giovedì 15 marzo 2007

l’Unità Lettere 15.3.07
Sapete che vi dico? Io mi sono «sbattezzata»


Cara Unità,
la forza si basa anche sui numeri e, per quanto mi riguarda, quelli sui quali si basa la chiesa cattolica apostolica romana non corrispondono alla realtà. Atterrata con qualche difficoltà sono stata battezzata in ospedale, sia mai che morissi prima... Non mi sono mai trovata troppo a mio agio nella religione ma ho fatto come tanti comunione e cresima, tirandomi poi tutto dietro, un po’ per inerzia, un po’ per abitudine. Le reiterate ingerenze della nostra instancabile chiesa nei 360 gradi della vita del paese mi stanno offendendo e mi hanno spinto a prendere una decisione: mi sono sbattezzata. Questa chiesa proterva non mi appartiene, ma soprattutto io non appartengo a lei che da oggi non può più «contare» su di me. Chi è interessato all’argomento può farsi un giro in www.uaar.it, tra Margherita Hack, Piergiorgio Odifreddi, Laura Balbo, Dànilo Mainardi, Sergio Staino, Carlo Flamigni e tanti altri sarà in ottima compagnia. Non fosse altro che per curiosità.
Silvia Palombi

Repubblica 15.3.07
"Il Prc sbaglia sul Papa" militante cattolico lascia


ALBENGA - Un dirigente locale del Prc, Massimo Colombo, si è dimesso dalle cariche finora ricoperte nel partito perchè «preoccupato dall´anticlericalismo che sta montando nel Paese e che ha intaccato anche nostri ambienti». Colombo ha lasciato il Collegio regionale di garanzia, il Comitato politico federale di Savona e il direttivo del circolo di Albenga. «Come cattolico praticante - ha affermato - intendo osservare le linee che il Papa e la Chiesa ci indicano, ma sulla questione dei Dico il Prc ha assunto posizioni nettamente contrarie ai suggerimenti ecclesiastici».

il manifesto 15.3.07
Il contributo di Gadamer all'esperienza della verità
Mentre si inaugura oggi a Roma un convegno dedicato al filosofo tedesco, esce dal Mulino la monografia che gli ha dedicato Donatella Di Cesare, secondo la quale tutto il pensiero di Gadamer ruota intorno a Platone in quanto maestro del dialogo
di Enrico Redaelli


Tracciare la mappa dell'«ermeneutica», nella sua evoluzione storica, significa ridisegnarne continuamente i confini. Poche parole come questa hanno visto allargare così tanto il proprio raggio d'azione. Se originariamente indicava l'antica dottrina dell'interpretazione dei testi, il termine «ermeneutica» ha assunto nel secolo scorso un significato filosofico, come movimento di pensiero il cui filone maestro parte da Heidegger e trova una sistemazione nella riflessione di Gadamer, finché, a partire dagli anni Ottanta, è divenuto sinonimo di «filosofia continentale» in opposizione alla filosofia di matrice anglosassone.
In questa ultima evoluzione semantica, l'ermeneutica è divenuta un contenitore molto ospitale, una sorta di etichetta culturale sotto il cui cappello si sono riconosciute diverse prospettive teoriche, il più delle volte molto distanti tra loro. In tale dispersione di senso, la specificità della proposta di Gadamer, cui si deve l'articolazione originaria dell'«ermeneutica filosofica» propriamente detta, è forse quella che ne ha più risentito.
Letto troppo spesso a partire da Heidegger, o con le lenti deformate dai dibattiti che gli sono seguiti, il pensiero di Gadamer si è trovato all'incrocio di molte vie del pensiero contemporaneo e solo negli ultimi anni il suo percorso è stato approfondito nelle peculiarità che lo contraddistinguono e che ne marcano i confini rispetto ad altri, con cui pure è entrato in dialogo. Per orientarsi, una attenta ricostruzione del suo apporto filosofico è offerta da Donatella Di Cesare nel ritratto titolato semplicemente Gadamer (Il Mulino, pp. 319, euro 19,50). Con la consueta chiarezza espositiva e con la limpidezza di linguaggio che distingue anche i suoi precedenti saggi, l'autrice, che del filosofo di Marburgo è stata una degli allievi di ultima generazione, ne ripercorre il cammino di pensiero in tutte le sue tappe.
Il volume ha il pregio di sfatare alcuni miti che ancora aleggiano sulla ricezione di Gadamer, come la sua presunta identificazione di essere e linguaggio, che pure il filosofo rifiutò esplicitamente, e la lettura del suo pensiero nei termini di una «filosofia dell'interpretazione», tema nietzschiano (che tanto influsso ha avuto sull'ermeneutica italiana) ma per nulla gadameriano. Anziché l'interpretazione, è la comprensione il perno attorno cui si sviluppa il suo percorso filosofico. Comprendere, come sottolinea Di Cesare, non è interpretare né sapere, perché si delinea piuttosto come una esperienza. Esperienza di verità che accomuna l'uomo e che si declina nell'arte, nella storia e nel linguaggio. Esperienza che Gadamer intende rivalutare, contro la riduzione della verità e del suo senso operata dal metodo scientifico, attraverso l'opera cardine, Verità e metodo, pubblicata nel 1960. Per il suo autore, nella comprensione è da vedersi l'articolazione stessa dell'esistenza e il carattere finito, limitato, di ogni esperienza umana. Quella di Gadamer può perciò essere chiamata a buon diritto una «filosofia della finitezza», ma basata su una concezione positiva del limite, sempre letto come l'oltre dell'altro. In questa prospettiva, ulteriormente elaborata negli anni successivi a Verità e metodo, nulla può essere definitivo: la ricerca filosofica è sempre aperta, non può mai fissarsi, trovare sistemazione, tanto meno nei limiti di un testo scritto, rinviando perciò al dialogo orale e alla vita vissuta. Si rivela qui l'ispirazione socratica dell'ermeneutica filosofica. Articolata nel movimento di domanda e risposta, e perciò costitutivamente aperta al confronto con l'altro, la dialettica di Socrate, così come la troviamo raccontata nelle opere di Platone, è da Gadamer assunta a modello di riferimento.
Si spiega così il suo interesse per la filosofia greca. La sua lettura della dialettica antica e il ruolo decisivo che essa ha rivestito per l'ermeneutica - messi in luce solo di recente e a cui giustamente questo volume dedica ampio spazio - sono la vera e propria chiave interpretativa con cui Donatella Di Cesare legge il pensiero gadameriano. Se si guarda a tutto lo sviluppo della sua riflessione, sostiene l'autrice, si può dire che l'opera principale di Gadamer, anziché Verità e metodo, sia il libro su Platone che non ha mai scritto. Non il Platone «metafisico», che mira alla «più assoluta verità» (come leggiamo nel Sofista), né il Platone fondatore di una teoria dei principi, ma il Platone maestro del dialogo, dietro cui si nasconde Socrate e rimane vivo il suo insegnamento. Leggendo i dialoghi platonici, il filosofo di Marburgo vuole infatti mostrare come la dialettica sia essenzialmente una esperienza, piuttosto che un metodo. Una esperienza che vive della partecipazione dell'altro, come il personaggio di Socrate, messo in scena nei dialoghi, sta appunto a testimoniare.
Ma il libro di Donatella Di Cesare non si limita a una ricostruzione del pensiero di Gadamer, sottraendolo al bagliore riflesso di Heidegger per restituirgli luce propria e sottolineandone piuttosto i rapporti col pensiero greco. Vi si legge anche la proposta, già delineata nei precedenti saggi dell'autrice, di un'ermeneutica della finitezza che intende distinguersi dal pensiero debole come da ogni deriva nichilista o relativista. Infatti, dietro la contrapposizione tra assolutismo della verità e relativismo, oggi tanto dibattuta, si nasconde una più profonda complicità. La metafisica, con la sua verità assoluta, e il nichilismo sono da vedersi come le due facce della medesima medaglia: condividono la stessa logica di fondo, cioè quella di un fondamento incrollabile, che l'ermeneutica intende invece lasciarsi alle spalle. Sottrarsi a questa logica significa rifiutare una concezione della verità che intende irretire l'esperienza umana in un senso ultimo e conclusivo. Senza per questo abdicare alla verità, o negarla nichilisticamente, ma declinandola come dialogo, ovvero: esperienza dell'altro, evento del comprendere.

L'espresso 14.3.07
Quell'istinto chiamato morale
Più il mondo si globalizza e più si rafforzano e si moltiplicano criteri e principi etici separati
di Eugenio Scalfari


Parecchi anni fa, tra letture, scritture ed esperienze vissute, mi posi il problema della morale (al singolare) e delle morali (al plurale). Da allora quel tema è diventato sempre più assillante perché ne vedevo spesso le rifrazioni nella società e le deformazioni che ne derivavano.

Detto in breve e nel modo più chiaro possibile: la morale, cioè la scelta che crediamo di dover compiere sulla base di un criterio che distingue il bene dal male, entra sempre più spesso in conflitto con le morali che potremmo definire deontologiche: quella dell'uomo politico, quella dell'avvocato, del medico, dell'imprenditore, del banchiere, del contribuente, dell'artista, del giornalista e perfino quella del giudice.

Morali autonome per altrettante attività autonome. Al limite esiste perfino una morale mafiosa che è addirittura una delle più rigorose e implacabili perché regola le condizioni dell'esistenza stessa di quella società criminale che pretende di essere (e di fatto è) una sorta di Stato dentro lo Stato, di società dentro la società, con le sue regole, i suoi giudici, la sua polizia interna e ovviamente i suoi criteri 'morali'. Ed esiste, lo sappiamo bene, anche una morale terrorista.

Più il mondo si globalizza e più si rafforzano e si moltiplicano le morali separate. Più si professionalizza e più aumentano le morali deontologiche.

I religiosi pensano che l'indebolimento della morale sia la conseguenza del relativismo che, rivendicando l'autonomia della morale rispetto ai dogmi della fede, avrebbe aperto le società alla polverizzazione della morale. Il vero elemento unificante sarebbe cioè la religione, il cui messaggio tende a diffondere una morale trascendente e obbligante per tutti.

Ma le cose non stanno così, neppure se si aggancia il criterio religioso al cosiddetto diritto naturale. L'idealizzazione del diritto naturale non corrisponde alla realtà quando immagina un 'corpus' di diritti sempre eguali nel tempo e nello spazio. Non è così. Nel mondo reale i diritti naturali sono molto diversi da luogo a luogo e nelle varie fasi storiche.

Del resto le stesse religioni sono plurime, come le rispettive morali, e soggette a continua evoluzione: la moralità delle Chiese cristiane dei primi secoli era profondamente diversa da quella di oggi e così per tutte le religioni storiche.

Dico di più: all'interno d'una stessa religione e addirittura negli stessi luoghi e tempi la morale differiva tra una comunità religiosa e l'altra. Quella di Francesco d'Assisi e dei suoi compagni non era affatto la medesima di quella dei frati dell'ordine domenicano o dell'ordine benedettino. Le loro regole e i loro statuti differivano profondamente. Per non dire della lotta asprissima tra i domenicani e i gesuiti che segnò per oltre un secolo la storia della cattolicità controriformista.

Non è questione dunque di relativismo filosofico, che avrebbe disgregato i comportamenti morali aprendo la strada al nichilismo e all'anarchia del pensiero. La spiegazione del problema va cercata più a fondo, nel concetto stesso di morale e nei criteri comportamentali che ne discendono. Nell'ambito della coscienza individuale e nel suo rapporto con gli istinti di sopravvivenza del singolo individuo e della società nella quale è inserito. Al limite: della specie di cui fa parte.

Questo ragionamento può essere graficizzato se si vuole renderne elementare la comprensione.

Diciamo che sia un punto a rappresentare l'istinto di sopravvivenza del singolo individuo. Attorno a quel punto la vita di relazione crea una serie di cerchi via via più vasti e inclusivi: la famiglia in cui si è nati, il quartiere dove si vive, il paese dove si risiede, la scuola che si frequenta, la professione che si sceglie, la classe sociale cui si appartiene, la nazione dove si parla la stessa lingua, la religione che si professa e così via.

A ciascuno di questi cerchi e degli infiniti altri che la vita di relazione propone e ai quali l'individuo appartiene almeno con una parte dei suoi interessi e dei suoi ideali, corrisponde una morale comportamentale.

Repubblica 15.3.07
I filosofi del papa
di Joseph Ratzinger


Il testo di una prolusione tenuta da Joseph Ratzinger nel 1959

La ragione teoretica non accede a dio
I rapporti tra religione e scienza

Un confronto tra la fede e i grandi pensatori. Da Cartesio a Pascal. Fino, andando indietro, a san Tommaso d´Aquino

Pubblichiamo parte di una prolusione tenuta da a Bonn nel giugno del 1959, intitolata Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, e che ora viene per la prima volta edita in italiano dalla Marcianum Press, curata da Heino Sonnemans.

