lunedì 8 gennaio 2007

l’Unità Lettere 8.1.07
Vittime dello tsunami e Papa pari (non) sono
Cara Unità, è interessante paragonare tre spese effettuate dalla Protezione Civile nel 2005, epoca di ristrettezze economiche. Per lo Tsunami (280.000 morti) sei milioni di euro, per gli «oneri connessi alle esequie del Papa e alla nomina dl nuovo Pontefice» quindici milioni di euro. E un altro milione di euro per «la Conferenza episcopale di Bari» (Fonte: Corriere della sera del primo novembre 2006, riportato da Critica Liberale).
Luciano Comida

l’Unità 8.1.07
IL LIBRO «Mi sono molto divertito» raccoglie 70 anni di scritti sul cinema e un testo «per» un film dell’uomo politico: una passione che ha segnato il suo percorso intellettuale
Quando Ingrao scriveva come Verga e stroncò «Don Camillo»
di Alberto Crespi


Se avete amato l’autobiografia di Pietro Ingrao Volevo la luna, uscita recentemente per Einaudi, procuratevi in gran fretta, dello stesso autore, Mi sono molto divertito. È un volume di 175 pagine curato da Sergio Toffetti e pubblicato dal Centro sperimentale di cinematografia, la gloriosa scuola di via Tuscolana che lo stesso Ingrao frequentò iscrivendosi, nel 1935, al corso di regia. Il sottotitolo, Scritti sul cinema (1936-2003) è esplicativo ma fin troppo modesto.
Il libro non contiene soltanto i numerosi interventi sul cinema scritti da Ingrao in un arco di tempo lungo quanto una vita; ci permette di leggere, finalmente, anche uno scritto «per» il cinema da sempre leggendario e, come spesso capita alle leggende, ignoto anche a chi lo cita a proposito e a sproposito: il trattamento della novella di Verga Jeli il pastore che Ingrao scrisse per Luchino Visconti durante la guerra. È un momento celeberrimo della storia del nostro cinema: la nascita del «Gruppo Cinema» ­ i giovani intellettuali che si raccolgono intorno alla rivista Cinema fondata nel ’36 da Vittorio Mussolini ­, il ritorno dalla Francia di Visconti forte dell’esperienza di lavoro con Jean Renoir, la possibilità di esercitare sulle colonne della rivista una blanda «fronda» nei confronti del regime, l’elaborazione che pian piano porterà alla realizzazione di Ossessione, opera prima di Visconti e del neorealismo tutto… sì, una storia nota, e bella, alla quale per molti di noi mancava un tassello: la lettura diretta del testo di Ingrao. Ora che l’abbiamo letto, possiamo consigliarvelo proprio in rapporto a Volevo la luna. Chi di voi ha letto quella ricca autobiografia sarà rimasto senz’altro colpito dallo stile letterario di Ingrao, che del resto è tale anche nelle sue poesie. Ebbene, leggendo Jeli il pastore si scopre, molto semplicemente, perché Ingrao scrive così.
La parola «trattamento» è importante per capire che tipo di testo è Jeli il pastore. Il trattamento non è il soggetto (che dev’essere un riassunto del film in 2-3 pagine), né la scaletta (che deve essere già strutturata scena per scena) né tantomeno la sceneggiatura (che deve contenere i dialoghi e corrispondere, il più possibile, al film finito). Il trattamento è un racconto di 20-25 cartelle che deve descrivere, in forma ancora «letteraria», la trama del film. Con l’aiuto di Mario Alicata Ingrao scrive, dunque, un racconto: già suddiviso in sequenze ma in tutto e per tutto letterario. E scrive… come Verga! Quel gusto della sintassi nervosa, del lessico al tempo stesso aulico e rustico, del tono alto ma scabro, capace di divenire violentemente realistico: ora lo sappiamo, vengono da Verga. E non si può negare che Ingrao si è scelto un magistero stilistico alto: mentre Visconti commissiona ai suoi giovani amici copioni ispirati a Verga per risalire alle fonti letterarie del nascente neorealismo, Ingrao usa lo scrittore dei Malavoglia come palestra linguistica. I risultati si vedranno nel tempo: dopo aver gironzolato intorno a Jeli il pastore e a L’amante di Gramigna, Visconti finirà (nel ’47) per girare La terra trema ispirato ai Malavoglia; mentre Ingrao, dopo aver studiato il mondo contadino attraverso lo sguardo verista del conservatore Verga, diventerà definitivamente comunista e farà il percorso politico, intellettuale ed esistenziale che ben conosciamo.
