giovedì 8 marzo 2007


l'Unità 11 marzo 1991
Un intervento polemico sul film di Bellocchio "La condanna"
Macché fantasia così si giustifica lo stupro
di Carol Beebe Tarantelli


Nel suo nuovo film, La condanna, Bellocchio mette in scena la fantasia maschile della seduzione violenta. Un uomo e una donna sono chiusi di notte a Villa Farnese. Lui si impossessa di lei con la forza; lei resiste ma, accesa dal desiderio di lui, si abbandona al rapporto. In un secondo momento lo accusa di averla violentata: lui viene processato e (contro ogni canone del realismo) condannato.
Per il tema che tratta, questo film è destinato a suscitare disagio nelle donne. Non perché insceni, approvandolo, uno stupro (la donna acconsente); ma perché questa fantasia sessuale maschile è lo scenario attraverso il quale la nostra cultura “legge” la terribile realtà dello stupro. È immaginato come l’irruzione di un irrefrenabile desiderio sessuale maschile, un desiderio che, in fondo, la vittima, anche se lacerata e sanguinante, riconosce e corrisponde (come si suol dire, se l’è voluta). Questo modo di vedere lo stupro, lo comprende e implicitamente lo giustifica. Mette un filtro di fantasia tra noi e la realtà dello stupro.
Nella realtà, lo stupro (per quanto si riesce a capirlo, dato che gli studi sugli stupratori sono pochi, anche se molto significativi) non corrisponde affatto a questo scenario. Anzi, lo stupro non deriva dall’eccesso di desiderio sessuale, ma dal desiderio di sopraffazione, di distruzione della femminilità della vittima; è un atto di violenza in cui il pene è usato come arma.
Dato, però, che questa fantasia è così fondante della nostra cultura, forse faremo bene a guardarla più da vicino. Ci sono due fantasie sessuali adolescenziali – una maschile e una femminile – che sono variazioni su questo tema e che sono molto diffuse anche nelle espressioni culturali, tanto da essere parte strutturante del nostro immaginario sessuale. Quella maschile – che è quella rappresentata da Bellocchio – suona così: un uomo ha un desiderio sessuale travolgente per una donna. Lei è indifferente. Lui si impone; lei resiste. Ma poi viene trasportata dalla passione di lui, che risveglia una passione travolgente anche in lei. Questo incontro lo fa rinascere. La fantasia femminile è per certi versi simile e, nella sua versione più elaborata, è familiare nelle infinite variazioni sul tema classico del romanzo rosa. Lui è l’eroe scuro, forte, tenebroso, a volte anche violento. Vede una donna da lontano e, fulminato dalla bellezza della sua anima, attraversa distanze immense per inseguirla. La rapisce ma lei lo aiuta a trasformare la sua forza in protettività, la sua violenza in tenerezza. Duro verso il mondo, con lei è vulnerabile, è eternamente sorpreso e grato per la dolcezza con cui tocca le ferite che gli ha procurato la vita.
Fantasie come queste, di un rapporto imposto, ma poi accettato e anche desiderato (che ho chiamato adolescenziali ma che non sono certo confinate a quell’età anagrafica), sono evolutive per l’adolescente, il cui io è ancora fragile. Gli permettono di sperimentare i rapporti tra i sessi all’interno del proprio immaginario, dove plasma onnipotentemente i comportamenti di entrambi i soggetti del rapporto secondo i propri bisogni. La fantasia può diventare anche per l’adulto un rifugio dalle difficoltà di un rapporto reale: nella fantasia l’altro è finalmente quella persona che voglio che sia e non (come nella realtà) un altro i cui desideri e le cui difficoltà gli impediscono di corrispondere sempre al mio desiderio. Le difficoltà non nascono dalla fantasia in sé. Nascono, invece, dalla pretesa di tradurle meccanicamente in realtà. Questo accade ai soggetti troppo fragili per avere un rapporto con un’altra persona, quando, minacciati dalla diversità dell’altro, gli impongono il proprio immaginario. Quando cioè la fantasia esce dalla propria sfera e diventa pretesa o costrizione. In questo caso diventa stupro o, meglio, la giustificazione collettiva dello stupro.
Forse, però, anche queste fantasie vanno guardate più a fondo, perché sono la rievocazione degradata di uno degli scenari mitici fondanti della nostra cultura, ovvero del mito dello stupro divino. Un grande poeta irlandese, Yeats, ha descritto questa scena nella sua poesia Leda e il cigno: «Come potranno respingere, le dite incerte e in terrore / Quella gloria piumata dalle sue cosce che s’aprono?/ E come un corpo, in quella furia bianca, può / Non sentire quel cuore straneo battere?/ Laggiù dove è riverso?». L’effetto di quello stupro viene anche espresso nella poesia: «Così imprigionata / Padroneggiata dal sangue selvaggia dell’aria / Trasse lei conoscenza da quel suo potere, / Prima che il becco indifferente lasciasse la sua preda?». L’esperienza descritta è quella del contatto devastante della coscienza individuale con un potere immenso, che viene da un universo estraneo alla coscienza. Nella versione cristiana diventa la visitazione della forza divina alla donna umana: una forza, però, non violenta, rispettosa dell’individualità della vergine. Che cosa dobbiamo dire di una visione che situa questo potere in un essere umano, un maschio, che prende su di sé il compito di violare un’altra coscienza, anche se solo sul piano della fantasia? Dovremmo dire, credo, che è inflazionato, che ha illusioni adolescenziali di onnipotenza. In questa prospettiva, il film di Bellocchio non aiuta ad approfondire il contesto simbolico della sessualità, ma si pone come una fotografia della fantasia immatura di molti uomini, inconsapevolmente introiettata da molte donne.

