giovedì 15 febbraio 2007

Repubblica 15.2.07
L'INTERVISTA
Ingrao: "I terroristi sono dei giovani vecchi". "Non vedo il collegamento con la manifestazione"
"Quei Br sono quattro sciagurati e non tiriamo in ballo Vicenza
di Goffredo De Marchis


ROMA - I brigatisti arrestati nei giorni scorsi li chiama «giovani vecchi». Non solo perché alcuni di loro hanno il capo imbiancato o stempiato, ma soprattutto perché gli sembrano scimmiottare una stagione che non c´è più. «Oggi ci sono problemi globali, mondiali. Questi qui sono chiusi in un recinto molto più piccolo», si stupisce Pietro Ingrao, storico leader del Partito comunista, oggi vicino a Rifondazione. Pacifista, se è possibile qualcosa di più, come paladino, anche durante la guerra fredda, del disarmo. Ma l'allarme su un ritorno del terrorismo non lo condivide del tutto. E non accetta alcun accostamento tra le inchieste sulle nuove Br e la manifestazione di dopodomani a Vicenza contro l'allargamento della base americana.
Ingrao, che idea si è fatto di questi nuovi nuclei rivoluzionari?
«Per il momento quello che vedo sono notizie un po' frammentarie, insufficienti per dare un giudizio completo. Non ho molto chiaro il fenomeno, ma non sono così sicuro che sia una cosa di forte rilievo».
Quindici persone arrestate, armi nascoste, intercettazioni chiarissime. Non è materiale sufficiente per giustificare almeno un'attenzione altissima?
«Non so dare una risposta precisa, voglio approfondire. Ma ciò che davvero mi sorprende è che qui abbiamo a che fare con quattro sciaguratelli quando la partita nel mondo si gioca su elementi ben diversi. Io mi sforzo di comprendere, di trovare un senso a tutto questo, ma non riesco davvero a dare molta importanza ai gruppi che vengono fuori attraverso l'inchiesta della magistratura. Sarà perché ne so veramente poco... Dove vogliono andare a parare, qual è il loro obiettivo più grande, a parte quello certamente mostruoso degli attentati che erano in preparazione? Per questo sono un po' restio a offrire un commento, a ragionare su quello che sta succedendo. I problemi che ci sono su scala mondiale hanno ben altra dimensione rispetto ai confini del piccolo mondo in cui le persone arrestate si stavano muovendo. Questi nuovi terroristi mi sembrano davvero poca cosa».
Il ministro dell'Interno Giuliano Amato, riferendo alla Camera sull'operazione che ha fermato i gruppi terroristici in Veneto, in Lombardia e in Piemonte, ha detto, riferendosi alla manifestazione di sabato a Vicenza: «Chiedo a tutto il Parlamento e alle forze politiche di essere solidali con le forze dell'ordine dimostrando questa solidarietà in un'occasione che altri vorrebbero fosse occasione per saldare spezzoni di ostilità contro la polizia». È giusto fare questo accostamento?
«Ma no, io non vedo il collegamento, tanto più che non riesco a considerare importante, significativo il fenomeno così come emerge in queste prime battute dell'inchiesta».
A Vicenza dunque non ci sono rischi di una degenerazione violenta del corteo?
«Naturalmente, io mi auguro che non sia così. Ma posso dire con certezza che non esiste alcuna correlazione tra il corteo e gli arresti di lunedì. Se dobbiamo avere paura di questi qui in vista di una manifestazione nazionale di quel genere e di quella portata, allora siamo proprio messi male!».
Se la manifestazione sarà pacifica, se non si corrono pericoli di una tempesta in grado di ripercuotersi sul governo, perché non possono andare anche i sottosegretari della sinistra radicale?
«Perché si è fatto un governo tutti insieme. La loro presenza non sarebbe normale. Anzi, sarebbe del tutto singolare, non deve accadere».
Ma allora chi si riconosce nell'Unione dovrebbe rispettare il governo che ha dato il via libera all'allargamento della base. Lei dunque è favorevole al raddoppio?
«Figuriamoci. Per me le basi militari non dovrebbero proprio esistere».

