Caso Welby
Chi è un medico?
Caro Piero,
più della diatriba interna al Vaticano sul caso Welby (…), mi sembra importante l'approssimarsi del 26 gennaio, data in cui l'Ordine dei medici di Cremona deciderà sulle sorti di Mario Riccio, il medico di Piergiorgio Welby.
Già (…), perché di questo si tratta: rapporto medico-paziente. Non ci dovrebbe essere nessun altro tra i due soggetti: non i parenti e gli amici del paziente, né lo Stato né tanto meno la Chiesa. Invece l'Ordine dovrà decretare se Riccio è ancora libero di esercitare la sua professione (…).
Ma più medico di uno che si rapporta soltanto al suo paziente, chiudendo il mondo fuori dalla porta del suo studio? Si pensa a che cosa succederebbe se un ortopedico prima della riduzione di una frattura dovesse contattare l'Ordine? Se uno psichiatra, di fronte a una crisi psicotica, telefonasse ai colleghi per un consulto? Che faremo tra qualche anno? Telecamere in tutte le sale operatorie affinché il Ministero della Sanità valuti se il taglio per operare un'appendicite è della giusta lunghezza o se la dose di anestetico è sufficiente?
Speriamo che l'Ordine ci dica chi è un medico, una volta per tutte.
Paolo Izzo via e-mail
il Riformista 24.1.07
L’eutanasia dei malati di mente
di Livia Profeti
L’Olocausto non è stato il primo esperimento nazista di sterminio “seriale”: tra il 1940 e il 1941 vennero uccisi, in appositi istituti provvisti di camere a gas, circa 70.000 adulti ed un numero indefinito di bambini deformi o ritenuti idioti. Uno sterminio che viene spesso considerato il precedente storico e preparatorio alla “soluzione finale” della questione ebraica.
Nel suo Il nazismo e l'eutanasia dei malati di mente Alice Ricciardi von Platen, racconta che le persone venivano prelevate da ospizi e ospedali, prendendo i nominativi da elenchi compilati sommariamente da medici secondo questionari che li invitavano ad identificare pazienti sofferenti delle patologie più varie: senilità, schizofrenia, forme di labilità mentale, epilessia, malattie neurologiche. Inoltre negli elenchi dovevano essere indicati i pazienti ospedalizzati da più di cinque anni, coloro che non erano di sangue tedesco o affine e comunque tutti gli stranieri.
Apparentemente le giustificazioni ideologiche del micidiale programma furono analoghe a quelle poi utilizzate per la soluzione finale, e quindi sostanzialmente incentrate sul leit motif dell’integrità biologica e morale del popolo tedesco “minacciata” da questi «veri e propri parassiti, scorie dell’umanità». In questo caso però furono due elementi diversi a giocare un ruolo fondamentale: la repulsione per esseri umani non ritenuti semplicemente malati da curare ma visti come “diversi” immodificabili, ed il mero calcolo economico sul loro costo per lo Stato, divenuto particolarmente insostenibile in periodo bellico. Il provvedimento porta infatti la stessa data del primo giorno di guerra e la Ricciardi von Platen riporta la testimonianza di un gerarca che avrebbe ascoltato lo stesso Hitler parlarne in termini di una soluzione idonea a risparmiare sulle spesa ospedaliere.
Liberazione.it 23.1.07
Ansia, panico? Occupiamo la scuola
La paura del futuro
di Franco Berardi Bifo
Gli studenti e le studentesse del liceo bolognese Minghetti hanno occupato per qualche giorno la loro scuola, la settimana scorsa. Non è una gran notizia, perché di occupazioni ce n’è tante: cominciano, finiscono, talvolta cambia qualcosa talvolta non cambia niente. Ma quel che mi ha colpito non è l’occupazione, bensì le motivazioni che sono venute fuori. Alcune delle motivazioni non sono nuove, anche se fin troppo giuste, come la protesta contro il travaso di finanziamenti verso la scuola privata e la diminuzione di finanziamenti per la scuola pubblica. Ma emerge tra le motivazioni una problematica che a mio parere è destinata a diventare quella più importante nel tempo che viene: l’ansia, il panico, il disagio mentale.