l'Unità 14 marzo 1991
Ma il potere sull’inconscio non è uno stupro
di Massimo Fagioli

Per partecipare all’interessante intervento di Carole Beebe Tarantelli, poche proposizioni, come si conviene ad un articolo di giornale.
1) Bellocchio è un artista e, come tale, racconta nell’ambito della bellezza un fatto o un fenomeno osservato. Pertanto non può essere accusato dei contenuti della rappresentazione.
2) Se, come uomo, condivide pensieri e teorie, esso è fatto separato dalla rappresentazione.
3) Si pone la rappresentazione di una realtà maschile nel suo rapporto con una realtà femminile. E le realtà maschili sono due (architetto e pubblico ministero) e le realtà femminili sono tre.
4) L’architetto superbamente si pone a svelare il latente inconscio di una donna, che è addormentata dalla realtà cosciente quotidiana. Il fatto non è delitto: la seduzione è accettata.
5) Inaccettabile, condannabile è che un uomo abbia le chiavi per aprire e chiudere l’inconscio altrui a suo piacimento. Esso è potere sul desiderio che nessuna convivenza sociale può accettare che sia nelle possibilità di un solo uomo. («l’inferiorità è non avere il coraggio del proprio desiderio»).
6) Bellocchio artista ha colto, visto, rappresentato questo potere. Ha sbagliato? È stata un’illusione? È una fantasticheria astratta del regista o è stata vista una verità? Se è una fantasticheria astratta è ugualmente arte della sua rappresentazione? Se è astratta è violenta, è inganno? E se la verità, il fatto che un uomo abbia le chiavi per accedere all’inconscio e modificarlo, è cosa che l’artista non è tenuto a giudicare («non sarà giusto, non sarà morale, ma non c’è stata nessuna violenza carnale come l’intende il codice penale»).
7) Il discorso artistico non si ferma qui. C’è un’immagine femminile, la contadina, che ha lo stesso fascino, la stessa superbia, la stessa certezza di sé, che si rapporta a un uomo, il pubblico ministero, frustrandolo, cercando si condurlo al desiderio.
8) Il «divino» dono della forza e della bellezza naturale, non cercata e non costruita, è nell’immagine femminile che sorge dalla natura come una pianta spontanea.
9) Ma forse, in effetti, il «divino» femminile ha la sua impotenza nel non riuscire a smuovere il pubblico ministero per portarlo al desiderio.
10) L’architetto ha raggiunta la sua certezza di identità con gli anni, è più umano: volgarmente materiale, si pone nel rapporto concreto anche se si tratta di seduzione psichica. Costringere l’altra all’identità, la bellezza, la gioia, la vita. Altro che non è soltanto una donna, ma è un regista, un paziente, l’analisi collettiva.
11) Forse in questa umanità sta la potenza, «violenza». Nel non astenersi, nel non restare narcisisti, paghi della propria intelligenza, arte, bellezza.
12) Forse, un peccato maschilista o infantile (tutti gli artisti sono un po’ infantili e poco razionali) sta in questo ideale di donna che non ha bisogno di terapie per essere.
13) Forse un peccato psicoanalitico sta in questo soggiacere al fascino di un irrazionale bello, una immagine che non parla, è soltanto una immagine femminile.
14) Forse quanto nell’architetto è superbia disumana di avere il potere sull’inconscio, è dovuto a quanto di artista egli ha, che assorbe dall’immagine femminile, da quella libertà naturale di una donna, assorbe il diritto di non sottostare alle leggi. Un artista deve sottostare alle leggi?

