il Riformista sabato 24 marzo 2007
GENETICA. IL NON TRASCURABILE RUOLO DEL PENSIERO NELLE RELAZIONI INTERUMANE
Il rapporto sessuale umano non è quello tra leone e leonessa
DI ANDREA MASINI
Ho letto con interesse l'originale dibattito che si è sviluppato nei giorni scorsi sul Riformista sul tema genetica-sessualità. In particolare ho trovato fondamentale quanto proposto il 17 da Paolo Fiori Nastro circa l'assoluta differenza tra sessualità umana e animale, un argomento che raramente ho visto trattare sulle pagine degli altri media. La proposizione più comune, infatti, ribadita anche da qualche intervento nel presente dibattito, è quella di cercare di comprendere la realtà umana partendo dal pensiero che l'animale sarebbe uguale all'uomo.
Anche la chiesa cattolica, che da sempre condanna con violenza incomprensibile la sessualità umana, sostiene che essa sia indissolubilmente legata alla procreazione, accettando la prima solo quando ha il suo fine nella seconda; in tal modo il pensiero religioso ha sempre teorizzato una sostanziale animalità del comportamento umano, dalla quale l'uomo si solleverebbe con la rinuncia e l'astinenza. Malgrado questo “veto”, la scienza ha reso possibile la separazione tra procreazione e atto sessuale con quegli atti medici che sono conosciuti sotto il nome di procreazione assistita. E anche se in Italia il pensiero cattolico l'ha resa difficile con la nota legge 40, di fatto nella società odierna sessualità e procreazione non sono più indissolubilmente legati.
La sessualità umana, come ha sostenuto anche Livia Profeti nel suo intervento, è «una modalità di rapporto interumano che (…) implicando non solo il corpo ma anche il pensiero cosciente e non cosciente, non obbedisce alle leggi della biologia evoluzionista», cioè non si lega agli istinti animali di sopravvivenza e moltiplicazione bensì a quella realtà caratteristica della nostra specie che è il rapporto interumano. Ciò che ci distingue dagli animali non è il comportamento, che pure è tanto diverso, ma quel pensiero che c'è dietro il comportamento e che fa sì che l'uomo costruisca la cappella Sistina e gli animali abitino le tane.
Quello che vorrei aggiungere al dibattito in corso è ciò che per me è più evidente: che tra il leone e la leonessa non c'è quel rapporto fatto di pensieri, immagini, sogni, sensazioni e tanto altro, che sempre precede il rapporto sessuale umano, lo accompagna e poi eventualmente lo segue. Non si capisce perché nell'affrontare questi argomenti non si prenda mai in considerazione quella realtà mentale che negli esseri umani si realizza già negli anni che precedono la sessualità, la quale deve invece attendere che lo sviluppo biologico del corpo sia compiuto, alla pubertà. Stupisce che non si pensi mai che le realtà mentali dell'uomo e della donna iniziano molto tempo prima dello sviluppo della sessualità e nel precederla la determinano.
I rapporti interumani non possono essere compresi se non si prende in considerazione che il pensiero, in gran parte non cosciente, determina ogni comportamento umano e quello sessuale più di ogni altro. In questo senso, forse perché faccio lo psichiatra tutti i giorni, sono costretto a ricordare che questo pensiero non sempre è sano, e pensare-augurarmi che un ragazzo e una ragazza, prima di dormire insieme, si pongano quel problema che i gatti non hanno, ovvero se sia giunto realmente il momento di fare un figlio e di assumersi così l'onore e l'onere di ciò che questo comporta.
E con ciò pronuncio un altro grazie alla scienza, che con la contraccezione ha contribuito non poco alla nostra “liberazione” rendendo la sessualità una possibilità di rapporto interumano senza “incidenti” procreativi. Così i ragazzi di oggi possono cominciare la loro vita amorosa, e con questa sviluppare la loro identità umana rinviando ad altro momento quella realtà della procreazione che presuppone invece un'identità già realizzata.
Considerata sempre ricerca del piacere, se non confusa con un qualche bisogno fisiologico di “scarica”, la sessualità non è stata mai vista nella sua realtà di ricerca di una identità maschile e femminile che, realizzandosi nel rapporto con l'altro, potrebbe essere il massimo della realizzazione umana. Realizzazione che in questo caso non starebbe tanto in una brillante carriera professionale di medici, avvocati, operai o politici, ma in una identità umana che propone un'uguaglianza per la quale qualunque differenza sociale, di età o di nazionalità, rappresenta soltanto una variazione priva di significato.
l'Unità 24.3.07
CONTROSTORIE La trasmissione su Rai2 dedicata allo scenario ipotetico di una disfatta della Dc e di un’affermazione del Fronte popolare: simulazione plausibile e stimolante
Minoli e la storia con i se. Incredibile ma funziona
di Bruno Gravagnuolo
La storia con i «se». Detestata da Croce, tenuta in gran conto da Max Weber, idolatrata oggi negli Usa e in Gran Bretagna, sotto forma di fantastoria narrativa, approda infine anche in Italia. In format audiovisivo. È accaduto ieri l’altro dopo le 23 su Rai2 nella trasmissione di Minoli La storia siamo noi, fascia oraria tarda ma propizia alle riflessioni. Tema: cosa sarebbe accaduto se il Fronte popolare avesse vinto le elezioni il 18 aprile 1948?