In fondo l’interesse di Mi sono tanto divertito è principalmente lì: nel vedere come il cinema sia stato un elemento formativo fondamentale per un leader politico unico nel suo genere. Piace pensare che la straordinaria umanità di Ingrao venga anche dalla sua cinefilia: anche se purtroppo ci sono tanti cinefili umanamente insopportabili. Il resto è gioco, divertimento. È divertente, ad esempio, rileggere certe stroncature dell’Ingrao critico e domandarsi cosa diavolo gli avesse fatto Akira Kurosawa, il cui Rashomon (in un pezzo da Venezia ’52 uscito su Rinascita) viene eletto rappresentante del «cinema senza verità» e fatto a pezzi senza pietà. È divertente scorrere un attacco spietato al primo Don Camillo di Duvivier per rivivere l’Italia divisa del post-’48, ma anche per vaccinarsi a certe agiografie postume su Guareschi (Ingrao lo definisce «disegnatore», e i suoi romanzi sono liquidati come «mediocrissime buffonerie»: magari esagera, ma non esagerano anche coloro che oggi fanno di Guareschi un padre della patria?). È divertente, insomma, leggere questo libro: come si è divertito, Pietro Ingrao, a scriverlo nell’arco di quasi 70 anni.

l’Unità 8.1.07
Da Galileo a Gödel la matematica è divina
di Michele Emmer


SCIENZA E FEDE Il gesuita Matteo Ricci usò la logica per convertire i cinesi, Galilei sostenne che il libro della natura e dell’universo è scritto con triangoli, cerchi e numeri. E Kurt Gödel tentò di dimostrare con le formule l’esistenza di Dio

Nel 1582 Matteo Ricci, un gesuita, partì per la Cina con la missione di evangelizzare quell’immenso paese. Non ci riuscirà, ma diventerà a pieno titolo un intellettuale cinese e sarà sepolto a Pechino con il nome che gli venne dato nel Celeste Impero, Li Madou. Ricci riteneva di dovere guidare gli intellettuali cinesi lungo la via della conoscenza cominciando dalla base, insegnando loro a ragionare utilizzando la logica matematica. Li avrebbe così portati a comprendere la descrizione dell’universo secondo Tolomeo per arrivare quindi a Dio creatore del mondo e delle leggi che lo governano. Scrive Michela Fontana, nel libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (2005), che si trattava di una via «dalla matematica alla teologia», la scienza delle certezze come strumento per arrivare a Dio.
Qualche anno dopo la morte in Cina di Ricci nel 1610, così scriveva Galileo Galilei nel Saggiatore (1623): «Parmi di scorgere ferma credenza che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. La cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola: senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto».
Il 25 febbraio 1616 il Sant’Uffizio, «per provedere al disordine e al danno», emana una sentenza: «Che il Sole sia centro del mondo e imobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofia, e formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura». È stato riabilitato Galilei solo molto recentemente. In occasione del centenario della nascita di Albert Einstein, il papa Giovanni Paolo II tenne un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze ed al Collegio dei Cardinali e, riferendosi a Galileo, esortò a fare luce su quella vicenda. Come conseguenza della presa di posizione del pontefice, il 3 luglio 1981, vi fu la nomina di una commissione pontificia per gli studi sul caso. Le conclusioni del lavoro vennero poi esposte dal Cardinale Paul Poupard il 31 ottobre 1992. Sebbene già in passato vi fossero stati passi formali che manifestano implicitamente il riconoscimento di un errore di valutazione da parte dei teologi chiamati a giudicare Galileo, in questa occasione si parla esplicitamente di un errore commesso dalla Chiesa.
