevono i finanziamenti statali e li distribuiscono alle facoltà e queste ai dipartimenti, individuando una stretta correlazione tra questi e le scelte didattiche deleterie dei diversi Consigli dei Corsi di Laurea. Il problema è stato spostato in un certo senso dalla quantità alla "qualità" dei finanziamenti, ma di fronte ad un lavoro difficile e senza una rivendicazione di breve termine da portare avanti la partecipazione è calata e gli attriti tra le diverse organizzazioni sono emersi provocando rotture.
La finanziaria ha portato nuovi problemi, ma ad affrontarli non c'era nessuno o quasi. Le università si sono viste tagliare i fondi per le spese di medio termine – la corrente elettrica ma anche il rifornimento delle biblioteche (l'abbonamento annuo ad una rivista scientifica di prestigio costa circa 150.000 €) – di circa il 10% e le già misere borse di dottorato sono state tagliate di 40 euro, praticamente senza che volasse una mosca.
Ad ogni modo qualche attività ha avuto buon seguito. Ad esempio il Collettivo di Fisica (del quale faccio parte e che non è organico a nessuna organizzazione) ha ottenuto il ripristino dell'ordinamento semestrale abbandonato con l'attuazione del 3+2 in favore dei trimestri, raggiungendo almeno parzialmente l'obiettivo di arginare la frammentazione ed ha avviato un gruppo di studi per analizzare il problema dello strapotere delle gradi multinazionali editrici delle costosissime riviste di settore dalle quali la ricerca scientifica è completamente dipendente. Inoltre abbiamo recentemente intrapreso "L'iniziativa di ricerca Scienza&Guerra, per indagare i rapporti tra la comunità scientifica ed il potere" – alla quale partecipano studenti e ricercatori di diverse facoltà – discutendo della neutralità della scienza, della ricattabilità della figura ricercatore, ma anche di quale ruolo debba avere la scienza nella società e di molto altro che ancora non siamo riusciti a definire.
Ultimo punto: lo stato del dialogo con il governo, ovvero perché non ci sono le premesse per sedersi a discutere.
L'estate scorsa studenti della Rete e ricercatori precari dell'associazione PreCat (Precari Cattivi) hanno fatto incursione nella sala in cui si teneva un convegno dei Ds Scuola dove era presente il Ministro dell'Università e della Ricerca armati dei soliti striscioni al grido: "Mussi libero!". Oggetto della contestazione non era infatti il ministro ma il governo che voleva imporgli i tagli, in quella sede incarnato dal sottosegretario al medesimo ministero Luciano Modica, additato come "il sequestratore" ma fermamente difeso da Mussi stesso. Modica ha preteso di sostenere che qualunque ricercatore, anche l'ultimo dei precari, percepisce uno stipendio dignitoso, non inferiore ai 1300 euro ed ha fatto questo di fronte ad una schiera di assegnisti di ricerca (ricercatori a progetto) che indignati sventolavano il loro assegno mensile di neppure 950 euro. "Vi sbagliate!" replicava il signor Modica "prendete molto di più e non ve ne siete accorti!". Forse l'Università Italiana ha problemi più seri di quanto non si pensi se sforna gente che dopo 5 anni di studi universitari, 2 di dottorato e non so quanti di post-doc non è neppure in grado di leggere l'importo della propria busta paga.
La realtà è che non sono disponibili interlocutori in buona fede e che la gran parte degli studenti, così come pure dei cittadini italiani non di centro-destra, è convinta che opporsi ad un governo "di sinistra" sia semplicemente inutile, se non dannoso.
I problemi però restano e le zone di continuità con la politica del governo precedente sono più ampie di quanto non si pensi. Forse non c'è nulla che si possa fare, ma se l'Università prosegue su questa china di declino il Paese intero è condannato ad andargli dietro.
Inutile dire che qualunque richiesta di maggiori dettagli, spiegazioni (in particolare riguardo la connessione con il tema della guerra, che per motivi di brevità ho scelto di non affrontare), chiarimenti o anche repliche ed obiezioni, qualunque sincero interessamento è ben accetto. Andare in televisione pagando il prezzo di non far passare alcun contenuto non è un grande successo».
sofiapiloni@yahoo.it
l’Unità 28.3.07
DOPO LE CONTESTAZIONI
Rc si interroga su quanto accaduto a «La Sapienza». Su Liberazione scrive un leader del ’77 a favore, altri criticano il presidente
Bifo difende Bertinotti, don Vitaliano no...
di Wanda Marra
Il giorno dopo i fischi a Bertinotti alla Sapienza, Rifondazione fa quadrato intorno al Presidente della Camera. Ma non manca chi nelle minoranze del partito cavalca il dissenso, rimarcando il disagio che in alcune anime del Prc è ormai sul punto di rottura.
«A contestare Bertinotti non è stato il movimento pacifista, ma una piccola parte del movimento - spiega Giovanni Russo Spena, capogruppo di Rc in Senato - e quella parte che non si è ancora confrontata con il fatto che in politica sono necessarie mediazioni». E fa anche un’analisi “storica”: «La rottura si è consumata dopo il Congresso di Venezia sulla non violenza. Ma bisogna anche capire il rapporto forte tra i mezzi e i fini. A volte sono più non violenti dei mezzi per raggiungere dei fini». Russo Spena, però, non nega il disagio di «tutti noi, e mio per primo di votare delle missioni militari. Speriamo che con la Conferenza di pace questa sia l’ultima volta». Sottolinea come le contestazioni facciano parte della storia recente del Prc anche il deputato Ramon Mantovani. Mentre il senatore Tommaso Sodano rimarca le «brutte» modalità della contestazione, che definisce «pregiudiziale» e «prevenuta». Nessun timore dunque che una parte dell’elettorato di Rc si stia allontanando dal partito? «Non si tratta certo di un fenomeno di massa, che deve mettere in discussione la nostra linea politica», risponde Sodano. E ribadendo piena solidarietà a Bertinotti anche il capogruppo di Rc alla Camera, Gennaro Migliore fa notare come alla Sapienza non ci fossero che 50 persone.