Il tema di queste riflessioni, «Il Dio della fede e il Dio dei filosofi» è, per l´argomento, antico come il confronto tra fede e filosofia. Ma la sua storia esplicita comincia con un foglietto di pergamena che, qualche giorno dopo la morte di Blaise Pascal, venne trovato cucito dentro la fodera della giacca del defunto. Questo foglietto, chiamato Mémorial, dà notizia scarna e nello stesso tempo impressionante del cambiamento sperimentato da quest´uomo nella notte dal 23 al 24 novembre 1654. Comincia, dopo un´indicazione molto precisa del giorno e dell´ora, con le parole: «Fuoco. "Dio d´Abramo, Dio d´Isacco, Dio di Giacobbe", non dei filosofi e degli scienziati». Il matematico e filosofo Pascal aveva sperimentato il Dio vivente, il Dio della fede, e in un tale incontro vivente con il Tu di Dio l´aveva chiaramente compreso in sbalordito e lieto stupore, come in altro modo l´irruzione della realtà di Dio lo è nel confronto con ciò che la filosofia matematica di un Descartes, per esempio, sapeva dire di Dio. I Pensées di Pascal debbono essere compresi partendo da questa esperienza fondamentale della sua vita.
Contrariamente alla teologia metafisica del tempo, con il suo Dio puramente teoretico, essi cercano di condurre dalla realtà dell´essere umano concreto, con il suo inscindibile insieme di grandezza e di miseria, direttamente all´incontro con il Dio che è la risposta vivente all´esplicita domanda dell´essere umano, e questo non è altro che il Dio amorevole in Gesù Cristo, il Dio d´Abramo, d´Isacco e di Giacobbe.
Se la filosofia del tempo, in particolare quella di Descartes, è una filosofia dell´esprit de géometrie, i Pensées di Pascal cercano di essere una filosofia dell´esprit de finesse, della comprensione concreta della realtà, che penetra più in profondità di quanto faccia l´astrazione matematica. Tuttavia, la filosofia razionalistica del tempo, anche se vagliata a fondo da Pascal nella sua insufficienza, era allora ancora così sicura di se stessa che non poté essere scossa dalle «estranee» e frammentarie osservazioni di un filosofo autodidatta quale era Pascal. Solo la frantumazione della metafisica speculativa, operata da Kant, ed il trasferimento dell´elemento religioso nell´ambito extrarazionale e quindi anche extrametafisico del sentimento, operato da Schleiermacher, portarono finalmente il pensiero di Pascal a manifestarsi e condussero ora per la prima volta al radicale inasprimento del problema. Ora per la prima volta il fossato tra metafisica e religione è incolmabile: la metafisica, cioè la ragione teoretica, non ha accesso a Dio; la religione non ha sede nell´ambito della ratio; essa è esperienza vissuta che si sottrae alla misurabilità scientifica; volerla provare, tuttavia, significa trarne un modello irreale, il «Dio dei filosofi».
Ciò ha un´ulteriore conseguenza: la religione che non è razionalizzabile non può essere, in fondo, neppure dogmatica, quando invece il dogma deve essere un´asserzione razionale su contenuti religiosi. Così, l´antitesi concretamente sperimentata tra il Dio della fede e il Dio dei filosofi viene infine generalizzata in antitesi tra Dio della religione e Dio dei filosofi. La religione è fatto vissuto, la filosofia è teoria; corrispondentemente, il Dio della religione è vivo e personale, il Dio dei filosofi vuoto e inerte.
Oggi, questa distinzione è divenuta quasi una parola d´ordine e, in ogni caso, un luogo comune, dietro il quale possono nascondersi rappresentazioni molto diverse e abbastanza spesso anche una mancanza di conoscenza reale dei problemi. Tanto più importante rimane fare chiarezza in questo argomento, principalmente con riferimento a questa distinzione, nei termini ai quali si è accennato, prestando attenzione ai problemi di base della teologia fondamentale, come quello del rapporto tra religione e filosofia, tra fede e scienza, tra ragione generalmente intesa e vissuto religioso, e infine soprattutto il problema della possibilità di una religione dogmatica.
Inoltre, si mostrerà come appropriato uscire dalla più limitata, anche se meglio comprensibile, contrapposizione «Dio della fede e Dio dei filosofi» trattando insieme praticamente, per ovvia necessità, la maggiore contrapposizione «Dio della religione e Dio dei filosofi». (...)
Ecco innanzitutto la risposta di san Tommaso d´Aquino, che è possibile enunciare in poche parole. Sia consentito di premettere che Tommaso non conosce, ovviamente, la formulazione moderna del problema, ma conosce bene l´argomento e ne fa oggetto della sua trattazione. La sua opinione si può esporre nel modo seguente: per Tommaso, Dio della religione e Dio dei filosofi coincidono pienamente, mentre Dio della fede e Dio della filosofia sono in parte distinti; il Dio della fede supera il Dio dei filosofi, gli aggiunge qualcosa. La religio naturalis, e cioè ogni religione al di fuori del cristianesimo, non ha un contenuto più alto e non può avere un contenuto più alto di quello che gli offre la teologia filosofica. Anzi, tutto ciò che essa contiene in più o in contrasto è deviazione e confusione. Al di fuori della fede cristiana la filosofia è soprattutto, secondo Tommaso, la più alta possibilità dello spirito umano. Max Scheler parla qui non a torto di un sistema parziale d´identità proposto dall´Aquinate, che identifica le religioni al di fuori del cristianesimo, secondo il loro contenuto di verità, con la filosofia, e tiene fuori da questa totale identità soltanto la fede cristiana; questa comunica una nuova immagine di Dio, più alta di quanto la ragione filosofica l´abbia potuta immaginare e ideare. Ma neppure la fede contraddice la teologia filosofica; per chiarire il suo rapporto con essa, si è lasciata applicare piuttosto, conformemente al senso, la formula «gratia non destruit, sed elevat et perficit naturam». La fede cristiana in Dio accoglie in sé la teologia filosofica e la perfeziona. Detto in termini più precisi: il Dio di Aristotele e il Dio di Gesù Cristo è unico e lo stesso; Aristotele ha riconosciuto il vero Dio che noi nella fede possiamo comprendere in modo più profondo e più puro, così come noi nella visione di Dio nell´al di là ne comprenderemo ancora più intimamente e più da vicino l´essenza. Si potrebbe forse dire, senza alcuna forzatura della realtà: la fede cristiana si rapporta alla conoscenza filosofica di Dio più o meno come si rapporta la visione escatologica di Dio alla fede. Si tratta di tre gradi di un unico cammino comune.

mercoledì 14 marzo 2007

il Riformista mercoledì 14 marzo 2007 pag.6
COMPROMISSIONI. IN FRANCIA IL DIBATTITO SUL PENSIERO DEL FILOSOFO È PIÙ AVANZATO
Sofri, Heidegger e la bella addormentata intellettualità italiana
DI LIVIA PROFETI


L’acceso dibattito francese sul nazismo di Heidegger ha recentemente compiuto un ulteriore salto di qualità, con l’articolo di Roger-Pol Droit “Une fascination française”, apparso su Le Monde in occasione della pubblicazione del testo collettivo Heidegger à plus forte raison, curato da François Fédier per rispondere alle tesi di Emmanuel Faye, espresse nel suo eloquente Heidegger. L’introduction du nazisme dans la philosophie. A partire dalla pubblicazione di quest’ultimo, nell’aprile del 2005, in Francia la discussione sull’affaire Heidegger è piuttosto avanzata, perché non concerne più la compromissione politica del filosofo dell’Essere per la morte, data ormai per scontata, bensì quella del suo pensiero.
Al centro della riflessione del filosofo-giornalista Droit, una delle firme più prestigiose del quotidiano, c’è un “enigma”: l’incantamento, quasi una malìa, esercitato da Heidegger su tutta la cultura francese, nonostante che «nell’immediato dopoguerra, comunisti come Henri Lefebvre denunciavano il “nazista Heidegger” e cattolici ferventi come Gabriel Marcel lo schernivano». Nel sorprendente ribaltamento avvenuto da lì a pochissimo tempo, Droit rileva il ruolo determinante di Sartre, che ridusse l’impegno hitlerista del filosofo ad una «debolezza di carattere». Un’inversione che ha portato tutta la cultura francese «da Sartre a Derrida passando per Axelos, Levinas, Ricoeur o Lacan», a camminare, negli ultimi sessanta anni, «al passo di Heidegger». L’analisi di questo enigma, conclude Droit, tocca «elementi determinanti dell’identità culturale francese» e forse, aggiunge sorprendentemente, anche del suo «declino».
Considerata l’influenza che gli intellettuali francesi hanno esercitato sulla maggior parte dell’attuale cultura di sinistra, tanto europea quanto americana, la questione acquista un rilievo ancora maggiore, che sarebbe potuto emergere in Italia con largo anticipo, già intorno al 1979-80. Risale infatti a quegli anni il volume Bambino donna e trasformazione dell’uomo nel quale Massimo Fagioli - quale diretta conseguenza delle sue scoperte sulla realtà umana senza coscienza - evidenziò con la sua critica il fondamento nazista del pensiero heideggeriano.
A dispetto della posta in ballo, l’argomento è invece ancora poco frequentato dai nostri media, con qualche eccezione. Agli articoli sul Riformista e Left, si è aggiunto un lungo articolo di Adriano Sofri il cui titolo campeggiava sulla prima pagina di Repubblica del 9 marzo scorso: “Il nazismo di Heidegger e i conti del passato”, sul rapporto tra il filosofo e il poeta suicida Paul Celan. Il prologo al racconto è però una netta presa di posizione contro gli intellettuali che negano o minimizzano il filonazismo di Heidegger, come ad esempio Pierluigi Panza che sul Corriere della sera ne aveva scritto in termini di «presunto».
Per l’ex leader di Lotta Continua non possono esserci dubbi: «Heidegger non fu filonazista solo perché fu nazista, con fervida compromissione nel 1932-35, e un’adesione rinnovata fino alla fine», ma anche perché in seguito mantenne sempre sul suo passato un «penoso» silenzio. Oppure anche peggio, come nel caso di quel «E poi, sa, non è ancora detta l’ultima parola», unica enigmatica risposta sussurrata all’orecchio dell’incauto discepolo che gli aveva chiesto di esprimere un giudizio sul Terzo Reich.
L’articolo di Sofri è quindi una positiva novità tra le pagine del quotidiano diretto da Ezio Mauro, con una nota curiosa: la polemica nei confronti di coloro che manifestano «indulgenza» verso il filonazismo heideggeriano non si estende anche agli intellettuali che scrivono sul suo stesso giornale. Come Galimberti, che cita Heidegger per dare consigli sui disagi mentali (12.02.07); o Volpi, il quale, riabilitando lo storico di estrema destra Mircea Elide, lo assimila al filosofo in quanto «genio», la cui biografia «non basta a oscurare la grandezza dell’opera che ha generato» (12.03.07). Oppure il più occasionale Beppe Sebaste, che in un lungo articolo sulla «fecondità e bellezza» dell’incontro tra Heidegger e il soldato alleato Frédéric de Towarnick, cita il filonazismo del primo solo nei termini della «caduta in disgrazia» che questo gli ha comportato (13.08.06).
Confrontata con il dibattito francese, quindi, la situazione italiana sembra avere ancora parecchia strada da fare. C’è solo da augurarsi che l’articolo di Sofri suoni la sveglia a parte della nostra intellettualità, ancora bella addormentata nel bosco della Foresta nera.

il Riformista mercoledì 14 marzo 2007 pag. 2
OMOSEX 2. RISPOSTA A LIVIA PROFETI
Tra “normalità sessuale” e genetica
la sinistra non fa i conti con Darwin
DI GILBERTO CORBELLINI


Una cosa giusta Bertinotti l'ha detta: la sinistra italiana è preda di un drammatico vuoto culturale. E, si può aggiungere, le poche idee che circolano sono confuse o sbagliate. Non che la destra (sempre quella italiana) sia messa meglio. Ma ha scelto di cavalcare alcune idee che la tradizione del pensiero cristiano-cattolico coltiva dogmaticamente da un paio di millenni. Idee altrettanto sbagliate, ma che intercettano purtroppo meglio talune istanze innate del senso morale e della socialità umana.
Un saggio del ritardo culturale della sinistra italiana è la replica di Livia Profeti all'intervento di Anna Meldolesi sulle basi biologico-evolutive dell'omosessualità. Le critiche della Profeti sono dei veri e propri riflessi condizionati culturali della sinistra “storica”, che riecheggiano addirittura argomenti tristemente noti di materialisti dialettici stalinisti che, nel nome di Lysenko condannarono ideologicamente le conquiste scientifiche della genetica mendeliana e morganiana. Condanna che costò la vita a dei genetisti e a milioni di contadini sotto Stalin. Tra queste critiche spicca un luogo comune del tutto inverosimile, non a caso oggi cavalcato soprattutto da ex-comunisti schierati per convenienza sulle posizioni della destra religiosa e integralista, come Ferrara o Galli della Loggia, secondo cui gli attuali studi e applicazioni della biologia e della genetica all'uomo coincidono con l'eugenica nazista. La Profeti suggerisce altresì, cadendo nell'astuta trappola del “Ratzinger pensiero”, che siccome alcuni teologi cattolici, peraltro interpretando bene l'impianto trascendentalista della teologia ratzingeriana, cercano di fondare sulla biologia, la presunta «normalità» naturale, allora dobbiamo neutralizzare proprio la biologia. In realtà, è facile dimostrare che i neointegralisti cattolici e gli atei devoti cercano in modi diversi di falsificare o censurare le scienze biologiche perché se fossero davvero comprese e insegnate minerebbero alla radice le credenze superstiziose attraverso cui influenzano le persone più sprovvedute. Andiamo in ordine.
L'omosessualità è diffusa nel mondo animale, come dimostrano centinaia di studi etologici, ed esistono incontrovertibili prove che alcuni geni sono coinvolti, insieme a fattori ambientali, nel controllo dell'orientamento sessuale. In alcuni animali è stato possibile produrre sperimentalmente un orientamento omosessuale. Siccome la specie umana è il prodotto dell'evoluzione, è ragionevole domandarsi, come fanno gli studiosi di biologia del comportamento, quali fattori selettivi abbiano favorito la conservazione di tratti comportamentali che precludono la riproduzione dell'individuo: come è appunto l'omosessualità. Lasciamo da parte la questione se i geni dell'omosessualità danno una marcia in più. Il problema è quali pressioni selettive possono aver favorito i polimorfismi nei geni coinvolti nell'orientamento sessuale dell'uomo. Peraltro, gli aggettivi superiore o inferiore, migliore o peggiore in biologia non hanno senso: se un tratto è adattativo o meno dipende comunque dal contesto ambientale. Stante che l'omosessualità ha una base genetica, dire che qualcosa è geneticamente condizionata, ovvero che esiste a diversi livelli una componente genetica nella determinazione di ciò che siamo come persone, significa sostenere una tesi razzista e nazista? O sfociare nell'eugenica? Assolutamente no!
Liquidiamo subito la questione dell'eugenica: solo per ottusità o malafede è ancora possibile, alla luce di tonnellate di letteratura prodotta sull'argomento, confondere quelle che oggi sono libere scelte riproduttive delle coppie con le politiche statali illiberali volte a migliorare una "razza". L'eugenica era quest'ultima cosa. L'alleanza della genetica con il razzismo prima della seconda guerra mondiale fu il frutto di fraintendimenti concettuali elaborati da alcuni scienziati per avallare pregiudizi culturali ispirati da istanze xenofobe. La principale manipolazione degli eugenisti storici fu l'assunto che anche i tratti complessi, come i comportamenti, inclusi gli orientamenti sessuali, le capacità cognitive e le abilità pratiche, fossero sotto il controllo di singoli geni. Che l'ambiente si limitava a selezionare. L'eugenica razzista era quindi basata su assunzioni scientifiche del tutto false. È stata la moderna genetica evoluzionistica e molecolare, non le critiche psicoanalitiche, filosofiche o sociologiche del determinismo biologico, a dimostrare che le razze non esistono e che le caratteristiche complesse sono sotto il controllo di numerosi geni, che interagiscono tra loro e con il contesto ambientale. Per cui, più i tratti sono complessi e più numerosi sono i geni coinvolti. E' questa la soluzione trovata dall'evoluzione per amplificare esponenzialmente i gradi di libertà nei comportamenti degli animali superiori, ovvero per costruire condizioni di sempre maggiore indeterminatezza che permettono all'ambiente di giocare un ruolo più rilevante nella costruzione delle risposte adattative individuali. Rilevante, ma mai esclusivo. Geni e ambienti non sono pensabili, sul piano operativo, separatamente.
Una consistente letteratura in lingua anglosassone si chiede da anni come mai gli intellettuali di sinistra sono incapaci di capire che assumere una biologia della natura umana non implica cadere nel determinismo genetico. L'atteggiamento di pregiudiziale sospetto della sinistra verso il darwinismo e la biologia sono stati stigmatizzati dal filosofo Peter Singer in un famoso pamphlet intitolato Una sinistra darwiniana, che è caduto nel vuoto dell'impreparazione del pensiero politico di sinistra, e in generale purtroppo del pensiero laico, di cogliere le valenze euristiche positive di un approccio naturalistico alle dinamiche dei comportamenti sociali umani. Vale oggi ancora più di qualche anno fa l'invito di Singer: «È tempo per la sinistra di capire che noi siamo degli animali evoluti, e che portiamo la prova di questa eredità nel nostro comportamento».

