La chiesa di Pascal che piace a noi laici
di Eugenio Scalfari
LA QUESTIONE è diventata talmente chiara che la stessa Chiesa italiana ha smesso di negarne l´esistenza: esiste uno scontro aperto tra la Conferenza episcopale (cioè il maggior organo pastorale e politico dei cattolici) e lo Stato italiano, la rappresentanza parlamentare, i vari partiti e associazioni democratiche.
Due concezioni si contrastano, due culture ciascuna delle quali deve moltissimo all´altra, si contrappongono e non soltanto sui modi per raggiungere un obiettivo comune, ma sulle finalità stesse che vengono proposte. Gli ultimi due papi scavalcando a piedi pari gran parte delle conclusioni e dello spirito del Vaticano II e di fatto cancellando i due pontificati precedenti, quello di Giovanni XXIII e quello di Paolo VI, hanno fatto dell´accusa di liberalismo e di relativismo un tema centrale e l´hanno usato sistematicamente per sconfessare di fatto l´intero valore della modernità, dal Rinascimento alla libera ricerca, dalla scienza sperimentale allo stoicismo di Montaigne, al "Discorso sul metodo" di Cartesio, all´ "Etica" di Spinoza, all´Illuminismo, alla "Critica della ragion pura" di Kant e infine ai più recenti svolgimenti del pensiero filosofico derivanti da Schopenhauer e da Nietzsche e agli esiti scientifici di Freud, di Einstein e della fisica quantistica.
Tutto questo immenso deposito di pensiero e di sapere è impregnato di relativismo nelle sue diverse varianti metodiche conoscitive ed etiche e tutto, preso nel suo insieme, si è proposto di spodestare la metafisica dal vertice del pensiero filosofico dove si era insediata a partire da Platone. Se dunque Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, pur dotati di diversa portanza e di diverso linguaggio, hanno deciso di eleggere come nemico numero uno della cattolicità il relativismo e l´Illuminismo e lo hanno ripetuto in gran parte delle loro pubbliche allocuzioni e delle più solenni encicliche; e se Ratzinger appena insediato sulla cattedra petrina, nella sua prolusione all´università di Ratisbona ebbe nei confronti del fondamentalismo islamico accenti addirittura meno severi di quelli riservati al pensiero moderno dell´Occidente, non è purtroppo lontano dal vero parlare oggi d´uno scontro in atto tra cattolicesimo e modernità. La Chiesa lo nega tenacemente.
E come potrebbe ammetterlo, visto che la sua missione è quella di stare tra la gente, ascoltarne i dolori e le richieste, darle un progetto di sicurezza e di salvezza senza mai separarsi dai diversi e dai peccatori? La Chiesa tiene ben ferma questa sua missione perché essa costituisce il fondamento del messaggio evangelico e della predicazione del Cristo e dei suoi apostoli. Ma la contraddice tutte le volte in cui fa passare questa missione in seconda fila di fronte ad altre incombenze che ritiene più urgenti per l´affermazione del suo potere.
In realtà nella Chiesa cattolica ci sono due anime. Una è quella dell´Evangelo, dell´amore, della misericordia, della povertà; l´altra è quello del potere, della politica, dell´ "imperium". La prima spesso è perseguitata, sofferente e tuttavia portatrice di salvezza nel regno futuro delle Beatitudini; la seconda si sente forte e fonte unica e legittima d´investitura: investitura di verità e insieme di potere terreno.
Nella Chiesa cattolica questa divisione tra le due anime è stata particolarmente visibile per la struttura stessa della sua organizzazione centrata su un unico personaggio che la rappresenta interamente per il fatto stesso di rappresentare il Cristo incarnato e portare con ciò la presenza del Redentore. Nelle altre chiese cristiane questa unità di comando non esiste e neppure esiste nelle altre religioni monoteistiche: nell´Islam e nell´ebraismo. Probabilmente questa duplicità del cattolicesimo questa sua doppia anima riunificata in una persona è stato uno degli elementi che ne ha esaltato la dinamica e la capacità di comprendere e di aderire ai mutamenti della società. Per capire a fondo le persone, individui e comunità, bisogna avere l´attitudine e l´attrezzatura psicologica per commerciare anche con gli interessi oltre che con i principi le convinzioni e i dogmi. La Chiesa cattolica è stata la sola ad avere questa vocazione e i frutti positivi ne sono stati copiosi per lei e per le popolazioni che ne hanno seguito il messaggio e gli incitamenti.
Ma non è certo un caso se in anni più recenti la sua influenza si è ristretta nel mondo occidentale ed è diventata assai più ampia in Africa e in America Latina. Questo movimento di sgonfiamento e rigonfiamento ha proceduto di pari passo con la secolarizzazione della società moderna l´affermarsi del concetto di laicità nelle nazioni dell´Europa e del nord America. La vocazione missionaria nel senso più ampio del termine della Chiesa cattolica ha finalmente sfondato in quei paesi ancora immersi nella povertà e in mitologie tribali che la Chiesa ha avuto la capacità di trasferire nel messaggio cristiano come del resto già aveva fatto nel momento della evangelizzazione dei popoli germanici alla caduta dell´Impero Romano.
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Il nemico è insomma il relativismo, la rivendicazione dell´autonomia di ciascuno, la ricerca sperimentale della verità che non esclude neppure l´inesistenza di un´unica verità assoluta. E di conseguenza l´abbandono della trascendenza, antico rifugio contro l´insicurezza del vivere e ultima istanza del giudizio finale tra buoni e cattivi, tra bene e male.Il pensiero laico è stato lungamente silente su questa diabolizzazione cui la Chiesa l´ha sottoposto. Parlo del pensiero laico e non di quello anticlericale che ne rappresenta una caricatura.
Il pensiero laico non ha mai escluso (e come potrebbe?) il mistero, l´Increato, la necessità di dare un senso al nostro vivere. Si è sempre posto con estrema serietà i problemi della vita e della morte. Non ha mai confuso il complesso delle sue idee e delle sue convinzioni con la secolarizzazione consumista che è fenomeno diverso e per molti aspetti deteriore. Per di più il pensiero laico, anzi il mondo laico, non ha una struttura di potere, non ha associazioni proprie che lo rappresentino, non parla "ex cathedra". Predica libertà, democrazia, tolleranza. Perciò non ha alcuna responsabilità nello scontro che si è determinato con la Chiesa se non per il fatto di opporsi alle pretese ecclesiastiche di voler imporre ad una comunità dove convivono pacificamente cattolici, laici e fedeli di altre religioni, istituti che vietino l´esercizio e il riconoscimento dei diritti. Diritti di minoranze, certo, e proprio per questo ancor più sacri e degni di riconoscimento e tutela.