Ma c’è anche chi dentro Rifondazione non la pensa così. Salvatore Cannavò, leader di Sinistra critica, che si è autosospeso dal partito dopo l’espulsione di Turigliatto, ci va giù duro: «Quella contestazione dimostra la profonda frattura che ormai esiste tra la politica istituzionale, quella del Parlamento per intenderci, e la società. È la frattura tra le ragioni del realismo politico e quelle dell'idealismo Questi ragazzi sentivano dire a Bertinotti no alla guerra “senza se e senza ma” e ora vedono che si mettono se e ma. Le persone che l'hanno contestato sono gente che fino a un paio d'anni fa lo adorava». Una posizione netta quella di Cannavò, che ormai da qualche tempo va dicendo che in realtà esistono due Rifondazioni: una che guarda a un nuovo soggetto anche con chi tra i Ds non entrerà nel Partito democratico, e una che guarda più a sinistra della stessa Rc. La sua non è però la posizione di tutta la minoranza. Claudio Grassi, leader dell’Ernesto, spiega che nella contestazione a Bertinotti sono stati usati termini «inaccettabili», che denotavano la non volontà di dialogo. Anche se rimarca il dissenso sulla missione in Afghanistan. Diverse interpretazioni in alcune figure vicine al partito. «Sono molto solidale con Bertinotti», dice Marco Revelli, uno degli intellettuali di riferimento di Rc, un tempo molto vicino al Presidente della Camera e ora molto critico. Aggiungendo che gli studenti «credono di poter risolvere, tramite fischi e urla, una questione profonda e terribilmente lacerante qual è quella della pace e della guerra». Secondo Revelli, «devono arrivare pensieri e non fischi» per risolvere il «nodo» del dibattito politico che «sulla pace, sulla guerra, sull'Afghanistan e sulle altre situazioni del mondo è molto al di sotto della serietà che sarebbe necessaria. E vedo in tutti i partiti, anche in Rifondazione, poco sforzo per essere all'altezza».
Si schiera nettamente dalla parte dei contestatori, invece, il prete no global, don Vitaliano Della Sala, molto vicino ai Disobbedienti (da dove proviene anche il deputato di Rc, Francesco Caruso) : «Pur di gestire spezzoni di potere, si sono svenduti la propria storia», denuncia, accusando Bertinotti di «aver svenduto sull'altare della governabilità e della poltrona la sinistra cosiddetta radicale, messa all'angolo dal centro moderato e dai Ds». Oggi, infine, «Liberazione» pubblica un articolo di uno dei protagonisti del ‘77 bolognese, Franco Berardi detto Bifo che difende Bertinotti, definendo «ignobile» dargli del guerrafondaio, mentre ricorda che far cadere il governo significa consegnare l’Italia al centrodestra.
Corriere della Sera 28.3.07
I FISCHI ALLA SAPIENZA
di Fabrizio Roncone
Figlia di lotta e madre di governo, lite in casa Mascia: «Vanessa non chiami me e Bertinotti guerrafondai»
ROMA- «Ne parliamo, ma a una condizione: lei deve scrivere subito, proprio all'inizio dell'articolo, che mia figlia è una ragazza intelligentissima e...». Forza, onorevole, aggiunga... «Mhm... deve scrivere pure che è del tutto libera di pensare e di agire, politicamente, come preferisce. Anche se poi quello che ha fatto l'altro giorno, all'università, beh... quello che ha fatto...». Allora, onorevole? «Mi fa incavolare, ma incavolare proprio di brutto».
Parola di mamma. Una mamma pazzesca. Tostissima. Una delle dure di Rifondazione. Graziella Mascia, filo di perle e cuore rosso. Una deputata che ancora parla come una militante. Che torna a casa (lunedì sera) e dice: accendiamo la tivù, vediamo chi ha osato contestare Fausto alla Sapienza.
Vediamo. «Eh... non è stato piacevole, lo ammetto, scoprire che tra i contestatori c'era anche Vanessa». Reazione? «Vuol sapere se abbiamo litigato?». Beh... «No, litigato no. Ma discusso, sì». In piccolo, nel vostro salotto, c'è un dibattito piuttosto simbolico per il partito della Rifondazione. «Simbolico?». Il movimento che vi molla, i giovani che contestano il realismo politico del líder maximo. «Diciamo che io e mia figlia abbiamo valutazioni diverse delle azioni parlamentari compiute, negli ultimi tempi, dal Prc».
Mamma e figlia, non più tardi di un mese fa, sfilavano nelle vie di Vicenza per protestare contro la costruzione della nuova base Usa. Cori e sciarpe. Bellissima coppia. Di lotta e di governo.
Di lotta, lei, Vanessa: la prima occupazione quando aveva 13 anni al liceo Mamiani, qualche spesa proletaria, qualche manifestazione un po' movimentata e poi sempre e ancora politica, anche adesso, a 23 anni, adesso che è studentessa universitaria, facoltà di Scienze politiche a Milano, ma militanza a Roma, nel centro sociale «Esc» («Eccedi, sottrai, crea»), centro sociale non qualsiasi, provocazioni piene di fantasia, un rapporto stretto con gli antagonisti del Nord-est, i quali insegnano che bisogna esserci quando ci sono i fotografi: come, appunto, lunedì mattina, all'università, alla Sapienza. Con Bertinotti che arriva, e con loro, con quelli dell'«Esc» che, spiccato senso mediatico, tempismo nell'azione, attaccano con gli sberleffi.
Di governo, la madre. «Guardi, più che di governo, di buon senso». Sarebbe, onorevole? «La politica è anche mediazione...». Bertinotti, veramente, fino a un anno fa, sosteneva che la politica dovesse cambiare la vita delle persone senza se e senza ma. «Infatti. Solo che ora ci troviamo in una coalizione, l'Unione, dove dobbiamo sempre trovare un equilibrio. Anche su temi importanti come quello della Pace. È grave trovare un equilibrio?». È grave, dicono i vostri giovani, finanziare le missioni militari. «E la conferenza di pace? Non è un'idea apprezzabile? Davvero facciamo sempre così tanti errori?». Fate cose per cui, sua figlia, stava lì con gli altri a strillare contro Fausto Bertinotti. «Buffone!». «Assassino!». «Guerrafondaio». «No, per carità, non stia anche lei a farmi la filastrocca». Seccante, eh? «Fastidioso». Però è ciò che gridavano, e pensavano, quegli studenti. «Guardi, l'ho detto pure a mia figlia: potete legittimamente contestare le nostre azioni politiche, ma non decidere se io sono o no "guerrafondaia". Questo, non lo permetto a nessuno». Neppure a sua figlia? «Neppure a lei».
C'è una madre che cerca comunque di capire le ragioni di una figlia, e c'è una figlia che contesta la madre, la politica della madre e del suo partito. «Non è semplice parlare con chi contesta — spiega ancora Graziella Mascia — ma non vorrei paragoni con i giovani del Sessantotto o del Settantasette. Perché quelli erano giovani che contestavano a prescindere i genitori e ciò che i genitori rappresentavano. Questi ragazzi qui, questa generazione che io chiamo "genovese", perché è dalla drammatica esperienza di Genova e del G8 che vengono, sono diversi. Con noi, insieme a noi, e per anni, hanno sfilato in mille cortei. Per la Pace e contro la guerra, contro Berlusconi, contro gli americani che vogliono costruire basi. Fino a ieri, per capirci, con mia figlia sono andata politicamente molto d'accordo...».
