Un nuovo partito
Caro direttore, sono un ragazzo di 18 anni, in primo luogo mi sento di esprimere un pensiero che certamente risulterà impopolare ai vecchi socialisti di oggi: la mia generazione è estranea agli avvenimenti di Tangentopoli e vuole rimanerne tale. Un ragazzo come me vuole guardare avanti, costruire una casa che sia dinamica. Costruire un nuovo partito, oggi, significa svincolarsi dagli avvenimenti del passato mantenendo però un filo conduttore con quella che è stata la storia del socialismo italiano, da Costa e Pascoli a Craxi e Bobbio. La storia non ha lasciato ai socialisti solo rancore e odio ma soprattutto un bagaglio di postulati che ancora nessuno rivendica e fa proprio. Tali postulati non servono a fondare un nuovo partito ma a rifondare la stessa idea del secolo scorso. Purtroppo noto che la costituente parte con un piede sbagliato: è filtrata tramite i giornali l'idea che la costituente si pone l'obiettivo di riunificare sotto un unico simbolo tutte le etichette socialiste nate in seguito allo scioglimento del Psi. Spero di sbagliarmi ma la gente questo ha capito. L'idea di un nuovo partito socialista, secondo il mio parere, deve nascere dalla ripresa di quei valori e di quei postulati che abbiamo ereditato dalla storia. Per riappropriarsi dell'eredità storica del socialismo italiano e, quindi, per rifondare una nuova casa socialista, bisogna svincolarsi dai vecchi rancori dell'era di Mani pulite: la riappropriazione e lo svincolamento sono strettamente legati fra loro, in quanto lasciare alla storia i vecchi odi significherebbe tornare alla realtà per affrontarla, cioè riacquisire il patrimonio. Per dimostrare che i socialisti sono tornati tali e che sono liberi da vecchi sentimenti bisogna compiere un atto importante: non solo dialogare con gli anti-democratici dei Ds, ma anche con quella parte del Prc che si rispecchia nella figura Riccardo Lombardi e che negli ultimi giorni si sono dimostrati disponibili ad aprire il cantiere di una sinistra rinnovata. È una importante richiesta, non di poco conto, che molti vecchi socialisti non manderanno giù o che, nella peggiore delle ipotesi, non prenderanno assolutamente in considerazione. Ciò che vorrei ricordare, però, ai miei anziani compagni è che in gioco vi è il futuro di una generazione come la mia che altrimenti si ritroverebbe a studiarla solamente la storia dei socialisti e non a viverla in prima persona.
Fabiano Farina Salerno
Il Riformista 22.3.07
DIBATTITO. A PROPOSITO DELL’ORIGINE BIOLOGICA DEGLI ORIENTAMENTI SESSUALI
Se la sinistra ha paura dell'influenza dei geni sul comportamento
di Michele Luzzatto
Il determinismo genetico, seppur accennato, suscita una levata di scudi contro il predominio della scienza nello studio dei caratteri umani. Ma la ricerca si occupa proprio di individuare i fattori che concorrono al manifestarsi di un fenomeno, anche di coming out
È evidente che qualcosa di profondo si è rotto tra parte della sinistra e il mondo della scienza, in particolare della genetica. Probabilmente va letto in questa chiave anche il dibattito sull'origine biologica degli orientamenti sessuali ospitato dal Riformista nelle ultime settimane.
La miccia la accende, incolpevole, Anna Meldolesi con un articolo ironico, tutto sommato non troppo impegnativo, sul tema dei gay e della genetica. Evidentemente però tocca un paio di nervi parecchio scoperti perché ne segue una fiumana di interventi. A più riprese sulle colonne di questo giornale e altrove si alza il tiro. Tra dotte argomentazioni neoplatoniche, psicologismi d'antan e accuse di neonazismo o giù di lì, molti dicono la loro. Ormai ci siamo abituati, lo aveva già scritto tempo fa Armando Massarenti sul Sole 24 Ore: la “reductio ad hitlerium” è un topos inevitabile. Se fai appena cenno a un pur limitatissimo determinismo genetico, o anche solo all'esistenza di materiale genetico la cui presenza correla con certi comportamenti, ecco che salta fuori qualcuno che dice che l'eugenetica nazista è cominciata così. Anche solo accennare al fatto che l'uomo sia un rappresentante del Regno animale e che può pertanto essere compreso in termini biologici fa gridare al predominio della scienza e alla sinistra che ha perso il suo vitale senso di egualitarismo.
Peccato che la genetica umana faccia esattamente questo tutto il giorno. Allora che dobbiamo fare? Mettiamo fuori legge i laboratori di genetica?
I genetisti analizzano una caratteristica, cercano di isolare e neutralizzare meglio che possono gli effetti ambientali e focalizzano la loro attenzione sugli agenti interni, che certi signori in camice bianco per comodità chiamano “geni”. Raramente si trova “un” gene responsabile, e ancor più raramente si riesce addirittura ad isolarlo, comprenderne il raffinato comportamento molecolare, l'azione biochimica e infine il risultato macroscopico, e questo per molte ragioni. La prima e più banale è che in sostanza i geni non sono quella catena di montaggio di caratteri che ci viene descritta da certa cattiva divulgazione. Il DNA si sta caratterizzando come una cosa sempre più fluida, dai confini incerti, immersa in un apparato cellulare che “fa” un sacco di altre cose, con altri tipi di molecole, dall'RNA alle proteine. Ma questo non dovrebbe trarre in inganno: la genetica non è certo morta, è solo progredita e si è fatta ancora più affascinante. Oggi si usa una buona dose di statistica, si isolano i fattori interni e si cercano correlazioni. Quando si trovano, si restringe il campo di indagine: può durare anni di duro lavoro di laboratorio, e se va bene si riesce in effetti ad identificare uno dei fattori (non “il” fattore) che probabilmente concorre alla manifestazione di un certo fenomeno. Qualsiasi fenomeno: la predisposizione al tumore alla prostata, il colore violetto di un petalo o la probabilità di sviluppare un comportamento che in piena sincerità, guardando dentro se stessi, si decide con una spesso sofferta operazione di coming out di definire “gay”. Si badi che ho usato termini prudenti (“probabilmente”, non “sicuramente”; “concorre alla manifestazione”, non “causa”) non per timore, ma perché la ricerca scientifica fa così: non dichiara come le cose stanno nella realtà, ma suggerisce cosa la ricerca reputa più probabile dato lo stato attuale delle conoscenze. E, per ora, il metodo funziona benone.
Una volta messo in chiaro questo, resta da capire perché una parte della sinistra preferirebbe che i geni non avessero alcuna influenza sugli orientamenti sessuali e sui comportamenti umani in genere. Tra tutti gli interventi del dibattito in corso ne scelgo uno, pubblicato il 16 marzo tra le lettere alla redazione, proprio per la sua chiarezza. Lo firma Isabella Faraoni, che risponde alla risposta alla risposta alla risposta alla Meldolesi (almeno credo, ma potrei aver perso il conto). Il bersaglio è la ricerca di ogni base genetica a qualsivoglia comportamento umano, bollata come «impostazione deterministica». Cito per esteso: «Personalmente anch'io sono “di sinistra” e mi piace condividere l'impostazione di una nascita uguale per tutti gli esseri umani, le differenze saranno nella capacità di immaginare e nel pensiero. Realtà psichica che ha origine da una realtà biologica che si trasforma senza essere più riducibile a elementi materiali». Se ho ben capito, la prima parte della frase sostiene che se io non penso che l'intera umanità sia costituita da una sorta di immenso clone di sei miliardi di gemelli monozigoti allora sono di destra. Quanto alla seconda parte, tenderei a pensare che sia il frutto di un taglio redazionale. Tuttavia, credo significhi che la cultura ha sì una base materiale, ma poi acquista chissà come un'anima e si mette a vagare, eterea, dalle parti del Vaticano. Però è di sinistra.
Corriere della Sera 22.3.07
Società liquida, politica e città
LE PAROLE CHIAVE DEL XXI SECOLO
di Zigmunt Bauman
Oggi e domani, alla Facoltà di Architettura e Società del Politecnico di Milano (via Ampere 2, Aula Rogers, dalle 9.30) si svolgerà il Convegno internazionale «Architettura e Politica». I lavori saranno introdotti dal rettore, Giulio Ballio. È previsto anche un contributo del sociologo Zigmunt Bauman, di cui anticipiamo una parte.