Ieri si è svolta a Roma una manifestazione in favore del progetto di legge sulle convivenze di fatto, sia eterosessuali sia omosessuali sia affettive tra amici e parenti lontani. Come tutte le proposte, anche queste possono essere migliorate ma non certo abolite. Questa sarebbe infatti una prevaricazione contro una minoranza del tutto inaccettabile per ogni democratico responsabile. Proprio per questo il documento dei sessanta parlamentari cattolici della Margherita in difesa della propria autonomia rispetto alle ingiunzioni dei Vescovi sul voto per le convivenze di fatto ha rappresentato un evento positivo e – senza esagerazione – storico. Non accadeva da mezzo secolo che il laicato cattolico politicamente impegnato prendesse una posizione di questo genere. L´episodio di De Gasperi, quando bocciò la lista clerico-fascista nelle elezioni comunali di Roma, proposta da Sturzo e caldeggiata da papa Pacelli, fu un atto di grande importanza che aveva però come autore un presidente del Consiglio capo e fondatore della Dc. Nel caso dei "sessanta" si è trattato di deputati e senatori per lo più sconosciuti e tuttavia fieri dell´autonomia del loro rango costituzionale e del loro impegno politico.
Gli avversari dei patti sulle convivenze di fatto cercano di dimostrare che quei diritti sono in gran parte già riconosciuti dal codice civile e che quindi una legge in proposito è del tutto inutile. Se la si vuole, la si vuole per dare riconoscimento pubblico a quei diritti e a quelle coppie. L´obiezione è in parte inesistente e in parte sbagliata. Inesistente perché la quasi totalità dei diritti in questione deve essere affermata "erga omnes" cioè nei confronti dei terzi, senza di che quel diritto è di fatto inesistente. Sbagliata perché il riconoscimento pubblico di una situazione è un atto fondamentale che attiene alla dignità delle persone ed alla loro riconoscibilità.
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Qualche giorno fa si è svolto nel salotto televisivo di Giuliano Ferrara un dibattito di spessore su questo tema. L´ho seguito con interesse; ho apprezzato la prudenza e anche il garbo con il quale ha sostenuto le ragioni della Chiesa il cardinale Barragan, le efficaci stimolazioni del conduttore il quale, per antica vocazione, vorrebbe che i suoi invitati preferiti facessero a pezzi gli avversari e che il suo manicheismo fosse fatto proprio da tutti i partecipanti non concependo lui, nella vita pubblica, altra modalità per regolare i conti tra opposte convinzioni, interessi, poteri. Ma ho soprattutto apprezzato l´intervento finale di Rosy Bindi, coautrice con il ministro Barbara Pollastrini del disegno di legge sulle convivenze di fatto ormai da tempo presentato in Parlamento.Sul tema specifico si era già detto tutto e del resto esiste un testo legislativo che non abbisogna di ulteriori spiegazioni. Di che cosa dunque doveva parlare la Bindi a chiusura di quel dibattito? Ha parlato di cristianesimo. Ha detto tre cose che mi hanno molto colpito e che voglio qui riportare con la massima chiarezza così come mi sono arrivate.
Vorrei che la religione si occupasse soprattutto di Dio e di Cristo.
Vorrei una Chiesa pastorale che non solo vivesse tra la gente ma tra i diversi, tra quelli che non la pensano come noi, che noi consideriamo peccatori, ma che sono pur sempre uomini e donne come noi. In loro dobbiamo percepire esaltare aiutare la scintilla divina che anch´essi possiedono al pari di noi. Che cos´altro il Cristo ci esorta a fare? Ma è questo che stiamo facendo?
Tanti uccelli si posano la notte sui rami degli alberi e ne ripartono al mattino. A volte ritornano, altre volte non più. Ma l´albero che li ha ospitati ha comunque dato e ricevuto da ciascuno di essi qualche cosa, qualche insegnamento e comunque la presenza di una vita.
Non so se questa conclusione d´un dibattito che si annunciava ed è stato polemico sia piaciuta al suo turgido conduttore. A me, laico non credente, è piaciuta molto. A me piace la Chiesa di Francesco e anche quella di Agostino, quella di Bernardo, quella di Duns Scoto. Mi piace quella di Pascal e quella di Maritain. Mi piace quella del cardinale Martini. Mentirei se dicessi che mi piace quella di Camillo Ruini. Politicamente sarebbe forse stato un papa migliore di Ratzinger. Ma la Chiesa ha bisogno di un politico sulla sedia di Pietro?
Se è questo di cui ha bisogno, allora è perduta.
l'Unità 11.3.07
L’embrione e i piccoli inquisitori
di Carlo Flamigni
Gli studenti milanesi di Comunione e Liberazione non possono essere troppo biasimati per non essere stati capaci di gestire l’improvvisa popolarità che li ha colpiti e per non saper distinguere tra dialettica e maleducazione. Il cartellone esposto davanti alla Cattolica (la cui fotografia è stata pubblicata da l’Unità del 6 marzo) intitolato «Auschwitz o Università Statale?» ne è solo un esempio. In realtà, chi esce con le ossa rotte da questo increscioso episodio è l’Università che ancora una volta si dimostra incapace di educare; e chi ne esce ancor peggio è colui che a quei ragazzi ha fatto da padre spirituale e che ha saputo solo trasformarli in piccoli censori morali. Almeno, nei tempi passati, il mestiere di Inquisitore era cosa da adulti, non lo si affidava alle mani innocenti dei ragazzini. Provo comunque a ignorare, come mera espressione di buona volontà, l’irrefrenabile voglia di goliardia dei bravi ragazzi milanesi, non tengo conto dei loro eccessi e rispondo a quella che, almeno all’inizio, sembrava una proposta di dialogo. Chiedendo però di accettare almeno una regola: che il dialogo sia laico e che ognuno di noi inizi sempre le sue riflessioni dicendo «secondo me»: al primo non possumus, alla prima presentazione di valori sui quali non è possibile negoziare, chiudo il computer e torno alle mie faccende, ho molte cose arretrate.
Prima questione: quando si vuole essere ascoltati dalla istituzioni - in questo caso dal Comitato Nazionale per la Bioetica - non si scrivono bugie. Nella lettera al Cnb gli studenti Cl hanno scritto che il professor Emilio Dolcini, nel convegno organizzato dalla professoressa Cattaneo, «ha illustrato come in Italia sia consentito lavorare su cellule staminali embrionali importate dall’estero per un buco legislativo della legge 40/2004». In realtà il professor Dolcini ha detto che nella legislazione penale italiana non esiste alcun divieto di ricerca sulla cellule staminali embrionali; poi, rispondendo a chi aveva prospettato l’esistenza di un divieto implicito ha ricordato che nel diritto penale vige il principio della legalità dei reati e delle pene con la conseguenza che eventuali lacune nella legge possono essere colmate solo dal legislatore, non dall’interprete.