il Riformista mercoledì 14 marzo 2007 pag.4
RISPOSTA. NON SPARATE SUI CONSULENTI DEL PENSIERO
La filosofia? La Croce Rossa del senso
DI NERI POLLASTRI*


Senza dubbio, sono molti a credere che pensare la realtà in modo più attento, completo e coerente faccia male. Lo si deduce da articoli come quello di Livia Profeti (sul Riformista del 2 marzo) ove, con argomenti assai eterogenei, si sostiene proprio questo: che non sia il caso che chi si imbatte in difficoltà nella propria esistenza provi a comprendere cosa gli sta succedendo assieme a una persona che ha dedicato la sua formazione e la sua vita a studiare le concezioni del mondo, a munirsi di strumenti di pensiero, a comprendere forme di vita. Cioè a un filosofo. Ciò è stupefacente, ma anche fin troppo comprensibile: attaccare la filosofia è un po’ come sparare sulla Croce Rossa.La filosofia, si sa, non serve a nulla: non importa che i grandi protagonisti della storia della scienza siano stati tutti filosofi, né che siano stati loro ad ispirare il cambiamento e il progressivo miglioramento dei sistemi politici, sociali e culturali, né che persone di ogni tipo si rivolgano alla filosofia quando le “ovvie” risposte ai problemi che offre loro la tradizione non funzionano più. La filosofia non muove il sistema economico; il filosofo, troppo spesso, mette in discussione e disturba il potere costituito (come, certo per pura combinazione, avviene ad alcuni dei nomi citati nell’articolo); dunque, se ne stia nelle sue stanze e lasci ad altri gli affari del mondo. Per far sì che ciò avvenga, va bene ogni tipo di accusa, incluse quelle travisate. Che qualcuno affermi che la filosofia viene prima della psicologia, ad esempio, non può essere certo un’accusa, dato che è un dato storico: ogni scienza è nata dalle riflessioni della filosofia. Così come non può essere un’accusa il fatto che una paziente di Binswanger - medico e non filosofo - si sia suicidata, cosa che purtroppo talvolta succede nell’ambito della salute mentale anche quando vengano applicate metodologie strettamente mediche. Forse può essere un’accusa sostenere che il suicidio sia il “compimento della propria esistenza” - affermazione che cozza contro fondamentali principi di consistenza nella costruzione di qualsivoglia “senso” dell’esistenza e che dubito sarebbe sottoscritta da un consulente filosofico. Ma, di nuovo, Binswanger non ha molto a che fare con la consulenza filosofica: era un medico e perciò responsabile dell’integrità di chi a lui si rivolgeva. Il consulente filosofico, in realtà, fa un altro lavoro: costruisce con le persone che lo vanno a cercare delle interpretazioni degli eventi; ricerca con esse il possibile “senso” delle vicende; esamina le loro visioni del mondo e prova ad ampliarle e renderle più comprensive e coerenti.È in questo senso che a lui non spetta l’intervento tecnico-strumentale («efficace», come cita Livia Profeti). Quando un tal intervento sia indispensabile - ad esempio perché si sospetta che l’ospite possa suicidarsi, cadere in uno stato depressivo profondo, o anche solo avere un’ulcera psicosomatica - il consulente filosofico impone di essere affiancato (o anche sostituito) da un medico, perché non è né stupido, né irresponsabile, né avido. E questo non perché la persona che ha davanti sia malata o incapace di ragionare, ma perché c’è un’urgenza che non compete alla filosofia e che va affrontata con altri strumenti. Per riconoscere la quale, peraltro, il filosofo deve anche essersi formato presso qualcosa di simile a un “blasonato master”, il cui costo perciò si rivela molto meno immorale di quanto non faccia trasparire l’articolo citato. Il punto che l’autrice di quell’articolo non prende in considerazione è che l’«allarme mondiale sui disagi psichici in aumento» ha una chiara spiegazione, ben illustrata dal sociologo Frank Furedi nel suo Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (Feltrinelli): cioè che gran parte di quei disagi non sono “patologie”, ma normali difficoltà dell’esistenza le quali, invece di essere comprese nella loro complessità, ricondotte al proprio senso e affrontate conseguentemente, vengono ridotte a “malattia”. In questo modo le persone, confuse e disorientate, divengono succubi di loro stesse e di coloro che promettono di “guarirle”, smarriscono la capacità di affrontare con dignità le difficoltà della vita e le responsabilità che essa impone, interrompono il loro processo di maturazione adulta e - soprattutto - perdono la possibilità di godere di uno dei più grandi piaceri che la vita ha da dare a ciascuno di noi: superare da soli, in piena libertà, con la sofferenza e la conseguenze soddisfazione proprie di ogni impresa umana, le sfide dell’esistenza. La riflessione filosofica può favorire il recupero della dignità di ciascun uomo e la trasformazione di persone sofferenti in cittadini adulti e consapevoli. Il suo rilancio nella società civile è un’opportunità straordinaria per il futuro di un’umanità che ha di fronte a scenari di grande complessità, per affrontare i quali urgono da parte di tutti chiarezza e maturità. Ma, evidentemente, proprio questo fa paura e si preferisce esorcizzare tutto con ordinarie e superficiali polemiche.
*Presidente di Phronesis, Associazione italiana per la consulenza filosofica

il Riformista LETTERE mercoledì 14 marzo 2007, pag.7
LOMBARDI E IL PD

Caro direttore, quando Covatta parla di Riccardo Lombardi sento il sottile piacere dell’affiorare dei ricordi. Le domande che mi pongo però sono sempre quelle: essere lombardiani oggi per chi lo è stato nel secolo scorso cosa significa? E che c’entra Lombardi con il Partito democratico? Nella storia politica di Lombardi esce un grande insegnamento, quello del coraggio di scommettere sulle grandi opzioni politiche, quelle che mettono in crisi le certezze del passato ma che possono cambiare non solo te ma il mondo. È quello che sta succedendo a noi Ds. Gli strappi di Lombardi - e Covatta ricorda quando rifiutò l’appoggio dei «carristi», quei socialisti che giustificavano l’intervento dei carri armati russi in Ungheria nel 56, e si giocò la segreteria del Psi - apparivano sempre azioni controcorrente. Ma Lombardi fu anche autonomista insieme a Nenni e dopo il fallimento del fronte popolare spinse per portare la sinistra socialista nel governo. Fu però anche uno dei primi ad essere critico con l’autonomismo del Psi quando questo si imbalsamò in una alleanza permanente con la Dc, e disse no anche alla scissione psiuppina, un’operazione, mutatis mutandi, troppo simile a qualche minaccia di scissione che sottotraccia si sente oggi dentro ai Ds. Fu poi anche uno dei primi a scommettere su quella politica dell’alternativa che divenne la base culturale e politica del bipolarismo attuale. Lombardi era un anticipatore dei processi politici salvo poi diventarne il più feroce critico quando questi, secondo lui, prendevano strade sbagliate. Venendo ai giorni nostri non ho dubbi che di fronte al progetto del partito nuovo, il Pd, lui sarebbe della partita salvo poi diventarne un critico e un censore subito dopo. Però sarebbe della partita e il suo coraggio per le grandi sfide del futuro avrebbe prevalso sul timore di perdere pezzi della vecchia identità.
Antonio Finelli vicesindaco di Formigine (Modena)
l'Unità 14.3.07
BERTINOTTI. Alla Camera il ’900 delle donne


«Le immagini possono restituire molto, è un linguaggio consono a mettere in luce ciò che in genere è oscurato da culture patriarcali o maschiliste». Il senso della proiezione del film documentario di Giovanna Gagliardo, «Bellissime. Il Novecento visto dalla parte di lei», lo spiega il presidente della Camera Fausto Bertinotti, parlando questo pomeriggio alla Camera prima dell'iniziativa. L'apprezzamento di Bertinotti va alle donne e alle loro personali «storie» che hanno contribuito a raggiungere «le conquiste sociali e politiche» nel nostro Paese. Non escluse, aggiunge, «figure leggendarie come le staffette partigiane» che agirono durante la Resistenza. Ma non tutto è compiuto, la piena realizzazione delle donne nella società incontra ancora seri ostacoli: è «un processo ben lontano dall'essere compiuto» in famiglia e in politica.

l'Unità 14.3.07
Reduci Usa, uno su 4 soffre di squilibri mentali
Fra i soldati americani dilagano droghe e alcolismo. Traumatizzati soprattutto i più giovani
di Roberto Rezzo


FOLLIA DA GUERRA. Un quarto dei reduci dall'Afghanistan e dall'Iraq sottoposti a visita medica negli Stati Uniti soffre di malattie mentali; lo rivela uno studio appena pubblicato sugli Archives of Internal Medicine che prende in considerazione 103.788 pazienti osservati dal 2001 al 2005. La diagnosi più frequente è quella di «disordini post traumatici da stress» ma l'elenco delle patologie psichiatriche comprende ansietà, depressione, tossicodipendenza. E i dati ottenuti dal New York Times attraverso il Freedom of Information Act mostrano una pericolosa correlazione tra abuso di alcol e droga e la violenza criminale che vede protagoniste le truppe in zone di combattimento.
Su 665 condanne pronunciate dalla magistratura militare 240 riguardano episodi in cui sono coinvolte sostanze proibite; di queste 73 riguardano gravi delitti come omicidio, stupro, rapina a mano armata, aggressione. Nonostante il bando di qualsiasi bevanda alcolica imposto dal Pentagono in entrambi i teatri di guerra e lo stretto divieto imposto dalla religione islamica, le bottiglie di liquore sono a buon mercato e facili da trovare per i soldati che cercano di annegare solitudine, tristezza e nostalgia di casa; riferiscono difensori, comandanti e medici militari. Gin e rum sono normalmente contrabbandati in bottiglie di colluttorio mandate dall'America da amici e parenti insieme ad altri generi di conforto, magari utilizzando coloranti alimentari per meglio aggirare i controlli. È stata trovata vodka persino nelle sacche di plastica destinate a contenere soluzione fisiologica per reidratare i feriti nelle unità di pronto soccorso. «È chiaro che abbiamo un significativo problema di alcolismo - spiega Thomas Kosten, psichiatra del Veterans Medical Center di Houston in Texas - proprio come lo abbiamo avuto durante la guerra in Vietnam».
Un sondaggio interno condotto dall'esercito indica che il 25% di tutto il personale fa regolarmente abuso di alcol, con un incremento del 30% dal 2002 al 2005; l'uso di stupefacenti è aumentato del 5% nello stesso periodo tra le divise, in controtendenza rispetto alla popolazione civile.
Lo stanziamento del dipartimento alla Difesa nei programmi di prevenzione è stato ridotto lo scorso anno da 12,6 a 7,74 milioni di dollari, pari a un taglio del 39 per cento. Statistiche imbarazzanti per l'amministrazione Bush, diffuse mentre ancora non si è spento lo scandalo per il trattamento dei veterani al Walter Reed Medical Center, considerato il fiore all'occhiello della sanità militare. Un'altra testa è rotolata al vertice della gerarchia, quella del generale Kevin Kiley, primo ufficiale medico dell'esercito, ma alle radici di un problema che sembra sempre più strutturale si profila sempre maggiore il ruolo avuto dalle privatizzazioni imposte dalla Casa Bianca. I contratti anche al Walter Reed sono andati in mano alla Halliburton, la mega azienda di servizi di cui il vice presidente Dick Cheney è stato presidente e amministratore delegato. Halliburton ha appena annunciato l'intenzione di trasferire il proprio quartier generale dal Texas a Dubai negli Emirati Arabi Uniti.
Tutti gli studi concordano che la categoria maggiormente a rischio di disturbi psichiatrici sono i giovani di età compresa fra i 18 e i 24 anni: il 13% dei quali riporta sintomi da disordine post traumatico, il 6% ansia o depressione, il 5% dipendenza da alcol, farmaci o stupefacenti. «I dati segnalano la necessità di potenziare i servizi di prevenzione in questa fascia perché è quella con maggiori probabilità di essere impiegata in operazioni di combattimento diretto», scrivono i ricercatori.