Quando, al primo erompere dei tumulti rivoluzionari in Francia, venne proclamato lo slogan Liberté, égalité, fraternité esso racchiudeva la dichiarazione essenziale di una filosofia di vita: in un'unica espressione si fondeva la direttiva ideologica al grido di battaglia. La felicità è un diritto umano e la ricerca della felicità è una propensione umana universale, questo diceva il tacito e pratico presupposto della filosofia della vita. E per raggiungere la felicità, gli esseri umani dovevano essere liberi, uguali e fraterni. (...) Due taciti presupposti assiomatici sottendevano questo progetto tripartitico. Nel programma di «libertà, eguaglianza e fratellanza» era implicito che era dovere della società instaurare e agevolare le condizioni più propizie alla ricerca della felicità così compresa... L'altro presupposto, tacito eppure accettato come assioma, era la necessità di condurre la battaglia per la felicità su due fronti. Mentre gli individui dovevano acquisire e sviluppare l'arte della vita felice, i poteri che plasmavano le condizioni, grazie alle quali quell'arte poteva praticarsi efficacemente, dovevano essere essi stessi rimodellati per diventare più «favorevoli ai praticanti ». (...) Tuttavia, sono proprio questi presupposti del legame intimo e inscindibile tra la qualità della società e le possibilità dell'individuo di raggiungere la felicità, ad aver perso, o logorato, il loro appiglio assiomatico sul pensiero popolare, come pure sui prodotti di questo riciclaggio sublimato dall'intelletto. Ed è forse per questa ragione che le condizioni presunte di felicità individuale sono state trasferite dalla sfera della Politica (con la P maiuscola) sopra-individuale verso il territorio della politica dell'esistenza, di pertinenza individuale, ipotizzato come il campo delle azioni primariamente individuali nel quale si esercitano principalmente, anche se non esclusivamente, le risorse appartenenti a ciascun individuo e da esso gestite in autonomia. Questo spostamento riflette i cambiamenti nelle condizioni di vita, che risultano dai processi fluidi della modernità nel campo della liberalizzazione e della privatizzazione, ovvero «sussidiarietà», «terziarizzazione», «outsourcing» o, in qualche altro modo, rinunciando agli elementi successivi delle funzioni fino a quel punto esercitate dalle istituzioni sociali. La formula che attualmente emerge per lo scopo (immutato) della ricerca della felicità, si potrebbe esprimere con i termini di «sicurezza», «parità », «rete». «Sicurezza» è il nuovo valore che sta estromettendo quello di libertà... I rischi che comportano l'individualizzazione e la privatizzazione della ricerca della felicità — abbinati al graduale scompaginamento delle misure di sicurezza concepite, attuate e gestite dalla società, e dalla scomparsa progressiva dell'assicurazione sociale contro i possibili tracolli della vita — si sono dimostrati enormi, e la conseguente incertezza, assillata da mille paure, addirittura sconfortante. Una vita intessuta di qualche certezza e sicurezza in più, anche se pagata in cambio da una minore libertà personale, di colpo è apparsa più interessante e seducente.
Nell'attuale costellazione di condizioni di una vita decente e gradevole, la stella della «parità» brilla sempre più fulgida, mentre sbiadisce quella dell'uguaglianza. La «parità» non è affatto, e ci tengo a dirlo, «uguaglianza»... L'idea di innalzare il livello generale di ricchezza, benessere, agi e aspettativa di vita, e ancora di più l'idea di una uguale condivisione tanto della vita comune, quanto dei benefici che quella vita ha da offrire, sta scomparendo dall'agenda dei principi basilari e degli obiettivi realistici della politica.
Sempre di più, tutte le forme della società moderna fluida si adattano ad accettare la permanenza della disuguaglianza economica e sociale. La visione di condizioni di vita uniformi e condivise universalmente viene sostituita da quella della diversificazione illimitata per principio, e il diritto all'uguaglianza dal diritto di essere e di restare diversi, senza per questo vedersi negare dignità e rispetto. (...)
I nfine, la «rete». Se la «fratellanza» comportava una struttura preesistente che predeterminava e predefiniva le regole sulle quali era impostata la condotta, gli atteggiamenti e i principi dell'interazione, la «rete» non ha una storia pregressa: nasce nel corso dell'azione e si mantiene in vita (o piuttosto viene ricreata/risuscitata continuamente e a ripetizione) soltanto grazie ad azioni comunicative successive. A differenza di un gruppo o qualsiasi altro genere di «entità sociale», la rete è attribuita all'individuo e focalizzata sull'individuo, poiché l'individuo focale, il suo fulcro, ne è la sua parte precipua, permanente e inamovibile. Ciascun individuo porta la sua rete unica e individuale sul suo stesso corpo, come le chiocciole si portano dietro il guscio... L'aspetto più importante delle reti resta tuttavia la straordinaria flessibilità del loro campo d'azione e l'eccezionale facilità di modifica della loro composizione: gli individui vengono aggiunti o eliminati a piacimento, con il semplice gesto con cui si aggiunge o si elimina un numero di telefono dall'elenco del cellulare... In netta opposizione ai «gruppi di appartenenza», ai quali si è assegnati o ci si associa per scelta personale, le reti offrono ai loro proprietari/gestori la sensazione consolatoria (anche se alla fin fine irreale) di controllo totale e incontestato sui propri obblighi e responsabilità.
© Zygmunt Bauman Trad. Rita Baldassarre
Corriere della Sera 22.3.07
Nel suo nuovo libro Eric Hobsbawm riflette sulla nascita e caduta delle superpotenze
L'ultimo Impero
Roma antica, Unione sovietica e Stati Uniti Il tramonto comincia da una crisi interna
di Luciano Canfora
«Ritenendo di non essere in grado di opporsi agli americani, alcuni preferiscono unirsi a loro. Altri, pur odiando l'ideologia che sta dietro al Pentagono, scelgono di sostenere il progetto americano convinti che, una volta messo in atto, esso riuscirà ad eliminare ingiustizie locali e regionali». Alla luce di questa diagnosi sostanzialmente esatta, Eric Hobsbawm, nel suo recentissimo Imperialismi (Rizzoli, pp. 80, e 9) composto di tre saggi tra loro ben coerenti, lancia una efficace, e forse inedita definizione del fenomeno più importante del nostro tempo: «Imperialismo dei diritti umani». E parla anche di «coalizione al potere», ridotta ormai a due soli soggetti: gli Stati Uniti e l'ex grande potenza britannica. Ma una tale assunzione di «responsabilità mondiale», da cui si è «smarcato» l'ex-fedelissimo satellite turco, non può durare ancora per molto, sostiene Hobsbawm. Tra l'altro ai cittadini degli Stati Uniti piace sempre meno che il proprio governo mandi a rotoli l'economia pur di assolvere al ruolo di gendarme planetario. E comunque, nota Hobsbawm — e questo gli sembra l'argomento principale —, «l'unica cosa assolutamente certa» è che anche l'impero americano «sarà transitorio come tutti gli altri imperi».
A sostegno di questa profezia, lo storico inglese adduce l'argomento già adoperato da Giovanni Paolo II nel giorno stesso in cui scattava l'attacco all'Iraq (aprile 2003), ma censurato da tutta la stampa e dai notiziari di maggiore ascolto, in Italia e all'estero: che cioè «tutti gli imperi precedenti sono caduti». La censura inflitta ad un pontefice un tempo prediletto in Occidente, e a giudicare dal libro di Carl Bernstein ( Sua Santità,
Rizzoli) interlocutore diretto della Cia al tempo di Solidarnosc, merita di essere qui rievocata. L'attacco all'Iraq scattò nei giorni di Pasqua. In occasione della processione (che si svolge di venerdì) in cui il Papa trasporta, per un tratto, sulle proprie spalle, la croce, giunto davanti al Colosseo — simbolo omicida dell'imperialismo dell'antica Roma — Giovanni Paolo II si fermò, e parlò col consueto vigore profetico potenziato dal suo esotico italiano, e disse additando l'orribile edificio: «Anche l'impero romano alla fine cadde!». Da poche ore le bombe «intelligenti» di Bush avevano incominciato a devastare Bagdad. L'allusione era inequivocabile. E l'imbarazzo fu tale che soltanto un notiziario radio alquanto antelucano diede conto di quelle parole, laddove i giornali — grandi, meno grandi, piccoli — cancellarono la frase.