Questa storia del divieto implicito merita un ulteriore commento. Una parlamentare cattolica si era espressa molto duramente contro quei ricercatori che avessero osato ignorare lo spirito della legge e aveva dichiarato come fosse fin troppo evidente che ricerca sulla cellule staminali di origine embrionale non se ne poteva fare, in Italia, neppure importando le colture dall’estero. Sconfessata, invece di chiedere scusa, come avrebbe dovuto, aveva minacciato di presentare una legge che colmasse questa terribile lacuna. Ho cercato a lungo di capire le ragioni di questo accanimento e sono stato finalmente illuminato durante una discussione con un noto bioeticista cattolico che mi ha spiegato che ogni cellula staminale embrionale è in realtà un embrione (e quindi una persona potenziale) e che perciò la non liceità di questi esperimenti è sin troppo evidente. Sono certo che gli studenti milanesi sono (anche) biologi raffinati e non cadono in queste trappole, ma per chi non avesse le idee chiare espongo i motivi per i quali si deve ritenere errata la convinzione del bioeticista cattolico (e di molte altre persone, illustri parlamentari compresi): le cellule embrionali sono totipotenti fino alla formazione della blastocisti, quando si separa il trofoblasto dalla massa cellulare interna. A questo punto, parte di questa totipotenza viene perduta e le cellule della massa cellulare interna, quelle che vengono prelevate per gli studi sulle cellule staminali, non sono più in grado di fare placenta e annessi fetali: queste cellule, dunque, anche con la migliore buona volontà, non sono “uno di noi”.
Passo ora a esaminare la dichiarazione più forte contenuta nella lettera alla professoressa Cattaneo: «Non abbiamo bisogno di attendere ulteriori progressi della ricerca scientifica per stabilire che se un embrione non viene soppresso si mostrerà come quell’individuo umano che è fin dall’inizio». Accidenti, siamo proprio in piena “dittatura dell’embrione”: ai ragazzi è apparso in sogno monsignor Sgreccia e ogni mistero è stato loro svelato! Vediamo invece come stanno le cose, almeno secondo me.
Secondo me sull’inizio della vita individuale nessuno può avere certezze, a meno che non si tratti di certezze di fede, che hanno certamente un grande peso, ma solo un peso personale. Il Magistero Cattolico ha sostenuto per molto tempo (anche con le parole e gli scritti dell’attuale Pontefice) che l’inizio della vita personale era post-zigotico, e lo zigote è la cellula che si forma dopo l’anfimissi, cioè dopo la scomparsa dei due pronuclei nell’ootide (chi non crede a questa definizione deve sapere che l’ha scritta Bompiani, bioeticista cattolico di fede provata): oggi l’inizio della vita personale è stato anticipato all’attivazione dell’oocita, cioè di 24 ore, e speriamo che ci si fermi lì, o gli scenari diventeranno veramente misteriosi. Ma quello che gli studenti milanesi debbono sapere, per molcire un po’ le loro fastidiose certezze, è che bioeticisti e filosofi cattolici di queste teorie ne hanno partorite molte altre e che tutte queste ipotesi sono ancora lì sul tappeto, nessuno le ha condannate, nessuno le ha ritirate. Per la bibliografia rimando al mio sito: www.carloflamigni.it. Elenco dunque soltanto le ipotesi più rilevanti, tutte, ripeto, elaborate all’interno della cultura cattolica, tutte vive e vitali: 1) l’ipotesi post- zigotica; quella blastocistica, che attende la scomparsa della totipotenza; 2) quella dell’attivazione del genoma embrionale; 3) quella della scomparsa della capacità di formare gemelli omozigoti; 4) quella dell’inizio dell’impianto; 5) quella della comparsa della linea embrionaria primitiva; 6) quella della comparsa delle prime cellule nervose; 7) la teoria ilomorfica. L’elenco dei filosofi cattolici che le sostengono è lungo, anche per questo rinvio al mio sito.
Quanto ho detto vale per il mondo cattolico, non è neppur necessario ricordare che altre religioni propongono ipotesi ancora diverse. Che facciamo, neghiamo loro serietà e coerenza? Ammettiamo che la verità stia tutta dalla parte degli studenti cattolici e che gli altri, che so, siano tutti fratelli che sbagliano ( o fanatici pericolosi)?
Credo che questi ragazzi abbiano perso una buona occasione, che per fortuna certamente si ripresenterà in avvenire: se fossero intervenuti nel dibattito avrebbero potuto aprire un dialogo con Demetrio Neri, che non è solo un grande filosofo, è anche un grande maestro e sa dialogare e convincere. Avendo scelto un gesto goliardico, si sono invece esposti a un grande rischio: diventare un simbolo politicamente molto utile per tutti i cattivi maestri, i mestatori di fango. Cattiva scelta, brutto destino.
Ultima cosa: è necessario un po’ più di rispetto per la scienza e per i ricercatori. Di scienza ci sarà ancora modo di parlare in avvenire; per quanto riguarda i ricercatori, leggo ogni tanto allusioni e riferimenti misteriosi a non so quali interessi che indurrebbero alcuni scienziati a privilegiare la ricerca sulle staminali embrionali: non è solo una menzogna, è maldicenza della più bell’acqua. Se ci pensate, se considerate i finanziamenti dello Stato e i privilegi che vengono offerti in cambio del piatto di lenticchie della propria coscienza, dovete ammettere che, semmai, è vero il contrario.
l'Unità 11.3.07
Libero cilicio in libero Stato
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi
Ce ne aveva offerto un vivido racconto Dan Brown, nel suo «Codice da Vinci» e una rappresentazione, ancor più cruda, il regista Ron Howard, nella sua trasposizione cinematografica. Dal dizionario si apprende che si tratta di un «panno ruvido e grossolano di pelo di capra, usato dai Romani»; e che, dalle sue origini classiche in avanti, è divenuto una «cintura molto ruvida di setole annodate, portata sulla pelle nuda per penitenza». Il concetto di espiazione della colpa è tanto connaturato a questo oggetto che l’uso figurato del nome che lo designa, nella nostra lingua, può stare per “tortura”, “tormento fisico”, “supplizio morale”. Gli anacoreti cristiani erano soliti «indossarlo sulla nuda pelle per mortificare la carne» (Wikipedia). È evidente di cosa stiamo parlando. La senatrice Paola Binetti, esponente di punta di un cattolicesimo assai “intenso” e sempre più attivo all’interno del centrosinistra, ha offerto al sistema dell’informazione la sua testimonianza di credente che fa ricorso a pratiche di mortificazione del proprio corpo. E, così, ha fatto irruzione, nello spazio pubblico, il cilicio. Sia chiaro: non intendiamo certo avallare quegli argomenti, così diffusi, che stabiliscono un’equiparazione tra l’arcaicità di talune pratiche e il loro (presunto) carattere primitivo e oscurantista. E, d’altra parte, sono assai diffuse - nelle nostre società - forme di manipolazione del corpo (attraverso interventi dietetici, igienici, estetici, chirurgici, sanitari, agonistici...) altrettanto, se non più, afflittivi.