l'Unità 14.3.07
La sinistra reagisce al papa: «Minaccia la laicità dello Stato»


Reagisce il mondo politico all’ennesima intromissione di Ratzinger nelle questioni interne italiane. Il centrodestra naturalmente applaude, ma solo parte del centrosinistra si indigna. «Dopo le parole del Papa, a cui nessuno vuole mettere il bavaglio - sostiene Enrico Boselli -, è ormai assolutamente evidente che è minacciata la laicità dello Stato». Secondo il segretario dello Sdi «infatti le gerarchie ecclesiastiche non solo possono contare su un drappello di fedelissimi parlamentari, ma esercitano anche una pressione forte ed esplicita sul governo e sulle Camere». Per Giovanni Russo Spena, capogruppo del Prc al Senato, «...neppure un monito rivolto direttamente ai parlamentari sembra essere considerato un'ingerenza indebita del Vaticano nelle vicende politiche dello stato italiano...Direi che in Italia il problema della difesa dello stato laico inizia a porsi con una certa urgenza». Preoccupazioni che non restano isolate. «Il pressing della Chiesa non è mai stato così forte come in questa fase e non ha precedenti nella storia Repubblicana». Così il presidente dei deputati Pdci Pino Sgobio commenta le parole del Pontefice. «La Chiesa - aggiunge l'esponente comunista - è libera di intervenire e di dire come la pensa, ci mancherebbe altro, ma la politica si riappropri del proprio ruolo: il Parlamento, insomma, non è la Conferenza episcopale italiana. Uno Stato laico non può far finta di niente e voltarsi dall'altra parte: le unioni civili - conclude Sgobio - sono un fatto sociale che meritano attenzione e tutela legislativa». Rina Gagliardi, vicepresidente del gruppo Prc al Senato, ci va giù dura. «Papa Ratzinger dimentica che per la legge italiana il matrimonio non è indissolubile e che, se Dio vuole, la missione della donna nella società non è più imprescindibilmente legata al suo essere moglie e madre». Poi aggiunge: «Quanto all'ennesima chiamata alle armi dei politici cattolici, comincia a sembrare sempre di più una mano tesa alle destre e un tentativo di mettere in difficoltà il governo Prodi - continua Gagliardi -. Difficile non giudicare questo comportamento una ingerenza scorretta da parte di uno Stato estero quale, alla fin fine, è il Vaticano». Quanto ai Verdi non sembrano discostarsi molto dai colleghi dell'ala sinistra dell'Unione. Per Angelo Bonelli, capogruppo dei Verdi alla Camera quello del Vaticano è un «Accanimento politico e religioso nei confronti di milioni di cittadini che decidono liberamente di vivere insieme, di amarsi, senza sposarsi e questo dev'essere garantito dalla repubblica italiana». E alla domanda se sia legittimo che il pontefice si rivolga con queste parole ai politici cattolici, Bonelli replica: «è legittimo che dica questo ma vogliamo ricordare che la Costituzione italiana garantisce al parlamento la sua autonomia». Più morbido seppur sottolinando la netta distinzione tra il potere temporale e quello spirituale è Nello Formisano dell'Italia dei Valori. «I richiami alla coscienza sono giusti e legittimi, ma tali devono rimanere» dice Formisano il quale, a proposito delle affermazioni relative ai cattolici impegnati in politica, ricorda che «i parlamentari della Repubblica italiana non hanno alcun vincolo di mandato». Il Vaticano non riesce più a guardare con amore alla realtà sociale», afferma Sergio Lo Giudice, presidente nazionale di Arcigay. «Fra i valori "non negoziabili" secondo Ratzinger - si legge in una nota - rientrano la discriminazione verso gay e lesbiche e l'esclusione sociale delle loro relazioni d'amore. Così si promuovono pregiudizi e diffidenze, non comprensione e accoglienza». Quanto all'invito del Papa ai politici, poi, di non votare leggi contro «la natura umana», Lo Giudice cita don Lorenzo Milani, che si rifaceva a sua volta alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea: «gli stati firmatari devono tutelare le famiglie non fondate sul matrimonio, senza discriminazioni per orientamento sessuale».

Corriere della Sera 14.3.07
Veronesi: tempi minori per l'aborto terapeutico
Il professore: la legge fissi un limite massimo alla ventiduesima settimana
di Mario Pappagallo


MILANO — Due settimane in meno per l'aborto terapeutico e reintroduzione della diagnosi preimpianto per quelle coppie che già sanno di avere figli con malattie ereditarie, come la talassemia. In sintesi è questa la proposta di modifica della legge 194, quella che ha introdotto l'interruzione di gravidanza in Italia, avanzata da Umberto Veronesi, direttore scientifico dell'Istituto europeo di oncologia (Ieo), ex ministro della Sanità, scienziato di fama internazionale. Spiega: «Penso che sia ragionevole fissare come limite massimo per il cosiddetto aborto terapeutico la ventiduesima settimana di gravidanza, invece della ventiquattresima, soglia definita attualmente dall'abituale pratica clinica. Ed è auspicabile che la legge 194 si esprima in questo senso con correzioni ad hoc».
IL DIBATTITO — Veronesi riaccende così il dibattito innescato dal caso del bimbo sopravvissuto a un aborto terapeutico praticato all'ospedale Careggi di Firenze e poi morto nonostante gli sforzi dei medici per tenerlo in vita. «Nel caso in questione — sottolinea — c'è stato un errore diagnostico. Non si capisce come possa essere successo, anche se, da che mondo è mondo, gli errori si verificano purtroppo anche in medicina. Penso comunque che nel praticare l'aborto dopo la ventiduesima settimana di gestazione qualche rischio ci sia. Il bimbo, infatti, può sopravvivere e c'è l'obbligo medico di rianimarlo nonostante l'altissima probabilità di malformazioni permanenti».
Veronesi ha parlato del caso Careggi durante una pausa della presentazione, a Milano, del libro sugli Ogm: «Che cosa sono gli organismi geneticamente modificati. Dagli alimenti transgenici alle staminali: le ricerche scientifiche a favore della vita», edito da Sperling & Kupfer e firmato da Veronesi insieme alla genetista dell'università degli Studi milanese, Chiara Tonelli. Tornando alla 194, Veronesi aggiunge: «Come sempre la legge detta le linee generali di comportamento. All'interno di ogni struttura sanitaria ci si regola poi al meglio, ma ritengo possibile che la 194 si esprima fissando un limite troppo preciso. Così come accaduto con la legge 40 sulla fecondazione assistita. Troppi paletti. Per esempio, quello alla diagnosi preimpianto».
Entrando nel merito? «Attualmente — risponde lo scienziato — l'articolo 4 della legge 40 riserva il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita solo a i casi di sterilità e infertilità. E con ciò esclude le possibilità di ricorso per le coppie che sono fertili, ma che, essendo portatrici (uno o entrambi i partner) di malattie genetiche, potrebbero trovare nella procreazione assistita la speranza di mettere al mondo un figlio sano tramite la diagnosi preimpianto».
EUGENETICA — Con la diagnosi preimpianto si prelevano dalla donna (dopo stimolazione ormonale) un certo numero di uova mature, che vengono poste in provetta e fecondate con il seme del partner: ottenuti gli embrioni ai primissimi stadi se ne fa l'analisi genetica che permette di individuare quelli che non presentano la malattia. Gli embrioni selezionati, senza l'alterazione genetica, vengono poi introdotti nell'utero. «E' un avanzamento scientifico e civile», sottolinea Veronesi.
Ma la Chiesa condanna l'eugenetismo. E la stessa legge 40 sbarra la strada alla diagnosi preimpianto anche con l'articolo 13, in cui si dice che «è fatto divieto di ogni forma di selezione degli embrioni a scopo eugenetico». Replica Veronesi: «I genetisti non sono interessati all'eugenetica: vogliono permettere a una coppia, minacciata da una malattia genetica nella loro discendenza, di poter avere un figlio sano. Non mi sembra eugenetismo evitare una malattia che è una condanna a morte ed evitare un aborto alla madre, che è devastante sempre e comunque».

Corriere della Sera 14.3.07
Intervista a John Nash
La mia mente salvata dal computer
«Il calcolo è stata la medicina per sconfiggere le allucinazioni»
di Alessandra Farkas


I suoi deliri più ricorrenti riguardavano le visioni di messaggi criptati, provenienti anche da extraterrestri, il credere di essere l'imperatore dell'Antartide o il piede sinistro di Dio, l'essere a capo di un governo universale. John F. Nash Jr., 80 anni nel 2008, è considerato anche tra i matematici più brillanti e originali del '900. L'uomo che ha rivoluzionato l'economia con i suoi studi di matematica applicata alla «Teoria dei giochi», vincendo il premio Nobel per l'economia nel 1994.
A lui il regista americano Ron Howard ha dedicato «A Beautiful Mind», con Russell Crowe, vincitore di ben quattro Oscar nel 2002. Il film ripercorre la sua personalissima odissea attraverso il tunnel della schizofrenia da cui Nash è miracolosamente guarito dopo circa 30 anni di terapie quali elettrochoc, camicie di forza e iniezioni d'insulina, che lo hanno segnato nel fisico ma non nella mente. Visto che oggi continua ad insegnare a Princeton, una delle università più prestigiose d'America.
Che cosa l'ha aiutata a guarire?
«La matematica, il calcolo e i computer sono stati la medicina che mi ha riportato ad un'idea più razionale e logica, aiutandomi a rifiutare il pensiero e l'orientamento allucinatori. La matematica è curativa e in America viene usata nella terapia occupazionale al posto dei farmaci. Con ottimi risultati».
Genio e malattia mentale sono imparentati?
«Le turbe psichiche sono prevalenti soprattutto tra i poeti. Che tendono ad essere depressi».
Che cosa pensa del film sulla sua vita diretto da Ron Howard?
«Quando vidi il film all'inizio m'irrigidii sulla sedia. Ma man mano che i minuti passavano ne ho apprezzato la componente di intrattenimento. Peccato che l'Oscar non abbia avuto alcun riflesso pecuniario su di noi perché eravamo già stati compensati».
Pensa che Russell Crowe si sia calato efficacemente nel suo personaggio?
«Non l'ho sentito vicino a me, tranne che nella parte relativa alla malattia mentale. Ma anche lì il film si prende varie licenze poetiche, inventando episodi mai avvenuti, come le visioni o il compagno di stanza immaginario. Tuttavia nel complesso riesce a trasmettere il mio pensiero distorto e la mia malattia mentale».
Che cosa dirà al Festival della Matematica di Roma?
«Sarò intervistato dal Prof. Odifreddi e quindi non so ancora di cosa parlerò. Ci sarà molta gente interessante che voglio incontrare».
È vero che la matematica è imparentata ad arti quali musica, pittura e poesia?
«Matematica è una parola greca che all'inizio includeva i concetti di musica ed astronomia. Solo nell'accezione contemporanea è diventata una materia a sé. Ma secondo me continua ad essere intrinsecamente collegata ad innumerevoli altre discipline».
A quali di queste discipline si sente più e meno attratto?
«L'economia e il business m'interessano ben poco mentre adoro la musica, anche se ho un approccio selettivo. Trovo il rock e il pop sgradevoli e non amo compositori contemporanei quali Luciano Berio, al quale preferisco Vivaldi, Frescobaldi e Donizetti».
La matematica ha una gemella tra le arti?
«L'architettura, che è matematica applicata. Ma anche la pittura. Penso a Vermeer, Leonardo, Michelangelo che hanno usato proporzioni, prospettiva e tridimensionalità come fossero geometria pura».
Cos'è per lei la matematica?
«Non è mai stata memoria numerica. Non riesco a memorizzare alcuni numeri telefonici e non mi sforzo neppure per farlo. Conosco persone capaci di memorizzare una sequenza quasi infinita di numeri, però non sono per nulla portati alla matematica».
Come insegnerebbe ad un bambino l'amore per la matematica?
«In maniera empirica. Non è semplice perché devi "mostrare" e "applicare" le tue teorie; non basta enunciarle. Io credo di esserci riuscito con mio figlio che ha intrapreso la mia stessa carriera. Il mio amore per la matematica nacque nella scuola pubblica, dove abbiamo cominciato presto a lavorare con i numeri. Ma è stata la scoperta della geometria, alle elementari, ad aprirmi la mente. Sognavo di diventare un ingegnere come mio padre, poi la mia strada è andata in un'altra direzione».
Che cosa pensa della tesi, costata il posto all'ex rettore di Harvard, secondo cui l'inferiorità matematica è nei geni delle donne?
«È stato uno sbaglio drammatico e insieme banale, perché tutti sanno cosa si può e non si può dire oggi nell'America del politicamente corretto. L'ironia della sorte è che lui è stato sostituito proprio da una donna».
La morale della favola?
«Che non puoi sapere chi sarà il prossimo genio matematico della storia. Pensi all'indiano Srinivasa Aiyangar Ramanujan, ex bambino prodigio completamente autodidatta che alla fine dell'800 diventò uno dei più grandi geni matematici partendo da un libriccino. O alla grande Ipazia di Alessandria, che visse in Egitto tra il IV e il V secolo dopo Cristo. Le donne secondo me sono biologicamente più adatte alla matematica».
In che senso?
«Lo studio e l'applicazione della matematica non richiedono alcuna forza fisica. Un uomo e una donna non possono sfidarsi sul campo da tennis ma possono farlo su uno studio di numeri, dove l'unica forza necessaria è mentale».