Interrogativo dipanato così. Sullo sfondo i testimoni, al modo del coro greco, oltre al conduttore Minoli. E cioè da una parte Andreotti e Sandro Curzi, e dall’altra due storici di diversa formazione. Il defeliciano Emilio Gentile e la socialista Simona Colarizi. Ne è venuto fuori un racconto plausibile, da diverse angolature, con ciascuno degli attori disposto a simulare, come se gli avvenimenti si fossero svolti al modo comandato dall’ipotesi di fondo: la vittoria del Fronte con il 53% contro il 31% della Dc. Il contrario esatto di quel che effettivamente avvenne.
Altra risorsa scenica, le immagini di repertorio. Montate anch’esse «come se», come a descrivere filmicamente i fatti ipotetici assunti come veri. Conclusione: un esperimento riuscito. Calibrato e persino «rigoroso», per quanto una simulazione del genere possa esserlo. E malgrado gli opposti punti di vista di Gentile e Colarizi. L’uno convinto che il Pci avrebbe imboccato una via moderatissima a vittoria conseguita, nel tentativo di barcamenarsi tra l’ombra degli Usa e le spinte più radicali. L’altra persuasa al contrario che Togliatti e i suoi non potevano che imporre una dittattura del proletariato. E nondimeno la conclusione di tutti, e quella del racconto che ne è scaturito, è stata unanime. Vale a dire, quella vittoria del Fronte sarebbe durata lo spazio di un mattino. Perché sarebbero entrate in gioco forze potenti a stroncarla. Dagli Usa nel Mediterraneo, al Vaticano, ai ricostituiti apparati dello stato, polizia, prefettura carabinieri. In più la nascente repubblica «socialista» sarebbe stata strangolata dal blocco economico e dal mancato accesso al piano Marshall. Senza dire che l’Urss, non avrebbe potuto, né voluto fare più di tanto, alle prese com’era con la stabilizzazione del suo blocco all’est. L’epilogo del racconto di Minoli è stato allora l’esplodere della guerra civile, innescata da una provocazione armata in Piazza S. Pietro, a confermare i timori dei «cosacchi». E coronata dal ritorno dei Savoia nel 1956, dopo anni di semi-dittattura scelbiana, e di inutile resistenza rossa sulle montagne.
Che dire di tutta la simulazione? Innanzitutto che questo schema «controfattuale» funziona, è plausibile. E costituisce una risposta indiretta alle tante sciocchezze ascoltate proprio ieri l’altro a Roma al Convegno sul Pci aperto da Fabrizio Cicchitto. La cui tesi suonava fra l’altro: «Pci che avrebbe fatto come in Russia, stante la sua natura eversiva ed eterodiretta da Mosca». E funziona lo schema per una serie di ragioni forti. Vediamone alcune. Primo, Togliatti non voleva né poteva volere in quelle condizioni una «democrazia popolare». Sapeva benissimo che i giochi geopolitici erano fatti dopo la guerra, e che al massimo si sarebbe potuto inoltrare su una via neutralista moderata, e non antiamericana. Per questo aveva ipotizzato una strada molto lenta e lunga basata su un’economia guidata senza toccare ceto medio e piccola impresa, ma anche contrattando la ripresa economica con la grande impresa, arginandone il potere monopolistico. La cornice restava dunque la Costituzione repubblicana, l’intesa con i cattolici e la Chiesa. E un’attesa di scongelamento della guerra fredda incipiente. Il tutto da un lato contro Secchia, e la «via jugoslava» a supporto di una radicalizazzione a sinistra. E dall’altro contro l’Italia più reazionaria, da isolare e marginalizzare.Via strettissima perciò, a egemonia progressiva e «gramsciana», e ad economia mista e non di comando. Con l’assunzione piena del modello parlamentare, benché senza chiarezza sull’assunzione netta delle regole liberali dell’alternanza. Piccolo particolare non controfattuale. È provato che gli Usa avrebbero stroncato il tentativo. E lo dimostrano gli scenari dei servizi americani oggi declassificati. Sicché a conti fatti quanto disse una volta Riccardo Lombardi non è tanto paradossale: «La sconfitta del 18 aprile ci salvò da noi stessi».
Repubblica 24.3.07
LA FAMIGLIA DOPO UN LUTTO
Psicoanalisi/ Il trauma della morte di un congiunto
di Luciana Sica
È un momento drammatico, una svolta. Ma può anche diventare un'occasione di crescita
La raccolta di saggi, curata da Maurizio Andolfi, indaga sui traumi nelle persone e nelle relazioni
"Da una perdita si può passare a un modo nuovo di stare insieme accettando la fragilità"
"Prima del dolore si può essere egoisti o narcisisti Dopo tutto si ridimensiona"
ROMA. Maurizio Andolfi è un terapeuta della famiglia, noto anche all´estero, un uomo singolare per i suoi modi diretti, quasi bruschi, tipicamente "romaneschi", coniugati a una competenza rigorosa, a una grande esperienza teorica e clinica, a quel pragmatismo di scuola anglosassone così lontano dalle pose intellettuali di certi sapienti dell´anima.
Sessantaquattro anni, neuropsichiatra infantile, professore alla facoltà di Psicologia della "Sapienza", direttore dell´Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Andolfi è un uomo allegro, pieno di simpatia e di curiosità. Forse è anche per queste caratteristiche umane che può sorprendere il suo interesse per un tema come il lutto, per la condizione di vuoto e di dolore che segue la scomparsa di una persona amata - in modo particolare per quella catastrofe che è la morte improvvisa di un figlio: l´incubo sempre presente e sempre rimosso di ogni genitore.