E lei, Vanessa? «Io che?». Perché ha contestato Fausto Bertinotti? «Senti, giornalista. Io non rilascio interviste». Basterebbe anche solo una piccola frase, signorina. «Signorina? Devi spa-ri-re. Capito?».
Corriere della Sera 28.3.07
LA PRECARIA SIMBOLO DELLA PROTESTA
di Paolo Brogi
Annetta l'«urlatrice»: ce l'ho con il suo ruolo, non con lui
L'ATTACCO DELLA RICERCATRICE
Nella foto, Annetta Curcio contesta Bertinotti alla Sapienza. Racconta: ho una borsa annuale di mille euro al mese
ROMA — Annetta torna alla Sapienza, sul luogo del delitto, nel pomeriggio. «Sei la nostra icona», le ripetono mentre va verso l'aula 13 di Scienze Politiche dove c'è un'«iniziativa». È lei, nuova icona del malcontento, la giovane immortalata sui giornali mentre urla qualcosa a Bertinotti.
«Cosa gli ho gridato esattamente non ricordo...», dice. «Ma è importante?».
La chiamano Annetta. «Annetta come?». «Curcio...», risponde e ride.
«Nessuna parentela con quello là».
Infatti viene da Cosenza, laurea in scienze politiche e tesi di sociologia urbana nel '96, dieci anni di «precariato» da dottoranda prima e poi da assegnista di ricerca, tre fratelli a Cosenza pure loro precari.
Annetta ha dunque 35 anni, campa con mille euro al mese di una borsa che finisce tra un anno, ne spende 500 per una stanza al Nomentano. «Ho l'età in cui le donne fanno un figlio — dice —. Ma io che futuro ho? Resto precaria...».
«Se abbiamo gridato assassino, buffone? Sono slogan della fase più concitata — spiega lei —. Lo abbiamo accolto con parole d'ordine più ironiche. Ma non ce l'avevamo con lui, quanto col ruolo che esercita. Con le scelte complessive del centrosinistra.
Avremmo contestato chiunque fosse venuto come sostenitore della presenza in Afghanistan. E poi qui abbiamo già contestato il ministro Mussi. Quello che se non mi danno i fondi, mi dimetto. Però è ancora lì...».
Contestazione a Bertinotti sguaiata e volgare, così il direttore di «Liberazione». «Fantastico. C'è un'intera classe politica che si concentra sullo stile. È evidente che hanno un grave problema di contenuti. Prima di andare al governo eravamo i precari da ascoltare. Ora invece siamo da dimenticare. Saremo una parzialità, ma importante...Se non altro per dire che il re è nudo».
Corriere della Sera on line 28.3.07
«Il parlamentare credente ha il dovere morale di votare contro il pdl»
Dico, i vescovi: «Cattolici tenuti ad obbedire»
Diffusa dalla Cei la nota sulla regolamentazione delle unioni di fatto: i fedeli non possono appellarsi al principio di pluralismo
ROMA - I cristiani sono tenuti ad obbedire al «magistero della Chiesa» e pertanto un fedele «non può appellarsi al principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società ». Lo affermano i vescovi italiani nella Nota diffusa a proposito dei Dico, le nuove norme per la regolamentazione delle unioni civili contenute del disegno di legge dei ministri Bindi e Pollastrini.
«UN UOMO E UNA DONNA» - «Non abbiamo interessi politici da affermare - dicono ancora i vescovi -; solo sentiamo il dovere di dare il nostro contributo al bene comune, sollecitati oltretutto dalle richieste di tanti cittadini che si rivolgono a noi». «Siamo convinti, insieme con moltissimi altri, anche non credenti - si legge poi nella Nota di tre pagine - del valore rappresentato dalla famiglia per la crescita delle persone e della società intera. Ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio, e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna».
«IL NO E' DOVERE MORALE» - Il Consiglio permanente della Cei ricorda un pronunciamento della Congregazione della dottrina della fede del 2003 per ribadire nel caso del disegno di legge sulle coppie di fatto l’appello ai politici cattolici a «votare contro» un progetto di legge «favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali». «Ricordiamo - è scritto ancora nella nota - l’affermazione precisa della Congregazione per la Dottrina della Fede, secondo cui, nel caso di un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge».
28 marzo 2007
Corriere della Sera 28.3.07
STORIA Un saggio di Gianni Scipione Rossi denuncia le contraddizioni del teorico fascista
Evola, i due volti dell'antisemitismo all'italiana
L'alibi «spiritualista» servì a coprire un vero razzismo biologico
di GIOVANNI BELARDELLI
Durante il fascismo furono molti gli uomini di cultura che accettarono la politica del regime contro gli ebrei, spesso vedendo in essa, come ha scritto Renzo De Felice, un'occasione «per mettersi in mostra, fare carriera, fare danaro, per sfogare i loro rancori contro questo o quel loro collega». Furono pochi, però, gli intellettuali che condivisero davvero l'ideologia antisemita, come Julius Evola che, vissuto fino al 1938 abbastanza ai margini del regime, cercò di fondare una «dottrina della razza» diversa, a suo dire, da quella di Hitler perché basata non su elementi «biologici» ma «spirituali».
Eppure nonostante ciò, nonostante Evola sia stato uno dei più convinti antisemiti italiani, proprio a lui ha continuato a guardare dopo il 1945 una parte, minoritaria ma significativa, dell'estrema destra italiana, affascinata dal suo pensiero radicalmente antimoderno, guazzabuglio teorico a base di decadenza dell'Occidente, Tradizione (con la maiuscola), esoterismo, religioni orientali. Ciò è potuto avvenire appunto attraverso la preliminare minimizzazione dell'antisemitismo evoliano, considerato per un verso come una esperienza terminata con il 1945, per l'altro come una teorizzazione che poco o nulla avrebbe avuto a che fare con l'antisemitismo di Mussolini e di Hitler.
Entrambi questi assunti sono efficacemente criticati da Gianni Scipione Rossi, in un saggio dedicato appunto all'antisemitismo di Evola ( Il razzista totalitario, Rubbettino editore). Sulla prima questione, l'autore documenta come Evola non abbia mai preso le distanze, dopo il 1945, dai propri scritti antiebraici, continuando a rimanere fedele a posizioni razziste: ancora nel 1969, in un articolo sul Borghese formulava l'incredibile proposta che gli americani risolvessero il problema razziale sgomberando «dai bianchi uno degli Stati minori dell'Unione per mettervi tutti i negri statunitensi».