Il famoso discorso di Galilei è stato di recente ripreso: «All’inizio dell’essere cristiano - e quindi all’origine della nostra testimonianza di credenti - non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo, “che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. La fecondità di questo incontro si manifesta, in maniera peculiare e creativa, anche nell’attuale contesto umano e culturale, anzitutto in rapporto alla ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie. Una caratteristica fondamentale di queste ultime è infatti l’impiego sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo - che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico - suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore. Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme». Chi scrive è Papa Benedetto XVI in occasione di un discorso a Verona il 10 ottobre 2006. Al di là di alcuni accenti che possono essere condivisi o meno è interessante che il Pontefice abbia tenuto un grande elogio della matematica. Naturalmente se lunga e senza fine è stata la lotta tra scienza e fede, in ogni parte del mondo, una delle sfide più interessanti è stato l’utilizzo della matematica, della sua struttura logica per dimostrare l’esistenza di Dio. Tema anch’esso senza fine. Vorrei solo concentrarmi su un piccolo libro uscito di recente in versione italiana.
Uno dei più famosi logici matematici del secolo scorso è stato Kurt Gödel. Soprattutto per aver risolto nel 1928 in senso negativo uno dei grandi problemi posti nel 1900 dal matematico David Hilbert. Nel 1928 Kurt Gödel poté dimostrare che l’aritmetica risulta necessariamente incompleta, nel senso che esistono proposizioni che non sono né dimostrabili né refutabili. Nel 1941 il logico austriaco abbozzò una dimostrazione dell’esistenza di Dio, chiarendo «che il suo interesse per la prova ontologica dell’esistenza di Dio era puramente di carattere logico». Rimaneggiò poi la «dimostrazione» nel 1954 e infine nel 1970, senza mai pubblicarla, ma comunicandola nel febbraio del 1970 al logico Dana Scott e poi all’economista Oskar Morgenstern.
Queste pochissime pagine sono al centro del libretto La prova matematica dell’esistenza di Dio, (Bollati Boringhieri, 2006) curato, come si legge sulla copertina, da Gabriele Lolli e Piergiogrio Odifreddi, entrambi logici all’università di Torino. Il testo di Gödel è ripreso dal volume terzo delle Opere complete con la nota introduttiva di Robert Merrihew Adams, (Bollati Boringhieri, 2006) riportata anche nel piccolo libro, senza però che il nome sia citato in copertina. Non è nemmeno citato l’autore del saggio che compare alla fine del libretto Roberto Magari, scomparso nel 1994, che Lolli descrive come «l’esponente più creativo della rinascita degli studi logici in Italia nella seconda metà del Novecento». E chi lo ha conosciuto non può che confermarlo.
Credo che il saggio di Magari sia la cosa più interessante, tenendo conto che le pagine di Gödel sono del tutto incomprensibili senza una spiegazione abbastanza dettagliata del significato dei simboli utilizzati. Tentativo che fa Magari, utilizzando una dote rara, una sottile ironia che era una delle sue doti umane più caratteristiche. Basterà citare l’inizio del suo saggio: «Molti uomini, anche fra i più grandi, hanno una notevole volontà di credere nelle cose più svariate, ma soprattutto come risulta almeno nella nostra cultura da circa venti secoli, nell’esistenza di un (e in genere uno solo) ente “supremo” compiutamente dotato di certe proprietà dette “positive”». Uomini che Magari chiama «teofili», amanti di Dio. Aggiungendo subito dopo che «Esistono naturalmente anche teofobi, (io lo sono di tutto cuore, aggiunge), e anche nel loro caso è opportuna una certa vigilanza su quanto costruiscono ed asseriscono». Conclude il suo saggio Magari osservando «Soprattutto gli esperti e gli specialisti che il pubblico può investire di reverente fiducia dovrebbero guardasi dall’avvalorare dischi volanti, omeopatia, astrologia, creazionismo o altro. Occorre in ogni caso stare molto in guardia contro tutto ciò che può essere suggerito dal desiderio di credere. Devo ammettere, con una certa riluttanza, che analogamente va trattato il desiderio di non credere, che però mi sembra assai più rara».