In una indagine che è stata svolta prima e durante l’occupazione stessa una larghissima maggioranza di studentesse (molto meno ragazzi) hanno denunciato l’ansia e lo stress, e il panico. La causa più immediata che hanno indicato le ragazze intervistate è il carico di lavoro scolastico, il sentimento di essere sovrastate dai ritmi che la scuola impone loro.
Il nucleo profondo della questione che le ragazze del Minghetti hanno posto riguarda però tutti noi.
Sta diventando adulta una generazione che fin dalla prima infanzia è stata sottoposta a un flusso ininterrotto di stimoli informativi, molti dei quali hanno un carattere di sollecitazione competitiva. Un vero e proprio assedio dell’attenzione da parte del sistema mediatico. La pubblicità lavora sulla percezione di sé, sull’identità in competizione. La televisione e i media virtuali mobilitano costantemente il sistema nervoso sottraendo spazio per la socializzazione, per lo scambio affettivo, per la corporeità. Linguaggio e affettività sono scissi in maniera patogena.
Fino a un paio di decenni fa la sindrome del panico era praticamente sconosciuta. La parola panico aveva un significato indefinito, romantico, aveva a che fare con il sentimento di essere sopraffatti dall’immensità della natura. Ma negli ultimi anni il termine è entrato a far parte del lessico psicopatologico, perché un numero crescente di giovanissimi e di lavoratori (soprattutto quelli che lavorano nei settori in cui si impiega tecnologia informatica) denunciano alcuni fra i sintomi che possono definire una crisi di panico: palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia. Sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, sensazione di soffocamento e di asfissia, dolore al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggere o di svenimento, derealizzazione, paura di perdere il controllo o di impazzire, sensazioni di torpore o di formicolio.
Gli psichiatri non sono in grado di indicare le cause di questo fenomeno, probabilmente perché sfugge al loro campo. Il panico si può definire come una reazione dell’organismo posto in condizioni di sovraccarico informativo. L’organismo riceve troppe informazioni per poterle elaborare affettivamente, e per poter costruire strategie di comportamento razionale.
Per completare il quadro patologico occorre ricordare che un numero crescente di bambini e di ragazzi nella prima adolescenza soffrono di quella sindrome che gli psichiatri americani hanno definito Attention deficit disorder: una incapacità di concentrare l’attenzione su un oggetto mentale per un tempo superiore ai pochi secondi. Non è forse del tutto comprensibile, se teniamo conto del fatto che l’ambiente cognitivo nel quale queste persone sono cresciute è un flusso psicostimolante che sposta continuamente l’oggetto dell’attenzione, come accade nelle pratiche del multitask o dello zapping? Non è forse del tutto comprensibile, visto che l’ambiente di formazione videoelettronico tende a scindere l’esperienza cognitiva e linguistica dal contatto corporeo e dalla socialità affettuosa?
Due psicoanalisti parigini (Michel Bensayag e Gerard Schmit) hanno pubblicato un libro dal titolo L’epoca delle passioni tristi in cui, partendo dalla loro pratica analitica, giungono alla conclusione che la percezione stessa del futuro è divenuta fonte di panico e di depressione. Scrivono i due studiosi: ”La tradizione della psichiatria fenomenologica descrive la depressione come un’esperienza di vita in cui uno sente di non avere più tempo, di avere il tempo contato e di non avere più spazio fino al punto che sentendosi braccato incorre in un autentico stallo esistenziale. Il tempo scorre a gran velocità e non c’è posto in cui scappare: la persona depressa ritrova dappertutto il già noto. Non esiste luogo o rifugio che le consenta di sfuggire alla trappola della depressione”.