Le perdite e le risorse della famiglia (Raffaello Cortina, pagg. 322, euro 24): basta la titolazione per intuire l´estraneità totale alla celebre "elaborazione del lutto" in chiave psicoanalitica, del libro collettaneo che Andolfi ha curato insieme a un collega più giovane ma già affermato - Antonello D´Elia, psichiatra e psicoterapeuta, "didatta" dell´Accademia romana, che firma i due saggi iniziali, tra i più brillanti del volume.
Se da Freud in poi, il lutto è sempre stato affrontato dalla psicoanalisi in termini individuali (intrapsichici), per la risonanza profonda che assume nella vita più intima del soggetto colpito dal dolore, questo libro - anche piuttosto "tecnico" ma di un suo innegabile interesse - può vantare un´originalità assoluta (almeno per quel che riguarda il nostro Paese): qui si indaga principalmente sugli effetti che il lutto produce nella dimensione più ampia della famiglia.
È ovvio: la perdita sempre dolorosa di una vita - tanto più se di una giovane vita - mette in moto una serie di dinamiche complesse all´interno della famiglia che ne è sconvolta, comporta - anzi impone - dei profondi mutamenti personali e relazionali. Gli esiti però sono imprevedibili. Ed è qui che le pagine di questo libro si fanno più interessanti, legate come sono alla lunga esperienza clinica degli autori. Se molto spesso un lutto cristallizza o disgrega i legami familiari, a volte - certo, un po´ paradossalmente - può invece significare una "opportunità" di crescita, costituire un punto drammatico di svolta per un cambiamento, grande e positivo, con se stessi e con gli altri. Col tempo non è escluso che una famiglia risulti più unita, "rafforzata", più capace di autentica affettività al suo interno e al di fuori.
«La prima fase di ogni lutto è la distanza, la chiusura, anche per la difficoltà che in genere si ha a esprimere i propri sentimenti più depressivi. Il dramma del lutto è che non si perde soltanto il familiare scomparso, ma anche altre figure significative, o che sembravano tali fino a quel momento». È Maurizio Andolfi a parlare, nel suo studio romano a due passi da Villa Torlonia. «La perdita di una persona amata procura sempre un terremoto all´interno di un gruppo familiare. Il lutto non unisce mai, anzi quasi per sua natura separa, legato com´è al particolare significato che quella perdita ha per ciascuno dei membri di una famiglia. Quando si è colpiti da un grande dolore, si vive come in un mondo a parte, in uno stato dissociato dalla realtà dove vengono svalutati un po´ tutti i rapporti, anche quelli più stretti».
All´inizio la vita non è più vita, solo un rosario di giorni spenti e ripetitivi: è sopravvivere. Ma poi può succedere "qualcosa", che non è solo - banalmente - tornare a vivere. Il punto infatti è come si riprende il rapporto con la realtà, con quali trasformazioni interne e con quale atteggiamento nei confronti degli altri, a cominciare dalle persone più vicine.
Andolfi: «Non è un´idea astratta, o romantica, noi l´abbiamo verificato tante volte nel lavoro con le famiglie. Da un lutto "incestato" si passa a volte, attraverso una circolazione della sofferenza, a un modo nuovo di stare insieme, dove al centro c´è l´accettazione del proprio essere fragili, così indifesi nei confronti della sventura, la capacità di stare a contatto con le proprie emozioni e di saperle comunicare, di non proporsi più come pure maschere, nei soliti ruoli aridi, abitudinari, ripetitivi».
È attraverso l´esperienza del dolore che fantocci senz´anima diventano finalmente esseri vivi, palpitanti, affettivi: è in questo caso che il lutto rappresenta una "risorsa" di aggregazione, imponendo un nuovo modo di essere, di stare al mondo in una gerarchia di valori diversa. Per dirla con Andolfi, «prima magari erano egoisti, grandiosi, onnipotenti, narcisisti, ma poi il lutto li ridimensiona, abbatte ogni falsa impalcatura, rende vulnerabili, costringe insomma a una revisione radicale dell´esistenza... Le morti che insegnano sono proprio quelle che distruggono certi obiettivi assoluti della vita».
Mettiamo i tanti drogati del lavoro, quegli uomini (e quelle donne) che hanno fatto della carriera un mito: le loro ossessioni professionali svaniscono, vanno in frantumi. «Mi è crollato tutto», confessano ai loro terapeuti, intuendo che quel tutto era solo una parte, e neppure la più importante. «La mia vita non ha più un senso», dicono, ma capita che poco alla volta scoprano che la vita possa avere anche un altro senso, e che sia possibile riprogettarla.
Nel lavoro faticoso del lutto, si produce un distacco netto tra presente e passato. L´esperienza vissuta con la persona scomparsa è alle spalle, irripetibile, ma quella ferita può aprire una tensione verso il futuro. Nella famiglia, la morte crea sempre un vuoto, ma spesso lo rivela: la perdita - con tutto il suo potenziale distruttivo, silenzi e sensi di colpa, rabbie e incongruenze - può essere il motore di profondi cambiamenti, e la sensibilità nei rapporti umani aumentare di molto.
Insomma il vero vuoto fa apparire la "felicità" precedente come, essa stessa, in fondo vuota. Lo raccontava perfettamente il film più straziante di Nanni Moretti, e lì a sconfiggere il mostro del lutto celato nella "stanza del figlio" era una ragazza di nome Arianna (un nome, certo, non scelto a caso - come anche il dedalo di corridoi nell´appartamento, notava Tullio Kezich). E forse sarà proprio Arianna a salvare la famiglia, a farla uscire da quel labirinto invisibile che è la loro vita incagliata nel dolore. Tra l´altro il protagonista della storia - il padre, interpretato dallo stesso Moretti - è uno psicoanalista e molti hanno voluto vedere il film come una metafora della morte dell´analisi.