Quanto alla seconda questione, cioè alla pretesa evoliana di avere elaborato un antisemitismo solo o essenzialmente «spirituale», e perciò — si sostiene — meno infamante, Rossi la definisce puramente e semplicemente una leggenda, alimentata ad arte dai seguaci, ma priva di qualunque effettiva consistenza. È indicativa, al riguardo, la stessa parabola percorsa da Evola che, partito da un atteggiamento di superiorità nei confronti dell'antisemitismo nazista (non perché antisemitismo, si badi, ma perché fondato su basi teoriche a suo avviso troppo «banali »), avrebbe poi visto nelle SS «una nuova nobiltà politica razzialmente, moralmente e spiritualmente selezionata», destinata a fondare una nuova civiltà.
Per Evola, non esistendo più razze pure, si trattava di valutare gli «incroci» per la percentuale di «arianità» che contenevano; senza alcuna possibilità che gli appartenenti a una razza «inferiore» potessero elevarsi fino a una razza «superiore». Un razzismo dunque, il suo, non meno determinista di quello a sfondo biologico. Del resto, si può ben dire che ogni corrente e ogni tipo di antisemitismo ha sempre preteso di fondarsi anche su elementi «spirituali», sostenendo di colpire gli ebrei sulla base dei valori negativi dei quali li riteneva portatori. Fino al punto, messo di recente in luce da Francesco Germinario in un saggio dedicato all'immaginario antiebraico (sull'ultimo numero della rivista Il presente e la storia), che tanti antisemiti di fine Ottocento mostravano di odiare gli inglesi quanto e più degli ebrei, perché li consideravano appunto la personificazione di quei valori — l'ideologia del profitto, il liberalismo — individuati come la quintessenza «spirituale» dell'ebraismo. Visto in questa luce, confrontato con le tante citazioni di antisemiti che avevano giudicato gli inglesi «più ebrei degli ebrei stessi», appare evidente come l'antisemitismo cosiddetto spirituale di Evola non avesse alcuna particolare originalità.
Del resto, fu Evola che scrisse nel 1937 la prefazione a un concentrato dei principali luoghi comuni antisemiti come i Protocolli dei savi anziani di Sion, il famigerato testo fabbricato anni prima dalla polizia zarista per mostrare l'esistenza di una cospirazione ebraica volta alla conquista del mondo. Vi scriveva tra l'altro: «Fosse pur falso il documento (cioè i
Protocolli), non esistesse pur quella congiura metodicamente organizzata di cui esso parla, resta purtuttavia che essa è come se fosse davvero esistita». All'epoca era già stato accertato che si trattava di un falso, ma questo evidentemente — per Evola come per ogni antisemita — non aveva alcuna importanza.
• Il libro di Gianni Scipione Rossi, «Il razzista totalitario», (Rubbettino editore, pagine 118, e 9), è da oggi in libreria
Repubblica 28.3.07
Bertinotti: bene Casini, ma la coalizione non cambia. Prc: sulle pensioni niente mediazioni con l'Udc
E ora la sinistra teme maggioranze variabili
di GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA - Se hanno baciato il rospo (Lamberto Dini) figuriamoci se non possono abbracciare il principe azzurro (il bel Pier Ferdinando Casini). Fermo restando che la «maggioranza non cambia - avverte Fausto Bertinotti - e deve continuare a fare la maggioranza». Sarà, ma ieri al Senato è stata ammainata la bandiera dell´autosufficienza che Rifondazione comunista aveva impugnato tante volte. Oggi il partito di Franco Giordano (e di Bertinotti) dice di non temere uno spostamento al centro dell´asse del governo. Malgrado il voto dell´Udc. «Non è possibile una politica dei due forni da parte di Prodi. Primo perché i numeri non bastano. Secondo, perché sarebbe il suo suicidio politico», dice il capogruppo di Prc Giovanni Russo Spena.
L´argomento però esiste, ne hanno ragionato a lungo dentro i partiti della sinistra radicale. È vero: i senatori dell´Udc sono 20 mentre ieri la sinistra radicale ha votato da sola contro un ordine del giorno di Calderoli raccogliendo ben 45 voti. Ovvero la sostituzione con i centristi è impossibile. Eppure i nodi della maggioranza allargata, dell´«appoggio esterno non dichiarato» di Casini, come lo chiamano a Prc, potrebbero venire al pettine. «Sulle politiche sociali non possiamo fare mediazioni con i centristi», avverte Russo Spena. Sono le pensioni la vera trincea di Rifondazione, lì non si accettano compromessi. «Oggi non abbiamo varato la politica della maggioranze variabili. Io - insiste Russo Spena - penso che Casini non abbia molti margini di manovra. Berlusconi lo massacrerà dopo il voto al Senato e lui non potrà imporre la sua linea al centrosinistra». Ma la riforma previdenziale è davvero una corda sensibile. «E di queste cose nell´Udc - si sente dire negli ambienti prc - si occupa Tabacci, un uomo vicino alla Confindustria».
Nella Margherita però la lettura è un´altra. Oggi anche i più critici di Dl con la sinistra radicale festeggiano soprattutto la vittoria dell´Unione e la crisi del centrodestra. «Questo è il dato - spiega Enzo Bianco - . Con Casini va bene il dialogo, ma non c´è nessun asse». Il sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti parla invece di «una fase politica nuova. Il voto dell´Udc è molto positivo. Non sostituisce la sinistra radicale, ma ne dovremo tenere conto anche in futuro». E Antonio Polito commenta: «È una situazione ideale. Un governo che sa allargare la maggioranza costringe anche la sinistra radicale a comportamenti più responsabili».
Repubblica 28.3.07
Come trovare l'equilibrio tra ragione e desiderio
di JOAQUÍN NAVARRO-VALLS
Se c´è un pregio nel vivere in un mondo dominato dai media elettronici è che possiamo sapere sempre tutto di tutti. Apparentemente, almeno. È sufficiente fare una carrellata dei programmi televisivi pomeridiani per rendersi conto della totale esibizione che viene fatta di ogni aspetto personale ad un pubblico semplice e in un orario accessibile, senza alcuna inibizione.
Per quanto mi riguarda, non si tratta di lasciarsi andare a superficiali giudizi di disapprovazione verso qualcosa o qualcuno, ma soltanto riflettere su alcuni cliché che guidano l´attuale comportamento collettivo dove il dominio dalle emozioni e dai sentimenti è prevalente se non assoluto. Tanto che si ha l´impressione di assistere ad un ragionare non con la ragione ma con le emozioni e i sentimenti.
Si potrebbe dire che siamo di fronte ad un fenomeno di attualità, se non fosse per il fatto che tali atteggiamenti erano conosciuti bene anche in passato. La cultura greca, culla della nostra civiltà, ci offre un contributo ampio in merito alla questione. La scuola degli Stoici, per esempio, aveva considerato attentamente tutti quei modi di agire propriamente umani che si esprimono in una inclinazione naturale ed irrazionale verso un piacere. Impulsi, passioni, desideri, legati spesso tra loro, nascono dalla tendenza assolutamente fondamentale negli animali a conservare la propria vita e ad ottenere ciò che è necessario per la sopravvivenza della specie.