Repubblica 15.2.07
IL RETROSCENA
La richiesta alla Cgil: serve il vostro servizio d'ordine


Impedire ogni infiltrazione violenta nel corteo contro l'allargamento della base Usa di Vicenza. È questo il senso del lavoro che il ministro Amato sta conducendo in vista del corteo di sabato prossimo. Un lavoro che in questa fase è centrato soprattutto sulla prevenzione. La presenza delle forze dell'ordine, infatti, da sola potrebbe non bastare e allora il titolare del Viminale ha scelto la via della cooperazione con partiti, sindacati e associazioni che saranno in piazza il 17 febbraio. Nei giorni scorsi, infatti, Amato ha avuto diversi colloqui telefonici con il segretario della Cgil Guglielmo Epifani che gli ha fornito ampie rassicurazioni sulla presenza in strada del servizio d'ordine del sindacato di Corso Italia. Ma attenzione contro la possibili infiltrazioni dei violenti nel corteo Amato l'ha raccomandata anche ai segretari dei partiti dell'ala pacifista che hanno assicurato la propria presenza a Vicenza. Perché l'allarme a cui ha fatto riferimento ieri il ministro dell'Interno alla Camera è il frutto di alcune informative inviate al Viminale nelle ultime ore, specialmente dopo la tensione generata in alcuni ambienti dagli arresti dei 15 presunti brigatisti. Un allarme ancora più presente dopo l'atto di intimidazinoe subito dal capo della Digos di Padova Lucio Pifferi e dopo i quattro arresti di ieri per «istigazione a delinquere in relazione a fatti di terrorismo». Il pericolo, spiegano al Viminale, è che le ali più estreme del movimento, specialmente quelle orbitanti intorno ai centri sociali del nord est, possano approfittare dell'occasione per cercare lo scontro con le forze dell'ordine, come accaduto in Val di Susa per la mobilitazione No Tav. ma.so.

L’espresso
Terroristi senza futuro
Colloquio con Fausto Bertinotti
di Gigi Riva


Le nuove Br sono un fenomeno isolato. Lontano dalla cultura pacifista dei giovani. E la manifestazione di Vicenza lo dimostrerà. Parla il presidente della Camera. Colloquio con Fausto Bertinotti

Pericoloso, ma circoscritto. Fausto Bertinotti non sottovaluta la capacità omicida dell'ultima leva del terrorismo. Ma sottolinea le differenze sostanziali con gli anni Settanta. Oggi non ha, il fenomeno, una "capacità di propagazione socio-politica" come allora. Può al massimo avere "contiguità con altre forme di violenza". Quelle che si consumano in famiglia o negli stadi. Non è sorpreso di trovare, accanto a vecchi arnesi della lotta armata, le facce imberbi di alcuni ragazzini perché c'è sempre chi può essere attratto "dalla cultura politica disperante e disperata del terrorismo". Ma la generazione "di Seattle e di Genova" esprime piuttosto, nel suo insieme, una "cultura pacifista e non violenta". Cultura che sarà visibile, profetizza, anche il 17 febbraio a Vicenza con una grande manifestazione di massa.

Se non fosse presidente della Camera, ammette, sfilerebbe anche lui. Contro la nuova base americana. Il vestito istituzionale, come confessa in questa intervista con 'L'espresso', lo obbliga "a una modalità di linguaggio diversa dalla mia storia". La parola che maggiormente utilizza durante il lungo colloquio è "compromesso". A cui tutte le anime della maggioranza devono sottostare per evitare quella che considera una "catastrofe" per la sinistra italiana: la caduta di Prodi. Per "tenere" cinque anni bisogna ricorrere al "compromesso", anche quando non sembra facile. Così sull'Afghanistan, così sui Dico. L'urgenza della cronaca chiama a riflettere sulle cellule delle Br sgominate. Da lì si parte.