«A me - dice Andolfi - La stanza del figlio ha fatto pensare piuttosto a un discorso sulla finalità dell´analisi che, come ogni terapia, in fondo non può essere che il confronto con il vero lutto, con la mancanza reale, con la morte. E anche che certi cambiamenti possono non essere lenti, graduali, ma improvvisi, folgoranti».
Viene in mente almeno un altro film, Tutto su mia madre di Pedro Almódovar. Lì non esiste traccia di una famiglia tradizionale: c´è una donna sola con un figlio adolescente, che muore in un incidente stradale. Una storia terribile, che fa pensare anche a come oggi le famiglie - così poco numerose, così diverse dal passato - abbiano certamente più difficoltà a contenere in un gruppo solidale un destino di dolore.
Ora Almodóvar è noto per essere un omosessuale che adora le donne (ne ha un´ammirazione che sconfina forse nell´invidia), quasi tutto il suo cinema ruota intorno a figure femminili memorabili. E così, anche quella donna privata del suo amore più incondizionato, non risulterà sconfitta, annichilita dalla perdita. Anzi sarà capace di rinascere, di recuperare la sua vita precedente forse più problematica ma intensa.
Nella vita reale, sarà però la stessa cosa? Una donna sola può davvero sopravvivere alla morte del proprio unico figlio? C´è da dubitarne, ma Maurizio Andolfi non lo esclude: «Le donne - per loro natura - partecipano ai processi profondi della vita. Quando sono colpite dal dolore, non lo sfuggono, ci stanno molto vicino per lungo tempo, non cercano scorciatoie. "Sentono" che quella è l´unica strada, perché in effetti è solo così - accettandolo, il dolore - che lo si può poco alla volta attraversare, è così che si fa il salto... Ho visto più volte madri reagire alla catastrofe, spesso facendo da ponte ad altre vite intorno a sé: donne inesauribili, che tendono a ricostruire una loro famiglia nel sociale. Le donne credono profondamente nella vita, non a caso ne sono le artefici: sanno che si nasce e si muore da soli, ma anche che si cresce e si cambia con gli altri».
Repubblica 24.3.07
Hegel. Il suo pensiero è una spietata macchina da guerra
"La fenomenologia dello spirito"
di Antonio Gnoli
Due secoli fa, nel marzo del 1807, usciva l'ardua opera del grande filosofo: sgomentò non pochi lettori
L'editore Goebhardt, spaventato dalla mole e dall'oscurità del testo, decise di stamparne solo 750 copie
La leggenda vuole che finisse di scrivere questo saggio il giorno stesso in cui Napoleone entrò a Iena vincitore
Nel marzo del 1807, a trentasette anni, G. W. F. Hegel pubblicò La Fenomenologia dello Spirito. L´opera - ardua, oscura, indecifrabile - lasciò sgomenti i pochi lettori contemporanei messi di fronte a un linguaggio di astrusa profondità. Quasi un ventennio prima, anche Kant aveva seminato un eguale disorientamento. Tant´è che Fichte si spinse a dire che la fortuna del padre della "Critica" in larga parte si doveva alla sua oscurità. Ma non era un po´ tutta la filosofia tedesca minacciata dall´incomprensione? Da tempo il suo linguaggio si era spinto nelle dure terre dell´astrazione. Lo stesso Marx, che nasceva da una costola di Hegel, e che pure si era dato uno statuto di scienziato sociale, amava sorprendere con l´estro della enigmaticità. Anzi, dell´enigma egli fece una prerogativa della merce e della filosofia il suo specchio.
Il suo "maestro" dunque non era l´eccezione. Come non lo sarà un secolo e mezzo dopo Heidegger. La lingua hegeliana si pose al servizio di un compito immane: ricostruire il tempio della filosofia, utilizzando le stesse architetture che aveva in precedenza demolito. Non c´è grande filosofo che non abbia provato a radere al suolo le maestose città del pensiero da altri edificate. Al punto che si può immaginare la filosofia come una macchina da guerra che va alla conquista di territori, scacciandone gli abitanti o sottomettendoli.
Hegel ha solo reso esplicito il carattere bellico del più serafico tra i saperi. Ma per la prima volta il "parricidio" non era commesso contro un nome, un´identità, una figura, una persona, una scuola Bensì nei riguardi di tutto ciò che il pensiero aveva pensato fino a quel momento. Hegel non è solo un filosofo è anche un predatore dello spirito. C´è qualcosa di pantagruelico e spietato, di onnivoro e cinico nel suo atteggiamento. Deplora la stasi, diffida delle leggi (soprattutto quelle scientifiche), teme la forza dell´esperienza. Ma al tempo stesso sa che tutto ciò che lo deprime o l‘ostacola intellettualmente appartiene ancor prima che al cielo delle idee al teatro del mondo. Ciò che vi accade - con gli uomini che vi si agitano, le storie che vi si narrano, i pensieri che la ravvivano - è solo oggetto di spiegazioni parziali. Buone per giustificare un punto di vista, ma incapaci di restituire la verità nel suo splendore. Neanche Dio - per questo pastore luterano mancato - può aspirare a illuminarci. Le nostre vite, i nostri pensieri, le costruzioni a volte fantasiose, altre ancora mirabilmente serrate, sono agli occhi del filosofo destinate a perire. Come può immaginare una civiltà a prova di decadenza? Fino a dove può spingersi il pensiero senza cadere nel delirio dell´onnipotenza?