Insomma, è pacifico che per noi Paola Binetti può fare, del suo corpo, ciò che meglio crede: libero cilicio in libero stato. E sarebbe interessante, come esercizio intellettuale, cercare di comprendere il senso della partecipazione corporea del cattolico alla sofferenza di Cristo; tornare a riflettere - da laici - sul valore mistico e ascetico della mortificazione; interpretare l’accettazione del dolore e l’esercizio della sopportazione alla luce delle trasformazioni che interessano il rapporto tra corpo e cultura e tra corpo e società. Perché il dato materiale, sensuale e corporeo della nostra esistenza si va facendo sempre più centrale in molte delle questioni del nostro tempo. Non a caso la bioetica rappresenta l’orizzonte sul quale si addensano le maggiori ansie e attorno al quale ruotano le più accese passioni che percorrono la società; e le relazioni tra stato, legge, dimensione collettiva e pubblica - da un lato - e corpo, persona, individuo - dall’altro - è in via di costante ridefinizione. E costituisce il terreno di confronto (e scontro) per molte delle forze oggi in campo.
Insomma, siamo con Paola Binetti. E per quale motivo dovrebbero apparirci socialmente accettabili le diete più estenuanti e i patimenti della chirurgia estetica e non le pratiche (fisicamente forse meno mortificanti) di taluni credenti?
Tuttavia, ci sono un paio di domande che vorremmo porre alla senatrice Paola Binetti: non crede che in molti, moltissimi casi (come in quello di Piergiorgio Welby) la volontà di fuggire il dolore abbia la stessa dignità morale della sua volontà di accettarlo? Non crede che se è lecito per un credente sottoporre il proprio corpo a sofferenze “gratuite”, debba essere lecito, per chiunque altro, rifiutare altre - parimenti gratuite - sofferenze? Ecco, allora, che la critica ai rigori di certe pratiche religiose solleva (giuste e sacrosante) repliche: «Chi siete voi per giudicare? Se in quest’epoca ognuno fa del proprio corpo ciò che vuole, perché tale diritto deve essere negato proprio a noi credenti?». Tuttavia, una contraddizione appare stridente: i credenti si appellano a quel principio di sovranità sul proprio corpo per rivendicare un loro diritto e una loro libertà; si appellano a un principio che, fatta salva questa circostanza, combattono ogni giorno in materia di libertà di cura, di maternità consapevole, di politica sulle droghe, di riconoscimento del valore delle scelte sessuali e relazionali della persona.
Beh, per quanto ci riguarda non avranno mai di che preoccuparsi: il loro cilicio non ci interessa e la pensiamo un po’ come Vittorio Messori: «vivremmo tutti meglio se ciascuno si facesse i cilici suoi». Pure, diamo a quei credenti un modesto consiglio: attenti, se la battaglia (che per alcuni di voi appare proprio una “guerra”) che avete avviato contro molte libertà personali conducesse davvero a un controllo della sfera pubblica sulle libertà individuali, un giorno qualcuno, per una strana eterogenesi dei fini, potrebbe contestarvi l’uso di qualsivoglia ruvida corda di peli di capra, cinta sulla coscia o dove più vi pare. E, allora, dovrete augurarvi che qualche radicale senza Dio, qualche liberale illuminato, qualche sincero democratico corra in vostro aiuto, a difendere la vostra libertà di credenti.
l'Unità 11.3.07
Ma fare il Pd non vuol dire uscire tutti dai Ds?
di Fulvia Bandoli
Sarebbe tempo di dire finalmente le cose come stanno invece di menare scandalo per alcune affermazioni fatte da esponenti della sinistra ds nei giorni scorsi, che non annunciavano un bel nulla ma chiamavano semplicemente le cose con il loro nome.
Se, come dice Fassino, il Pd deve nascere al più presto è chiaro che i Ds si sciolgono al più presto. Magari non ad aprile, ma qualche mese dopo sicuramente. E che la fase costituente sarà brevissima. Questo è dunque l’ultimo congresso dei Ds. Con il voto alla mozione di Fassino si autorizza il gruppo dirigente a fare un altro partito e a sciogliere questo partito che ci vede insieme.
Ciò che accadrà da qui a pochi mesi, quindi, sarà che “usciremo tutti dai Ds” semplicemente perchè questo partito non esisterà più e ne nascerà un altro, nuovo di zecca.
Esagero? Si può forse dire che i Ds si trasferiranno così come sono nel Pd, con le loro sezioni, la loro organizzazione? Non si può dire perché così non sarà. Perchè se così fosse il Pd sarebbe una Federazione e invece si è detto in tutti i modi che non lo è, che sarà un partito nuovo e non la somma di due o più partiti, e che l’adesione sarà individuale. La verità sul processo in corso è la prima condizione per una scelta consapevole da parte degli iscritti, e un gruppo dirigente deve prendersi per primo, e in tutte le sue componenti, la responsabilità dei percorsi che propone. Non può esistere a lungo il partito democratico secondo Fassino, quello secondo Rutelli, quello secondo D’Alema. Ad un certo punto tutte le “letture personali” dovranno lasciare il posto ad una proposta unitaria. E non è forse legittimo che ognuno di noi prima di entrare in un partito che presenta tante incognite, tante incertezze e alcune inquietanti certezze ci voglia pensare su?
Proviamo ad analizzare più a fondo alcuni di questi punti: è assai improbabile che il Partito Democratico entri a far parte del Pse, io credo ai dirigenti della Margherita che escludono a priori questa ipotesi e penso che alla fine di questo braccio di ferro a cedere saranno i Ds. Non è un caso che il «manifesto dei saggi» abbia già sancito che si “collabora” con il socialismo europeo e basta. E allora, se questa è la strada, chi si separa dal socialismo europeo? Quelli che la pensano come noi oppure quelli che dicono che il Pd va bene comunque anche se sarà fuori dal socialismo europeo?
Ho fatto questo esempio per dire che parlare di scissioni e di separazioni non aiuta, avvelena il clima, e applica categorie improprie e datate a scelte che invece sono inedite per tutti.