Presidente Bertinotti, nel 2007, trent'anni dopo, c'è ancora qualcuno che si proclama brigatista ed è in guerra contro lo Stato.
"Penso sia un fenomeno circoscritto. Può essere pericoloso, ma non ha una forza di propagazione socio-politica. Andrebbero invece indagati i possibili legami con esplosioni di violenza che attraversano la società contemporanea di natura diversa fra loro. Manifestazioni criminali che avvengono nella quotidianità. Chi stermina la famiglia, chi ammazza un poliziotto in uno stadio. È possibile una contiguità con queste altre forme di violenza".

Ma non è sorpreso dal fatto che nella rete sgominata al Nord ci fossero dei baby terroristi?
"No, non mi sorprende. C'è sempre qualcuno che può essere attirato dalla cultura disperata e disperante del terrorismo e che si isola dalla propria generazione. Per generazione non intendo l'elemento anagrafico. Ma per capirci, quella generazione, come possiamo chiamarla, di Seattle, di Genova? esprime al contrario una cultura pacifista".

Stando ai primi elementi dell'inchiesta, i nuovi brigatisti il problema del consenso e del proselitismo se lo sono posto. Qualcuno di loro si è mischiato, pare, alla battaglia contro la Tav in Val di Susa.
"Sentivo questi discorsi anche negli anni Settanta. Significa non aver capito nulla di questi movimenti. E allora o lo si dice per strumentalità politica, e non mi piace ma lo capisco, o c'è un elemento di incomprensione fondamentale. Chi mette in relazione le due cose non è mai stato in Val di Susa, non è mai stato in un presidio, non è mai stato in una casa di legno in montagna e non ha sentito le argomentazioni di chi ci abita".

Diversi degli arrestati erano iscritti alla Cgil.
"Tutta la solidarietà a Epifani. La Cgil sa benissimo quello che deve fare. Che è del resto quello che ha sempre fatto. E i brigatisti potevano finire lì come altrove. Noi avevamo Guido Rossa ucciso dai brigatisti, alcuni dei quali erano penetrati nella stessa organizzazione. Perché il terrorismo ha un suo progetto autonomo ed è capace di inquinamenti. Il problema vero è sapere che c'è una irriducibilità totale alla sua causa".

Il 17 febbraio ci sarà la manifestazione a Vicenza contro la base Usa. La vicinanza con Padova ha fatto scattare un allarme.
"Che significa la vicinanza? Chiunque abbia vissuto in ben altro quadro e con ben altra capacità di penetrazione del terrorismo, sa che non significa nulla. Avevamo grandi fabbriche infiltrate da terroristi dove ci sono state le manifestazioni più pacifiche che io conosca".

La manifestazione come può difendersi da eventuali tentativi di infiltrazione?
"Rinnovando la grande tradizione degli anni terribili della lotta al terrorismo. Compito principale delle grandi manifestazioni di massa era proprio quello di prosciugare l'acqua entro cui poteva nuotare il pesce del terrorismo. E quella fu parte decisiva della vittoria di popolo contro l'eversione. Non nego il contributo di magistrati e di forze dell'ordine, c'ero e l'ho visto direttamente. Ma il sindacato e i consigli di fabbrica sono stati decisivi. Tutta questa esperienza può essere ripresa e rinvigorita. Tantopiù perché il terrorismo attuale sta in un quadro che lo isola in partenza".

Lei non teme disordini e violenze a Vicenza?
"No. Sarà una grande manifestazione di massa, fortemente caratterizzata da elementi di partecipazione e di contrasto di qualunque tentazione di uscire dal terreno della battaglia condivisa. Tanto più grande sarà la partecipazione quanto più farà massa critica contro la violenza e contro espressioni di linguaggio incongrue e non compatibili con le parole d'ordine, le caratteristiche e l'ispirazione pacifista che ne costituisce l'elemento portante".

Lei dove sarà il 17 febbraio?
"Non andrò a Vicenza, se è questo che vuole sapere. Semplicemente perché ho troppo rispetto per la mia collocazione istituzionale".

Altrimenti...
"Altrimenti ci andrei, naturalmente".