Dio deve calarsi nella storia e al tempo stesso la storia farsi in Dio. Sembra un gioco di prestigio, una sottigliezza. In realtà è l´ossessione che Hegel si porta dentro. Ha una conoscenza mostruosa della storia della filosofia. Il suo sguardo abbraccia l´Oriente e l´Occidente Da giovane si è invaghito di Eleusi, ha flirtato con i mistici (Eckart in particolare), ha scoperto la forza di Platone e Agostino. Conosce le virtù di Spinoza, ammira Rousseau, ma al tempo stesso ne diffida. Pensa allo spirito e alla politica. Non solo la potenza del pensiero speculativo, ma il disegno divino e i promettenti fasti della città celeste, pavimentano la sua ricerca. Dove e come realizzare un così poderoso programma? A quale verità intende aspirare? In quale abisso terrestre cerca l´eterno? L´ossessione si trasforma in una lenta e magistrale bulimia.
I pochi amici lo descrivono probo, ragionevole, dotato di quella sicurezza che le menti eccelse a volte sviluppano. Sotto quella calma in realtà batte il cuore di un Calibano. A volte - preso dal furore speculativo - mostrava la voracità del cannibale. In quelle circostanze era in grado di inghiottire ogni cosa. Non c´era boccone filosofico che egli non afferrasse per poi portarlo all´altezza del naso. Lo scrutava, lo annusava e in pochi istanti decideva se inghiottirlo o gettarlo come un rifiuto nella spazzatura. Si sentiva il sovrano di una tribù immaginaria, quella dello spirito, così come riconosceva a Napoleone la stessa potenza sul territorio della materia. La leggenda vuole che egli finisse di scrivere la Fenomenologia dello Spirito, il giorno stesso in cui Napoleone entrò a Iena da vincitore. E annotò l´evento in una lettera: «Ho visto l´imperatore, quest´anima del mondo - cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, seduto su un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina».
C´era qualcosa di cinematografico in quella descrizione. A volte Hegel indugiava sulle immagini. Improvvisamente la tetra foresta verbale della sua prosa si incendiava di colori bellissimi. E in fondo, si può anche pensare alla Fenomenologia dello Spirito come a un grande affresco hollywoodiano, una specie di movimentato dramma a lieto fine con protagonisti di alta classe e comprimari affidabili. Dopotutto, quello che i manuali avrebbero chiamato idealismo tedesco, si poteva anche interpretare come il sogno filosofico di una terra, la Germania, che aveva smesso di sognare. Ma in che modo la filosofia avrebbe potuto dire qualcosa di speciale e di definitivo rispetto alla scienza, all´arte, alla religione, alla politica? Quale "Assoluto" sarebbe stato all´altezza di questo compito? Quale "Totalità" capace di soddisfarne la smisurata ambizione?
Hegel non aveva il deserto alle spalle. Non c´erano dietro di lui nani della filosofia, ma titani che svegliavano il sonno del mondo costruendo grandi macchine del pensiero. Architetture rarefatte, ma pur sempre cattedrali della speculazione che non si potevano ignorare: Kant, Herder, Fichte, Jacobi, Schelling erano sorti come fiori astrusi da quel mondo asfittico e miserabile che era la Germania del Settecento. Un territorio che Marx condannerà all´inanità politica e che il giovane Hegel vedrà come una promettente occasione di rivalsa. Bastava sconfiggere quei giganti, divorarli con lenta determinazione e accrescere così la propria forza, per essere non più uno tra loro, ma l´unico. Il solo in grado di scrivere la parola fine. Perché era dalla fine che bisognava partire per tornare all´inizio e da qui ripercorrere tutto intero il cammino. Si trattava di uno sforzo intellettuale mostruoso la cui posta in palio era l´Assoluto. Non il vuoto astratto dei metafisici che lo avevano preceduto, ma quello denso di vita, palpitante di storie, ricco di eventi: un Dio appunto che si faceva storia e la storia che diventava Dio. Un Dio che era in grado di pensare se stesso fuori da sé e che alla fine, dopo la tormentata fuoriuscita tornasse in sé, arricchito dall´esperienza del mondo. Ecco l´esercizio acrobatico con il quale Hegel si apprestava ad addomesticare i giganti del passato, introducendoli alla sua corte.
Anni di studi e di soggiorni, a Tubinga, Berna, Francoforte, ne avevano affinato lo spirito dialettico. Poi c´erano stati gli anni decisivi di Iena: il rumore dei cannoni, i bivacchi delle truppe francesi che occupavano la città, i fuochi intravisti dalla finestra dello studio, ne eccitavano la fantasia. Un´alba nuova si annunciava. Un´alba che la Fenomenolo-gia, simile a un grande romanzo filosofico dall´andamento faustiano, avrebbe raccontato come la fine del vecchio mondo. Hegel voleva afferrare lo scorrere della vita, catturarne il movimento senza avvilirlo negli attriti dell´esistenza. Voleva che la vita si fregiasse di quel potere che essa stessa negava: il potere dell´esistenza umana sull´inquietudine, sull´angoscia, sulla finitezza, sulla morte.
Può suonare stravagante che un metafisico - quale in fondo egli è rimasto - volga lo sguardo al mondo delle cose e degli uomini e alla storia che tutto avvolge. Nulla è più infido e più instabile di quel suolo coperto di polvere e sangue, sovrastato dal rumore della battaglia, dagli echi dei passi dei soldati. Non è solo Iena. È il mondo che si riflette in quello spicchio di vita prussiana.