La storia della sinistra ds parla per noi, abbiamo sempre seguito il percorso di questo partito e le sue molte trasformazioni (alcune condivise e altre meno), non ci siamo mai sognati di andare da qualche altra parte. Ma la proposta del Pd non è l’ennesima trasformazione del più grande partito della sinistra: presentare così il partito democratico significa sminuirne la portata da parte degli stessi proponenti. Io non condivido in radice questa proposta (io sostengo la proposta contenuta nella mozione Mussi, che nell’Ulivo ci sia una sinistra autonoma organizzata attorno ai Ds e un centro democratico attorno alla Margherita, alleati, ma non fusi insieme in un partito unico) ma se si vuole far camminare almeno un po’ l’idea del partito democratico bisognerebbe evidenziarne le parti innovative e non quelle conservative. Questa volta non si trasforma la sinistra italiana, questa volta si prende una strada diversa, io direi una strada traversa.
E infatti il documento scritto dei saggi nominati da Fassino, Prodi e Rutelli, per ora l’unico documento unitario Ds-Margherita, dice chiaramente quanto sia diversa la strada che si prende. Anche se nei congressi Fassino mette ai voti la sua mozione, in realtà il documento dei Saggi supera la mozione Fassino e scioglie diversi nodi che la mozione del segretario non scioglie.
Cito solo i principali: il partito democratico sarà fuori dal Pse perchè le tradizionali famiglie europee sono oramai incapaci di capire i mutamenti e vanno rinnovate, il Pd costituisce questo rinnovamento. E dunque il nuovo partito collaborerà con il Pse e con altri gruppi ma non ne farà parte, sarà autonomo. Posizione chiarissima, che bene riassume ciò che Rutelli viene da sempre dicendo: «l’approdo del Pd è il gruppo liberaldemocratico diretto da Bayrou». Il concetto di laicità viene definito in rapporto ai credenti, e solo essi sembrano portatori di valori etici e morali. Dei non credenti nessuna traccia e si saluta così il valore della laicità come terreno comune di credenti e non credenti definito così bene nel carteggio di tanti anni fa tra Enrico Berlinguer e Monsignor Bettazzi. Il quel Manifesto non si incontra mai la parola giustizia sociale, principio fondante del socialismo, e neppure i lavoratori e le lavoratrici vengono menzionati, così come si legge con chiarezza una certa equidistanza tra i sindacati e la confindustria. Si trova spazio per dedicare diverse righe al cinema e una sola parola per una delle più grandi contraddizioni dello sviluppo. Sull’energia e sulla rivoluzione che servirebbe fare urgentemente in questo settore cè solo uno stanco e rituale richiamo al sempre più inapplicato protocollo di Kyoto.
Nessun esponente della maggioranza ha preso le distanze da questo «manifesto dei saggi» e dunque devo dedurre che lo si condivide, che si condividono quelle omissioni, quei pesanti giudizi sul socialismo europeo, quella visione inquietante della laicità.
Noi speriamo che l’esito del congresso sia tale da consentire un ripensamento alla maggioranza, noi lavoriamo e ci battiamo prima di tutto per questo obiettivo. Ma se nessun ripensamento vi fosse, se si decidesse di procedere nonostante tutti i nodi non sciolti, allora sì, ci troveremmo davanti a una scelta.
Ma prima bisogna concludere i congressi di sezione, nei quali mettere in discussione le varie proposte che si confrontano. Non si tratta di scegliere tra una ragione e un torto: si tratta di scegliere la proposta che convince di più. Noi siamo interessati a portare i nostri argomenti in tutte le sezioni e non solo e non tanto a contare i voti alla fine. Ci interessa il dibattito, poco o tanto che sia, ci interessa spiegare la nostra proposta e soprattutto ascoltare i dubbi che ci sembrano tantissimi.
So bene che, abituati come siamo ad apprendere le decisioni importanti sul destino del nostro partito dai giornali o a «Porta a Porta», il nostro percorso sembrerà ad alcuni curioso e anche un po’ lento. Ma la democrazia ha i suoi tempi per svolgersi e la partecipazione pure. Noi decideremo in modo democratico e collegiale, consulteremo chi voterà in tutte le città la nostra Mozione e insieme cercheremo di scegliere tra le ipotesi che abbiamo davanti. Fare la sinistra nel Pd oppure vedere cosa accade anche in altre parti della coalizione.
E voglio dire due cose su queste opzioni: la prima è difficile, perché la sinistra del pd c’è già e saranno gli ex ds; la seconda strada è altrettanto difficile perché nella sinistra della coalizione si muovono diverse cose ma nessuna di esse sembra all’altezza del sommovimento che si crea con la scomparsa del più grande partito della sinistra italiana.
È del resto ovvio che un terremoto quale sarà la costruzione di una partito nuovo che scioglie e unifica Ds e Margherita non lascerà intatto il territorio circostante... pensarlo significa pensarsi soli al centro del mondo e questo è il solito difetto autoreferenziale della politica italiana. I grandi mutamenti, giusti o sbagliati che siano, determinano altri cambiamenti, e quando si crea un vuoto in politica in genere qualcuno prova a riempirlo.
il manifesto 11.3.07
Dacci oggi il nostro cilicio quotidiano
di Alessandro Robecchi
So per certo che il geometra del terzo piano ama farsi frustare le piante dei piedi dalla moglie fasciata di latex. Sono piuttosto liberale in queste faccende, e abbastanza uomo di mondo (interista-marxista) per sapere che tra piacere e dolore il confine è sottile. Figurarsi dunque se mi scandalizzo per il cilicio dell'onorevole Binetti. E anzi mi schiero fieramente, pur da laico, con il cattolicissimo Vittorio Messori: «Ognuno si faccia i cilici suoi». Meglio non si poteva dire. E però, siccome la faccenda del cilicio l'onorevole Binetti è andata a dirla in tivù, capirete che la faccenda diventa pubblica, rivendicata, e aggiunge una coordinata sulle nostre mappe. E forse per la sua esternazione sul cilicio, la Binetti andrebbe ringraziata: ora non ci sembreranno più tanto strani e selvaggi (come con gran gusto ce li mostrano i tg) gli sciiti che si flagellano grondando sangue durante l'Ashura. Un contributo alla comprensione culturale delle religioni.