Perché condivide in pieno quella lotta?
"Sì. E prendere questa posizione è del tutto compatibile col mio ruolo istituzionale. Anche il presidente del Senato, Franco Marini, si è schierato. La pensa molto diversamente da me, ritiene si debba rispettare un accordo internazionale. Io credo all'opposto che la base sia incompatibile coi problemi di assetto di quel territorio. C'è una specie di incompatibilità e vanno cercate altre soluzioni".

Anche l'attuale governo ha confermato l'impegno con gli americani. Pare difficile tornare indietro.
"Fu così anche a Scanzano (dove il governo Berlusconi aveva deciso di collocare il deposito unico di scorie nucleari, ndr) e il movimento vinse. Come può vincere a Vicenza. Non ci sono impegni presi da un governo che siano, perciò, irrevocabili".

E in che modo può vincere?
"Non si sapeva a Scanzano, prima. Non si sa a Vicenza, adesso. Per fortuna l'esito delle lotte è aperto".

Qualcuno ci dovrebbe rimettere la faccia.
"Non mi piace l'idea militare per la quale quando si determina un conflitto c'è solo una soluzione binaria, o vince l'uno o vince l'altro. È un'idea povera. In realtà in mezzo c'è il compromesso".

Lei cita Scanzano dove parte di chi si ribellava lo faceva contro un governo che sentiva ostile. In questo caso in molti ce l'hanno con un governo amico. E l'ulteriore complicazione per Prodi sta nella possibilità che marcino pure dei sottosegretari.
"Proporrei che si guardasse a Vicenza con un'ottica inedita. Siamo di fronte a una forma di mobilitazione nuova che potremmo chiamare, approssimativamente, comunitaria. Diventa tale quando trascende l'obiettivo specifico e chiama in causa il destino, il futuro di una comunità. Quando la lotta è comunitaria, è dotata di una propria autonomia, si costruisce delle casematte attorno alle quali si consolida, nascono nuove forme di leadership, diverse da quelle tradizionali. Coloro che pensano di metterci il cappello commettono un errore di presunzione di sé e di ignoranza dei movimenti. L'unica cosa da fare è accantonare ogni propensione di guida e mettersi a disposizione. Ecco, così bisogna guardare a Vicenza".

Oltre alla dimensione comunitaria ammetterà che c'è un altro elemento politico cruciale. Riguarda la nostra sovranità e i rapporti internazionali.
"Se ci inoltriamo in questa direzione bisogna fare un discorso più impegnativo. Ma eviterei di assolutizzare. La costruzione della sovranità nazionale avviene all'interno di una crescente autonomia dell'Europa perché si esca da quella condizione di mondo unipolare nella chiave voluta dall'amministrazione Bush. È un processo. Non è che oggi non hai sovranità e domani ce l'hai: si conquistano spazi progressivi. L'ha fatto il governatore Soru in Sardegna. La battaglia contro la base della Maddalena era una vecchia battaglia pacifista. Soru ha vinto quando ha introdotto l'argomento della restituzione al popolo sardo delle sue risorse".

Anche i vicentini usano l'argomento della difesa delle loro risorse. Sono stati offerti, in alternativa, altri luoghi. Perché allora gli americani si sono ostinati con l'aeroporto Dal Molin?
"A volte ci sono ragioni che risultano cattive consigliere".

In questo caso quali?
"Il mio ruolo mi impedisce di dire oltre".

A Vicenza è legata anche la diatriba della maggioranza sulla exit strategy dall'Afghanistan.
"Perché legata? In un caso di scuola si potrebbe benissimo uscire dall'Afghanistan e allargare la base o viceversa".

Al primo volo che partisse dal Dal Molin per Kabul le vicende si legherebbero eccome. Mettendo in difficoltà l'esecutivo. Sulla politica estera c'è una difficoltà oggettiva.
"La politica del governo vive di compromessi tra anime diverse. L'importante è che sia chiara la direzione di marcia. Non la invento io. E quella intrapresa col ritiro delle truppe dall'Iraq, con l'iniziativa in Libano, con l'attenzione verso l'America Latina e altre realtà geopolitiche del mondo. Non ho titolo perché adesso non faccio né il dirigente politico né il ministro, ma posso affermare con serenità che la ricerca del compromesso è la chiave per dare continuità e durata all'azione di governo. Quando viene meno si apre un elemento critico tra le culture pacifiste e il governo e questo toglie energia all'azione del governo stesso".