Differentemente da uno scrittore, un filosofo in genere non testimonia di sé e della propria vita, espone teorie. E ogni volta che lo fa spera di dimostrare se non in modo definitivo almeno profondo il suo grado di comprensione del mondo. Quella mitica entità che è l´Essere viene ostentata come lo scopo del suo lavoro, la ragione ultima del suo pensare. Non è necessario osservare che una tale metafisica risultava insoddisfacente per l´incapacità a sanare la distanza tra l´Uno e il Molteplice, tra l´Al di là e l´Al di qua, tra Dio e Mondo. La Fenomenologia avrebbe dovuto riempire quel vuoto, unire, in qualche modo, ciò che non era unificabile. Ma come tenere saldamente insieme la realtà sfuggente, ambigua, contraddittoria del mondo con la perfezione celeste? Come non sporcare l´Assoluto con le bassezze del mondo e al contempo in che modo innalzare quest´ultimo al cielo dell´idea? Lo strumento della dialettica - l´arma letale di cui Hegel si era fornito - avrebbe egregiamente svolto il compito.
Che ne è oggi delle Fenomenologia dello Spirito? Il lato aneddotico della domanda ci rimanda all´origine della vicenda. L´editore Goebhardt - spaventato dalla mole e dall´oscurità - ne stampò 750 copie. Poche settimane prima che l´opera fosse pubblicata Hegel divenne padre. Il 5 febbraio 1807 nasceva Louis, il figlio illegittimo avuto dalla sua portiera. Questo dramma, per lungo tempo tenuto nascosto ai biografi, tormenterà il filosofo (al punto che se ne troverebbero tracce nella stessa Fenomenologia). Louis porterà il cognome della madre. E sebbene si sentisse particolarmente legato al bambino, Hegel ne rifiuterà la paternità. Proverà a inserirlo nella famiglia che nel frattempo aveva creato con una moglie che gli darà due figli. Ma Louis Fischer - che commosse Goethe per la sensibilità e l´intelligenza - non riuscì mai a integrarsi. Ormai ventenne si arruolò nell´esercito olandese e morì di febbre a Giava il 28 agosto 1831. Due mesi dopo Hegel sarebbe morto per l´epidemia di colera che si era diffusa a Berlino. Prima di morire aveva rimesso le mani sul suo capolavoro. Ma fece in tempo a rivedere solo una trentina di pagine. Morì che era un filosofo celebre ed ostico. La Fenomenologia dello Spirito fu un testo poco amato nell´Ottocento. La sua fortuna fiorì improvvisa nel Novecento, tra le due guerre. In Francia Jean Wahl, Alexandre Koyré, Jean Hyppolite e soprattutto Alexandre Kojève contribuirono al suo sdoganamento. Gyorgy Lukàcs e Ernst Bloch ne rilevarono l´importanza. Anche Heidegger fornì la sua interpretazione. Come mai tanta attenzione?
Pensando il mondo, Hegel lo immagina come un teatro: un insieme di scene sfilano sotto il suo sguardo. Da questo punto di vista, lo svolgersi della Fenomenologia avviene attraverso un movimento che dalla coscienza immediata approda al Sapere Assoluto. Il cammino - che ha la forma di un vero e proprio viaggio - è cosparso delle esperienze che lo spirito dovrà fare. L´intelletto, la coscienza infelice, la lotta tra il servo e il signore e il desiderio del riconoscimento, il farsi della legge, il piacere e la necessità, il passaggio dal mondo feudale alla monarchia, le anime belle e l´eroismo, l´illuminismo e la superstizione, la libertà e il terrore, il misticismo e la religione rivelata, sono alcuni dei tableaux che troviamo nell´opera. Hegel li disegna riducendoli al suo linguaggio. L´oscurità che li avvolge è la garanzia che qualcosa di ignoto sta venendo alla luce.
Non si può evitare di concludere che ciò che viene incontro al lettore è un abilissimo gioco acrobatico dove arbitrio e necessità familiarizzano con le parole, creando un singolare equilibrio tra evento e discorso. Ciò che accade può essere raccontato. Ma solo perché lo si racconta accade realmente. È un movimento che due secoli dopo il sistema dei media (non quello dello spirito) avrebbe reso evidente in tutta la sua ovvietà. Del resto, dopo Iena, Hegel si recò a Bamberga dove svolse per un anno e mezzo il lavoro di giornalista. Conobbe l´ansia della notizia, la crudeltà della censura e la lingua che si corrompeva. Terminata quell´esperienza tornò ad essere "Hegel l´oscuro" che riteneva che la parola non fosse semplicemente chiusa nel linguaggio, ma parlasse tra le cose e infine tornasse a sé arricchita da quell´esperienza. La Fenomenologia si conclude con il trionfo del Sapere Assoluto. Si potrebbe ironizzare sulla consistenza di questa sovranità misteriosa che è la totalità hegeliana. O provare a leggerla nei tanti modi in cui è stata letta: fine della storia, nascita di un nuovo sapere, trionfo della civiltà cristiano-borghese, metafora del totalitarismo o affermazione del più puro ateismo. Ma dopotutto quell´opera ci dice anche qualcosa di essenziale sulla modernità. Ci dice che un filosofo deve bagnare il proprio pensiero nella tempesta. Ci dice che sono esistiti tantissimi pensatori con l´ombrello aperto, al riparo dalla pioggia, ad aspettare che il cielo rischiarasse.