Una valutazione del genere si può pronunciare nel vivo di un dramma storico nel suo pieno svolgersi — fu il caso di Wojtyla —, o invece con la sovrana olimpicità dello storico che contempla lo snodarsi dei secoli, o dei millenni, come è il caso di Erodoto, nel proemio delle sue Storie. Lì serenamente osserva Erodoto come, nel corso dell'inesorabile scorrere del tempo, «città che erano grandi diventarono piccole, e viceversa». Lui veniva dal mondo persiano, e sapeva come Creso era finito nella rovina e come Ciro era salito ai vertici del potere mondiale (dell'epoca), e anche come Serse aveva perso la sua «grande armata» alle prese con l'intelligenza e la flotta della «piccola» Atene. E mentre scriveva quelle parole già vedeva profilarsi la decadenza di un altro impero, quello che Atene aveva costruito a partire appunto dalla vittoria sui Persiani trasformatosi poi, come ben sapeva Tucidide, in «tirannide». Hobsbawm parla, in queste pagine, alla maniera di Erodoto e prevede la fine della attuale guerresca pax americana (ben più guerresca della pax augusta) richiamandosi all'ecatombe di imperi, coloniali e non coloniali, di cui è punteggiata la storia del Novecento. Ma non sarà troppo indulgente, il «grande vecchio» della storiografia europea, verso il criterio affascinante, indispensabile e pur insidioso dell'analogia? Categoria, o «forma a priori» della conoscenza storica, l'analogia rischia talvolta di appannare la necessaria vigilanza dello storico, proteso a cogliere invece la differenza.
Proviamo a guardare, appunto, le differenze. Per vari aspetti, il caso degli Stati Uniti è unico rispetto a tutti gli imperi conosciuti, almeno per una ragione non secondaria. Tutti gli altri imperi furono territorialmente vulnerabili, gli Usa lo sono molto meno, o forse per nulla. Sembrava ai Greci inattingibile l'impero persiano, che pur dopo lo scacco di Salamina era divenuto il vero regista (come ricorda con crudo realismo Demostene) della politica greca. Eppure Filippo e soprattutto Alessandro, suo figlio, dimostrarono che poteva essere attaccato in profondità e crollare in pochi anni. Roma nonostante l'abilità nel cooptare le élites dei popoli conquistati e nonostante il sistema difensivo-offensivo del limes, fu presa e dovette profondamente mescolarsi con i «barbari» straripanti e conquistatori. E la lista potrebbe proseguire, fino all'impero britannico la cui fine fu solo ritardata nel '18 e poi nel '41, e fino a quello sovietico i cui missili a lunghissima gittata puntati oltre Oceano furono resi vani dall'implosione del sistema.
Diversamente dagli altri imperi, gli Usa sono anche un continente, giacché il controllo della Latino-America non sarà prevedibilmente incrinato né da Lula né da Chavez. Inoltre gli Usa hanno tuttora un controllo «militare» sui prezzi delle materie prime mondiali. Infine non possono subire attacchi efficaci né da eserciti invasori né da terroristi. Emblematica la nullità, sul piano militare, dell'11 settembre, e significativa al contrario la capacità dimostrata dagli Usa di sfruttare politicamente il panico derivatone.
È ovviamente azzardato lanciarsi in profezie dopo l'ecatombe di profezie storico-politiche prodottasi nel XX secolo. La meno inverosimile è forse quella prospettata da Toynbee nel lontano 1952, quando mise in luce che l'impero di Roma si era progressivamente disgregato perché i ceti dirigenti avevano via via perso fiducia nei propri destini imperiali e si erano lasciati pervadere da altre «spiritualità». Insomma l'inversione di tendenza verrà più probabilmente da una crisi di fiducia nei propri valori da parte di chi sta al vertice dell'impero. Per ora invece quei gruppi dirigenti sembrano aver fatta propria un'interessante variante della versione più radicale dell'ideologia avversaria, quella della «rivoluzione permanente», o, se si vuole, dell'«esportazione del socialismo» (oggi dell'occidentalismo) fallita molto presto e definitivamente archiviata dall'ipotesi, di ripiego, del «socialismo in un Paese solo». Quando si spegnerà il «fondamentalismo occidentalista» che oggi domina la parte più forte e aggressiva dell'Occidente si ricomincerà a comprendere che le differenti parti del pianeta potranno convivere, solo se sarà loro consentito di vivere «iuxta propria principia».
Corriere della Sera 22.3.07
Malinconia
Fede e sesso ai tempi dell'«umore nero» Sulle labbra di Cléo, l'ombra del disincanto
Ha percorso tutta l'arte dell'Occidente diventando una cifra della Modernità Una mostra a Verona esplora da sabato questo stato d'animo
di Claudio Magris
Nella Malinconia di Dürer, ha scritto Walter Benjamin, «gli arnesi della vita attiva se ne stanno inutilizzati al suolo, oggetti di un vano rimuginare». Per il malinconico, le cose sono enigmatiche, irrelate, ognuna isolata in se stessa, prive di autentico significato, perché egli non le guarda con quell'affettività, quel desiderio, quella confidenza che danno loro calore e le rendono familiari, amiche delle mani che le toccano e le lavorano, elementi della vita — come le stagioni, nel cui ripetersi ci si può inserire con armonia, mentre per il malinconico esso è solo un inutile sfiorire e svanire.
La malinconia — osservava Goethe — è l'incapacità di amare la ripetizione che scandisce la nostra esistenza (le stagioni, il giorno e la notte, le incombenze e abitudini quotidiane, il succedersi delle generazioni) e di godere le innumerevoli e sorprendenti variazioni che ogni apparente ripetizione giornaliera, in realtà sempre nuova e avventurosa, contiene. La malinconia percepisce invece lo scorrere e il ripetersi come un'infinita monotonia, lo stillare di secondi e minuti sempre uguali nel vuoto.
La malinconia è una tristezza che non sa precisare il proprio oggetto e la propria causa; avverte intensamente la perdita di qualcosa senza poter dire di che cosa. Ha a che fare con l'accidia, con l'oziosa e compiaciuta mancanza di desiderio, di progetto, di azione, è dunque vicina al peccato e al vizio, anzi ad uno dei vizi capitali. Lo sapevano i monaci medioevali che venivano messi in guardia dalla tentazione dell'«acedia», dalle lusinghe della depressione malinconica, che il Nemico insinuava loro nella spossatezza dell'ora meridiana, che fiacca le energie e stimola fantasie perverse. La malinconia non solo non può definire la mancanza di cui soffre, ma nemmeno vuole farlo, perché si compiace e si nutre di quella perdita indefinibile e della sua indefinibilità, si crogiola del proprio voluttuoso tormento; il tormento non vuole elaborare il lutto, bensì protrarlo senza limiti. Il malinconico è anche un falsario, diceva Kierkegaard, secondo il quale era la perdita di Dio ossia di un valore centrale e unificante a impedire di vedere la connessione significativa delle cose, il senso e l'unità della vita, e a indurre alla malinconia.
Per i monaci questa era un peccato, che implicava pure la sessualità; una sessualità indistinta, un pulviscolo di pulsioni che riluttano a determinare il proprio oggetto, a indirizzarsi a una scelta forte e precisa, e si aprono con ciò alla seduzione del perverso, di cui la malinconia — come testimonia, attraverso i secoli e soprattutto nella modernità, tanta grande letteratura — è un'esperta maestra e iniziatrice.
L'eros e la fede, le due esperienze radicali dello scandalo di esistere, sanno molto bene cosa sia la malinconia, quell'«umore nero» che, secondo gli antichi, il corpo di qualcuno secerne più di quello di un altro, determinando il suo temperamento. Questa vecchia teoria contiene una grande intuizione, non a caso elaborata dal pensiero antico, sebbene pure le grandi religioni — diceva Chesterton — siano caratterizzate da un «genuino materialismo»: il rapporto o meglio l'identità di ciò che chiamiamo spirito e di ciò che chiamiamo materia, due facce della stessa medaglia, la passione per una persona amata indistinguibile dall'espressione che essa stampa su un volto e dal meccanismo psicofisico che forma quell'espressione, che è quell'espressione. La fede che, come sta scritto, smuove le montagne, è un'energia, un modo di essere di tutta la persona.
Perciò Singer, in un suo romanzo, scrive che «l'abbattimento è a un passo dal diniego» — della vita, del suo significato, di Dio. La tradizione ebraica — specie quella orientale chassidica — ha condannato la malinconia quale perdita di fede che esaurisce la vitalità, l'eros, e ha celebrato il valore religioso dell'allegrezza, del sesso, del riso quale imperturbabile resistenza alla distruzione, come rivelano tante indimenticabili storielle ebraiche, esilaranti pur nella tragedia. Si racconta che il santo e pio rabbi David di Lelow dicesse in punto di morte: «Io rido di Dio, perché ho accettato il suo mondo com'è».