Ora, questa descrizione della depressione si attaglia perfettamente alla vita quotidiana di decine di milioni i persone che non si considerano affatto depresse.
Mi pare che proprio questo sia il problema posto dalle studentesse del liceo Minghetti.
l'Unità 24.1.07
I Pacs? Fanno bene alla salute (mentale)
di Vittorio Lingiardi
(Vittorio Lingiardi a partire da quest'anno è il nuovo Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell'Università "la Sapienza" di Roma presso la Facoltà di Psicologia)
Tra le ragioni da elencare a favore della legalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso la più importante è che il mancato riconoscimento sociale di un legame affettivo danneggia la salute mentale e compromette lo sviluppo psicologico. Tale riconoscimento, con tutti i benefici, i diritti e i doveri che ne seguono, va dunque considerato un atto dovuto in nome della salute. I Pacs non sono dunque solo un caso politico-giuridico (la cui assenza pone il nostro paese ai margini dell'Europa), ma anche un intervento a tutela della salute psicologica dei cittadini omosessuali che, come tutti gli altri, devono poter beneficiare dei vantaggi sociali, psicologici e simbolici derivati dal riconoscimento collettivo delle loro relazioni.
Trent'anni fa la comunità scientifica internazionale (soprattutto nella sua componente anglo-americana) «depatologizzava» l'orientamento omosessuale, eliminandolo dagli elenchi dei disturbi mentali. Sembra incredibile che sia successo «solo» trent'anni fa, ma, volendo fare un paragone istruttivo, ricordiamo che, più o meno negli stessi anni, la Svizzera concedeva diritto di voto alle donne, che in Italia avevano votato per la prima volta nel 1946. Una volta maturati i «tempi sociali», nel 2000 l'American Psychiatric Association formula un public statement a favore delle unioni civili. Una scelta coerente: sarebbe alquanto illogico, oltre che crudele, considerare psicologicamente sana una persona, ma poi non riconoscere la legittimità sociale delle sue relazioni affettive e il suo diritto a formare una famiglia. È più o meno quello che succede nel nostro paese, dove, a quanto pare, la scienza e la legge faticano a parlarsi.
Così nascono i cittadini di serie B. E un popolare conduttore televisivo, durante un dibattito sui Pacs, può dire: «una cosa è il rispetto della diversità e una cosa sono le leggi». Infatti due uomini o due donne che si amano e vivono insieme magari da vent'anni non possono avere un riconoscimento giuridico della loro unione, la reversibilità della pensione (possibile invece per i parlamentari anche quando non sussiste legame matrimoniale), agevolazioni fiscali sulla successione ecc. Eppure di fronte allo stato hanno gli stessi doveri degli altri cittadini, pagano le tasse e possono accedere a ogni tipo di carriera pubblica e professionale.
«Minority stress» è il nome che la psichiatria americana dà al disagio psichico che deriva dalla discriminazione e dalla stigmatizzazione sociale di una minoranza. Nello sviluppo psicologico, il riconoscimento sociale ha grande importanza perchè permette a una rappresentazione di consolidarsi nella mente come legittima e convalidata. Questa stabilizzazione ha a sua volta importanza perché, nel suo costituirsi come «possibile» e «legittima», perde il suo contenuto «minaccioso» e quindi disincentiva le azioni violente e persecutorie nei suoi confronti (bullismo, omofobia sociale). Inoltre riduce gli effetti dell'assimilazione della negatività sociale, cioè l'omofobia interiorizzata: un fenomeno alla base della difficoltà ad accettarsi, fino all'autodisprezzo, e di comportamenti inconsciamente autodistruttivi caratteristici di molte persone omosessuali.