Il Mattino 24.3.07
IL PROGETTO SULLA MOGLIE SEGRETA DEL DUCE
Bellocchio racconta Ida Dalser
di os. co.
Giornata partenopea, ieri, per Marco Bellocchio, protagonista del festival «L’arte della felicità», in mattinata al Modernissimo per la proiezione di «Sorelle», in serata per un incontro all’istituto francese Grenoble. «Sorelle» è un film a episodi, tre, che raccontano di una bambina, Elena, di sua madre Sara, e dei loro difficili rapporti. Elena vive con le zie a Bobbio, perché la madre, che fa l'attrice, è sempre in giro, ma non l’ha abbandonata: ritorna appena può, così come ritorna continuamente anche il fratello per ragioni diverse. Ma un giorno Sara decide che Elena viva con lei a Milano e perciò lasci il paese e si separi dalle zie. Forse definitivamente. «”Sorelle” è il frutto di un breve laboratorio cinematografico, tenuto per quindici giorni a Bobbio, in provincia di Piacenza», spiega il regista, «a me non sembra utile fare solo discorsi teorici, sono convinto che chi vuole fare cinema debba innanzitutto essere pragmatico, misurarsi con i limiti finanziari e di tempo che ogni situazione produttiva presenta. Così ho pensato ai tre episodi - ce n’è anche un quarto, ma deve essere ancora montato - che sono stati scritti e girati con gli studenti, chiudendo in due settimane l’intero ciclo produttivo di un film: dall’ideazione alla scrittura, dalla scelta logistica dei luoghi dove girare e del casting alle riprese, dal montaggio alla colonna sonora». Sembrerebbe un’impresa impossibile, ma Bellocchio sottolinea quanto sia stato «stimolante lavorare sfruttando i limiti che ci erano imposti. Ovviamente in un contesto del genere non ho potuto che coinvolgere la famiglia, le mie sorelle, gli amici come Donatella Finocchiaro». Un divertissement usato anche per tastare il polso alla generazione prossima ventura di cineasti: «Paragonati a quando mi sono iscritto al Centro sperimentale, questi ragazzi hanno una maggiore cultura cinematografica, hanno visto molti più film, hanno avuto accesso a molte più immagini di quanto non ne avessero gli autori della mia generazione. E possono usare una tecnologia leggera, che permette di girare in assoluta economia». Intanto, per l’uomo di «Buongiorno, notte», cinema e politica sono destinati nuovamente a intrecciarsi: il suo prossimo progetto si intitola «Vincere», copione storico incentrato su Ida Dalser, la moglie segreta di Mussolini: «È lei la protagonista, il dittatore fascista è in scena all’inizio giovane socialista, poi lo si rivede in un cinegiornale salire al Quirinale in camicia nera. Come nel film su Moro, voglio continuare a contaminare il mio girato con immagini d’archivio». Facendo di necessità virtù: anche nella realtà la Dalser non vide più il marito, se non nei cinegiornali Luce.
Repubblica Napoli 24.3.07
Il regista ha presentato al Grenoble il suo ultimo film "Sorelle"
Bellocchio sfida i cinefili e tifa per Mario Merola
"In Lacrime napulitane mi commuove"
di Antonio Tricomi
"Per il partito religioso è come se non fosse mai esistito Voltaire È ancora Medio Evo"
"È caduta l'idea di trasformare il mondo il pensiero socialista è in netta minoranza"
È stato presentato ieri sera al Grenoble in presenza dell´autore, per la rassegna "L´arte della felicità", il film di Marco Bellocchio "Sorelle". Settanta minuti, girato in digitale, il lavoro è ambientato a Bobbio, provincia di Piacenza, nella casa in cui il regista è cresciuto insieme alle sorelle Letizia e Mariuccia.
Maestro, prevede che "Sorelle" verrà regolarmente distribuito?
«A volte le pellicole che si vedono in sala godono di una distribuzione soltanto simbolica: vengono fatti uscire alla spicciolata giusto per dire che sono usciti. Preferisco accompagnare "Sorelle" in situazioni un po´ particolari come quella di ieri a Napoli e magari parlarne con il pubblico. Per il resto, è già passato su Sky e quasi certamente verrà pubblicato su dvd. È sempre cinema, anche se le modalità di fruizione non sono quelle tradizionali».
Cinque anni fa, all'uscita del suo film "L'ora di religione", si aprì un dibattito in Italia sul rapporto tra laicità e religione. Quasi ad anticipare lo scontro di oggi sui Dico e sulle ingerenze del Vaticano nella vita pubblica.
«L´opposizione ai Dico è incomprensibile. Il partito religioso è di un´intolleranza medievale: come se Voltaire non fosse mai esistito. Mi stupisce che i nostri rappresentati politici, che sono dei privilegiati, non sentano come un caso di coscienza i diritti dei conviventi e i temi della laicità in generale».
Come se lo spiega?
«Credo che dipenda dal vuoto lasciato dalla politica. L´idea di trasformare il mondo è caduta, il pensiero socialista e riformista è in netta minoranza».
Per questi motivi si è impegnato nel progetto di fusione tra radicali e socialisti, sostenendo la Rosa nel pugno?
«La mia è un´adesione simbolica, ma i motivi sono esattamente questi».
E del nascente Partito democratico cosa pensa?
«Nulla perché non lo capisco. Credo che in Italia dovrebbe piuttosto nascere un grande partito socialdemocratico con un´identità laica molto precisa. Leggo nel Partito democratico un istinto suicida della sinistra. I post-comunisti voglio riformare la Democrazia cristiana e farsene assorbire: perché parliamoci chiaro, si tratta di questo. Mi sembra grottesco. Forse perché appartengo a un´altra generazione, magari questa è una cosa che i giovani capiscono meglio».