Nel caso dell´essere umano, però, le cose si complicano. È per questo che le scuole Cirenaiche, celebri per il loro culto dei piaceri, consideravano con molta attenzione e prudenza gli aspetti irrazionali che muovono l´uomo verso l´appagamento incontrollato dei bisogni elementari.
Epicuro affermava, in tal senso, che nel rapporto tra l´uomo e i piaceri subentra un aspetto tutto particolare, definibile con il termine moderno di "inquietudine". Il consumo di un piacere fine a se stesso si traduce quasi sempre in un "turbamento" dell´anima, perché l´uomo, al contrario degli altri animali, è spinto a trovare nel piacere stesso qualcosa di più della mera fruizione temporanea di una sensazione, qualcosa di riconducibile alla sfera spirituale.
Questo tipo di conclusione assomiglia a quella a cui era giunto il poeta simbolista Baudelaire: la sfrenata consumazione di un piacere produce alla fine soltanto una grande solitudine. Mi sembra, tutto sommato, un buon punto di partenza per capire l´uomo di oggi, le sue inquietudini, le sue amarezze. O almeno alcune di esse.
La considerazione degli istinti e dei piaceri non dovrebbe, infatti, accompagnarsi né alla loro condanna, né alla loro esaltazione, ma semplicemente ad una loro valutazione all´interno di un discorso antropologico complessivo, che tenga conto di tutti gli aspetti autenticamente umani, sensibili o intellettuali, emotivi o razionali che siano. Platone, davanti all´alternativa se le soddisfazioni passionali siano un bene o un male, rispondeva sempre con un esplicito "dipende". Perché nell´uomo il raggiungimento degli ideali più spirituali è affiancato sempre dalla dinamica del desiderio e della soddisfazione soggettiva. La cosa importante, in ogni caso, è non perdere la libertà che da la padronanza di sé e si alimenta da motivi razionali e non soltanto da impulsi emotivi.
La peculiarità specifica della persona umana è non soltanto quella di conoscere a che cosa tende ma di valutare il desiderio stesso. Questo distanziarsi dai sentimenti per giudicarli sta tra le cose che distinguono radicalmente "l´homo sapiens" da qualsiasi altra forma di vita, anche quella dei primati più evoluti. Ed è la caratteristica che permette al genus "homo" di diventare persona.
Ogni persona non può limitarsi soltanto a desiderare i cibi che mangia, o ad amare le cose che reputa belle, ma ha un desiderio di conoscere il valore di ciò che ama e di ciò che considera piacevole. Negare questo fatto sarebbe come ritenere che qualcuno potesse amare una persona senza mai averla conosciuta, oppure desiderare di guardare un quadro o di ascoltare una sinfonia senza sapere realmente di che cosa si tratta, che significato possegga, ecc...
È chiaro che il fatto stesso di avere dei desideri per l´uomo non equivale automaticamente a conoscere il valore di ciò che desidera, e, meno ancora, significa sapere perché desidera qualcosa. Ma una volta conosciuto l´autentico valore di una cosa, nessuno di noi sarebbe pronto a sacrificarne il possesso per una cosa ritenuta peggiore. Quando, infatti, ci rendiamo conto che la compagnia di una persona è migliore di quella di un mazzo di carte, è chiaro che preferiamo andare a cena con gli amici, piuttosto che rimanere da soli a fare un solitario.
Certamente, sappiamo tutti quanto sia difficile a volte rimanere razionali davanti alla forza dei desideri, perché questi sono capaci di produrre in noi, se non controllati, una immagine travolgente, distorta e alterata sia della realtà che di noi stessi. Tuttavia, come ha rilevato Spaemann, nell´uomo «gli atti del pensare, del preferire e del volere sono, esclusivamente nell´essere umano e non negli animali, delle variabili indipendenti» con cui è possibile «giudicare» e «guidare» i propri istinti e con cui è possibile anche liberarsi dal loro dominio.
Una visione umanamente equilibrata non può pertanto né fare a meno delle passioni, né farsi trascinare dalle passioni, ma dovrebbe giungere ad una armonia razionale e volontaria di se stessi che permetta di avere dei buoni desideri e dei buoni sentimenti, facendo in modo che le forze istintuali che permettono la sopravvivenza della vita non divengano strumento di distruzione.
Conoscersi è, in definitiva, lavorare sulle stesse tendenze istintive e su se stessi, per convogliare e finalizzare razionalmente la vitalità delle passioni a quanto è giusto volere per essere - sarebbe meglio dire, per diventare - persone umane.
Oscar Wilde, con il suo umorismo, ammetterebbe che questo esercizio è un lavoro quotidiano che può produrre nel comportamento di una persona «sensibili miglioramenti». E a cominciare a sapere qual è il valore delle cose. Oltre al valore di noi stessi.
Repubblica 28.3.07
Apre ad Arezzo sabato 31 marzo
Il monarca della pittura che dominava colore e prospettiva
L´incanto metafisico discende da questo suo lucido e implacabile sguardo da scienziato della visione
Arte e scienza non furono ambiti separati: la sua opera è nutrita delle leggi ottiche sulla rifrazione luminosa
Non fu solo un grande artista ma investigò a fondo la matematica
Insieme ai capolavori una selezione di disegni, medaglie e manoscritti
di PINELLI
Arezzo. Sebbene Piero della Francesca abbia avuto in sorte una vita assai più lunga di quanto mediamente non fosse concesso di vivere ai suoi tempi e abbia inoltre svolto un´attività artistica molto intensa e feconda, il catalogo delle sue opere giunte fino a noi risulta, sfortunatamente, quanto mai esiguo. Se a ciò si aggiunge che parecchie di esse sono affreschi inamovibili o dipinti su tavola che è sconsigliabile spostare dai luoghi in cui sono custoditi, è facile comprendere perché di Piero non sia mai stata organizzata in passato, né potrà esserlo in futuro, una rassegna capace di esibire un cospicuo numero di sue opere autografe. Né fa eccezione, da questo punto di vista, la grande mostra che si inaugura ad Arezzo (Piero della Francesca e le corti italiane, 31 marzo-22 luglio), la quale, tuttavia, anche per l´intelligenza con cui è stata progettata da due grandi studiosi come Carlo Bertelli e Antonio Paolucci, costituisce un´occasione straordinaria per assaporare in tutta la sua grandezza e complessità l´arte di questo «monarca della pittura» (Luca Pacioli), che l´abate Lanzi definì, a giusto titolo, «un de´ pittori da far epoca nella storia».