Anche se ha radici antiche e implicazioni religiose, oltre ad un'inseparabile dimensione clinica, la malinconia è soprattutto una categoria, un modo di essere, una poesia del Moderno, che nasce segnato dalla consapevolezza di un peccato originale, di una perdita indefinibile — non di Dio ma forse della «vita vera», o meglio del sentimento di poterla attingere. Forse nessuno l'ha espresso come Baudelaire, il Dante del Moderno, con la malinconia della metamorfosi di Parigi nei «Fiori del male», ma quasi tutta la letteratura europea degli ultimi due secoli ne è pervasa. Essa è marcata dall'incalzare della temporalità, del tempo il cui scorrere nel nulla è disillusione, come nell'«Educazione sentimentale» di Flaubert e in tanti altri capolavori (narrativi, poetici, e negli ultimi decenni soprattutto saggistici) che devono la loro grandezza all'intensità con cui hanno rappresentato, analizzato e fatto sentire la malinconia della vita, tema fondamentale di tutte le arti, dalla pittura alla musica.
La malinconia non è solo depressione psichica o tristezza tortuosa e morbosamente accarezzata. La fugacità e l'imperfezione della nostra vita ne fanno una corda fondamentale dell'animo, anche di chi vorrebbe assomigliare piuttosto al rabbi David di Lelow che ai monaci inclini al demone meridiano. Nessuna vita e nessuna poesia della vita possono ignorare la malinconia, la caducità del tempo che passa, ciò che sempre manca in ogni felicità e in ogni amore anche felice, il corrompersi delle cose e dei sentimenti anche più puri, il disincanto, l'incessante alterarsi e svanire. L'amore, ha scritto Charles- Louis Philippe, è tutto ciò che non si ha; questa mancanza può essere vissuta non necessariamente con voluttà masochista, ma con un senso forte — classico, antico — dell'inevitabile scompenso che c'è fra il cuore ed il mondo, così come per il teologo Romano Guardini la malinconia è il senso di un'insufficienza terrena che può portare a Dio. Non c'è incanto senza consapevolezza e non c'è consapevolezza senza malinconia. Un secolo fa un cultore di fisiognomica, descrivendo la bellissima bocca di Cléo de Mérode, grande attrice e grande amante, notava che, col passare degli anni, intorno a quella bocca si era disegnata come un'ombra di malinconia. Forse, così, era ancora più bella.
l'immagine: Henri Füssli, «Solitudine», 1774-96, in mostra a Verona
Corriere della Sera 22.3.07
Al Settimo Cielo da Botticelli al nuovo Millennio
A Verona 200 opere su un sentimento cullato già nelle corti rinascimentali
Botticelli e Pontormo, Giorgione e Lotto, Tiziano, Tintoretto, Caravaggio e poi Bocklin e De Chirico, Modigliani e Carrà, Funi, De Dominicis e Barni. Sono soltanto alcuni dei grandi protagonisti della storia dell'arte i cui capolavori verranno esposti dal 25 marzo negli spazi di Palazzo della Ragione a Verona, recuperati all'antico splendore dall'intervento di Tobia Scarpa.
Artisti lontani per temperamento e formazione, legati dal filo sottile di uno stato d'animo che nei secoli li ha accomunati: quell'intreccio di meditazione malinconica e amore ideale alla base della creatività e della moderna sensibilità. Quel luogo dello spirito che Dante ha voluto posizionare nel Settimo Cielo, il Settimo Splendore delle anime contemplative, dei filosofi, degli artisti più ispirati e geniali.
«Alcuni aspetti della malinconia sono sempre attuali, ci coinvolgono da vicino anche se vengono da lontano. E' stato infatti Aristotele, per primo, a parlarci della malinconia come del presupposto della genialità, della capacità inventiva che investe tutti i campi della creatività», dichiara Giorgio Cortenova, direttore della Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Forti e curatore della mostra.
«E oggi attraverso oltre 200 capolavori di più di 100 artisti, opere su tavola, tele di grandi dimensioni, pale e preziosi schizzi, come il Volto Virile
di Michelangelo, vogliamo sottolineare — aggiunge — aspetti ancora inesplorati di una malinconia intesa come forza innovatrice e rivoluzionaria, rivendicandone addirittura la paternità italiana. Mentre nelle potenti corti europee, infatti, i malinconici venivano guardati con sospetto, considerati potenzialmente pericolosi e destinati alla clandestinità culturale, nei colti ma fragili staterelli d'Italia, come quello di Lorenzo de' Medici, la musa malinconica ha creato alcuni dei suoi più grandi capolavori. E a Venezia le opere più straordinarie vedono la luce quando il potere della Serenissima si avvia al declino».
È un percorso affascinante e insolito quello che conduce lungo le varie sezioni della mostra, dove le opere sono esposte per temi, accostate non solo in ordine cronologico, ma anche per analogia o dialettica. Ad aprire la rassegna è Botticelli con quella Giuditta dallo sguardo che vaga all'indietro, senza ombra di trionfo sul volto stupendo. Pittore malinconico, consapevole delle certezze ormai perdute del classicismo, appare anche Rosso Fiorentino con la Pala di Villamagna dove l'equilibrio della forma appare alterato dalla crisi del proprio tempo e così anche Giorgione con il suo Ritratto di giovane o il Moretto, che nell'opulenza di broccati, merletti e tendaggi del Ritratto di Federico Martinengo vede una possibile sicurezza contro un'identità borghese in pericolo. Ma la riflessione malinconica non si ferma. Sospinta da nuove tensioni psicologiche continua il suo cammino, attraversa l'età dello spleen e di quel nuovo dandysmo dal cinismo solo apparente, della solitudine metafisica, della riscoperta del magico e dell'esoterico, dello spiritualismo. Per approdare infine agli ultimi, e sempre splendenti, traguardi creativi dei giorni nostri.
Corriere della Sera 22.3.07
La malinconia scaturita da disturbi psichici ha prodotto una pittura visionaria che ha affascinato tra gli altri Paul Klee e André Breton
Genio e follia, quel viaggio alle fonti della creatività
di Giorgio Bedoni
Un campo aperto e dai confini mobili: così si configura, ad un primo sguardo, l'espressione artistica che nasce dal disagio e dalla sofferenza psichica, luogo assai frequentato dalla riflessione psichiatrica e dalle sperimentazioni delle avanguardie artistiche del Novecento. Un argomento, questo, che si presta a una serie di considerazioni di carattere storico, culturale e terapeutico: si tratta infatti, di un'arte necessaria che investe le sfere più intime e segrete. Un'arte, quella dei malati, che nelle sue declinazioni malinconiche sfugge a rigide descrizioni psichiatriche, connotandosi invece come testimonianza di naufragi individuali e, talvolta, di tragedie collettive, come avevano compreso già negli anni Venti psichiatri di lingua tedesca come Hans Prinzhorn e Walter Morgenthaler. Opere, dunque, che nascono dalla perdita e dal trauma, malinconiche eppure temperate da una velata ironia, come nei casi esemplari del veronese Carlo Zinelli e dello svizzero Adolf Wölfli, autori in cui la sensibilità visiva assume tinte visionarie dando vita a mondi autenticamente «altri».
Una rapida incursione in questo ambito disciplinare ci permette di incontrare parole chiave, umori e coincidenze che già individuano una storia: stupore e fascinazione, come nelle parole di fine Ottocento dello psichiatra francese Emile Tardieu, ma anche il pregiudizio di inizio secolo che anticipa gli orrori dell'«arte degenerata», Entartete Kunst edel nazismo, cui non sfuggono le creazioni artistiche provenienti dagli asili manicomiali.
Queste opere susciteranno sin dai primi del Novecento l'interesse di intellettuali e artisti: di Breton e di Eluard, di Ernst e di Rilke, di Paul Klee e, nel secondo dopoguerra, di Jean Dubuffet e della nascente Compagnie de l'Art Brut. I questo repertorio Breton scorgerà in azione i principi dell'«automatismo psichico». Gli ingredienti c'erano tutti e in grande abbondanza, tali da soddisfare ogni aspirante surrealista: sogno e discordanza, gioco e deriva poetica, quel gioco valorizzato attraverso la pratica collettiva del cadavre exquis, del cadavere eccellente, che genialmente rimetteva in campo le energie e gli umori, ma anche le nostalgie dell'esperienza infantile.
Già nel 1912 Paul Klee, in occasione della prima mostra del movimento artistico Der Blaue Reiter alla Galleria Tannhauser di Monaco, aveva pubblicato un articolo sulla rivista Die Alpen individuando nelle culture «altre», nei disegni dei bambini e in quelli dei malati mentali le sorgenti della creatività. In quel famoso scritto Klee accosta forme d'espressione ritenute generalmente marginali, o quanto meno inusuali, all'arte nelle sue fonti originarie e individua nell'esperienza onirica e nello sguardo infantile i presupposti per orientare, come lui stesso scrive, «una riforma». Per certi versi Klee in quel lucido saggio individua in queste forme di espressione una natura irriducibile ai processi sociali di normalizzazione. Ma anche la richiesta da parte di questi artisti di un dialogo con la realtà che si manifesta attraverso la rappresentazione ossessiva dei loro mondi più segreti.