Sta pensando a entrare in politica, maestro?
«Non m´interessa, ho una certa età. E poi di mestiere faccio il regista».
Torniamo a parlare di cinema, allora. I suoi progetti?
«Nel prossimo film vorrei raccontare la storia di un figlio illegittimo di Mussolini che fu lasciato morire in manicomio. Quello della malattia mentale è una tema che da sempre mi sta cuore».
Quando più di trent´anni fa lei realizzava il documentario "Matti da slegare", avrebbe immaginato che un giorno una canzone sui malati di mente avrebbe vinto Sanremo?
«La canzone di Cristicchi è commovente. Ed è interessante perché sottolinea un caso disperato. Ma certo il discorso sulla malattia mentale è più complesso. Bisogna dire che esiste, non bisogna far passare l´idea facile che in fondo siamo un po´ tutti matti. Non basta avere un sentimento di pietà o condividere la disperazione: occorre affrontare e combattere la malattia».
Lei è percepito come un regista "nordico". Si è mai sentito attratto dalla possibilità di girare a Napoli?
«Credo che per fare buoni film bisogna conoscere a fondo la realtà che si intende raccontare: preferisco essere un ammiratore dell´arte napoletana nel suo complesso».
Può fare qualche esempio?
«Potrei farne tanti. Di recente mi è capitato di vedere "Lacrime napulitane", un film forse poco apprezzato dai cinefili. Bene, quando cantava Merola mi sono commosso».
Repubblica Roma 24.3.07
Atenei, 100 eventi nella notte bianca
(...) La filosofia. A Roma Tre Arrigo Levi e Giacomo Marramao parlano di Unione
(...)
di Geraldine Schwarz
Si spengono le luci, si accendono i Saperi. È dedicata all´Europa la seconda notte bianca delle università romane perché domani, 25 marzo, si celebra il cinquantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma che sancirono la nascita dell´Unione europea. E allora via, per una lunga notte. Le porte delle università romane, pubbliche e private, si aprono al pubblico di studenti e non, dalle 20 di stasera per una maratona culturale lunga più di sei ore, con quasi cento lezioni, più di cento iniziative tra laboratori, mostre, performance teatrali, letture, film, documentari, ma anche eventi sportivi e sfilate di moda. Tra i tanti ospiti ci saranno Michele Placido e Dario Vergassola con le sue interviste impossibili ma anche Vincenzo Cerami, e Luca Carboni, Simona Ventura, Paolo Bonolis e Achille Bonito Oliva. E anche il famoso economista Jeremy Rifkin che farà una lezione alla Sapienza (alle 21,30).
Ma andiamo per ordine, di tempo. Si comincia con lo sport. Lo IUSM (Istituto di Scienze Motorie di Roma) propone tra le altre attività di boxe, spinning e danze europee, alle 18 allo stadio dei Marmi, un triangolare di calcio tra la rappresentativa della nazionale attori (con la presenza tra gli altri di Riccardo Scamarcio, Raul Bova, Luca Zingaretti, Giulio Scarpati), quella dei Giornalisti e una squadra dello IUSM.
La Sapienza invece apre le porte dell´Ateneo alle 20 con una lectio magistralis sull´Europa, e alle 21,30 nell´aula magna del rettorato l´incontro con Jeremy Rifkin. Alla stessa ora, nell´aula I della facoltà di Giurisprudenza, Vincenzo Cerami leggerà brani dall´Ecclesiaste dell´Antico Testamento; a seguire, alle 22,30, Michele La Ginestra in un monologo. Dopo, ancora a Giurisprudenza, le lezioni d´arte di Achille Bonito Oliva e Paolo Portoghesi, a mezzanotte e mezza nell´aula magna del rettorato ci sarà il concerto di Le Mani e Pier Cortese e a seguire Luca Carboni in un viaggio di parole e musica.
A Tor Vergata l´apertura, presso la facoltà di Lettere e Filosofia, è affidata a Sergio Zavoli (ore 20,45) con una lezione sull´Europa che apre a cinque percorsi di video e lezioni sulla cultura europea. Alle 22, in Auditorium, Michele Placido con "Le tre sorelle" di Cechov e a seguire Dario Vergassola (23,30), Johnny Palomba, ma anche musica alle 22,30 in biblioteca con Roma Sinfonietta. Arrigo Levi e Giacomo Marramao aprono invece la notte di Roma Tre parlando ancora di Europa. Qui, si esibiranno l´orchestra di Roma Tre su musiche di Mozart. (ore 20 Aula magna) i Ladri di Carrozzelle (alle 21,30) e la danza, con Kledi kadiu e la Free dance Company.(22,30). Dopo mezzanotte un monologo di Salvatore Marino (all´1) e l´incontro con gli scrittori Beppe Sebaste e Giancarlo de Cataldo. Chiude il film "Europa" di Lars Von Trier. Alla Luiss apre alle 20 Andrea Purgatori con "I sentimenti della notte" e poi, dopo il convegno l´Europa e la moda, la sfilata degli studenti vestiti e acconciati (aula magna dalle 23). Tra gli incontri, Simona Ventura (aula magna ore 21) e a seguire Pier Luigi Celli che intervista Paolo Bonolis. E ad Economia ecco il villaggio Amnesty International. Il programma della notte sul sito www. universitadellanotte. it