L´esposizione sapientemente allestita nel museo statale di Arezzo fa infatti dialogare quei pochi capolavori di Piero che è stato possibile ottenere in prestito (il San Girolamo dell´Accademia di Venezia, il Ritratto di Sigismondo Malatesta del Louvre, il Dittico dei duchi di Urbino degli Uffizi, la Madonna di Senigallia) con una folta selezione di dipinti, disegni, medaglie, manoscritti e quant´altro è stato giudicato utile a ricostruire le tappe della carriera di Piero e la trama di intense relazioni che egli seppe intessere in tutte quelle città e corti dell´Italia centro-settentrionale - da Firenze a Roma, da Ancona a Ferrara, da Rimini ad Urbino - , nelle quali agì da protagonista, assorbendo la lezione di artisti più anziani di lui, come Domenico Veneziano, Pisanello, Angelico, Luca della Robbia, Donatello, i maestri fiamminghi, segnandone indelebilmente altri (da Girolamo di Giovanni a Fra Carnevale, da Antoniazzo a Lorenzo da Viterbo, da Melozzo a Giambellino, da Bartolomeo della Gatta a Signorelli), e dialogando alla pari con umanisti e scienziati del calibro di Leon Battista Alberti, Guarino Veronese e Luca Pacioli.
Mai come in questa occasione, tuttavia, la mostra non va interpretata da chi la visita come la meta unica del proprio viaggio, ma come il punto di partenza ed il prezioso viatico di un itinerario che lo porti, innanzi tutto, davanti a quel vertiginoso capolavoro che è il ciclo con la Leggenda della Vera Croce nella chiesa aretina di San Francesco: un´opera il cui restauro, diretto non molti anni fa da Giorgio Bonsanti e dalla compianta Anna Maria Maetzke, può davvero aspirare a quell´aggettivo "miracoloso", che si dispensa fin troppo benevolmente a operazioni conservative assai meno ardue e felicemente condotte. Da Arezzo, poi, il visitatore si recherà nella non lontana città natale dell´artista, quella Sansepolcro nel cui Museo civico potrà ammirare il maestoso Polittico della Misericordia e l´affresco con la Resurrezione, per poi spostarsi nella vicina Monterchi, dove si troverà a tu per tu con l´incantevole affresco della Madonna del Parto.
Dopo di che, perché no?, i più motivati potranno seguire le tracce del febbrile andirivieni di Piero tra Toscana, Umbria, Marche e Romagne, recandosi a Perugia (Polittico di Sant´Antonio), ad Urbino (la Flagellazione) e a Rimini (l´affresco nel Tempio Malatestiano). E qui mi fermo, anche se sarei tentato di segnalare ai tanti che neppure ne sospettano l´esistenza, che a Roma, dove Piero dipinse tante opere purtroppo andate perdute, una ne rimane, seppur ridotta quasi ad una larva, in S. Maria Maggiore, sulla volta di una cappella che per primo Roberto Longhi seppe riconoscere come indubitabilmente affrescata dal grande borghigiano.
Esibendo rari e preziosi manoscritti dei trattati di matematica e prospettiva redatti da Piero, la mostra mette anche nel giusto risalto questo meno noto risvolto della personalità dell´artista: egli non fu infatti soltanto un inimitabile pittore, ma investigò anche a fondo la matematica e, soprattutto, fu un grande studioso di geometria, ottica e prospettiva. Arte e scienza, del resto, non furono mai per lui ambiti separati e non comunicanti: la rappresentazione del mondo che Piero distilla dal suo pennello è filtrata attraverso l´ordito concettuale dei numeri e delle proporzioni, così come è nutrita di scienza prospettica e di leggi ottiche sulla rifrazione luminosa e sui valori cromatici. L´incanto metafisico che emana dalla sua pittura discende da questo suo lucido e implacabile sguardo da scienziato della visione, che traduce il mobile spettacolo della realtà fenomenica in una rappresentazione calma e solenne, severamente impersonale, che tuttavia non è astratta né incapace di cogliere la pelle sensibile delle cose, ma se mai è del tutto disinteressata ad esprimere le passeggere emozioni dei personaggi che ne animano le storie. Ecco perché essi ci appaiono stagliarsi maestosi ed «impassibili come macigni», secondo la mirabile definizione coniata da Berenson per le tre celebri ed enigmatiche figure che giganteggiano in primo piano nella Flagellazione di Urbino.
Una tavoletta, questa, su cui si sono finora inutilmente accaniti gli esegeti che hanno voluto a vedervi a tutti i costi chissà quali messaggi politici, mentre forse altro non è, come ho suggerito in un saggio che ha trovato eco favorevole nel catalogo della mostra, un´abbagliante dimostrazione pratica, offerta da Piero a Federico da Montefeltro, della sconvolgente rivoluzione operata dalla nuova scienza prospettica, che aboliva irreversibilmente le tradizionali gerarchie iconografiche e abitudini percettive, facendo giganteggiare le figure rappresentate in primo piano e rimpicciolendo proporzionalmente quelle dislocate in lontananza, e ciò del tutto indipendentemente dalla loro importanza all´interno del racconto visivo.
In viaggio con Piero
Quella luce che incantò Camus, Huxley e Pasolini
Da Arezzo a Monterchi e Sansepolcro, è ricco l´itinerario che attraversa i luoghi e i capolavori del maestro in un ricco telaio di ascendenze e discendenze
Le aste dei ceri. L´esordio fu assai modesto: allievo di Antonio d´Anghiari, dipingeva le aste dei ceri
Il primo dipinto. È la "Madonna con Bambino" il primo dipinto ora in mostra, già esposto una sola volta nel 1954
Molti scrittori furono folgorati dallo splendore della "Leggenda della Vera Croce". In mostra anche le opere di artisti che lo influenzarono o ne rimasero segnati come Veneziano Signorelli, Perugino e Alberti
Arezzo. Quando Aldous Huxley arrivò davanti alla Resurrezione di Piero della Francesca ebbe una folgorazione: «È il miglior dipinto del mondo», annotò nel suo diario. E Pier Paolo Pasolini fu ispirato dalla Battaglia di Eraclio e Cosroe: «Quelle braccia d´indemoniati, quelle scure/schiene, quel caos... «. Ma l´effetto Piero ha colpito Gabriele d´Annunzio, Albert Camus...
Non è un caso. È Piero della Francesca il fondatore della modernità artistica per il sintetismo prospettico tra forma e colore, come ebbe a teorizzare per primo Roberto Longhi, ed è questa la storia che racconta la mostra Piero della Francesca e le corti italiane, che apre ad Arezzo il 31 marzo nelle sale del museo statale d´arte medievale e moderna. È un´indagine sulla capacità dell´artista di incidere nella cultura del suo tempo, il suo decisivo contributo alla formazione dell´arte ferrarese, umbra, marchigiana. Al contempo l´esposizione è accompagnata da un itinerario che attraversa le sue terre e i suoi capolavori: la città stessa di Arezzo, con il ciclo de La leggenda della Vera Croce che è nella basilica di San Francesco e la Maddalena che è in Duomo; Monterchi, con la Madonna del Parto; Sansepolcro, con la Resurrezione e il Polittico della Misericordia.