Corriere della Sera 8.1.07
«Il partito democratico? Nasce sulla sabbia
«Cari leader non siete più credibili»
Dibattito sul riformismo, nuovo contributo dell'economista che ha lasciato polemicamente i Ds
di Nicola Rossi


Conviene partire dalla sera dell'ultimo dell'anno. Conviene partire dalle parole del Capo dello Stato sulla distanza fra la politica e la società e dal suo invito agli italiani a colmare quella distanza, a tornare a guardare alla politica non più come altro da sé. E dal corrispondente invito alla politica a dare di sé un'immagine tale da giustificare una ritrovata fiducia da parte dei cittadini. Parole sante, come si dice. Ma, sia detto con il massimo rispetto per chi le ha pronunciate, forse anche parziali. Perché il punto non è tanto - a mio modestissimo parere - quello del rumore della politica (che, sia chiaro, c'è ed è spesso molto sgradevole) ma quello, assai più serio, della qualità della politica che quel rumore sottende. Una qualità che porta oggi gli italiani non già all'irritazione e all'invettiva ma all'indifferenza. A considerare la politica come un peso di cui non è possibile liberarsi ma che, appunto, è solo un peso. Fastidioso e spesso ingiustificato. Maprima di affrontare quel punto, una premessa è essenziale, a scanso di equivoci. Chi scrive pensa non solo, come si dice con una punta di retorica, che i partiti sono uno strumento essenziale della democrazia, ma che la politica si fa, in primis, dentro e con i partiti. Comprendendone il ruolo, interpretandone i rituali, rispettandone le forme, ricordandone la storia, percorrendone tutte le articolazioni. Tutte attività non sempre gratificanti e a volte anche un pochino noiose ma senza le quali non si comprende, al tempo stesso, la durezza e la ricchezza della politica.
E chi scrive ne è tanto convinto che nel 2001 - memore della indicazione di Mitterrand ad un noto intellettuale francese del suo tempo - non ha chiesto di essere candidato a Siena o a Modena (nessuno si offenda, per favore, ho fatto solo due esempi) ma in un collegio meridionale saldamente tenuto da parecchi anni dagli avversari. Ciò detto, torniamo alla qualità della politica. Allentatosi il vincolo della ideologia, la politica è oggi più di tante altre cose, credibilità. Credibilità della classe politica nel suo insieme e credibilità dei singoli che fanno politica. E una politica credibile è quella che crede in quello che dice ed in quello che fa, o che cerca di fare. E' tutto qui il dibattito sul riformismo che andiamo facendo da qualche tempo o, meglio, da qualche anno. Non riguarda solo i risultati - che pure sono piuttosto magri - ma la convinzione che dovrebbe animare i protagonisti di quel dibattito. Cosa pensereste di un grande manager che oggi indica nel mercato cinese una opportunità da non mancare e promette, di lì a qualche tempo, di sbarcarci in forze e poi, qualche tempo dopo, vi dice che sì, poi, in fondo, il mercato cinese non è così importante? E cosa pensereste di un leader politico che a novembre annuncia urbi et orbi che per marzo il paese avrà messo un punto fermo sui temi della riforma previdenziale e poi a gennaio conclude che, in La citazione fondo, la cosa non è poi così urgente? Non pensereste quello che pensano molti italiani? E, gentilmente, non si tiri fuori l'argomento francamente un po' deboluccio relativo alle difficoltà entro le quali quotidianamente si muove la politica. Alla fatica - che c'è, lo sappiamo - della costruzione politica. Alla incertezza degli esiti: sappiamo anche questo, si può vincere e si può perdere. Il punto è un altro: da una classe politica si chiede - avrei voluto scrivere, si pretende - che spenda il proprio tempo a pensare come evitare o superare quelle difficoltà. La politica - mi si perdoni la franchezza - non è pagata per raccontare ai cittadini gli ostacoli che incontra giorno dopo giorno ma per superarli. Se ne è capace. E se non ne è, per lasciare ad altri la possibilità di provarci. Le difficoltà in cui si dibatte, giorno dopo giorno, l'odierna azione di governo sono il frutto malato di cinque anni di opposizione in cui - anche grazie a qualche editoriale domenicale non sempre illuminato - non un solo giorno è stato speso per costruire la cultura e le condizioni che sarebbero servite a governare e non è lecito, oggi, usare quelle difficoltà come un'attenuante. (E l'argomento vale, mutatis mutandis, per il governo della passata legislatura.) Si è seminato male e quindi si raccoglie poco. E si è seminato male perché non si credeva fino in fondo in quel che si diceva di voler fare. Una politica credibile è una politica che rischia e che si assume responsabilità. Che si espone al pericolo di perdere perché solo così si vince.