Intervenendo nell'inevitabile dibattito (perché niente ci viene risparmiato), Antonio Socci sposta furbescamente l'asse della discussione, sacrificio, penitenza eccetera eccetera: se tuo figlio avesse bisogno, non andresti a donare il sangue? Uno spostamento dialettico bizzarro che già aveva tentato la Binetti in tivù: «il cilicio ci costringe a riflettere sulle fatiche del vivere, è il sacrificio della mamma che si sveglia di notte perché il bimbo piange». Interessante trucchetto semantico: si era partiti dal cilicio, privata pratica mistico-sado-maso, e si arriva al donare sangue e allo svegliarsi di notte per il bambino. Tutte cose civili e normalissime che fanno anche i laici, gli atei, i miscredenti di varia specie, e persino i gay, almeno quelli con figli piccoli. In questa accezione allargata del termine, insomma, il cilicio è sofferenza e costrizione, esattamente come un lavoro a tempo indeterminato, un contratto precario, l'instabilità economica o l'assenza di diritti certi della coppia. E tutti i cilici che portiamo tutti i giorni, con intorno chi, come la Binetti, ci impedisce di toglierceli.
il manifesto 11.3.07
Giustiniano. Le scelte impolitiche di un imperatore
Nel suo ponderoso saggio su Giustiniano, lo storico francese Georges Tate individua nelle persecuzioni sistematiche degli eretici e nelle campagne militari le cause della fragilità del suo regno
di Marina Montesano
Nel 532 a Costantinopoli scoppiò una rivolta che avrebbe poi preso nome dal grido di battaglia degli insorti, Nika! («Vinci!»). L'insurrezione era cominciata da uno scontro tra i fautori delle due fazioni nelle gare circensi, i «verdi» favoriti dalla plebe e gli «azzurri» considerati la squadra degli aristocratici. In realtà sembra però che il tumulto fosse fomentato dall'interno della corte e da una parte dell'aristocrazia. In quell'occasione, Giustiniano fu sul punto di fuggire dalla capitale: secondo la tradizione, a trattenerlo e a salvargli il trono fu la presenza di spirito della moglie Teodora, una donna dalle oscure origini - il malevolo storico di corte, Procopio di Cesarea, sostiene che era stata «mima» (attrice di basso livello: un eufemismo per dire che aveva fatto la prostituta) - che dopo una profonda crisi religiosa aveva attratto Giustiniano il quale l'aveva sposata nel 525, due anni prima di ascendere al trono. La rivolta venne repressa nel sangue: è uno degli episodi più cupi della vita di un grande imperatore, che, pur chiudendo per certi versi la parabola del mondo antico, lasciò al contempo un'eredità fondante per il mondo moderno.
Gli ha dedicato ora un ponderoso studio lo storico francese Georges Tate (Giustiniano. Il tentativo di rifondazione dell'impero, Salerno Editrice, pp. 1024, euro 78), che prende avvio dagli assetti istituzionali e dal quadro delle riforme - religiose, politiche, militari - dei predecessori per introdurre il personaggio centrale. Rispetto ai grandi quadri amministrativi e politici, il Giustiniano legislatore passa qui forse in secondo piano. La codifica e la riforma del diritto, ossia il suo lascito principale alla storia europea, occupano infatti solo un capitolo: non molto, in un'opera che si aggira sulle mille pagine (e che avrebbe avuto bisogno di un editing più attento nella versione italiana, punteggiata da numerosi errori di traduzione). Probabilmente, come scrive Tate, «nessuno contesta l'importanza dell'opera di Giustiniano, ma generalmente si esprimono serie riserve sulla pertinenza della sue scelte politiche», soprattutto in merito alle scelte in campo religioso e alle campagne militari.
A ragione Tate sottolinea che non in tutti i campi Giustiniano fu un innovatore, ma seguì una strada già tracciata nei due secoli precedenti. In particolare, proprio la persecuzione sistematica degli eretici e degli oppositori - capitolo in cui si inscrive la rivolta della Nika - costituiva l'esito di un processo evolutivo avviato con Diocleziano. Ma era una strada necessaria? Tate non indugia in tentazioni ucroniche, ma dalle pagine finali sembra emergere la consapevolezza che un'inversione di tendenza in favore di una maggiore tolleranza delle dottrine teologiche contrapposte nella Chiesa d'Oriente avrebbe contribuito sulla lunga durata a rafforzare l'impero e avrebbe evitato - si può aggiungere con il proverbiale senno di poi - che gli eretici perseguitati accogliessero come liberatori gli arabi un secolo più tardi.
Una questione altrettanto dibattuta dalla storiografia, che Tate affronta con spregiudicatezza, riguarda le campagne militari che miravano a riprendere il Mediterraneo occidentale, troppo spesso liquidate come un fallimento, dal momento che l'avanzata araba avrebbe conquistato di lì a poco l'Africa settentrionale (che Giustiniano aveva sottratto ai vandali) e la penisola iberica (contesa ai visigoti), mentre dal 568 in Italia avrebbero fatto irruzione i longobardi. A ragione lo storico sottolinea che non si trattava di un miraggio: a seguito delle riforme dello stesso Giustiniano e di quanti lo avevano preceduto, Bisanzio era un impero florido e potente; l'impresa era dunque alla sua portata, e non se ne possono tacere i frutti più duraturi, quali lo stretto legame che d'allora in poi si sarebbe creato con l'Italia, un legame che si sarebbe interrotto solo nell'XI secolo con l'avvento dei normanni. Naturalmente, resta aperta la discussione sulla sua scelta di voler guardare a un Occidente impoverito e soggetto al predominio germanico; cosa sarebbe accaduto se l'imperatore si fosse volto al più ricco Oriente, all'Asia più che all'Europa? La risposta ovviamente non è facile, ma la domanda è legittima.
il Mattino 10.3.07
Bertinotti: la sinistra riscopra il dialogo
Berlino. La sinistra deve «tornare a discutere insieme dopo tanti anni», «riscoprire il dialogo » per affrontare le sfide di una società caratterizzata «da un vuoto della politica» e dal «precariato, che è la cifra del nuovo capitalismo». È l’analisi del presidente della Camera Fausto Bertinotti che, al Bundestag di Berlino, fa una riflessione su quella che dovrebbe essere la nuova Costituzione europea dopo il no al Trattato di Francia e Olanda. E invita la sinistra a un «grande dibattito» su ciò che la unisce, anche se - sottolinea - quello della unificazione della sinistra italiana «non è nè il tema nè il problema». Il presidente di Montecitorio interviene alla conferenza internazionale di Die Linke su «La sinistra ed il futuro dell’Europa». Accanto a lui siedono, in una sala circolare a vetri dell'avveniristica sede del Parlamento tedesco lungo la Sprea, il leader dell’estrema sinistra in Germania, Oskar Lafontaine, e la presidente del Partito Comunista francese Marie-George Buffet, impegnata nella corsa per l’Eliseo. È lì che Bertinottio lancia un monito: «La presenza al governo di forze della sinistra alternativa è una opportunità, ma se le si attribuisce un carattere salvifico si compie un errore strategico; perchè quella presenza non è e non può essere risolutiva». La prospettiva, insomma, è quella di un cantiere senza preclusioni, perchè «di sinistra sono tutti quelli che si dicono così e non ho un magistero che mi consente di dire ”tu sì, tu no”».