Corriere della Sera 14.3.07
A ROMA IL FESTIVAL DELLA MATEMATICA
La formula del mondo
Senza bellezza non c'è verità scientifica
di Michael Francis Atiyah


Per gran parte della gente comune la matematica solitamente è un'austera disciplina intellettuale, comprensibile solo ad un esiguo numero di eccentrici terrestri e caratterizzata da una scarsa attinenza con l'esperienza umana. Molti si portano infatti dentro la penosa memoria dei grandi sforzi e delle energie impiegate sui banchi di scuola nel disperato tentativo di risolvere problemi apparentemente inintelligibili. Questi sopravvissuti alla matematica scolastica ricordano invece con sommo gaudio l'ultimo giorno in cui dovettero avere a che fare con un'equazione. E anche se pochi metterebbero in discussione l'idea che la matematica sia vera, la bellezza è l'ultimo tra gli aggettivi con cui descriverebbero questa materia.
Tuttavia non sono poche le celebri citazioni di altrettanto insigni matematici che non solo vedono bellezza nella loro disciplina, ma le attribuiscono altresì un'importanza suprema. Paul Dirac, uno dei padri fondatori della meccanica quantistica, disse: «Una legge fisica deve possedere matematica beltà». Pronunciate da lui, uomo notoriamente parco nell'uso delle parole, l'espressione assume un significato davvero incisivo. Il famoso matematico tedesco Hermann Weyl si spinse oltre: «Il mio lavoro è sempre stato orientato verso l'unificazione di verità e bellezza, ma quando mi trovavo costretto a scegliere tra esse, solitamente propendevo per la bellezza».
Una simile considerazione può sembrare scioccante e perversa: non solo dovremmo riuscire a cogliere l'estetica della matematica ma, peggio ancora, ci verrebbe richiesto di sacrificare la verità in nome del bello. Si presume che la prova ultima della geometria euclidea sia il cuore della matematica. Gli studiosi gongolano all'idea che la loro materia sia l'unica attività umana in cui — grazie all'arma del calcolo — possa essere raggiunta una certezza assoluta. Probabilmente Herman Weyl era in vena di scherzi. Dunque tutta la sua ricerca non è stata altro che un allegro jeu d'esprit? Niente affatto, Weyl era infinitamente serio e mi impegnerò a spiegare perché.
Credo che il modo migliore per far capire come i matematici intendano il concetto di bellezza sia attraverso un confronto tra matematica e architettura. L'architettura trae molte delle sue caratteristiche dall'impatto visivo del suo insieme, dalla natura artistica della sua progettazione, dall'ingegneria che sottintende la sua struttura e dall'attenzione sofisticata al dettaglio delle decorazioni. Diversi artigiani lavorano contemporaneamente a parti differenti della costruzione, la quale risulta permeata da una costante tensione tra estetica e funzionalità.
La matematica può essere vista sotto la stessa luce: un edificio astratto, la cui struttura elegante esprime un progetto d'insieme di estrema bellezza, in cui la raffinatezza del dettaglio può essere ammirata nella sua intricata argomentazione e la cui solidità è costantemente rafforzata da una tecnica rigorosa e da un'intrinseca utilità nelle sue innumerevoli applicazioni pratiche. Sia nella matematica sia nell'architettura è possibile elencare le qualità la cui somma crea bellezza: l'eleganza, la simmetria, l'equilibrio, la precisione, la profondità, ma alla fine l'estetica matematica inizia a esistere soltanto quando diventa finalmente visibile ai nostri occhi.

Il Foglio 14.3.07
Il diritto di dirsi anticlericali e il dovere di garantire cittadinanza alle idee
di Fulvio Abbate


Ma cosa c’è di così delittuoso, osceno, impronunciabile nell’essere, e ancora di più nel dichiararsi, anticlericali? Davvero in Italia ci si deve vergognare, magari sentendosi scaduti come un disco del Guardiano del Faro, qualora si desideri il mondo senza l’autorità dei preti? Ma è davvero una condizione così ignobile, da suscitare raccapriccio e soprattutto tanfo di cattivo gusto etico: sì, un tabù politico e un limite culturale?
Una roba appunto fosca e ottocentesca, da carbonai massoni che sbavano fiele su mustacchi e favoriti, visto che, brutti infami, non perdonano al Papa il mancato intervento al loro fianco nella battaglia risorgimentale. O, peggio ancora, cascami pseudo ideologici, pratiche da stregoni residenti in sottoscala, lestofanti meschini che tuttavia, sotto sotto, ambirebbero smistare loro il traffico davanti agli altari, e invece, visto che non ne hanno né la levatura né il carisma, sputano sulle ostie consacrate, gli indecenti. Dunque, l’anticlericalismo come forma estremistica dell’impotenza, come rachitismo dell’intelligenza filosofica: cose da microcefali.
Davvero ai preti, in quanto concessionari unici, ditta senza succursali del discorso divino, spetta un nullaosta, un contrassegno, un distintivo, così da mettersi al riparo dal biasimo altrui, e talvolta dalla semplice critica, in nome di una categoria gassosa, volatile, incerta quale il Sacro?
Mi interrogo, sia pure timorosamente, su questo sconfinato tema dopo aver appreso il commento di Fabrizio Cicchitto – un laico, un socialista – alla manifestazione a favore dei Dico che si è svolta a Roma nei giorni scorsi. Dove appunto proprio Cicchitto, segnalando certi slogan scanditi da alcuni partecipanti, ha parlato di “manifestazione anticlericale”. Nel senso dell’effrazione, dello sconfinamento nel non lecito, nell’apoteosi del deforme, ergo nella profanazione dell’inviolabile. Prendo atto delle sue parole e non me ne stupisco. Rammento infatti che perfino i comunisti, attraverso un loro dirigente giovanile (Enrico Berlinguer, ed era il 1947), riuscirono a indicare Maria Goretti come modello di sobrietà per le masse in cammino nella battaglia progressista. Affiancandone il venerato nome a quello di Irma Bandiera, martire bolognese della Resistenza. Se le cose stanno così, c’è appunto poco di che meravigliarsi, e dunque, tornando al “folcloristico”, l’unico anticlericalismo che intravedo, tanto per citare modelli economici, assume le fattezze del farmacista bestemmiatore e interprete del carducciano “Inno a Satana” – “Via l’aspersorio, / Prete, e il tuo metro! / No, prete! Satana/ Non torna indietro! ” – interpretato da Lionel Stander nel non proprio eccelso “Per grazia ricevuta” di Nino Manfredi. Poco, davvero troppo poco.
Oppure, per citare ciò che passa il convento laico, ritrovo alcune organizzazioni che invitano allo “sbattezzo”, o perfino il Gruppo atei materialisti dilettici, lo stesso che nottetempo fa l’apologia di Enver Hoxha da un’emittente privata dell’Italia centromeridionale, ma si tratta però di vampiri stalinisti, facce speculari a quelle di certi preti orchi. Resta il fatto che non può essere certo il dato assai relativo di una possibile blasfemia a negare legittimità, diritto di cittadinanza e spazio a una realtà possibile quale l’anticlericalismo. “Contra los negros cuervos de la iglesia”, così gli altoparlanti delle milizie repubblicane issati sulle barricate della difesa di Madrid incitavano alla resistenza contro il fascismo durante la guerra civile spagnola del 1936. Parole buttate al vento, visto che alla fine vinsero proprio i corvi neri. Domanda: perché mai è d’obbligo arrossire leggendo la lettera “Al Papa” scritta dal surrealista Antonin Artaud, dove si parla di “mascherata romana”, e non quando “l’Osservatore romano”, altrettanto specularmente, definisce una “esibizione carnascialesca” la manifestazione a favore delle unioni di fatto? Chi decide che il carnevale evocato dal Vaticano è censurabile, mentre il cerimoniale e la pompa stigmatizzati dal poeta Artaud come “estranei all’anima” una realtà invece inviolabile per dogma?

martedì 13 marzo 2007

da il Riformista del 10.3.07
Perché le unioni civili in Italia mettono in pericolo la famiglia? Perché la Chiesa viene ascoltata in nome dello stesso popolo che trent’anni fa l’ha sconfitta sull’aborto e sul divorzio? Perché non rimettere in discussione anche il divorzio? Perché se l’embrione è “persona” non rimettere in discussione anche l’aborto? Siete sicuri, politici cattolici, elettori cattolici, di essere la maggioranza? Cari Giuliano Ferrara, cari Vittorio Sgarbi, cari Antonio Socci, cari finti liberali neoguelfi, cari credenti fedeli o atei devoti o comunque vogliate chiamarvi, personalmente mi avete convinto. Ma allora vi chiediamo un altro piccolo sforzo. Se è vero quanto dite, se la Chiesa rappresenta il popolo italiano e non una parte, non potete tirarvi indietro. Abbiate il coraggio della verità, e di trarre le conseguenze dalle vostre parole.
***
Poiché la maggioranza della classe politica si oppone alle unioni civili tra omosessuali o tra eterosessuali in difesa dei valori cattolici e della “sacralità” della famiglia; poiché il punto di vista religioso e la voce del Vaticano è predominante nel voler imporre questi valori anche a chi cattolico non è; poiché noi laici, liberali, libertari, e illuministi, messi all’angolo dall’altissimo pensiero cattolico, avendo perso la battaglia sui nostri diritti, vogliamo tutelare i vostri doveri, rispetto ai quali sarete certamente d’accordo, vi chiedo di firmare il presente appello per favorire referendum o proposte di legge che sanciscano, per le famiglie cattoliche:
1. Abolizione del matrimonio civile, non riconosciuto dalla Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
2. Abolizione del divorzio, severamente condannato dalla Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
3. Divieto di copulazione non “unitiva e procreativa”, come stabilita anche dal diritto canonico della Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana contro gli eterosessuali cattolici che commettessero atto sessuale e fornicativo a scopi di piacere, ivi incluso l’onanisno, indicato come peccato mortale quanto l’omicidio o il rapporto sessuale tra persone dello stesso sesso.
4. Divieto di aborto, che sia punito anche penalmente come omicidio, anche se praticato prima dei tre mesi, dal concepimento in poi.
5. Divieto, per Silvio Berlusconi, Pierferdinando Casini, e qualsiasi esponente politico cattolico divorziato, già interdetti a ricevere la Santa Comunione dalla Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana (Catechismo, art. 349), di parlare in nome del cattolicesimo.
***
Ho fede, in nome della Vostra Fede, che questo appello troverà ampio consenso tra deputati, senatori, intellettuali, giornalisti, Cei, partiti, circoli dellutriani, margherite e elettori cattolici italiani giustamente preoccupati per i valori dello spirito e della famiglia messi in pericolo dalla modernità, dall’edonismo e dal laicismo imperante. Il credente che non fosse d’accordo è pregato di fornire argomentate ragioni, possibilmente in nome di Dio o giù di lì.
Massimiliano Parente

da il Riformista del 13.3.07
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Obbedisco, aderisco /4
Caro direttore, condivido e sottoscrivo la lettera ai cattolici di Massimiliano Parente, pubblicata dal vostro giornale. Cari saluti
Paolo Izzo scrittore ateo, eretico
impenitente www.paoloizzo.net
l'Unità 13.3.07
Dico, il Vaticano passa agli insulti
l’Osservatore senza freni
di Maria Zegarelli


IL QUOTIDIANO dello Stato Vaticano entra a gamba tesa nella già accesa polemica sulla manifestazione che si è svolta sabato scorso in piazza Farnese a Roma in difesa del riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto. Un intervento che si inserisce in
un clima politico ancora rovente con i ministri che battibeccano tra di loro, Prodi che interviene e torna a prendere le distanze dai ministri Pollastrini, Pecoraro Scanio e Ferrero, che hanno preso parte alla manifestazione (distanze condivise dalle ministre Bindi e Bonino) e Clemente Mastella che minaccia fuoriuscite dal governo e un referendum in caso di approvazione della legge sui Dico. Su questa posizione il Guardasigilli crea un fronte compatto con Pierferdinando Casini - Udc - e di assoluta sintonia con oltretevere. Tanto che nell’articolo dell’Osservatore il suo comportamento (come quello di Casini) raccoglie la piena approvazione.
Il giornale vaticano punta l’obiettivo sui bambini e lancia un affondo durissimo contro il sit-in: «Erano in molti i manifestanti omosessuali che recavano sulle spalle o per mano, dei bambini, frutto di precedenti relazioni o anche di fecondazioni praticate all’estero. Bambini la cui presenza è stata sfruttata proprio allo scopo di accreditare l’immagine, che vorrebbe essere rassicurante, di una famiglia da tutelare. Ogni bambino, almeno da quando è nato, gode, anche nell’ordinamento italiano, di diritti che gli vengono riconosciuti comunque, in ogni condizione si trovino i loro genitori. Anche per questo, sfruttare la loro ingenuità appare un’operazione particolarmente criticabile. Ma è anche, ancora una volta, la prova evidente di quale sia la finalità di chi si batte per il riconoscimento legale degli omosessuali, essendo la presenza di minori determinante per garantire ad un nucleo famigliare particolari diritti». Per questo, secondo l’Osservatore, «spiccavano» in piazza Farnese, «fra l’altro ben tre ministri, a dimostrazione di come una parte del Governo sembra volersi impegnare personalmente per una questione diventata inspiegabilmente prioritaria», per fortuna è arrivato Mastella a «sfrondare il campo da ogni ipocrisia» e dire che su una questione così potrebbe cadere il governo. Proprio come, secondo indiscrezioni che trapelarono alla vigilia dell’approvazione in Cdm dei Dico, auspicò il cardinale Camillo Ruini. Al di qua del Tevere il deputato ds franco Grillini, presidente Arcigay, commenta a caldo:«Non ci meraviglia che l'imponente manifestazione “Diritti ora!” non sia piaciuta all’Osservatore. Un conto però è non condividere i contenuti della kermesse per i diritti, la non discriminazione e la dignità di milioni di persone, un conto è insolentire i migliaia di manifestanti, apostrofati come “pagliacci”, e perseguire nell'ossessione antiomosessuale che caratterizza il vertice vaticano». Secondo il capogruppo della Rnp alla Camera, Roberto Villetti, l’Osservatore esaspera «aspetti di colore presenti nella manifestazione con l'evidente scopo di svilirne il profondo significato civile e politico» e lancia una «caccia alle streghe». «Le vere vittime di questa assurda contrapposizione ideologica e religiosa - dice Angelo Bonelli dei Verdi - sono milioni di cittadini ai quali è necessario dare risposte. Il capogruppo del Prc al Senato Giovanni Russo Spena pretende le scuse dell'Osservatore, mentre Marina Sereni, vicecapogruppo Ulivo alla Camera ricorda agli alleati: «Dobbiamo rispettare l'impegno preso con i nostri elettori». Secondo Isabella Bertolini, Fi, il centrosinistra è affetto «da clericofobia».
Il Guardasigilli si tira fuori. Lui no. Anzi: «Se mi pongono un problema o un dilemma, “o al Governo oppure devi firmare i Dico”, io esco dal Governo». Anche a costo di far cadere Prodi e di cadere lui stesso. Tutti a terra ma niente Dico. Se ci fosse la fiducia «voterei no», minaccia. E se si dovesse arrivare a una legge, allora l’Udeur potrebbe anche «promuovere un referendum» per farla abrogare. Passando di trasmissione in trasmissione, da «l’Antipatico», a «Porta a Porta», rimprovera i suoi colleghi presenti sul palco sabato di non averlo difeso quando è stato fischiato. Il ministro Alfonso Pecoraro Scanio non ce la fa più e spiega che lui non lo ha difeso semplicemente perché nessuno lo ha fischiato in sua presenza: «La manifestazione e i nostri interventi dal palco sono stati trasmessi su Raitre e tutti possono confermare che dalle 17 alle 18, cioè quando eravamo presenti, nessuno ha insultato o fischiato il ministro». La platea in quel lasso di tempo ha applaudito i ministri. «Mastella la pensa diversamente da me - dice il ministro - ma merita tutto il mio rispetto e se avessi sentito i fischi l’avrei difeso».Rosy Bindi invita tutti ad abbassare i toni, ma poi dice che a lei le piazze come quella di sabato «non piacciono,e infatti non ci sono andata». Comunque, «la famiglia è tra un uomo e una donna e quindi il desiderio di maternità e di paternità un omosessuale se lo deve scordare». Quindi, «è meglio che un bambino stia in Africa, piuttosto che cresca con due uomini, o due donne». Il senatore a vita Giulio Andreotti tanto per rendere più scivoloso il dibattito ha annunciato un emendamento al ddl sui Dico per eliminare le parole «dello stesso sesso»: quel riferimento, alle coppie di fatto dello stesso sesso, «è un errore e non deve essere approvato». Forse, in quel caso, i teodem della Margherita, potrebbero persino votare a favore.