Che non trasforma un grande progetto politico come quello del Partito democratico - evidentemente difficile e rischioso - in un piccolo espediente tattico. Per quel pochissimo che capisco di politica mi sembra di poter sommessamente dire che non si costruisce un partito con un solo punto nell'agenda: consolidare gli equilibri esistenti. Politici e di potere (benedetti intellettuali! continuo a non riuscire a non tenere separate le due cose). Vedere per credere come, a livello locale, si vanno preparando i prossimi congressi. In molte regioni d'Italia (almeno una la conosco piuttosto bene) l'attività politica oggi prevalente è quella relativa alla attenta allocazione delle tessere ed al relativo "traffico". Perché il congresso non comporti il minimo rischio. Perché tutto sia noto e definito in anticipo. Perché le minoranze non manchino e le maggioranze siano definite per residuo. Nulla di nuovo e tanto meno di sorprendente. Lo si faceva anche negli anni d'oro della Prima Repubblica. Per quel che ricordo, spesso con più stile e certamente con più fantasia. Il punto grave è che tutto questo accade non già in vista di congressi di routine ma addirittura nella prospettiva di scelte che dovrebbero cambiare il modo stesso di essere della politica italiana. Che dovrebbero chiudere una transizione (che, ovviamente, non a caso è infinita). Come si può - lo chiedo a Michele Salvati - contemplare senza battere ciglio una abdicazione della politica di questa portata? Come si può, con il sorriso sulle labbra, esporre il sistema politico italiano - prima ancora che alcune sue parti - a pericoli fin troppo evidenti, perché partiti così sono costruiti sulla sabbia e possono scomparire al primo risultato elettorale non troppo esaltante, lasciando dietro di sé - e nel migliore dei casi - solo macerie? Come si può non vedere che l'Italia cresciuta, economicamente e socialmente, nell' ultimo quindicennio di un partito costruito su basi culturali e politiche così fragili non saprebbe che farsene e cercherebbe altrove le risposte alle proprie domande?
Se il Partito democratico fallirà - mi rivolgo ancora a Michele Salvati - non sarà a ragione di subdole ed infide iniziative trasversali (e, sia detto per inciso, è più subdolo ed infido discutere con Bruno Tabacci di pensioni o trattare sulla legge elettorale con Roberto Calderoli?), ma sarà a causa della mancanza di coraggio di chi pensa che il rischio sia pane quotidiano per le famiglie e per le imprese ma non per la politica. Una politica credibile è una politica che rispetta le regole. Che non si limita, giustamente, a chiedere giornalmente ai cittadini di rispettare le regole ma che rispetta essa per prima le regole che alla politica si applicano. E ce n'è una, in molti paesi e soprattutto in quelli che il maggioritario ce lo hanno da tempo, che non è nemmeno scritta: chi perde abbandona il campo. Definitivamente (salvo straordinarie eccezioni). Sia che perda elettoralmente, sia che perda politicamente (chiedere, per ulteriori dettagli, a Margaret Thatcher). E non è una astruseria. Ma una semplice - rozza, lo ammetto - norma di garanzia. Intesa ad evitare che chi c'è usi del proprio indubbio potere per rimanere. E, gentilmente, si eviti a questo punto di alzare il dito per osservare che nuove classi politiche all'orizzonte non si vedono. Perché non sappiamo se l'impresa entrante ci offrirà prodotti di qualità migliore e a un prezzo inferiore, ma consideriamo un bene pubblico il fatto che possa provarci e lo tuteliamo come tale. La politica italiana - credo di averlo detto e scritto in tempi non sospetti - è oggi guidata (al di là dei meriti o dei demeriti dei singoli) da due leadership entrambe sconfitte. E quindi automaticamente, inevitabilmente, al di là della loro volontà e delle loro capacità, non più credibili. Della politica non possiamo fare a meno. Quindi, quel che fa la differenza è la qualità della politica. Si può fare politica per una vita intera senza mai farla veramente e farla per un giorno solo mettendoci la passione di una intera vita.