Giorgio Bedoni, psichiatra e psicoterapeuta, è autore del libro «Visionari. Arte, sogno, follia in Europa» (Selene)
Corriere della Sera 22.3.07
Un dì si venne a me Malinconia / E disse: «Io voglio un poco stare teco»; E parve a me ch'ella menasse seco / Dolore e Ira per sua compagnia
Dante dalle Rime
Tra la scala e il poliedro il mio dialogo con DürerParmiggiani: «La malinconia è l'essenza dell'arte»
di Fabio Cutri
L'incisione del maestro tedesco è come un sogno che ho voluto tradurre in realtà
DAL DISEGNO ALLA SCULTURA
Nostalgia e tristezza non c'entrano nulla. La malinconia abita ben altre profondità. È lo sguardo gettato nell'abisso, nel mistero, nel silenzio dell'origine. È lo sguardo tragico dell'arte. Quello immortalato dal genio di Dürer nella visione del cherubino imbronciato intorno al quale il mondo si fa immobile, ogni cosa appare sospesa, come se galleggiasse nel tempo: la bilancia vuota, la scala inutilizzata, il levriero addormentato, il quadrato magico, la sfera, il poliedro.
Un'immagine ermetica che ha ossessionato intere generazioni di artisti e che a Claudio Parmiggiani si è presentata con l'urgenza di una scena incompiuta, di un sogno che chiedeva di essere tradotto in realtà. L'elemento più oscuro ed enigmatico dell'incisione — il poliedro — è così diventato scultura, «Melancolia, 1514-2003», opera scelta due anni fa da Jean Clair per concludere lo spettacolare percorso della mostra di Parigi Mélancolie, génie et folie en Occident (Parmiggiani era l'unico italiano presente e, insieme al tedesco Kiefer e all'australiano Mueck, uno dei tre soli artisti viventi su quasi 300 opere). Ora, per l'esposizione veronese Il Settimo Splendore, la modernità della malinconia, i curatori hanno voluto un altro suo lavoro, «Salita della memoria». Anche in questo caso si tratta di un viaggio nell'iconografia di Dürer, ma per penetrare tutta la moderna profondità della melancolia è necessario tornare all'enigmaticità del poliedro.
Parmiggiani, nello studio della sua casa di Torrechiara, sulle colline parmensi, prende un volume dalla libreria e lo appoggia su una poltrona di vimini. È il catalogo parigino, dal quale fissa in silenzio la sua opera per un intero minuto: «In Dürer quel poliedro è un sogno, trasferirlo dal suo stato di progetto alla realtà, questo è stato il gesto... realizzare l'opera incompiuta di un fratello e aggiungere così un sogno al sogno». Il poliedro di marmo nero di Parmiggiani — un richiamo alla «bile nera» degli antichi e al suo riferimento astrale, Saturno — è un monolite di 50 quintali in equilibrio su una spessa base a sette facce che infonde alla scultura una cupa dimensione tombale.
Questo complesso gioco di rimandi e slittamenti metaforici, precisa Parmiggiani, non è affatto una riflessione su un artista né su un passato, bensì un tentativo di dare corpo a un'immagine a noi assolutamente contemporanea. Perché la visione del Dürer conduce a una soglia dove l'antico e il moderno si perdono l'uno nell'altro: «Il poliedro rappresenta l'essenza stessa dell'instancabile ricerca di una trascendenza destinata a rimanere tale. Il romboide di Dürer, questa pietra nell'esilio della sua solitudine, è insieme algebra ed enigma, una sfinge con dentro l'infinito, una vanitas: emblema del viaggio eroico dell'artista e della sua aspirazione verso un assoluto irraggiungibile».
La «Salita» (1976) sembra invece evocare il significato allegorico della scala «abbandonata» da Dürer alle spalle del cherubino. Quella di Parmiggiani, alta più di due metri, è completamente realizzata con il pane, «materia e corpo umanissimo, nutrimento spirituale», essenza che richiama «itinerari dolorosi», sentieri interrotti: quelli a cui conduce il percorso conoscitivo dell'arte. La base della scala poggia su una tela bianca e la sommità si perde nell'abisso di un cielo stellato; sublime, certo, ma tuttavia non meno drammaticamente pieno di nulla.
La melancolia non è quindi un sentimento che si impadronisce di alcuni artisti risparmiandone altri, è sinonimo perfetto della creazione artistica: l'artista è tale proprio perché malinconico, perché capace di vedere il mondo nella luce — e nel silenzio — dell'assoluto. Una visione angosciante, non triste: «Malinconia — dice Parmiggiani in sintonia con Savinio — è disgiunta da tristezza. Mentre la tristezza inaridisce, la malinconia è una forza che esalta l'immaginazione. Dentro questo sentimento l'occhio è instancabilmente rivolto verso la notte e l'abisso, verso il nulla come un tutto, verso quell'illusoria terra che chiamiamo spirito».
L'opera di Parmiggiani è tanto profondamente tragica quanto immune da ogni forma di nichilismo. La sua idea dell'arte e del ruolo dell'artista sono mirabilmente espressi in un dipinto come la «Zattera della Medusa» di Gericault, dove i naufraghi indicano una piccolissima nave all'orizzonte, visibile ma irraggiungibile. Oppure nella fierezza con cui un altro naufrago, «Il viaggiatore» di Caspar David Friedrich, si pone al cospetto di un mare minaccioso e infinito: «Solo, solitario, visionario, l'artista deve intendere il suo lavoro come un atto di resistenza e di lotta. L'arte deve sapersi liberare dai vincoli del presente e attraversare con lo sguardo tutte le dimensioni del tempo. Quello che si chiama modernità non è che il transitorio, il fuggitivo, la metà dell'arte di cui l'altra metà, come ci ricorda Baudelaire, è l'eterno e l'immutabile. "Angoscia del tempo", così viene definita in Germania, sentimento panico del finito e dell'infinito: questo è per me l'essenza di ciò che, riferito alla natura dell'arte e dell'artista, si chiama melancolia».
Repubblica 22.3.07
Amleto e Laerte ai congressi di partito
di Adriano Sofri
È nelle elezioni che si gioca la partita, ma è nei congressi che si mette e si lascia il cuore. E´ nei congressi che si piange, donne e uomini. A volte sono lacrime di gioia, di emozione, tutti uniti, tutti a guardare in su allo stesso palco, allo stesso avvenire, alla stessa canzone, in un giuramento rinnovato. Altre volte sono lacrime di dolore, di amputazione, di lutto. Benché i congressi di partito siano stati inventati per fissare, e magari per simulare, un´identità e un´appartenenza comuni, una devozione ai capi, e l´entusiasmo che ne deve derivare, bisogna ammettere che la loro dinamica è irresistibilmente attratta dalla scissione. La scissione è la festa guastata, certo, le nozze fastose tramutate amaramente in divorzio, con tanto di insulti e avvocati, però commuove e seduce più della festa nuziale. La scissione mette assieme i due piaceri opposti: quello dell´adunata e dell´identità, perché non ci si sente mai così compatti come di fronte al falso compagno che rinnega la bandiera, e quello del sacrificio, perché di niente ci si commuove così perdutamente come di se stessi, della virile forza con la quale ci si strappa via da una parte del proprio corpo, persuadendosi che sia doveroso, e dunque saziando il proprio narcisismo. Si sta già piangendo parecchio, nei congressi locali, e se davvero la sinistra dei Ds vorrà anticipare la scissione guasterà la celebrazione comune di una specie di Livorno 1921 del nuovo millennio, che già solo per questa parodia dovrebbe far arrossire i suoi protagonisti. «I comunisti escono dalla sala, cantando l´Internazionale».