Sansepolcro, anticamente Borgo San Sepolcro, è il paesino dove cominciò il percorso artistico di Piero, dov´era nato nel 1412, come dimostrano le ultime ricerche di James Banker e come racconta la prima delle nove sezioni di questa evocazione di un tempo di splendori e di profondi turbamenti. È un viaggio tra i gialli, i rossi, i cieli tersi di capolavori assoluti del maestro arrivati ad Arezzo - il Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta, prestato dal Louvre, il Dittico dei Duchi d´Urbino degli Uffizi, la Madonna di Senigallia della galleria nazionale delle Marche - circondati da un centinaio di opere di artisti che lo influenzarono o che attinsero alla sua lezione: Domenico Veneziano, Fra Carnevale, Pisanello, Leon Battista Alberti, Bono da Ferrara, Jacopo Bellini, Luca Signorelli, Rogier Van der Weyden, Pietro Perugino, Melozzo da Forlì, Antoniazzo Romano, Pedro Berruguete.
È un complesso telaio di ascendenze e discendenze (che Roberto Longhi portò fino a Cézanne), dagli esordi semplici e modesti: uno dei primi pagamenti di Piero, nel giugno del 1431, fu per "dipegnere l´aste dei ceri" della Confraternita dei Laudanesi di S. Maria della Notte di Borgo San Sepolcro. Lavorava con Antonio d´Anghiari, in qualche modo uno specialista di stemmi e stendardi, ma l´anno successivo era già "pittore" e non più apprendista. E già allora probabilmente avviò ricerche prospettiche se è vero, come scrisse il Vasari, «attese Piero nella giovinezza alle matematiche».
A Borgo e nelle sue vicinanze restò a lungo, tra il 1437 e il 1438 probabilmente arrivò a Perugia, a fianco di Domenico Veneziano, insieme al quale lavorò a Firenze dal 1439. Sono date importanti per capire la maturazione dello stile di Piero di cui ad Arezzo viene presentata una Madonna con Bambino, una tavola proveniente dalla collezione Contini Bonacossi ora di proprietà straniera, in Italia esposta una sola volta, nel 1954. È per un gruppo di storici il primo dipinto dell´artista a noi arrivato, ora datato dai curatori, Carlo Bertelli e Antonio Paolucci, 1435, lasciando intuire visite e incontri antecedenti a quelli ormai statuiti e che lo videro, negli anni, oltre che nel capoluogo toscano a Urbino, Pesaro ed Ancona, a Roma e Ferrara, a Rimini e Loreto.
Frenetici spostamenti, pittore davvero "globale", Piero entrò nella piena maturità artistica a metà del XV secolo. Lo testimoniano in mostra il San Girolamo e il Ritratto di Sigismondo Pandolfo Matalesta ("figlio" dell´affresco che eseguì dopo la metà del Quattrocento a Rimini), a Sansepolcro il Polittico della Misericordia, ad Arezzo La leggenda della Vera Croce che l´artista realizzò nell´arco di quattordici anni, dal 1452 al 1466. In questo splendido ciclo colpiscono le scene di battaglia (che richiama una sezione della mostra), quella di Eraclio e Cosroe e quella di Ponte Milvio in cui il paesaggio che si intravede tra le zampe dei cavalli, la tranquillità del quotidiano, si oppone al furore di uno scontro che diventa vittorioso nel momento in cui Costantino protende in avanti la Croce.
Ma è la luce di Piero, chiara, solare, a giocare un ruolo fondamentale in questo affresco eseguito nella fase più matura dell´artista, sopravvissuto a mille ingiurie: dalla costruzione del campanile che insiste sulla zona dominata dal "Sogno di Costantino", il primo notturno della storia, agli incendi che affumicarono gli smaglianti colori della Leggenda. Per ottenere fantastici effetti di luce sui 275 metri quadrati della cappella, al «buon fresco» Piero affiancò una esecuzione a secco e tecniche tipiche della pittura su tavola: usò lacche, pigmenti legati con sostanze grasse. Arrivarono così i verdi, gli azzurri, i rosa, i bianchi delle vesti, che hanno il candore di quella che indossava Giovanni VIII Paleologo, imperatore d´Oriente, che arrivò a Firenze nel 1439 e che probabilmente Piero ammirò quando era insieme a Domenico Veneziano.
È da collocare nel periodo di questo ciclo la Flagellazione, dall´enigmatica e controversa lettura (ma non è stata spostata da Urbino) e, nella seconda metà degli anni Sessanta la Resurrezione di Sansepolcro e la Madonna del parto che è a Monterchi, straordinariamente affascinante nella sua semplicità. All´interno di una volumetria conica di un color rosso cupo appare la Vergine, gli occhi abbassati in segno di umiltà verso la presenza del Figlio, che abita il corpo ingrossato dalla gravidanza sotto la larga veste. Una mano si appoggia al ventre per segnalarne il prezioso contenuto mentre due angeli, che prendono forma dallo stesso cartone invertito, alzano la tenda con un gesto largo e di araldica fissità. Le tre teste sono prospetticamente disposte a triangolo.
Sono invece degli anni Settanta, dell´ultimo periodo, la Madonna di Senigallia, dal volto più squadrato ma anche più dolce dove il dominio dei grigi diventa più intransigente castigando l´effetto coloristico, e il Dittico con i ritratti di Battista Sforza e Federico da Montefeltro, che aveva radunato un cenacolo di cultura "internazionale": accanto a Piero lavorarono Francesco di Giorgio Martini, Laurana, Guido di Gand, Berruguete. È un dipinto segnato dall´estrema finezza della tavolozza e da un paesaggio profondo e chiarissimo, dove le catene dei monti quasi si dissolvono tra terra e cielo. È un ambiente rarefatto, che rende quasi inafferrabile il soggetto, anche se la compostezza imperturbata del Duca porta sul volto tracce che rivelano vicende personali, il suo carattere e la sua interiorità. Il condottiero è presentato di profilo con il cappello calato sulla fronte, di cui è leggibile un breve tratto verticale, e tra fronte e naso compare un brusco salto, quasi un´innaturale interruzione, innaturale perché determinata da una ferita di spada subita da Federico in guerra, e non da un tratto anatomico originario. Il ritratto di Battista, egualmente di profilo è quasi sicuramente posteriore alla sua morte tanto che Adolfo Venturi lo definì "maschera cerea di defunta".