Nicola Rossi

Repubblica 8.1.07
Importante scoperta degli scienziati Usa: potrebbe risolvere i dubbi etici sull'uso delle cellule
Staminali nel liquido amniotico
di Daniele Diena


ROMA - Poter finalmente disporre di un serbatoio di cellule staminali "pluripotenti", cioè capaci di generare i principali tessuti proprio come le embrionali, ma che, a differenza di queste, non dovrebbero più suscitare contestazioni bioetiche. Quello che fino a ieri era il sogno di tutti i ricercatori del settore è diventato realtà, almeno a livello di sperimentazione animale. E potrebbero essere finalmente superate le questioni etiche finora poste nell´ambito della ricerca sulle cellule staminali.
La buona notizia arriva ancora una volta dagli States. Un gruppo di ricercatori della Wake Forest University, nel North Carolina, è riuscito ad isolare nel liquido amniotico di donne incinte delle cellule staminali che, coltivate in vitro per alcuni anni, si sono poi trasformate in cellule progenitrici di diversi tessuti: quello muscolare, l´osseo, l´epatico, il sanguigno. Le cellule, trapiantate su animali, hanno confermato la loro potenzialità riproduttiva e senza causare tumori (problema talvolta riscontrato nelle embrionali). Cellule del sistema nervoso trapiantate in topolini lobotomizzati sono cresciute e hanno riparato l´area del cervello danneggiata: «Abbiamo assistito a un parziale ripristino della funzionalità», ha detto in una conferenza stampa Anthony Atala, autore della scoperta con Paolo De Coppi (italiano, 35 anni) - è stato anche appurato che le cellule neurali così ottenute riescono a produrre neurotrasmettitori, mentre quelle del fegato possono secernere urea».
La prima caratteristica, molto importante, osservata in queste nuove cellule è che, nel topo, hanno una formidabile velocità di moltiplicazione: solo 36 ore. Questo significa che in poche settimane si dispone di miliardi di cellule, un passo avanti che, il giorno che fosse confermato anche per l´uomo, darebbe una grossa accelerata alla cura di molte malattie. La scoperta è arrivata a confermare un´ipotesi che i ricercatori di mezzo mondo inseguivano da tempo, soprattutto dopo le dure contestazioni alla ricerca sulle staminali embrionali: si sapeva infatti che nel liquido amniotico c´è una grande quantità di cellule immature, ma non c´era ancora alcuna certezza che ci fossero delle vere e proprie staminali, cioè cellule capaci di differenziarsi poi nei diversi tessuti. Ora è dimostrato non solo che le staminali ci sono, ma anche che rappresentano circa l´1 per cento del totale di cellule immature del liquido amniotico. Tanto basta per far dire al professor Atala: «Con quattro milioni di parti l´anno, solo negli Stati Uniti sarà facile raccogliere abbastanza campioni di cellule fetali da accumulare una banca dati che soddisfi le necessità di trapianto dell´intera popolazione. E con una banca di 100mila campioni, il 99 per cento degli americani potrebbe trovarne uno geneticamente compatibile per un eventuale trapianto». Secondo lo studioso americano con questa nuova frontiera che è stata appena aperta sul fronte delle staminali si potrebbe, un giorno, arrivare a poter disporre di «una valida risorsa per la riparazione di tessuti malati e pure per una vera e propria creazione di nuovi organi, in sostituzione di quelli che non funzionano più».
Gli stessi ricercatori che hanno fatto la scoperta frenano però i facili entusiasmi: per quanto riguarda le possibili ricadute sull´uomo e i tempi necessari per raccogliere i primi risultati, si prevede infatti che occorreranno ancora alcuni anni. Forti comunque le aspettative che la scoperta serva a costruire una concreta alternativa all´utilizzo di staminali embrionali, pratica che ha suscitato tante contestazioni nel mondo intero, e quindi a dare nuovo impulso allo studio delle possibili applicazioni terapeutiche delle staminali che negli ultimi tempi ha incontrato fin troppo ostacoli.