Per giunta, in questi stessi giorni, non per caso, quasi tutti i pezzi del socialismo provano a rimettersi insieme, non nella prospettiva del Partito democratico e anzi contro, prolungando anche loro quella decrepita Livorno: non che gli manchino le ragioni. Ma il fatto è che le ragioni non mancano a nessuno, tipica circostanza in cui il torto universalmente trionfa. Le stagioni dei congressi hanno una forza calamitatrice e calamitosa superiore a quella stessa delle stagioni elettorali, e in un certo senso opposta. Perché le elezioni tendono a sospendere la politica per paura di compromettere facce e voti, mentre i congressi scatenano un´eccitazione politica svincolata dai fatti e dalla pratica, a vantaggio di manifesti ideologici e proclamazioni ultime e demarcazioni invalicabili e, in sostanza, di psicodrammi che soverchiano spesso gli stessi interessi personali e di gruppo dei recitanti. Sono occasioni teatrali, dunque le più artefatte e le più sincere che si possano immaginare. Solo che Amleto e Laerte, e tutti gli altri che giacciono cadaveri alla fine della recita, possono tirarsi in piedi, tenersi per mano e inchinarsi agli applausi, struccarsi in camerino e andare a cena insieme al ristorante di fronte: mentre gli attori dei congressi di partito passati reciprocamente a fil di spada prenderanno la loro quota separata di applausi, ma resteranno con la maschera addosso, e si allontaneranno per strade sempre più divaricate. Fa sorridere sentirli dire magari che «bisogna separarsi oggi per allearsi domani»: già sentita, no? Come negli amori: abbiamo bisogno di prenderci una pausa di riflessione, cara...
I congressi infatti simulano le storie d´amore, ma ne prediligono la fine. «Alle miniere di sale di Salisburgo, si getta, nelle profondità abbandonate della miniera, un rametto d´albero spoglio a causa dell´inverno; due o tre mesi dopo lo si ritrae coperto di cristallizzazioni brillanti...». Così Stendhal, nel "De l´amour", descriveva la chimica amorosa, la prima cristallizzazione. Ma alla fine c´è la cristallizzazione alla rovescia: tutto ciò che nell´amata (Stendhal è uomo, i partiti anche) ci appariva perfetto, unico, estasiante, ora ci si mostra detestabile, brutto, insopportabile. La scissione è nei partiti quello che la separazione è in amore, e i congressi sono il suo luogo cerimoniale. Inaugurata la cristallizzazione alla rovescia, le cose precipitano oltre ogni intenzione e controllo degli attori. Fino a un momento fa Fassino escludeva che Mussi volesse davvero arrivare alla scissione, e Mussi prometteva – forse anche a se stesso – di battersi solo per sventare un trasloco infedele: ed ecco che una deriva inesorabile li porta lontano, e con loro tanti altri, travolti nel gorgo congressuale, in un´aria provvisoria che monta e sopraffà, e domani, tornata la sobrietà dei giorni ordinari, non potrà più retrocedere dal fatto compiuto. Prima la dilazione infingarda, poi la sensazione opprimente dei fatti compiuti. Vicenda che si ripete, sulla scala del momento. La piccola promettente Rosa nel pugno era di questo mondo – e, rosa, ha vissuto quanto vivon le rose, lo spazio di un mattino. E il vento delle scissioni non risparmia nessuno, né all´estremo centro né all´estrema sinistra. Il Partito democratico, così voluto, così sperato – le primarie, l´augurio disinteressato e appassionato dell´unità, l´idea di abbattere i muri ereditati dal Novecento, il proposito di misurarsi col mondo nuovo senza rinnegare gli antenati – è già insidiato dalle mutilazioni, da una rassegnazione al meno peggio, da un sospetto di lottizzazione. Si è dissipato il tempo, come se in politica il tempo fosse guaritore di ferite, ed è il contrario. Ma quale riparazione può avere il tempo perduto o l´angustia rischiata dal nuovo progetto se non la partecipazione più ampia e cordiale, la fiducia reciprocamente accordata, lo sforzo di rinunciare a risentimenti e vanità? Eppure, la lezione dei fatti recentissimi è memorabile. C´è chi l´ha capovolta nel delirio dei principii: il voto sul rifinanziamento per l´Afghanistan come quello sui crediti alle guerre coloniali... Ma c´è chi ne ha fatto tesoro, anche nella cosiddetta sinistra «radicale». Non basterebbe la frontiera fra una sinistra responsabile e una irresponsabile? Così, si perpetuerà la proliferazione caricaturale – ma efficace, come sono efficaci i bastoni fra le ruote – dei partiti (e di supposti leader, e veri e grevi apparati e clientele), e lo scenario trasognato di «una sinistra riformista, una sinistra radicale, una socialista, una libertaria». Se vi chiedete perché, meschinità a parte, vi troverete davanti quella che chiamerò l´attrazione del vuoto: il tale spostamento a destra creerà il tale vuoto a sinistra – o viceversa – e noi lo riempiremo. La politica guidata dalla domanda, come il mercato; anzi neanche, perché l´offerta vuole inventarsi un mercato, mentre la politica marginale si avventa sul vuoto, come un passeggero esausto su un autobus che va alla rimessa. Sciolto il Pci, «c´era il pericolo che si creasse un vuoto a sinistra»: pericolo sventatissimo, direi, a giudicare da quanti vuoti sono stati successivamente colmati e quanti altri stanno per esserlo. Con qualunque nome: quanto a me, mi piacciono i cantieri, ma i Cantieri Riuniti. Del resto a questa fascinazione del vuoto soccombe soprattutto la vocazione centrista. Il centro è vuoto per definizione, un perenne risucchio, un maelstrom della vacuità, nel quale sprofondare a gara.
Il Partito democratico poteva essere un´altra cosa. Una festa, magari a occhi più asciutti e mente più lucida. Si poteva piangere, chi ne avesse voglia – non è male, piangere, e ancora meglio ridere – alla vigilia, ciascuno a casa sua, come nelle festicciole di celibato. Lo può essere ancora. Lo so che non bisogna esagerare col paragone fra gli amori privati e le cose dei partiti. Gli amori privati, una volta andati in pezzi, non si riattaccano più. E le cose dei partiti? Forse non si può arrestarne la deriva: ma limitarne la portata sì. Ciascuno può fermarsi a guardare un po´ più lontano, piuttosto che cedere alla cristallizzazione rancorosa. Più da lontano, si dà meno peso agli ultimatum mutuamente sequestratori – dove staremo seduti in Europa – e ai documenti reciprocamente esclusivi – i documenti sono una buona cosa, ma non quando servono a escludere, e più servono a escludere, più sono ipocriti, e meno rapporto hanno con la pratica sociale e personale. E piuttosto ciascuno si faccia il proprio manifesto politico, la propria Costituzione europea, la propria carta d´identità umana, e si presenti all´appuntamento comune, portandosi dietro la chiave di casa.
Repubblica 22.3.07
Giudici-Chiesa, scontro sull'obiezione
Il Csm: nelle sentenze le toghe rispondono solo alla Costituzione
Il Vaticano: rispetto della vita, ma nessuna ingerenza. Family day, polemiche sui ministri alla manifestazione
di Liana Milella
ROMA - Chiesa, obiezione di coscienza, giudici. In piena bufera per il Family day, la Pontificia accademia per la vita ribadisce il «diritto» a richiamare tutti «al rispetto dell´esistenza umana» spingendosi fino all´obiezione, ma al Csm i magistrati, con il dovuto garbo istituzionale che compete a un organo come palazzo dei Marescialli, si muovono per ribadire che «le toghe sono tenute solo al rispetto della Costituzione». E nient´altro. Esponenti di spicco di tutte le correnti (Ezia Maccora e Livio Pepino di Md, Antonio Patrono di Mi, Fabio Roia di Unicost, Ciro Riviezzo del Movimento giustizia), con il laico di Rifondazione Mauro Volpi, chiedono che la commissione per la formazione preveda un corso specifico dedicato agli esili margini esistenti tra giustizia e bioetica. È il tema affrontato su Repubblica dall´ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky.
Non si tratta di un altolà alla Chiesa come quello, assai più militante, fatto dall´Anm sabato scorso, ma è evidente che il Csm trova una strada per affrontare una questione caldissima. Quanto il richiamo fatto venerdì scorso dal Vaticano abbia turbato i giudici lo dimostra l´immediata reazione alla nota dell´Anm. È sabato, l´invito all´obiezione di coscienza per politici, medici e giudici è fresco di stampa, l´Anm riunisce i vertici per discutere di elezioni interne, ma la reazione alla Chiesa è immediata. Ne nasce una ferma presa di posizione: «E´ la Costituzione la tavola dei valori cui un magistrato deve fare riferimento nell´esercizio delle sue funzioni». L´Anm cita la stessa sentenza della Consulta poi utilizzata come riferimento anche dal Csm: nell´87 la Corte negò a un giudice il diritto di fare obiezione su un caso di aborto. Anche in questo caso le firme sono trasversali: c´è il presidente Giuseppe Gennaro di Unicost, il segretario Nello Rossi di Md. E non appena viene messo in rete, il breve documento si trasforma in un appello e raccoglie centinaia di adesioni, ecco Armando Spataro, Maurizio Laudi, Edmondo Bruti Liberati, Gioacchino Natoli, Giovanni Palombarini, Rita Sanlorenzo. Rossi sintetizzava ieri il senso del dibattito: «Il giudice non deve solo applicare la legge, gli è consentito dubitare confrontandola con la Costituzione». Ma ai richiami della Chiesa si può rispondere solo con un "no, grazie".