C'è chi sostiene che Vicenza e l'offensiva della Chiesa sui Dico siano due facce della stessa medaglia. In entrambi i casi è messa in discussione l'autonomia della decisione politica.
"La Chiesa da tempo manifesta una propensione all'intervento. Vorrei spiegarlo con grande compostezza perché non mi piacciono le urla contro l'ingerenza caso per caso. Siamo davanti a una posizione post-conciliare originata, più che da arroganza, da paura. La paura della Chiesa rispetto a questo mondo era stata compressa dal protagonismo di Giovanni Paolo II e dal suo ottimismo della volontà. Adesso torna fuori. E non è che la Chiesa pretenda di guidare la mano del legislatore, dice una cosa più complessa. Riconosce che il legislatore debba avere una sua autonomia, ma dentro un certo limite che è quello della compatibilità con dei principi generali che rispondano a una sorta di morale naturale. Il punto è che il custode di questa morale naturale torna a essere la Chiesa. Questa posizione va contrastata con la ricostruzione di un'autonomia della politica fondata su un proprio apparato culturale. Insomma, il modo di reagire non è difensivo, ma propositivo".

La paura della Chiesa deriva anche dal fatto che si sente minoranza?
"Sì, tanto è vero che per vincere queste battaglie non conta sulla costruzione del consenso, ma sulla rinuncia alla partecipazione. Vedi il caso del referendum sulla procreazione assistita".

Su Afghanistan e Dico potrebbe uscire in Parlamento una maggioranza diversa da quella che appoggia il governo.
"Il governo deve contare sulla sua maggioranza e penso che debba durare cinque anni, perché l'alternativa sarebbe distruttiva, una crisi sarebbe il massacro per la sinistra. La navigazione sarà difficile e i compromessi necessari. Necessari e non esaltanti come una parte del Paese legittimamente si aspetterebbe. Il Paese vorrebbe una grande riforma sociale, ma a questo problema non si risponde caricando sul governo un peso che per questo governo sarebbe insopportabile, bensì ricostruendo nella società un'iniziativa delle forze politiche e dei movimenti".


L’espresso
Dolce il sampietrino del maledetto 77
A sinistra c'è ancora chi flirta con gli irriducibili eredi di quel movimento che aggredì Luciano Lama all'università
di Giampaolo Pansa


Servono gli anniversari? Il trentennale del 1977 è servito a Lucia Annunziata per pubblicare da Einaudi un libro di memoria su quell'anno orrendo. S'intitola '1977. L'ultima foto di famiglia'. Quel che ho capito dall'anticipazione della 'Stampa', il giornale di Lucia, mi fa pensare che sia un lavoro senza reticenze, neppure sul conto dell'autrice. E sulla sua antica militanza in una sinistra che oggi non esiste più. Se non in un pulviscolo di piccoli gruppi, presenti un po' dovunque in Italia: cellule di esaltati, capaci di gesti prepotenti, per fortuna lontani mille miglia dalla geometrica potenza dei loro gemelli di un trentennio fa.

In quel tempo Lucia non era più una ragazzina. Aveva 27 anni e lavorava al 'manifesto'. Il 17 febbraio stava all'università di Roma, nella truppa che aggredì Luciano Lama, andato all'ateneo per un comizio e cacciato dagli autonomi armati di spranghe e di sampietrini, i blocchetti di pietra usati per selciare le strade della capitale. E pure Lucia scagliò il suo bravo sampietrino contro l'odiato Lama. Oggi scrive: "Nell'aria volava di tutto, lanciai il mio, che fece un percorso breve e andò ad atterrare chissà dove". Cacciato Lama, Lucia tornò al 'manifesto'. Nella borsa a tracolla nascondeva un altro blocchetto, ne accarezzava il lato liscio, se lo coccolava: "Ero molto orgogliosa di quella pietra. Aveva avuto il coraggio di volare contro quelli del Pci". Cominciò a mostrarlo ai compagni. Poi intervenne Rossana Rossanda che, infastidita, le sibilò: "Mettilo via!".