Venerdi di Repubblica 15 marzo 1991
PERSONAGGI
Anti-freudiano al cento per cento, lo psichiatra Massimo Fagioli torna al cinema firmando la sceneggiatura dell'ultimo film di Marco Bellocchio "La condanna"
Freud? E’ un imbecille
di Luca Villoresi

«Veramente non so... sarà il caso di non continuare a parlarne? Tanto poi mi dipingete come vi pare a voi. Il plagiatore, lo stupratore...». Ma no, dottore, su, non si faccia pregare. Ma no e ma sì, vorrei e non vorrei, disponibile e ritroso, alla fine, il co-sceneggiatore eccolo qui. Ancor dubbioso: «Davvero nei titoli non mi mettete assieme a Tinto Brass?». Seppure fermamente sicuro di sé: Freud? «Un imbecille che non ha scoperto nulla». Massimo Fagioli? Uno che «in quindici anni avrò esaminato qualcosa come centomila sogni dando interpretazioni corrette non dico nel cento per cento dei casi, ma almeno nel 99 sì. Certo? Certo che ne sono certo. La mia è una teoria scientifica». Sicuro? «Sicuro, altrimenti non continuerei a fare quello che faccio».
Su cosa faccia il dottor Fagioli i pareri, naturalmente, sono controversi. Psichiatra - «Laureato e specializzato, con tutti i titoli a posto. Mica un selvaggio come qualcuno continua a definirmi» - inventore dell'analisi collettiva, guida spirituale di alcune centinaia di fedelissimi pazienti, Massimo Fagioli, era stato al centro di una violenta polemica nel 1986, quando il produttore Leo Pescarolo lo accusò di esercitare una nefasta influenza sul regista de Il diavolo in corpo: «Bellocchio è plagiato. Di questo film montato da Fagioli non so cosa farmene». Adesso torna sulla scena con La condanna. «Ho firmato con Marco la sceneggiatura. E durante le riprese ho espresso giudizi di cui il regista ha tenuto conto. E allora? Finitela di trattare Marco come un povero cretino. Perché se io sono il cattivo lui deve essere per forza l'imbecille».
L'uscita dell'ultimo film dell'autore de I pugni in tasca, oltre a riproporre dubbi e chiacchiere sul sodalizio artistico‑analitico Bellocchio‑Fagioli, ha scatenato però un ulteriore piccolo putiferio. La condanna, cronistoria psicologica e giudiziaria di un amplesso controverso ‑ Lei ci è stata? Le è piaciuto? E con la prepotenza dell'erezione come la mettiamo? La condanniamo, la assolviamo, o la mettiamo in libertà vigilata? ‑ secondo l'accusa sarebbe una vera e propria apologia dello stupro.
Guru, santone della psicoanalisi, selvaggio, con e senza virgolette... adesso anche ideologo della violenza carnale. Tutto falso, diciamo. O esagerato. Come si spiega, però, tanta acrimonia nei suoi confronti? «Diciamo che posso solo fare delle ipotesi. Una per tutte: la cultura dominante non è freudiana? Ebbene, io sono anti‑freudiano al cento per cento. Ho messo in discussione le basi della psicoanalisi ortodossa, la figura del medico sacerdote, con quel suo studio che sembra la capanna dello stregone. Se io ho ragione tanta gente dovrebbe cambiare mestiere. Potrebbe essere un buon movente per certi articoli pieni di insulti».
Potrebbe essere. Lei, però, dottor Fagioli, con questa sua pretesa di poter interpretare tutti i sogni, ignorando per di più la storia individuale del soggetto che li racconta... non peccherà un po' di presunzione? Davvero è convinto di aver trovato le chiavi di lettura dell'inconscio? «Sì. Al contrario di quanto sosteneva Freud, rivendico la possibilità di comprendere i sogni. Altro che libere associazioni. Prenda nota: io interpreto direttamente quello che chiamo negazione e pulsione di annullamento, facendo riferimento alle tappe fondamentali della vita umana: nascita, allattamento e svezzamento, la grande crisi del bambino che scopre che non siamo tutti uguali, la pubertà, la masturbazione. Tutto il resto, dai ricordi infantili ai traumi subiti andando al mare o in montagna, non mi interessa».
Dalla teoria alla pratica. Lei, attualmente, ha almeno seicento pazienti che riceve, divisi in quattro turni settimanali, in un locale di Trastevere: quattro ore di seminario e all'uscita chi vuole lascia un'offerta. Quanto guadagna dottor Fagioli? «Senta io non conosco il reddito degli analizzati, non chiedo niente a nessuno. E non sopporto di essere accomunato a quel signor Verdiglione che non è medico né analista e si prendeva gli appartamenti dei pazienti». I soldi non la interessano. E il potere? Qualcuno suppone che lei eserciti un fascino eccessivamente carismatico sui suoi "fagiolini". «Da me ognuno è libero di venire o non venire. lo non chiedo nemmeno il nome». Però può cacciare un paziente? «Questo certo che sì. Sono un libero professionista».
Saltiamo le polemiche su II diavolo in corpo e la Visione del Sabba, l'altro film in cui Bellocchio si sarebbe fatto abbindolare dai suoi "deliri psicanalitici". Veniamo a quest'ultimo discusso stupro‑non stupro. «Beh, anche qui gli equivoci si sono sprecati. A partire dai paralleli col caso Saracino. Per finire a queste ultime ridicole accuse. Ma che apologia di stupro! Quella famosa scena, invece, provate a guardarla come una geometria: la tangente dell'appoggio, i quattro amplessi circolari, la raffigurazione finale delle coordinate cartesiane con lui in piedi e lei sdraiata. Ecco, vede cos'è una ricerca».
Luca Villoresi