Apcom 11.3.07
SINISTRE/ DILIBERTO:FINALMENTE BERTINOTTI APRE, SIAMO PRONTISSIMI
A Congresso proporrò Confederazione. Con Pd si liberano energie
Roma, 10 mar. (Apcom) - Se Bertinotti lancia il cantiere delle sinistre, il segretario del Pdci Oliviero Diliberto risponde: "Finalmente, noi è da cinque anni che lo proponiamo. Siamo davvero felici che Bertinotti apra a questo tema. Noi ci siamo, siamo prontissimi".
Conversando con i giornalisti a margine del Comitato centrale che dovrà fissare la data del congresso, Diliberto spiega: "Giudico un errore fare il partito democratico, ma stiamo parlando di nostri alleati, quindi faccio tanti auguri. Ma è ovvio che questo aprirà un problema a sinistra".
Il segretario del Pdci osserva che "noi non siamo anti Partito democratico, ci possiamo solo limitare a prenderne atto", ma "se i Ds non ci saranno più la sinistra rischia di scomparire. L'Italia rischia di essere l'unico Paese europeo senza un partito socialista".
In vista del congresso, che si terrà a Rimini dal 27 al 29 aprile ("non a caso - sottolinea - una settimana dopo quelli di Ds e Dl"), Diliberto rilancia il tema della confederazione delle sinistre. "Questa - spiega - è la nostra proposta ma discuteremo modi e forme con gli altri". Il segretario ragiona anche sulle percentuali di consenso che si potrebbero avere. "Già ora - sottolinea - saremmo al 12%. Ma la nascita del Pd può liberare altre energie".
aprileonline.info 10.3.07
Unità a sinistra, forse stavolta è la volta buona
Accade a Sinistra Al Capranichetta di Roma convegno di Uniti a sinistra, Ars e Rossoverdi. Gli eventi corrono e da seminario diventa un'assemblea per un nuovo soggetto politico. Folena: "Un movimento per unire la sinistra". Salvi: "Ci interessa la proposta di Bertinotti". Sì anche da Pdci e Verdi
Contenuto o contenitore? Discutere delle idee di una nuova sinistra - addirittura, ambiziosamente, di un nuovo socialismo - oppure iniziare a costruire un partito (o qualcosa di simile) da Bertinotti a Mussi, passando per Diliberto? Tutte e due le cose, con piu' di un paletto.
E' questo il filo rosso che al teatro Capranichetta di Roma ha percorso il seminario di Uniti a sinistra, Ars e associazione Rossoverde. Anzi, più che un seminario, spiega Folena all'inizio, una assemblea per dare vita ad un movimento per un nuovo soggetto della sinistra.
La "massa critica" richiamata da Bertinotti trova qui una lettura duplice: da un lato la metafora tratta dalla fisica, ovvero la necessità di mettere insieme il maggior numero di atomi possibile della sinistra per raggiungere quelle dimensioni minime per far sentire il proprio peso, la propria gravità; dall'altro la necessità di essere e continuare ad essere 'critici' anche con se stessi e il proprio passato, oltre che con il capitalismo.
"Il lavoro e la trasformazione sociale tornano a fondamento della sinistra" dice Folena davanti ad esponenti di un po' tutte le anime della sinistra, dal correntonista Famiano Crucianelli al verde Paolo Cento al direttore di Aprile Massimo Serafini cui è affidata anche una delle relazioni iniziali, fino a Giampaolo Patta che qui rappresenta un po' anche il Pdci. E il seminario-assemblea chiama in causa, esplicitamente, la battaglia del correntone ds. Perché lì, in vista di decisioni forse "inevitabili" come le ha definite Alfiero Grandi, più di qualcosa già si muove. Insomma, ancora per qualche settimana ognuno fa la sua strada - chi contro il Pd, chi per la Sinistra europea, chi né per l'una né per l'altra - ma poi serve mettersi a camminare insieme. E allora "oggi diamo vita ad un movimento per l'unità della sinistra" propone Folena e "impegnamoci nelle idee e progetti per un nuovo socialismo". Ognuno con la sua storia e la sua identita' "dentro un campo comune aperto, ma che come tutti i campi ha i suoi confini" perché, altrimenti, nessuna massa critica può stare insieme se le spinte centrifughe diventano prevalenti.
A raccogliere l'invito di Folena ci pensa Salvi che esplicitamente ammette di sperare ancora che il Pd non si faccia, ma di ragionare già per il dopo. "La proposta che abbiamo avanzato al congresso dei Ds - spiega il presidente della commissione giustizia del Senato - cioè quella di un soggetto della sinistra socialista oggi si rivolge a tutto campo". E, dicendosi interessato alla proposta bertinottiana di fare "massa critica", Salvi si sbilancia raccontando che ormai una decisione sulla separazione della sinistra della Quercia è questione assodata, visto anche l'andamento del congresso che consegna più o meno le stesse percentuali della precedente assise diossina. "Quello che prima era l'intendimento individuale mio e di Mussi. non fare la sinistra del Pd - scandisce Salvi - ora è divenuto collettivo".
Patta - e un po' si sapeva - anche lui si dice pronto ad una nuova forza a sinistra. Come indipendente di area Pdci è più libero di muoversi e sondare, ma il disgelo tra il Prc e i fratelli separati di Diliberto è cosa nota. La sorpresa, però, arriva da Paolo Cento, perché sinora i verdi avevano rivendicato sempre la propria autonomia. Al sottosegretario ambientalista non va di fare un partito comunista, ma la proposta di Bertinotti, ammette, è altra cosa: "possiamo intraprendere un percorso".
Le conclusioni sono affidate ad Aldo Tortorella. Il cronista quasi scorge l'occhio inumidito dell'anziano leader della sinistra del Pci quando dice che "molti di noi hanno speso gran parte della loro vita per l'obiettivo dell'unità a sinistra". Forse stavolta è la volta buona.