Mi ha colpito questo feticismo per il sampietrino. E da vecchio scettico mi sono detto: grazie al cielo, non era una rivoltella, la magica P38. Poi quel passo di Lucia e la sua conclusione ("A me, di Luciano Lama, non fregava assolutamente nulla"), mi hanno spinto a cercare fra le mie carte il racconto che, dieci anni dopo, mi offrì il leader della Cgil. Ripercorrendo con me il tempo delle pietre e delle pistole, in più di un colloquio e poi in un mio libro-intervista pubblicato da Laterza: l'altra faccia della luna rispetto al libro di Lucia.

"Non parlarmi del Settantasette!", mi ripeteva Lama, con una smorfia di disgusto che scheggiava la sua bella faccia da eterno ragazzo, impetuoso e sereno. "Quello fu un anno miserabile, coperto di sangue". Il giovedì 17 febbraio lui era andato all'università per una manifestazione sindacale sulla riforma degli atenei e la disoccupazione giovanile. E lì venne accolto nel modo barbaro che sappiamo. Ma di quella giornata balorda non s'era pentito. A differenza di qualcuno del vertice Pci.

"All'università c'ero andato di mia iniziativa", mi raccontò Lama. "Però nessuno dentro la Cgil e il Pci mi aveva sconsigliato. Anzi, Enrico Berlinguer mi aveva detto di farlo, perché era preoccupato quanto me del disordine e della violenza che dilagavano nelle aule della Sapienza. Poi, quando successe tutto, i miei compagni un po' mi mollarono. Qualcuno mi accusò di aver compiuto un passo falso. Giancarlo Pajetta mi spiegò che m'ero mostrato incauto e che la mossa era stata avventata. Ho avvertito del gelo e mi ha fatto male. Berlinguer mi chiese com'erano andate le cose, mi ascoltò in silenzio, poi replicò: 'Va bene' e nient'altro. Enrico era un tipo schivo, talvolta freddo. Ma quando ti dava una prova d'affetto si capiva che era sincera. Quel giorno non mi diede niente".

A proposito del terrorismo che devastava l'Italia in quell'anno, Lama aggiunse: "Troppi nella Cgil e nel Pci pensavano che il movimento del 77 fosse più o meno simile a quello del 68. Ma non era così. Stava emergendo un grumo di disperazione, d'impotenza, di violenza fine a se stessa". Non vedere e non capire: la sinistra di allora celava dentro di sé questo virus micidiale, capace di stroncare dieci partiti. Con la testa stava ancora negli anni Quaranta. E pensava al fascismo. Alla fine del 1977, nel convocare a Torino una manifestazione per la morte di Carlo Casalegno, ucciso dalle Brigate rosse, la Cgil, la Cisl e la Uil scrivevano sui volantini che s'era trattato di 'terrorismo di stampo fascista'.

Sono cambiate le sinistre di oggi? Certamente sì. Ma non tutte. E non nello stesso modo. Qualcuna nasconde sempre dentro di sé lo stesso virus violento di allora. I tempi sono mutati, l'Italia è molto diversa, una buona metà sta schierata con il centro-destra, emerge un'opinione pubblica moderata che non si fa zittire come avveniva sino a qualche anno fa. Ma sul versante opposto ci sono partiti neo-comunisti che flirtano con gli irriducibili eredi di un movimento scomparso. Debbo essere sincero sino in fondo? Pure nella base dei Ds vedo pulsioni intolleranti nei confronti di chi osa dire o scrivere fuori dalle sacre regole, dettate in un'epoca conclusa e che non tornerà più. Ecco il vero problema di un leader riformista come Piero Fassino. So che lui lo sa. E forse si sta domandando come fare affinché (cito un vecchio detto) il morto non abbia la meglio sul vivo.