Da qui fino al Family day del 12 maggio ci sarà tempo per le discussioni. Intanto la Pontificia accademia ci ha tenuto a dire che il documento non aveva «finalità di intervento politico o di interferenza con i processi democratici dello Stato». Lunedì ci sarà la prima riunione della Cei sotto la presidenza Bagnasco ed è atteso un pronunciamento sui Dico. Il Forum delle famiglie, promotore del Family day, ha stoppato qualsiasi possibile presenza dei sostenitori dei Dico in piazza San Giovanni: «Basta con le ambigue interpretazioni: ai Dico diciamo un no senza appello» ha detto il presidente Giovanni Giacobbe. Immediata la replica di Franco Grillini, presidente onorario dell´Arcigay: «Dopo la precisazione, che rende la manifestazione anti governativa, i ministri che vogliono andare in piazza dovrebbero rinunciare». La parola passa a Mastella e Fioroni.
Repubblica 22.3.07
Pio XII: no ai soldati neri
Inediti/ Una strana richiesta del Papa tra le carte del Foreign Office
di Simonetta Fiori
Roma città aperta è più un mito che una realtà: fin dal '40 gli inglesi erano pronti a bombardarla
Per il Vaticano la culla della civiltà occidentale merita una tutela "speciale"
Il Pontefice chiede a Osborne che nella Capitale non ci siano truppe di colore
Umberto Gentiloni Silveri pubblica un saggio con nuove scoperte su alleati e Santa Sede
È un breve messaggio, nascosto tra le carte del Foreign Office britannico. Una richiesta a dir poco imbarazzante, che porta la firma del capo della Cristianità. Sono i giorni concitati dello sbarco americano ad Anzio, nel gennaio del 1944. In molti s´illudono che la liberazione di Roma sia una questione di pochi giorni. Anche Pio XII ne è persuaso, tanto da rivolgere a sir Francis d´Arcy Godolphin Osborne, ambasciatore di Sua Maestà presso la Santa Sede, un appello che oggi può apparire stupefacente. «Il Papa spera che non ci siano truppe alleate di colore (Allied Coloured Troops) tra i gruppi che potrebbero essere posti di stanza a Roma dopo l´occupazione», riferisce il diplomatico inglese non senza una punta di ironia. «Si è affrettato ad aggiungere che la Santa Sede non ha fissato un limite alla gamma dei colori, ma che spera che questa sua richiesta possa essere accettata». Non c´è "un limite alla gamma dei colori", ma insomma meglio la pelle bianca per difendere la culla intoccabile della civiltà occidentale. Ancora una follia della guerra, aggravata dal crisma della Chiesa.
«Sono possibili diverse ipotesi», dice l´autore del ritrovamento, lo storico Umberto Gentiloni Silveri, che ha raccolto nel volume ora edito dal Mulino Bombardare Roma. Gli alleati e la città aperta (pagg. 300, euro 25,00) alcune preziose carte del fascicolo Bombing of Rome scovato nei National Archives di Londra (con i materiali de ministero dell´Aeronautica inglese e della Royal Air Force). «L´imbarazzante richiesta del pontefice riflette l´impostazione tenuta dalla Santa Sede nel corso dell´intero conflitto: la difesa di Roma come simbolo della cultura occidentale, oltre che patria del Cattolicesimo. Un patrimonio da affidare alla tutela della razza bianca». E le cosiddette "marocchinate"? Si può ipotizzare che fossero arrivati alla Santa Sede lontani echi delle orribili violenze commesse in Ciociaria e nel Frusinate dai soldati di colore provenienti dalle colonie francesi? «Non lo possiamo escludere, anche se è difficile che la notizia di quegli stupri avesse già raggiunto il Vaticano».
La singolare richiesta di Pio XII è solo una delle numerose acquisizioni storiografiche ricavate dal ritrovamento nei National Archives di Londra di importanti fondi sul bombardamento di Roma. Una variegata mole di lettere, telegrammi, reports, note, bozze di dichiarazioni, appunti, dossier, fotografie, mappe (per larga parte inediti) che lumeggiano le posizioni inglesi, ma anche il punto di vista del Vaticano e dell´amministrazione americana, anticipando al 1940 la decisione di bombardare Roma. Fin dal giugno di quell´anno, nei palazzi dell´establishment britannico, era cominciata a circolare l´ipotesi di un´incursione aerea nell´Urbe. Non importa se Città Eterna, inviolabile scrigno della cristianità, come il pontefice si affannava a ricordare. Per gli inglesi Roma era la capitale di Mussolini e del fascismo, principale alleato dell´odiato Führer. Ad evitare ambiguità, il 7 novembre del 1940 - cinque mesi dopo il nostro intervento in guerra e prima della partecipazione americana - il War Cabinet comunica al Parlamento di riservarsi «piena libertà di azione nei riguardi di Roma». Negli stessi giorni il Foreign Office e lo Stato maggiore dell´aeronautica inglese si preoccupano di scegliere gli obiettivi e di valutare l´impatto anche morale dell´incursione nel cielo santo. Roma conoscerà "la ferità e l´odore delle bombe" solo tre anni più tardi, il 19 luglio del 1943. Fu il primo raid aereo nella sua storia millenaria. Ma le radici di quell´attacco affondano nelle discussioni del 1940, finora rimaste nell´ombra.
Il volume Bombardare Roma (firmato anche da Maddalena Carli) restituisce l´ampia tessitura politica e diplomatica che precedette l´azione bellica, oltre cinquanta incursioni per settemila vittime (il bilancio è ancora incompleto). Se da parte inglese fin da principio non ci fu esitazione nel progetto di colpire la capitale di Mussolini e dell´asse nazifascista, ad ampio raggio è il lavoro diplomatico svolto da Pio XII in nome dell´inviolabilità della città santa: appelli che esercitano larga presa sull´opinione internazionale, e dal dicembre del 1941 anche sugli americani. Spetta all´ambasciatore Osborne liquidare il Pontefice con un monito severo: si guardi bene il Vaticano, scrive nell´ottobre del 1941, dal «produrre la sfortunata impressione che il Papa stia intervenendo per proteggere lo Stato italiano e il governo fascista».
L´incalzare degli eventi spinge la Gran Bretagna a definire nel dettaglio "il piano di bersagliamento" della capitale, fino al minuzioso progetto illustrato al premier nel dicembre del 1942: bombardare solo Palazzo Venezia e Villa Torlonia, simboli pubblici e privati di Mussolini. Significativa la replica di Churchill, sia per l´asciuttezza tipicamente british e soprattutto per la valenza politica e militare: «Mi piace il progetto, ma cosa resta per la Germania?».
La stagione narrata dal volume è quella di "Roma città aperta" ma Roma non sarà mai veramente aperta negli anni del conflitto, piuttosto in sequenza "sacra", "fascista", "prigioniera", "occupata", "alleata" e finalmente "libera". «La formula "città aperta"», dice Gentiloni, «fu piegata di volta in volta alle finalità del momento. Inventata per rivendicare l´inviolabilità giuridica e materiale dell´Urbe, si rivelò una definizione illusoria e mai davvero rispettata. L´unico linguaggio che dominò in quegli anni fu quello della guerra, un codice legato al conflitto e niente più». Rimettere Roma al centro del teatro bellico comporta anche rivedere molte letture della Resistenza invalse negli ultimi anni nel segno della demolizione. «Se si accoglie la dimensione della guerra e delle sue logiche, non ha molto senso piangere sul sangue dei vinti», aggiunge Gentiloni. «Uno dei limiti del nostro dibattito storiografico è stato proprio quello di dividere e contrapporre le varie componenti del conflitto, separando gli eserciti alleati e il partigianato. Una scorciatoia con due esiti rischiosi: enfatizzare il contributo autonomo della Resistenza ridimensionando il condizionamento internazionale oppure, ancor più sbagliato, minimizzare il ruolo svolto dai partigiani rispetto all´apporto angloamericano». La guerra ridotta a un patchwork nel quale ciascuno sceglie ciò che più gli conviene. «Quel che si è perso da noi, e non altrove, è la trama complessiva dei rapporti».