l'Unità 13.3.07
La Chiesa prepara i cattolici allo scontro
di Roberto Monteforte


Nessuna caccia alle streghe: l’aveva chiesto l’arcivescovo Angelo Bagnasco il successore del cardinale Ruini alla guida dei vescovi italiani. Si immagina che il richiamo fosse rivolto ai due schieramenti. Ferma la sua difesa dei valori che per la Chiesa «non sono valicabili», come la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna e aperta a generare la vita, ma da esercitare con «serenità» oltre che con «chiarezza». Una linea che è sembrata indicare un passo nuovo, più «pastorale» e vicino ai drammi dell’uomo e della donna nella società contemporanea. Una Chiesa, quindi, che pur tenendo ferma la difesa dei valori, è attenta a non esasperare i toni, a non acuire l’asprezza del confronto, a mantenere aperta la via del dialogo, nella distinzione dei ruoli e delle posizioni. Poi ieri è arrivato il commento dell’Osservatore romano alla manifestazione di sabato per il riconoscimento delle coppie di fatto in particolare per i diritti delle coppie omosessuali. «Un’esibizione carnascialesca» così l’ha bollata il giornale vaticano. Giudizi da fuoco alle polveri. In particolare per quelle critiche rivolte ai manifestanti gay che hanno marciato con i loro figli: colpevoli di voler dare l’idea di famiglia. È questa la linea della segreteria di Stato?
L’impressione è che il clima «caccia alle streghe», da chiamata alle armi per i cattolici, lo stiano alimentando proprio le gerarchie. Un’impressione confermata dal Sir, l’agenzia di stampa dei vescovi che muove un richiamo fermo a quei cattolici «tiepidi», che paiono poco disposti a mobilitarsi contro i Dico. «Oggi è il tempo delle proposte», e per questo non è sostenibile un atteggiamento di «scelta tra indifferenti» come al tempo dei referendum sull'aborto e sul divorzio, ma bisogna chiamare «con il loro nome bene e male, vero e falso, giusto e sbagliato» tuona l'agenzia ispirata dalla Cei. «È il tempo delle proposte, con tre parole chiave: libertà, diritti, responsabilità» conclude il Sir che richiama le parole del nuovo presidente della Cei: «La vicenda dei Dico sta dimostrando con serenità e chiarezza che il preciso no pronunciato con coerenza non solo dai cattolici, ma da tanti laici, diventa un punto di riferimento aperto e creativo». Come sul referendum per la procreazione assistita è il via libera alla linea dello scontro. Così si prepara anche il terreno per quella Nota Cei «vincolante per i politici cattolici», voluta dal cardinale Ruini che sarà discussa il prossimo 26 marzo nel primo Consiglio permanente della Cei a «gestione Bagnasco». Parola d’ordine: sbarrare la strada ai Dico. Subito. Pare essere più importante delle misure concrete, pure invocate, a favore della famiglia tradizionale. Le richiama dai microfoni di Radio vaticana l’arcivescovo di Lecce, Cosmo Ruppi: far fronte alle difficoltà dei giovani a sposarsi, degli alloggi, degli affitti, l'insufficienza degli assegni familiari, la mancanza di tutela della famiglia vera. Ma prima vi è il richiamo alle forze politiche. «Facciano una valutazione di quello che è più urgente, più importante e di quello che è meno importante» e «diano la priorità ai problemi della famiglia rispetto ai Dico» afferma Ruppi che pure riconosce che le coppie di fatto meritano rispetto e che «la Chiesa non condanna nessuno». Ma la realtà pare essere diversa. Per la gerarchia vi sono diritti e doveri da non riconoscere per non rendere ancora più pesante la crisi della famiglia tradizionale. Sono richiami ai quali lo Stato, nella sua auspicata neutralità, non può essere indifferente. È il parere del patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola che nel suo ultimo libro «Una nuova laicità», edito da Marsilio affronta il tema del rapporto della Chiesa con la società contemporanea, pluralistica e complessa. «Il potere politico e dello Stato non è sacrale e quindi non è onnipotente» scrive, richiamando il diritto della Chiesa ad esercitare una «funzione di coscienza critica». Invoca uno Stato «laico», ma non «indifferente alle identità e alle culture» prevalenti e ai valori che stanno a fondamento della stessa convivenza democratica. Parla di convivenza dialogica, il cardinale. E del rispetto delle procedure del consenso. Di riconoscimento reciproco come garanzia da ogni integralismo. Ma che sia davvero reciproco.

l'Unità 13.3.07
Il ministro Mussi a D’Alema: «L’adesione al nuovo partito non è obbligatoria»
I Congressi a Roma: la mozione del segretario «ferma» al 59%, la Mussi al 26-27% e la Angius-Zani al 14%.


ROMA «Si sciolgono i Ds e si forma un nuovo partito. L’adesione al nuovo partito è facoltativa, non obbligatoria».
Così il ministro della Ricerca, Fabio Mussi, risponde all’invito di Massimo D’Alema ad abbandonare i «no pregiudiziali» al nuovo soggetto politico, cui Mussi si oppone con una delle mozioni per il congresso Ds.
Il ministro, a Palermo per un incontro appunto sulla sua mozione, parlando con i giornalisti aggiunge: «Io sono un uomo di sinistra non si può cancellare la sinistra, farla sparire o diventare una corrente e farla diventare la corrente di un partito centrista, cosa che non esiste in nessuna parte d’Europa. Ritengo che sia un errore clamoroso. Questo Partito democratico è sostanzialmente un terreno di fusione tra Ds e Margherita, penso che abbia poca storia e poco futuro. È un partito che nasce non si sa bene con quale identità, con quale collocazione internazionale, con quale tavola dei valori. L’unica cosa nota per ora -conclude Mussi- è questo manifesto dei saggi che non passerà alla storia come un grande documento dal punto di vista politico e intellettuale».
La mattina, sempre a Palermo, Mussi aveva detto che non avrebbe parlato di Partito Democratico. Evidentemente non ne ha potuto fare a meno.

l'Unità 13.3.07
Per Revelli e Cremaschi Rc è ormai rosso sbiadito
Delusi dal partito che ha processato Turigliatto. Gagliardi: «Troppo apocalittici»
di Wanda Marra


L’intellettuale: «Abbiamo condannato i crimini del ‘900
Ora usiamo le stesse categorie»

Il sindacalista: «Rifondazione ha fallito. Non è né di lotta né di governo»

DISSENSI È una questione di «dissenso» e il dissenso è sempre «positivo», secondo il direttore di Liberazione, Piero Sansonetti. Ma forse ci sono dissensi che pe-
sano più di altri. A criticare aspramente Bertinotti e con lui Rifondazione comunista sono stati (e sono ancora) Marco Revelli e Giorgio Cremaschi. Due figure importanti, che al leader sono state fino a poco fa molto vicine. Intellettuale di riferimento il primo, tanto che Bertinotti gli affidò al Congresso di Venezia la relazione che affermava l’assoluta non violenza. E poco importa che, battitore libero com’è, a Rifondazione non sia mai stato iscritto. Sindacalista Fiom il secondo, tanto vicino all’allora segretario di Rifondazione da far ventilare ad alcuni l’ipotesi che nel 2001 questi potesse cedergli il posto per assumere la presidenza del partito. E anche qui, poco importa che la tessera ad ora non l’abbia rimessa.
Revelli e Cremaschi venerdì sera erano a Torino, a un’assemblea di solidarietà a Turigliatto, allontanato per 2 anni da Rifondazione. In quell’assemblea Revelli, forse anche provocatoriamente, ha dichiarato che non voterà più Rc. Applaudito entusiasticamente da Cremaschi. «Se Rifondazione la voterò ancora non lo so - spiega Revelli - certo è che se diventerà un partito che mi impedisce di fare un appello contro la guerra, allora non lo farò». Il dissenso, comunque, è forte. Revelli l’aveva già espresso in un articolo sul Manifesto del 6 marzo. Qualcosa si è rotto, scriveva, che« investe alle radici la strategia della sinistra, in particolare della «sinistra radicale»: «Di quella componente del centrosinistra, cioè, che aveva affidato buona parte del proprio ruolo alla possibilità di “fare rappresentanza” di ciò che muove “in basso”». Chiosando che «i 12 punti che hanno siglato la pace istituzionale dentro la coalizione sono 12 chiodi ben lunghi piantati sul coperchio della cassa delle buone intenzioni di chi sperava di far filtrare in alto almeno brandelli di voci dei territori». Parlando del «paradosso dell’antipolitica di sinistra», gli aveva risposto su Liberazione Rina Gagliardi, tra le “teste pensanti” di Rifondazione più vicine a Bertinotti, definendo «apocalittiche» le sue ragioni e attribuendogli un cupo pessimismo sulla possibilità, come si diceva una volta, di “cambiare il mondo”». I due, poi, si sono confrontati ancora sulle pagine di Liberazione domenica.
Ma Revelli, a proposito dell’espulsione di Turigliatto, lo ribadisce: «Prima abbiamo condannato i crimini del ‘900, e poi riproponiamo le stesse categorie che li hanno provocati». Mentre Cremaschi, che in occasione della manifestazione di Vicenza aveva dichiarato che «uscire dal governo per Rifondazione non dev’essere un tabù» ci va giù durissimo: «Il Prc ha fallito nella sua missione di essere partito di lotta e di governo. Da una parte ha rotto con la parte più radicale del movimento, dall’altra viene accusata di essere continuo elemento di destabilizzazione del governo».
Che da una parte ci sia questo tipo di dissenso, alimentato dalla decisione su Turigliatto, dall’altra la discussione su un nuovo soggetto della sinistra, in grado di fare «massa critica», lanciata da Bertinotti, e che Rifondazione stia in mezzo lo dice anche Sansonetti. «Ci sono due Rifondazioni», dichiara invece Salvatore Cannavò, leader della corrente trotzkista del partito, Sinistra critica, che si è autosospeso per solidarietà a Turigliatto. Una, spiega, è quella che guarda a un soggetto della sinistra, che tenga insieme Mussi e Bertinotti. E un’altra, che si pone a sinistra di quest’operazione. D’altra parte, non più di un mese e mezzo fa proprio da Cannavò è partita la fondazione di una nuova Associazione, Sinistra Critica, che tra le sue parole d’ordine mette il no alla missione italiana in Afghanistan. All’assemblea fondativa era presente lo stesso Cremaschi. Che però ci tiene a dire che «non c’è nessuna operazione in atto». Mentre Revelli dichiara che le «architetture» politiche non gli interessano. Nessun nuovo partito, per ora. Ma i giochi sono aperti.