Repubblica 8.1.07
La ricerca pubblicata su "Learning and Memory". Per l'esperimento usati i topi mutanti dei laboratori di Monterotondo (Roma)
In una molecola il segreto della memoria
Scoperta da un'équipe italo-spagnola, "incolla" l'informazione al cervello
L'abbraccio. Il dialogo tra le due cellule cerebrali si trasforma in un abbraccio stabile Oggi sappiamo come
di Elena Dusi


ROMA - Televisione, radio, libri, giornali. Un bombardamento di informazioni che tiene in continuo movimento il nostro cervello. È come se ogni nozione appresa - anche la più banale - creasse un´onda che mantiene sempre vivo il dinamismo dell´organo del pensiero. Per gli scienziati, mettere a fuoco i meccanismi dell´apprendimento e della memoria in questo mare sempre agitato era stato fino a ieri impossibile. Ci ha pensato Liliana Minichiello dell´European molecolar biology laboratory (Embl) di Monterotondo, in provincia di Roma, insieme ad alcuni colleghi dell´università di Siviglia, a scovare la molecola chiave che trasforma il flusso delle informazioni in un ricordo stabile e duraturo. Le loro ricerche sono pubblicate da Learning and Memory.
Il ruolo della molecola, battezzata TrkB, è di "incollare" l´informazione di un attimo (che si manifesta con una scarica elettrica istantanea fra due neuroni) al nostro cervello, trasformandola in un ricordo stabile. Il dialogo momentaneo fra le due cellule cerebrali si trasforma così in un abbraccio stabile, frutto di un processo che gli scienziati conoscono già da tempo con il nome di long-term potentiation. Per la prima volta oggi, grazie a dei topolini di laboratorio, è stato possibile capire quali segnali molecolari inducono le cellule del cervello a formare un legame stabile. A trasformare una notizia ascoltata un attimo alla radio in un ricordo duraturo.
Minichiello e i suoi colleghi sospettavano da tempo che la molecola TrkB svolgesse un ruolo chiave nel processo di memorizzazione. I neuroni sono in grado di riconoscerla, recepirla e attivare una cascata di eventi che sono ancora per la maggior parte oscuri, ma che di fatto si traducono nella formazione di un abbraccio stabile tra neuroni. Per dimostrare l´ipotesi, Minichiello si è servita dell´archivio dei topi mutanti di Monterotondo. All´Embl sono infatti conservati centinaia di ceppi di roditori modificati geneticamente. Uno di questi era stato trattato in modo da rendere parzialmente inattivo nel cervello il recettore della molecola TrkB. La cascata di eventi che porta normalmente alla formazione di un ricordo, nei topi modificati si blocca sul nascere, impedendo ogni processo di apprendimento.
L´esperimento utilizza il riflesso condizionato di Pavlov per verificare se il processo di apprendimento avvenga o meno. Un segnale sonoro avverte i topi che un soffio d´aria sta per colpirgli gli occhi, costringendoli a chiudere le palpebre. Ripetendo la sequenza, i roditori normali imparano a ripararsi gli occhi già dal momento in cui sentono il suono. Segno che nel loro cervello la rete dei neuroni si è modificata, organizzandosi in maniera tale da suggerire ai topi il comportamento migliore da adottare in coincidenza con la sirena. Gli animali geneticamente modificati invece reagiscono ogni volta come se udissero il suono per la prima volta. Mancando TrkB, il processo di apprendimento si è bloccato. Il cervello dei roditori non riesce a ricordare che al suono segue il soffio d´aria sugli occhi.
La differenza tra studiare le cellule del cervello con un microscopio e analizzare i processi in vivo, come è avvenuto con questo esperimento, è ben espresso da una frase che il ricercatore spagnolo, José Marìa Delgado Garcia, ha rilasciato al quotidiano El Pais: «Il cervello di Einstein, a riposo, era uguale al cervello di ogni altra persona. La differenza si poteva apprezzare solo quando lo scienziato elaborava un pensiero complesso. È in quel momento che è importante osservare come cambiano i neuroni».