L'ordine del giorno finale accoglie la proposta della relazione di Folena. Uniti a sinistra, Ars e Rossoverde e quanti vorranno aderire sono da oggi un movimento per l'unità della sinistra in un soggetto politico "unitario e molteplice". In programma già tre seminari su ambiente, lavoro e pace per dare un tessuto programmatico al nuovo soggetto, con un occhio sul manifesto di un "nuovo socialismo" e l'altro puntato sugli esiti del congresso della Quercia.
il Messaggero 11.3.07
Venne 90 anni fa, prese uno studio in Via Margutta,
lavorò per i “Ballets russes”, creò due capolavori. Una mostra e un libro lo ricordano
Picasso a Roma con genio
di Massimo Di Forti
VENNE, vide, vinse. Accadde a Roma nel 1917. No, Pablo Picasso non vi giunse da turista e lo mise in chiaro subito, in una lettera datata febbraio e indirizzata all’amico Apollinaire: «Caro Guillaume, stamane ti scrivo mentre sono a letto. Non andrò al Foro. Alloggio in via del Babuino all’Hotel de Russie e ho uno studio in via Margutta dove lavoro». Vi rimase dal 17 febbraio al 2 maggio, giusto il tempo di creare due capolavori (L’Italiana, oggi nella Collezione Buhrle di Zurigo, e Arlecchino e donna con collana, conservato al Museo Nazionale d’Arte Moderna di Parigi, Centre Georges Pompidou), di realizzare le scenografie dello spettacolo Parade per i Ballets russes di Sergej Diaghilev e di innamorarsi della ballerina Olga Kokhlova, che sposò poi il 12 luglio a Parigi.
Erano tempi in cui gli Dei delle Arti scendevano sulla Terra per vivere, lavorare, respirare insieme e lasciare impronte indelebili di geniale creatività, Picasso e Jean Cocteau, Diaghilev e Igor Stravinskij, Eric Satie e Léonide Massine, Gino Severini e Giacomo Balla... «Abitiamo nel Paradiso terrestre», faceva sapere il 20 febbraio Cocteau alla madre. «L’albergo ha un giardino che domina Roma. Raccogliamo le arance dalla finestra...».
Che straordinario amarcord, questo evento in tre tempi organizzato da Valentina Moncada per ricordare il novantesimo anniversario del primo soggiorno romano del grande artista spagnolo: la mostra Picasso a Via Margutta (dal 28 febbraio al 30 marzo negli spazi della Galleria Moncada, in via Margutta 54), il libro Picasso a Roma. 1917. Mon atelier de Via Margutta 53B edito da Electa (con documenti inediti raccolti a cura di Francesca Foti) e una targa commemorativa che verrà affissa al numero civico 53B in occasione dell’inaugurazione della mostra.
L’ispirazione è venuta a Valentina Moncada durante una notte insonne, in cui le era tornata alla memoria la storia fitta di leggende e di gloria degli “Studj di Pittura e Scultura” affacciati sui magnifici cortili ai piedi del Pincio. Il suo trisnonno, il marchese Francesco Patrizi, nel 1858 aveva deciso di affittarli agli artisti di passaggio a Roma rafforzando una tradizione avviata già da secoli. E se il marchese ebbe ospiti come Verdi e Wagner, Puccini e Ravel, Liszt e Debussy, il figlio Giuseppe non fu da meno: fu lui ad aprire, a partire dal 1905, quegli spazi ai primi storici incontri dei Futuristi e a sistemare Pablo Picasso nell’atelier del 53B.
«Mi precipitai a Parigi nell’Archivio del Museo Picasso», racconta la bionda gallerista, figlia del fotografo di moda Johnny Moncada e della modella americana Joan Whelan, protagonisti di quell’età d’oro romana che abbraccia gli anni 50 e 60, «alla ricerca di documenti e lì trovai il diario italiano dell’artista spagnolo, dove in prima pagina si legge Mon Atelier de Via Margutta 53/b. Il carnet era ricco di aneddoti, schizzi, notizie sulla vita artistica e mondana di Picasso, Diaghilev, Cocteau, Stravinskij in quei giorni romani che pubblichiamo ed esponiamo per la prima volta in quest’occasione».
Certo, Picasso e Cocteau (che doveva scrivere il libretto di Parade) lavorarono alacremente per lo spettacolo che la compagnia di Diaghilev doveva dare il 9 aprile al Teatro Costanzi (oggi l’Opera). Ma ebbero modo anche di incontrarsi più volte con Gino Severini, Fortunato Depero e altri futuristi al Caffè Greco o, più amabilmente, con leggendarie bellezze come la marchesa Luisa Casati al Grand Hotel... Il dispotico Diaghilev, onnipotente deus ex machina dei Ballets russes (che Cocteau definisce, senza giri di frase, “l’orco” in una lettera alla madre), si era invece insediato in un lussuoso appartamento nel palazzo del marchese Theodoli, all’angolo tra via del Parlamento e il Corso, di fronte al Caffè Aragno, dove ospitò Igor Stravinskij che diresse a Roma due concerti, l’Oiseau de feu il 9 aprile e Feu d’artifices il 12.
Nello studio di via Margutta, Picasso realizzò non solo le scenografie di Parade ma “soprattutto” due capolavori come L’Italiana e Arlecchino e donna con collana. Il primo, coloratissimo e parzialmente ispirato a una composizione di Severini, grazie alla giustapposizione di piani geometrici tipica del Cubismo, rappresenta una figura femminile con indosso un tradizionale costume laziale, il grambiule a fasce variopinte, la tovaglia bianca e una cesta di fiori al braccio. Il secondo fu descritto dallo stesso Severini come «una grande tela fatta in uno spirito molto lineare, forme a due dimensioni, di una limpidezza estrema, trattate quasi in nero e bianco quadro di una poesia pittorica giunta al massimo della trasposizione e dell’astrazione».
Vi rimase soltanto due mesi e mezzo. Gli bastarono per lasciare un altro segno indimenticabile nella storia dell’arte del Secolo Ventesimo.
SCRIVEVA Jean Cocteau alla madre (24 febbraio): «Picasso lavora in un magnifico studio dietro Villa Medici, gli portano uova e formaggio romano, e rifiuta di uscire quando è preso dalla pittura». No, Picasso non rimase certo “recluso” nello studio e godette dei piaceri della vita romana in mille modi, visitando con l’amico Jean i ristoranti alla moda come “Basilica Ulpia” al Foro Traiano e “La Villetta” in via della Nocetta, presso Villa Pamphilj. Ma la sua vena creativa fu all’altezza della fama che già in quegli anni lo accompagnava costantemente.
L’idea di tributargli una targa in via Margutta per quell’eccezionale soggiorno è stata quanto mai felice e aggiunge un nuovo mitico tassello alla storia di una strada ascesa alla notorietà mondiale soprattutto dopo le indimenticabili avventure della coppia Audrey Hepburn & Gregory Peck in Vacanze romane. Eppure - incredibile ma vero, assicurano alla Galleria Moncada - non sono state poche le difficoltà da superare per ottenere un risultato che spesso si ottiene per molto meno.
L’importante, comunque, è che l’obiettivo sia stato raggiunto. Perché è giusto che via Margutta sia conosciuta per quel che ha rappresentato per generazioni di artisti e Maestri: una fonte continua di ispirazione e una straordinaria Fabbrica di Bellezza.
M.D.F.