Repubblica 13.3.07
La violenza suipiù deboli e l'incertezza del futuro
Perché si è giunti alo scontro fisico
di Umberto Galimberti


Le frontiere che delimitavano gli individui sono saltate determinando un tale stato d´allarme da non sapere più chi è chi. Ciò vale anche per i giovani

Il bullismo c´è sempre stato come eccesso dell´esuberanza giovanile. Oggi ha passato paurosamente il limite, al punto da generare nei genitori angoscia, negli insegnanti impotenza, e nella società nel suo complesso disorientamento. Le ragioni vanno cercate nell´eredità del passato, nella cultura del presente e nell´incertezza del futuro. Vediamole ad una ad una.
A partire dal Sessantotto si è registrato un passaggio dalla "società della disciplina" dove ci si dibatteva nel conflitto tra permesso e proibito alla "società dell´efficienza e della performance spinta" dove ci si dibatte tra il possibile e l´impossibile, senza nessun riguardo e forse nessuna percezione del concetto di "limite".
Questo passaggio s´è registrato verso la fine degli anni Sessanta, quando la parola d´ordine dell´intero continente giovanile era "emancipazione" all´insegna del "tutto è possibile", per cui la famiglia era una camera a gas, la scuola una caserma, il lavoro un´alienazione, il consumismo un aberrazione, e la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si doveva liberare. La parola d´ordine era: "vietato vietare".
Su questa cultura preparata dal Sessantotto, ma che il Sessantotto aveva pensato in termini "sociali", si impianta, per uno strano gioco di confluenza degli opposti, la stessa logica di impostazione americana, giocata però a livello "individuale", dove ancora una volta tutto è possibile, ma in termini di iniziativa, di performance spinta, di efficienza, di successo al di là di ogni limite, anzi con il concetto di limite spinto all´infinito, per cui oggi siamo a chiederci: qual è il limite tra un atto di esuberanza e una vera e propria aggressione, tra un atto di insubordinazione e il misconoscimento di ogni gerarchia, tra le strategie di seduzione troppo spinte e l´abuso sessuale?
E questo solo per fare degli esempi che dimostrano come le frontiere della persona e quelle tra le persone siano saltate, determinando un tale stato d´allarme da non sapere più chi è chi. Questa è la ragione per cui i giovani non si sentono mai sufficientemente se stessi, mai sufficientemente colmi di identità, mai sufficientemente attivi se non quando superano se stessi, senza essere mai se stessi, ma solo una risposta ai modelli o alle performance che la televisione e internet a piene mani distribuiscono, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, insubordinazione alle norme sociali.
Nel 1887, un anno prima di scendere nel buio della follia, Nietzsche annunciava profeticamente «l´avvento dell´individuo sovrano riscattato dall´eticità dei costumi». Oggi, a cento anni dalla morte di Nietzsche, possiamo dire che l´emancipazione ha forse affrancato i nostri giovani dai drammi del senso di colpa e dallo spirito d´obbedienza, ma li ha innegabilmente condannati al parossismo dell´eccesso e dell´oltrepassamento del limite. Per cui genitori e insegnanti non sanno più come far fronte all´indolenza dei loro figli o dei loro alunni, ai processi di demotivazione che li isolano nelle loro stanze a stordirsi le orecchie di musica, all´escalation della violenza, allo stordimento degli spinelli che intercalano ore di ignavia. Tutti questi sintomi sono iscrivibili, come scrive il filosofo francese Benasayag: «nell´oscurarsi del futuro come promessa e nell´affacciarsi di un futuro come minaccia».
La mancanza di un futuro come promessa arresta il desiderio nell´assoluto presente. Meglio star bene e gratificarsi oggi se il domani è senza prospettiva. O come scrive il sociologo tedesco Falko Brask: «Meglio esagitati ma attivi che sprofondati in un mare di tristezza meditativa, perché se la vita è solo uno stupido scherzo, dovremmo almeno poterci ridere sopra».
Ciò significa che nell´adolescente non si verifica più quel passaggio naturale dalla "libido narcisistica" (che investe sull´amore di sé) alla "libido oggettuale" (che investe sugli altri e sul mondo). In mancanza di questo passaggio, accade che si inducano gli adolescenti a studiare con motivazioni "utilitaristiche", impostando un´educazione finalizzata alla sopravvivenza, dove è implicito che "ci si salva da soli", con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.
E così i nostri giovani hanno smesso di dire "noi" come lo si diceva nel Sessantotto, l´hanno detto sempre meno dopo il crollo delle ideologie, si sono rifugiati in quello pseudonimo di se stessi che ripete ossessivamente "io" dalle pareti strette come quelle di un ascensore. E di quella dimensione sociale che non ha più trovato dove esprimersi: né in chiesa, né a scuola, né nelle sezioni di partito, né sul posto di lavoro, è rimasto solo quel tratto primitivo o quel cascame che è la "banda".
Solo con gli amici della banda oggi molti dei nostri ragazzi hanno l´impressione di poter dire davvero "noi", e di riconfermarlo in quelle pratiche di bullismo che sempre più caratterizzano i loro comportamenti nella scuola, negli stadi, all´uscita delle discoteche. Lo sfondo è quello della violenza sui più deboli e la pratica della sessualità precoce ed esibita sui telefonini e su internet dove, compiaciuti, fanno circolare le immagini delle loro imprese.
E questo perché oggi i nostri ragazzi si trovano ad avere un´emotività carica e sovraeccitata che li sposta dove vuole a loro stessa insaputa, senza che un briciolo di riflessione, a cui non sono stati educati, sia in grado di raffreddare l´emozione e non confondere il desiderio con la pratica anche violenta per soddisfarlo. L´eccesso emozionale e la mancanza del raffreddamento riflessivo li portano a oscillare tra lo "stordimento dell´apparato emotivo", attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della droga, o il "disinteresse per tutto", messo in atto per assopire le emozioni attraverso i percorsi dell´ignavia e della non partecipazione che conducono all´atteggiamento opaco dell´indifferenza.
Di fronte a questi ragazzi, che inconsciamente avvertono l´incertezza del futuro che li induce ad attardarsi in una sorta di adolescenza infinita, resta solo da dire a genitori e professori: non interrompete mai la comunicazione, buona o cattiva che sia, qualunque cosa i vostri figli o i vostri studenti facciano. A interromperla ci pensano già loro e, come di frequente ci dicono le cronache quotidiane, anche in maniera distruttiva.

Repubblica 13.3.07
L'intervista. Armando Cossutta: uno sbarramento al 5 per cento può aiutarci
"Ha ragione Bertinotti serve una nuova sinistra"
L'ex presidente del Pdci critica Diliberto e insiste: possiamo dire addio a falce e martello
di Umberto Rosso


ROMA - «Sì, oggi mi sento più vicino alle posizioni e alle ultime riflessioni di Fausto Bertinotti che alla linea, ripetitiva e chiusa, del segretario del Pdci Diliberto».
Senatore Cossutta, sta dicendo che sono ormai superate le ragioni della clamorosa scissione con Rifondazione?
«Quelle ragioni non possono essere superate per il semplice motivo che fanno parte della nostra storia. Ma il tempo delle divisioni a sinistra è finito. E uno sbarramento elettorale al 5 per cento potrebbe favorire l´aggregazione di una sinistra nuova. Rimettendosi tutti in discussione, in un gioco più grande e più ambizioso».
E con Bertinotti, è tornato a parlarne?
«Personalmente no. Io sono liberamente comunista. Ma ho molto apprezzato le interviste, le riflessioni che in quest´ultimo periodo ha compiuto. L´invito a ragionare sui tratti distintivi della sinistra ma in maniera produttiva, incisiva».
L'idea della "massa critica" della sinistra, rivolto in primo luogo ai Ds.
«Lui parla così, ha questo linguaggio. Io, che volete, sono più prosaico. Ma quella è una significativa apertura alla costruzione di una sinistra che conti realmente. Mentre è improduttivo e dannoso l´atteggiamento di quanti antepongono solo la paura di sparire come piccola entità di partito».
Ce l'ha con Oliviero Diliberto?
«I suoi appelli sono ripetitivi, semplificatori, soprattutto molto gridati. Unità, unità, unità. E poi? In realtà, se qualcuno prova ad avvicinarsi, apriti cielo. Scatta il riflesso identitario del partito, l´unità come somma di apparati, l´idea salvifica di tutelare in primo luogo se stessi. Una visione davvero ristretta, rispetto alla sfida dei tempi. Io mi sono dimesso da presidente del partito, in modo molto critico. Resto senatore del gruppo. Oggi, di fronte ad un´offensiva moderata, c´è un´esigenza oggettiva di costruire un processo unitario più largo possibile. Di popolo, non di segreterie».
Anche mettendo da parte il simbolo della falce e martello?
«Quello è storicamente il simbolo dei comunisti. Non lo rinnego, lo dico a chi ha cercato di spargere veleni nei miei confronti. Punto. Ma se vogliamo fare una cosa nuova, grande, bisogna sapersi liberare delle pregiudiziali, di nomi e di simboli. Di quelle piccole miserie di cercare sempre di strappare un voto nell´orto del vicino. Siamo di fronte ad una fase diversa e importante. Con la nascita del Partito democratico una parte significativa dei Ds si guarderà attorno, incerta, smarrita. Proprio a questa forza, in primo luogo, è rivolta la mia idea di aggregazione della sinistra ».
Prevede una scissione della sinistra ds?
«Di certo, come dimostrano anche i primi risultati dei congressi diessini, c´è una grande preoccupazione per la nascita del Pd. Poi c´è Rifondazione, ci sono i Verdi. E c´è il Pdci, ma oggi è chiuso e asfittico. Se gli uomini di queste forze dovessero scegliere di dar vita ad un nuovo progetto unitario, certo non possiamo proporre loro come condizione questo o quel simbolo, questo o quel nome. Ad un militante, mettiamo, della sinistra ds, non credo possa interessare finire ospite in casa altrui».

Repubblica 13.3.07
La famiglia dimezzata che non vuole figli "Il futuro? Siamo noi"
Quasi un quarto delle famiglie italiane non desidera bambini
di Concite De Gregorio


Un "modello" in crescita mentre calano le coppie con figli

L´istinto. Mi sembra chiaro che l´istinto di conservazione della nostra specie decrepita si è consumato. Certo che avremmo potuto averne, ma non abbiamo voluto

La sociologa. In un certo senso perché esista famiglia sono necessari i figli, quando una coppia rinuncia, rinuncia a fare futuro

Meglio zia. A me i piccoli non piacciono, quelli degli altri sì, intendiamoci: i miei nipoti sono meravigliosi, ma io non ne ho mai desiderati, sto bene così

ROMA - Fare futuro. Anni fa parlando ai ragazzi di un liceo romano con un linguaggio, dunque, per nulla dottorale la sociologa Chiara Saraceno rispose ad una studentessa che le chiedeva "ma perché esista una famiglia sono necessari i figli?". In un certo senso sì, disse Saraceno. "Non si può negare che quando una coppia rinuncia ai figli rinuncia a fare futuro".
La realtà dell´Italia, quindi, ci apparecchia una tavola da cui sta scomparendo il futuro. Se ci contiamo troviamo un bambino ogni sette abitanti: una delle medie più basse d´Europa. Il saldo fra nati e morti, nella popolazione non immigrata, è negativo: i morti sono 13 mila di più. Ventidue famiglie su cento in Italia sono composte da coppie senza figli: ventidue su cento, quasi una su quattro. Sposate o non sposate, è lo stesso: il punto non è il tipo di vincolo. La questione è, piuttosto, che quasi un quarto delle famiglie italiane non desidera avere figli: preferisce di no. Si può ormai molto spesso dire che "preferisce" dal momento che i casi di impossibilità oggettiva di averne – non tutti, certo - sono stati da tempo soccorsi dai progressi della medicina, l´aumento delle adozioni ha fatto il resto. Volendo avere un figlio oggi molto più spesso di prima si può: a costo anche di aggirare le nostre leggi andando in paesi dove è più facile farne, od ottenerne. Ciononostante quel 22 su cento cresce ancora: del 19,6 in due anni. Diminuiscono, anche se molto meno, le coppie con figli.
Bruno Melappione, 56 anni, ascolta tutto questo mentre la moglie quarantenne prepara un caffè: "Mi sembra chiaro che l´istinto di conservazione della nostra specie decrepita, dopo millenni, si è consumato", ride. La moglie arriva con le tazze: "A me i bambini non piacciono, quelli degli altri sì, intendiamoci: i miei nipoti sono meravigliosi ma per me non ne ho mai desiderati. Sto bene così, stiamo molto bene così". Quando ha conosciuto suo marito aveva 31 anni, ora ne ha 42: undici anni di cene con gli amici, pomeriggi al cinema, viaggi. Non è stata una questione economica, dicono: non è che i figli non siano arrivati perché costano e non c´erano soldi, perché mancava la casa o il lavoro. Ci sono state difficoltà, certamente, ma non è a causa di quelle che hanno rinunciato. E´ facile capire che davvero è quasi sempre così. C´è il buon senso, c´è l´esperienza e ci sono studi che lo certificano: specialmente quando si tratta del primo figlio il conto dei soldi è secondario. Sono altre le ragioni che spingono a farlo, le difficoltà si superano. Semmai è al secondo e al terzo figlio che si rinuncia per non aggiungere spese e rinunce, non al primo: quasi mai al primo. "Certo che avremmo potuto farlo, semplicemente non abbiamo voluto".
Bruno Melappione e Maricetta Lombardo sono nati in famiglie numerose.
Lui romano, settimo di nove fratelli. Artigiano specializzato, costruisce scenografie per il cinema. Scrive racconti, vorrebbe sceneggiare un film. Primo matrimonio a 24 anni: due figli di 34 ed 32, è già nonno di un bimbo di 4. Lei agrigentina, terza di sei figli. E´ arrivata a roma 16 anni fa per frequentare il centro sperimentale di cinematografia, fa il tecnico del suono. Per passione fotografa. In salotto alle pareti ci sono sono foto sue: un incontro di boxe, un autoritratto con Alberto Granado quello che ha fatto col Che il viaggio della motocicletta, "un vecchio bellissimo l´ho conosciuto a Berlino". Vivono in una casa di 70 metri quadri, "una casa dei preti": l´affitto è basso, mille euro al mese. Non fumano, non bevono. Il giornale ogni tanto, "ci sono quelli gratuiti". Libri molti, "cinema tutti i giorni". Tutti i giorni? "Sì, in un cinema di San Lorenzo al primo spettacolo il biglietto per le prime visioni è di due euro. Ci andiamo tutti i pomeriggi. Se si può, certo. Ogni giorno un film diverso". E´ la loro spesa principale. Niente macchina ("c´è, ma solo per i viaggi in Sicilia", quando vanno in estate a casa di lei), tessera dei mezzi pubblici. Maricetta: "Per il mangiare sì che si spende. Io adoro cucinare, si vede no?, guardi che taglia abbiamo raggiunto fra tutti e due… Ecco, questo sì: invitiamo molto spesso amici a cena".
Si sono conosciuti undici anni fa, sette anni dopo si sono sposati. Perché il matrimonio? Bruno: "Io prima convivevo con una ragazza finlandese ma non avevo mai preso l´impegno di sposarla, non ho mai pensato fino in fondo che avrei voluto stare per sempre con lei". Il matrimonio perché è un impegno. "Sì è così. Convivi se stai bene in quel momento, ti sposi se ti prendi un impegno per la vita. È anche un regalo che fai all´altra persona: per me non ci dobbiamo lasciare mei più, le dici. Delle volte mi dispiace averla sposata perché non la posso risposare". La moglie gli sorride. E perché niente figli? Maricetta: "Non ho pazienza. Non ne ho voluti. Lui aveva i suoi già grandi, io lavoravo molto viaggiavo. C´è stato un momento, forse, ma poi ho preferito di no. Mi piace stare con i miei nipoti ma non torno mai a casa pensando vorrei un figlio anch´io. E´ poi vede quante storie infelici ci sono, che inferno può essere la famiglia, quei poveri figli… abbiamo visto un film proprio ieri no Bruno?. "Ieri. La riproduzione è un istinto animale, lo fanno le bestie senza essere famiglia. Fra uomini si può stare insieme anche in modi diversi, si decide cosa è meglio, cosa è possibile, cosa si desidera davvero". Loro desiderano principalmente stare insieme: "Siamo felici così, col cinema al pomeriggio, le cene con gli amici la sera, il nostro computer, qualcosa da leggere e da scrivere, la macchina fotografica che ci accompagna nei viaggi". Bruno progetta di scrivere un libro sui templari, la sua passione. "E´ chiaro che il tesoro se l´è magnato Filippo il Bello e che il papa era d´accordo", questa la trama. Maricetta ha lavorato a un film di Pasquale Scimeca sullo sfruttamento dei bambini "e ora spero che esca, poi spero di avere presto un altro lavoro perché al momento non ce n´è". Cosa servirebbe per stare meglio? Lei: "Qualche soldo in più ma non per essere ricchi, la ricchezza porta problemi. Per andare a teatro, fuori a vedere una mostra, per viaggiare un po´ di più. Prima avevo delle manie, gli occhiali gli orologi, poi sono stata in Africa e mi sono passate tutte. Bisognerebbe che fosse obbligatorio per tutti passare almeno una settimana in africa nella vita, così uno si rende conto del mondo dove viviamo". Il futuro com´è? "Il futuro siamo noi, i nostri amici. Le serate a base di piatti siciliani e greci, brasiliani. Abbasso le diete, per carità, non sopporto il velinismo. Sono contro la taglia 38 a favore della 46". Il futuro, Bruno? "Il mio futuro è lei, Maricetta. Forse un libro, forse un film: se vengono, chissà. Di certo ci siamo noi. La nostra famiglia cioè noi, la nostra casa cioè qui: il nostro futuro è questo, ce l´ho davanti agli occhi".