Repubblica 22.3.07
"Lo dimostra l'osservazione dei comportamenti sociali dei primati". Così un saggio riapre la vecchia querelle tra biologia e filosofia
Tra gli scimpanzé l'origine dell'etica
I biologi: l'uomo ha ereditato e "perfezionato" il senso di giustizia
Dopo il combattimento tra due rivali, i grandi primati tendono a consolare lo sconfitto
"La simpatia è la materia prima su cui si forma una morale più complessa"
di Nicholas Wade
Alcuni scimpanzé, animali incapaci di nuotare, sono annegati nei fossati pieni di acqua di uno zoo nel tentativo di portare soccorso ai loro simili. Alcune scimmie, alle quali era stata offerta l´opportunità di procurarsi del cibo tirando una catena che avrebbe inferto una scossa elettrica a uno di loro, hanno preferito rimanere senza mangiare per molti giorni. Secondo i biologi questi e altri comportamenti sono i segni precursori del senso etico umano.
Fu il biologo Edward O. Wilson, oltre trent´anni fa, il primo a suggerire che «è giunto il momento di togliere temporaneamente l´etica dalla sfera di pertinenza dei filosofi per passarla ai biologi». Da allora sono stati fatti molti passi avanti. L´anno scorso Marc Hauser, un biologo dell´evoluzione che lavora a Harvard, nel libro Moral Minds ha ipotizzato che il cervello sia fornito di un apparato adibito ad acquisire le regole morali. In un altro libro pubblicato di recente, Primates and Philosophers, il primatologo Frans de Waal sostiene che le radici della moralità possono essere fatte risalire al comportamento sociale delle scimmie. De Waal, direttore del Living Links Center dell´università di Emory (Usa), afferma che tutti gli animali sociali per poter vivere in gruppo hanno dovuto tenere a freno o modificare il loro comportamento. Queste coercizioni, evidenti in alcune scimmie e ancor più negli scimpanzé, costituirebbero il nucleo comportamentale intorno al quale si è poi formato il senso morale dell´uomo. Molti filosofi trovano assai arduo pensare agli animali come a "esseri morali", e in effetti de Waal non afferma questo: sostiene invece che la moralità umana sarebbe impossibile senza una sorta di presupposto emotivo di cui le società degli scimpanzé danno testimonianza.
Le opinioni di de Waal si basano su anni di osservazioni sui primati, iniziati studiando le aggressioni tra scimmie e accorgendosi che dopo il combattimento tra due rivali gli altri scimpanzé consolavano lo sconfitto. Ora, sostiene De Waal, per consolare qualcuno è necessario provare empatia e un livello di auto-consapevolezza che soltanto le grandi scimmie e gli esseri umani paiono possedere. Ma non è questa l´unica scoperta. Gli scimpanzé hanno anche uno spiccato senso dell´ordine sociale, delle regole e del comportamento che occorre tenere "in società". Le giovani scimmie rhesus imparano molto presto come devono comportarsi e ogni tanto, per punizione, ricevono un morso su un dito della zampa posteriore o anteriore. Altri primati hanno uno spiccato senso di reciprocità e di giustizia, ricordano da chi hanno ricevuto favori e da chi torti. Gli scimpanzé, per esempio, sono più disposti a condividere il cibo con quelli che si sono presi cura della loro pelliccia. Le scimmie "cappuccino" mostrano disappunto se ricevono una ricompensa inferiore - per esempio un pezzo di cetriolo invece che uva - rispetto a quella che riceve un partner che ha svolto uno stesso incarico. Questi comportamenti, secondo De Waal, sono i presupposti stessi della socialità. L´uomo li avrebbe solo "perfezionati" a livello più alto. Perché applica e rispetta i codici morali delle società alle quali appartiene molto più rigorosamente (con ricompense, punizioni e miglioramento della reputazione). E perché applica il senso del giudizio e la ragione, per i quali non esiste corrispettivo possibile nel mondo animale.
copyright 2007 New York Times News Service
(Traduzione di Anna Bissanti)
(Traduzione di Anna Bissanti)
l’Unità 22.3.07
TV E PASSATO Stasera su Raidue alle 23.15 «If - Cosacchi a San Pietro». Il fantadocumentario curato da Giannotti. Con il contributo di Andreotti e Curzi
Se nel '48 avesse vinto il Pci invece della Dc? Minoli prova a ridisegnare la storia
di Roberto Brunelli
Dicono che si sarebbe aperta una pagina terribile per il nostro Paese e che gli Stati Uniti non ce lo avrebbero permesso
Fantastoria. Togliatti a Palazzo Chigi. Il Fronte Popolare ha vinto, la Dc ha perso. Nenni agli Esteri, Longo alla Difesa, La Pira al Lavoro. Ipotesi affascinante. Ma anche «pericolosa» secondo i più: gli Usa non se ne sarebbero stati mano nella mano, il piano Marshall ce lo saremmo scordato, la tensione sarebbe cresciuta, forse dei colpi di fucile sarebbero partiti a San Pietro... E Palmiro? Sarebbe riuscito a bloccare la rabbia dei militanti dopo l’attentato? Sarebbe riuscito a «calmare gli animi» con il suo celeberrimo discorso dall’ospedale? Difficile dirlo. Avrebbe scelto di tenersi «in equilibrio», forse, tra i due blocchi (quello atlantico e quello dell’est): ma quanto sarebbe durata? E il revanscismo cattolico? E i servizi Usa?
Niente di tutto ciò è stato, come sappiamo. Ma è il gioco del «cosa sarebbe successo se»... se, nella fattispecie, le elezioni del ‘48 si fossero concluse con una vittoria di Pci e Psi, con il 53,5% dei voti contro il 37,5%. Cosa sarebbe successo se: è la domanda che si è fatto Giovanni Minoli che presenta stasera (ore 23.15, Rai2) un «fanta-documentario» realizzato da Giuseppe Giannotti con la consulenza di Mauro Canali, dal titolo If - Cosacchi a San Pietro. Una specie di simulazione a posteriori della storia italiana (da quel fatidico 18 aprile 1948 fino alla «restaurazione» di un governo Scelba che immaginiamo ovviamente tremendo) che si avvale, tra l’altro, del contributo di Giulio Andreotti e di Sandro Curzi. E, peraltro, se Andreotti parla non sorprendentemente di «scampato pericolo» alla sola idea che nel ‘48 potesse andare diversamente da come andò, anche Curzi dà per scontato che «si sarebbe aperta una pagina terribile, perché ci sarebbe stato sicuramente un intervento degli Stati Uniti». Forse per questo il filmato minoliano si apre con un’intervista ad un ex agente della Cia che al Tg1 ebbe a dichiarare che a quel voto «l’America andò con valigie più capienti dei russi».
Curioso, ma anche interessante, il fatto che il filone del «falso documentario» conosca questa straordinaria fortuna, ultimamente. Un filone non proprio nuovo, per la verità: l’archetipo è quello della Guerra dei mondi di Orson Welles, il radiodramma a causa del quale mezza America, nel ‘38, si convinse dello sbarco degli alieni. Un filone che oggi però conosce numerose varianti, con un incrocio continuo delle modalità del racconto di finzione e di quelle del racconto documentario. Nel film Death of a president si simula un’ipotetica situazione futura, «ricostruendo» ciò che accadrebbe, a livello planetario, se venisse ucciso il presidente George W. Bush. In tv-movie «basato su documenti veri» 11 settembre - Tragedia annunciata, andato già in onda su Sky, con attori anche famosi tra cui Harvey Keitel, si racconta con i modi della classica fiction americana (pare di essere in una puntata di Csi) come la tragedia delle Twin Towers sia dovuta alla sottovalutazione della minaccia Bin Laden non tanto da parte di Bush e sodali ma ancor di più da parte di Clinton. La fiction si fonda sul rapporto bipartisan della «Commissione 11 Settembre», ma è stata pesantemente criticata negli Usa, in quanto «essa propone una ricostruzione traballante», come sostiene il Washington Post: una specie di vendetta mediatica ai danni di quella cultura liberal che accusa Bush di aver gestito in modo dissennato l’incubo delle Torri.
Come Orson Welles sapeva benissimo, il gioco vero-falso-falso-vero, scritto sin nei gangli più profondi del linguaggio, è affascinante, ma ovviamente si presta anche a ogni immaginabile distorsione. Tanto che, negli anni ‘70, realizzò F for Fake, uno dei suoi capolavori, raccontando, come fosse vera, la falsa storia di un falso falsario. Diceva invece Helmut Schmidt che la storia non si fa «con i se e i ma». Probabilmente Togliatti gli avrebbe dato ragione: ma è anche vero che tutti noi lo facciamo sempre. È un esercizio ottimo. Pensateci un secondo. Quanti di noi se lo sono chiesti: cosa sarebbe successo se le ultime elezioni le avesse vinto, ancora una volta, Silvio Berlusconi? Horror puro.