È un capolavoro in cui convivono naturalismo e trasfigurazione, introspezione e componente psicologica del soggetto regolato da precisi rapporti matematici che rispecchiano l´armonia dell´universo. È una sacralità teorizzata da Piero nel De Prospectiva Pingendi (in mostra) dove si spiegano le tre parti della pittura: "disegno, commensuratio et colorare". "Commensuratio" ovvero la misurazione geometrica, proporzionale e prospettica, quasi a sottintendere un´identificazione della pittura con la prospettiva i cui piani sono il luogo d´incontro tra disegno e colore. «E i maggiori lumi che di tal cosa ci siano sono di sua mano...», commentò nelle Vite Giorgio Vasari
È il maestro dei maestri, della luce, di cui fu privato, come in una sorta di contrappasso dantesco, negli ultimi anni di vita. Piero della Francesca morì il 12 ottobre del 1492, cieco. Quello stesso giorno Cristoforo Colombo scoprì l´America. Una delle tre caravelle, la Santa Maria, secondo la tradizione, portava conficcato nell´albero maestro un pezzo di legno della croce di Cristo, argomento trattato dal maestro nel suo capolavoro, La leggenda della Vera Croce, il ciclo che ad Arezzo ancor oggi domina la chiesa di San Francesco.
l’Unità 28.3.07
«Subito il confronto sul futuro de l’Unità»
Ieri assemblea pubblica dei redattori
La Fnsi: non è possibile stravolgere il giornale
Sono sei anni che l’Unità è tornata nelle edicole. E quello di oggi è un compleanno amaro. Molte le incognite sul futuro. «L’Unità è un patrimonio insostituibile e faremo di tutto per difenderne l’identità. Non è possibile stravorgerla, farne un giornale residuale con soli 15 giornalisti», sottolinea Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione della Stampa, aprendo ieri i lavori dell’assemblea pubblica, nei locali dell’Associazione Stampa romana. Dopodomani si riunirà il Cda della Nie, la società editrice del quotidiano. Da qui l’appello di Comitato di redazione, Fnsi e Asr: «Azionisti uscite dall’ombra. Subito il confronto». E Umberto De Giovannangeli del Cdr precisa: «Il giornale vende oggi 54mila copie in edicola. Non poca cosa senza un supporto industriale e d’investimento, mentre le continue richieste di un rilancio sono rimaste lettera morta». Il silenzio dell’azienda è stato rotto solo da mezze informazioni: tra queste, la decisione della Nie di affidare ad una società di consulenza «che non ha mai avuto a che fare con il settore dell’editoria, la Value & Partners, la definizione di un piano industriale ed editoriale. Piano quest’ultimo che invece spetta alla direzione», precisa il Cdr. Insomma, l’Unità è di nuovo ad un bivio: «O c’è il rafforzamento del giornale o c’è un suo ridimensionamento. La via del galleggiamento non è accettabile», conclude De Giovannangeli.
La saletta di piazza della Torretta a Roma, si riempie. Ci sono i giornalisti de l’Unità, le agenzie di stampa, cronisti di altri quotidiani, esponenti del mondo del cinema e dello spettacolo. Arrivano Beppe Giulietti di Articolo21 che «se dovesse servire» si attiverà in Parlamento e apre il sito dell’associazione alla vertenza, Bruno Tucci dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, c’è Silvia Garambois, Fulvio Abbate, Adele Cambria, Bruno Guerra, Giuseppe Campos Venuti... Molti anche gli attestati di solidarietà: Ettore Scola, Dario Fo e Citto Maselli, il gruppo regionale Ds della Toscana. Mentre si cercano le sedie per far accomodare i registi Amedeo Fago, Beppe Gaudino, Isabella Sandi, Giuseppe Piccioni e Antonella De Lillo. Ed è un coro: «Non stravolgere l’Unità».
Serventi Longhi ha ancora il microfono in mano quando entra Ugo Gregoretti. Il regista, giornalista e scrittore ascolta tutto il dibattito, poi tira fuori dalla tasca tre fogli e comincia a leggere: «“Cara Unità”, questa era il familiare appellativo con il quale i tuoi lettori e sostenitori comunicavano con te per esprimerti dubbi, speranze, incertezze, domande e passioni. Aveva un bel suono “Cara Unità”: intimo, confidente, filiale, paterno. Veniva usato da i vecchi militanti e dai meno anziani iscritti da poco al Partito comunista, come me, che vi entrai nel ‘70, a quarant’anni, e mi vergognavo un po’ perchè a fronte dei vecchi compagni di avviata mi sentivo un parvénu(...). Suona bene ancora oggi questo modo di invocare il tuo spazio, forse è un po’ desueto ma poetico, musicale. Chi si sognerebbe mai di scrivere ad altri quotidiani appellandoli “Caro Corriere della Sera” o “Caro Sole 24 ore”! (...). “Cara Unità”, sono passati da allora quasi quarant’anni (...) il Pci non esiste più, anzi esiste ancora ma ormai vuol dire solo “personal computer”; ma l’affezione che nutro per te è talmente profonda da farmi dire: sono e sarò sempre con te».
Riformista Lettere 28.3.07
La nascita del PD
Caro direttore, ho letto con divertito stupore la lettera del compagno Antonio Finelli, la cui memoria sembra denunciare qualche lacuna rispetto alle vicende della politica negli anni che lo hanno visto esponente di spicco del Psi modenese. Finelli non si accontenta di manifestare la sua convinta, legittima adesione al progetto del Pd. A sostegno della posizione congressuale, si avventura nell’ardita ricerca dell’autorevole e nobile sponda di Riccardo Lombardi citato, con ben altra intenzione, in un pregevole intervento di Gigi Covatta, proposto di recente, in bella evidenza, dal “Riformista”. Dopo avere posto lo stravagante quesito sulla compatibilità della militanza lombardiana con il Pd, conclude la corretta rassegna delle scelte politiche compiute dal leader della sinistra socialista con la seguente incredibile affermazione: «Venendo ai giorni nostri, non ho dubbi che di fronte al progetto del partito nuovo, il Pd, lui sarebbe della partita...». L’appartenenza non superficiale alla corrente lombardiana e la conoscenza della storia e del pensiero di Riccardo Lombardi, segnato anche da una forte cultura laica e azionista, mi consentono di ritenere per nulla plausibile il suo ingresso nel Pantheon di Fassino (Gramsci, Berlinguer, Gobetti, De Gasperi, Moro, Don Minzoni, Spinelli, La Malfa, Gandhi, Einstein, Mandela, Luther King, Ernesto Rossi). Finelli dimentica che non gli piaceva il “compromesso storico”. Credo che gli piacerebbe ancora meno, con tutto il rispetto per gli amici diellini, il Margheritone. E, poi, vale sempre la vecchia massima «Scherza con i fanti....».
Pasquino Ferrioli membro della direzione Ds e dell’Associazione “Laburisti” di Ferrara