il manifesto 13.3.07
Assemblea decisiva dei delegati «con Mussi»
Movimenti a sinistra: la minoranza Ds si prepara allo scontro, il Prc discute dell'«apertura» di Bertinotti
di Carla Casalini


«Credo che non ci sarà una scissione nei Ds». Il segretario della Quercia Piero Fassino non smentisce il mood del tempo, il vizio ormai invalso del parlare imperioso, del presumere di decidere per altri, al posto di altri, in questo caso la sinistra Ds che con la mozione Mussi si contrappone nei congressi a quella della maggioranza. Alle parole di ieri di Fassino ha risposto indirettamente lo stesso ministro dell'Università e Ricerca Fabio Mussi - impegnato in un giro in Sicilia - reagendo a Massimo D'Alema che invitava ad abbandonare i «no pregiudiziali» alla costruzione del «Partito democratico».
Precisa in premessa Mussi: «Si sciolgono i Ds e si forma un nuovo partito? L'adesione al nuovo partito è facoltativa, non obbligatoria». Per altro, è la sua previsione, questo Partito democratico che nasce sostanzialmente come fusione fra Ds e Margherita, in vaghezza di identità, collocazione internazionale, e tavola dei valori, avrà «poca storia e poco futuro». In conclusione, il ministro ribadisce la sua posizione: «Io sono un uomo di sinistra» e la sinistra «non si può cancellarla o farla diventare la corrente di un partito centrista - cosa che non esiste in nessuna parte d'Europa».
Insomma, tutto fa pensare che sarà di importanza cruciale per le decisioni della sinistra Ds l'assemblea del 28 marzo: l'appuntamento che riunirà tutti i sostenitoridella «mozione Mussi». Non avverrà lì, nelle previisoni, la scelta ufficiale sulla eventuale «scissione» - a favore della quale Mussi personalmente è stato piuttosto esplicito - perché all'appuntamento nazionale seguirà una «discussione articolata nei territori». Ma non c'è dubbio che la giornata del 28 segnerà uno spartiacque decisivo rispetto alla corsa dei Ds, ulteriormente accelerata, verso il partito democratico (ieri la nascita del Pd è stata anticipata al febbraio 2008).
Quello che emerge alloggi è un quadro in movimento che coinvolge l'intera sinistra politica di partito. Ne è segno, ovviamente, anche l'invito di Fausto Bertinotti - all'indomani della crisi del governo Prodi e sua risoluzione verso il 'centro' - col quale il presidente della Camera ha prefigurato uno scenario nuovo, di confronto sui 'temi di fondo' fra tutte le sinistra indipendentemente dalla loro collocazione attuale.
Ieri, in una lunga seduta di segreteria, Rifondazione ha parlato proprio di questo rilancio con cui Bertinotti ha riaperto i giochi (oltre che della prossima conferenza di organizzazione del partito che inizia il 29 marzo, di voto al senato sull'Afghanistan, di temi sociali).
Bene, la conclusione della segreteria sul nuovo 'scenario' sembra abbastanza prudente. In sostanza: «buonissimo punto di partenza ma nessuna accelerazione organizzativa». La decisione - come confermato da Maurizio Zipponi - è quella di costituire subito, per il momento. la costituzione formale della «sezione italiana della Sinistra europea», nella sua dimensione politica, organizzazione, e regole interne. Avverrà da questo soggetto attrezzato per l'occasione, il processo di «incrocio con esperienze, pratiche, protagonisti della sinistra italiana».
In sostanza, non sembra volersi sbilanciare prima del tempo Rifondazione. Salvo poi dover investire la Conferenza di organizzazione di decisioni politiche - giacchè il suo inizio è proprio all'indomani dell'assemblea del 28 della sinistra Ds. Ma certo il Prc appare in un momento di grande difficoltà interna, per la non esaltante riuscita del progetto iniziale di stare contemporaneamente «dentro e fuori dalle istituzioni» - con il singolare riflesso di esternalizzare (contro Revelli, il manifesto, o quant'altri) i propri problemi. Forse anche a questo si deve la prudenza. Non a caso ieri è stata rinviata - anche per l'assenza del capogruppo alla camera Gennaro Migliore - ogni discussione sulle posizioni , come quella di Paolo Cacciari, contrarie alla guerra senza 'se e ma'.


Corriere della Sera 13.3.07

Partito democratico, in sala anche Ciarrapico


ROMA — C'è un teatro pieno, l'Eliseo di Roma, e in platea ci sono politici e imprenditori, registi e attori, gente di estrazione diversa, cattolici, società civile: ovunque, compagni e compagne arrivati per assistere al convegno «Partito democratico, una necessita e una speranza»; e in seconda fila, proprio dietro Carla Fracci, c'è Giuseppe Ciarrapico , un tempo potentissimo, mediatore dell'accordo Mondadori tra De Benedetti e Berlusconi, poi condannato per bancarotta, affidato ai servizi sociali nel 2000, lui che certo non è mai stato di sinistra, è lì, in seconda fila. Ma che ci fa qui? Sorride: «Sono l'editore di undici giornali, e lavoro nel Lazio e...come dire?, il Lazio sono loro...». Guarda al partito democratico, Ciarrapico? «Io rimango legato alle mie origini, ciò non toglie che conosco l'attualità, e poi vediamo, ci si confronta...» (...)

Corriere della Sera 12.3.07
Usa e Cina in simbiosi economica. La Chimerica ormai è una realtà
di Niall Ferguson


La teoria del caos suggerisce che basta una farfalla, semplicemente sbattendo le ali nella giungla dell'Amazzonia, a scatenare un uragano a Manhattan. Qualcosa di simile si può dire dei mercati finanziari, come abbiamo visto la settimana scorsa. La farfalla in questo caso è il nuovo mercato azionario di Shanghai. Quando gli investitori cinesi hanno sobbalzato martedì, ne è seguita una tempesta in quasi tutte le borse del mondo.
Man mano che il globo girava, martedì scorso, il valore delle aziende quotate in borsa si afflosciava in un mercato dopo l'altro. Le borse europee sono scese di quasi il 3 percento. A New York, lo Standard and Poor 500 ha perso circa 3,5 punti percentuali. I cosiddetti mercati emergenti, come Argentina, Brasile e Messico, sono stati colpiti ancor più gravemente. Non meno di 45 dei 53 principali mercati azionari del pianeta hanno chiuso il mese su valori inferiori a quelli iniziali.
Per il fine settimana, tuttavia, gli analisti più scettici hanno sollevato qualche dubbio sulla versione degli avvenimenti ispirata alla teoria del caos. Come ha fatto una borsa con una capitalizzazione di mercato pari ad appena il 5 percento di quella di New York ad aver causato un tale scompiglio planetario? Devono esserci altri motivi. Forse l'uso della parola «recessione», saltata fuori in un'intervista ad Alan Greenspan? Signori, vi prego. Alan Greenspan ha lasciato il suo incarico alla guida della Fed oltre un anno fa.
A dire il vero, non occorre la teoria del caos per spiegare questi fenomeni: basta l'economia. Quello che si è verificato sotto i nostri occhi la settimana scorsa è sintomo di uno spostamento più profondo, a livello strutturale, nell'equilibrio del potere economico mondiale. Chiedetevi perché l'anno appena trascorso è stato così eccezionale per i mercati finanziari; perché quasi ogni mercato ha chiuso l'anno con rialzi da record; perché gli utili raccolti da banche d'investimento, hedge fund e gruppi di private equity sembravano sconfinati?
Alcuni analisti dicono che si trattava di liquidità eccessiva, mentre altri parlano di carenza di attivo. Tuttavia, la risposta più convincente è l'impatto sismico provocato dall'ingresso della Cina nell'economia globale. È stato l'effetto dell'immensa manodopera cinese a basso costo sui livelli salariali globali a spingere i profitti delle aziende Usa da circa il 7 per cento del Pil nel 2001 al 12 per cento lo scorso anno. Allo stesso tempo, è stata la valanga di risparmi cinesi confluita nel mercato capitale globale a causare il ribasso dei tassi d'interesse immobiliari su scala mondiale, da circa il 5 per cento 7 anni fa al 2,8 per cento l'anno passato.
Riflettiamo: gli utili aziendali crescono a dismisura, mentre i tassi d'interesse reale restano molto al di sotto della loro media su lungo periodo. Chiunque abbia voglia di mettersi in tasca un bel po' di soldi sa benissimo che cosa fare. Prendere a prestito il più possibile e acquistare le aziende con i maggiori utili. Ovvio, molti economisti si preoccupano per gli squilibri mondiali collegati all'ascesa cinese. Da un lato, puntano il dito verso l'esplosione delle esportazioni cinesi che l'anno scorso hanno generato un'eccedenza nelle partite correnti di oltre 230 miliardi di dollari; dall'altro, segnalano un crescente deficit nella bilancia commerciale americana equivalente a oltre il 6 per cento del Pil. Ricordando lo scompiglio causato da squilibri molto più contenuti negli anni '70 e '80, queste «Cassandre» profetizzano il crollo del dollaro e altre catastrofi.
Eppure c'è un altro modo per esaminare questi presunti squilibri: non sono infatti più preoccupanti di quanto non lo siano, mettiamo, le vastissime disparità tra California e Arizona. Pensiamo agli Usa e alla Repubblica Popolare non come due paesi, ma come un'unica entità: la Chimerica. È un paese impressionante: appena il 13 per cento della superficie terrestre, ma un quarto della sua popolazione e un buon terzo della produzione economica mondiale. Per di più, la Chimerica ha toccato quasi il 60 per cento della crescita globale negli ultimi 5 anni. Il loro rapporto non è necessariamente sbilanciato, anzi, appare piuttosto simbiotico. I chimericani dell'est sono risparmiatori; quelli dell'ovest sono spendaccioni. I chimericani dell'est si occupano di produzione, quelli dell'ovest del terziario. I chimericani dell'est esportano, quelli dell'ovest importano. A est si accumulano riserve, a ovest si producono deficit, accompagnati da emissioni di obbligazioni in dollari di cui sono ghiotti i chimericani dell'est. Come in tutti i matrimoni riusciti, le differenze tra le due metà della Chimerica sono complementari.
Accumulando pacchetti azionari in dollari, la Banca della Cina non si limita solo a finanziare gli sperperi americani, ma rallenta sistematicamente l'apprezzamento della valuta cinese, mantenendo così le esportazioni cinesi a basso prezzo. Allo stesso tempo, la Banca della Cina sta creando il migliore fondo di stabilizzazione che si possa immaginare. Quando si ha un trilione di dollari sotto chiave, ci si sente immuni dalle crisi monetarie che hanno travagliato le altre economie asiatiche negli anni 1997-1998.
E questa è una delle ragioni per cui la volatilità del mercato azionario della scorsa settimana ha rappresentato una «correzione», non un crollo, e meno che mai l'inizio di un lungo periodo di crisi.
E che dire di tutti quei rischi politici che riempiono i notiziari, in particolare il pericolo di un allargamento del conflitto in Medio Oriente? Paradossalmente, più diventa pericoloso il Medio Oriente, più salda appare la Chimerica, perché il rischio geopolitico incoraggia gli investitori asiatici a mettere al riparo i loro soldi nel fortino degli Stati Uniti.
Non c'è dubbio che vedremo nuovi alti e bassi man mano che gli investitori cinesi imparano la lezione, ovvero che «la performance passata non è garanzia di risultati futuri». Ma i loro scombussolamenti periodici non causeranno nient'altro che qualche scossone di volatilità finanziaria globale, un acquazzone in confronto al solleone secolare che splende sulla simbiosi tra Cina e America. La Chimerica, nonostante il nome, non è una chimera.
© Niall Ferguson, 2007 Traduzione di Rita Baldassarre