Si tratta di argomenti molto semplici, alla base di qualunque percorso di integrazione delle differenze individuali, culturali, sociali. Ma proprio qui sorge il problema del pregiudizio: se in passato le persone omosessuali creavano «scandalo» per via della loro devianza, oggi ciò che indigna (o, più probabilmente, spaventa) è invece la richiesta di normalità. Gay e lesbiche che chiedono di potersi sposare, formare famiglie, avere i diritti e i doveri di tutti.
Credo di aver detto una parola tabù: famiglia. La si vorrebbe immodificabile, incorruttibile, unica. Si tratta invece di un contesto affettivo che assume configurazioni diverse a seconda dell'epoca e della cultura. Originariamente "insieme dei famuli", cioè di coloro che hanno un rapporto di dipendenza dal paterfamilias, la famiglia così è descritta dalla nostra costituzione (art. 29): «La repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare». Matrimonio, ecco l'altra parola da maneggiare con cura (la terza sarà adozione). Esistono due tipi di matrimonio: religioso e civile; quest'ultimo può essere a sua volta distinto, spesso con piccole differenze, in unione civile, pacte civil de solidarité (alla francese, Pacs), civil partnership, ecc.
È stato toccante leggere che, in Inghilterra, il numero di persone gay e lesbiche che, nei primi 10 mesi dall'entrata in vigore della legge (dicembre 2005), ha richiesto la registrazione di partnership si è rivelato di gran lunga superiore alle previsioni: pari a quello previsto per il 2030! Ancora una volta, si misura la distanza tra società e politica. E non quella tra «un capriccio», come lo ha definito il cardinale Trujillo, e una legge.
Infine, una segnalazione accademica per Piero Fassino e per sviluppare un dibattito più empirico e meno emotivo su un tema difficile: sono appena stati pubblicati su Pediatrics (vol.118, n.1, 2006) rivista ufficiale dell'American Academy of Pediatrics, i risultati di una ricerca: «Effetti delle leggi su matrimonio, unioni civili e domestic partnership sulla salute e il benessere dei bambini». Vale la pena di darci una lettura, soprattutto alle conclusioni, dove si legge che «non si evidenzia una relazione tra l'orientamento sessuale dei genitori e le dimensioni emotive, psicosociali e comportamentali indagate nel campione di bambini... Adulti coscienzionsi e capaci di fornire cure, siano essi uomini o donne, etero o omosessuali, possono essere ottimi genitori». A conclusioni analoghe sono giunte tutte le principali associazioni americane nel campo della salute mentale, compresa l'American Psychoanalytic Association («è nell'interesse del bambino sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti e capaci di cure. La valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all'orientamento sessuale»).
Ogni definizione di sé e della propria identità comporta una rinuncia, prima di tutto psicologica. Ma questa rinuncia non può essere basata sulla negazione del diritto all'uguaglianza.
Corriere Salute 24.1.07
La depressione si sta diffondendo tra gli adolescenti
Il 6% dei ragazzi prende antidepressivi
La terapia è necessaria perchè può salvare dal rischio di suicidio. Ma talvolta i farmaci usati non hanno indicazione pediatrica
In Italia il 6% circa dei bambini e degli adolescenti assume antidepressivi. A prendere questi farmaci sono il 3,25% delle femmine da 0 a 17 anni, contro il 2,4% dei maschi. Se ci si focalizza sui teenager, dai 14 ai 17 anni, il ricorso ad antidepressivi riguarda il 6% dei ragazzi e più del 10% delle ragazze. Lo rivela uno studio condotto da Maurizio Bonati, responsabile del laboratorio di salute materno-infantile dell'Istituto Mario Negri di Milano, illustrati oggi all'Istituto superiore di sanitá di Roma nel corso del convegno «Bambini e psicofarmaci: tra incertezza scientifica e diritto alla salute». «La depressione - sottolineano gli esperti - si sta diffondendo nel mondo anche tra gli adolescenti, al punto che il suicidio rappresenta la terza causa di morte in questa fascia d'età».
PRESCRIZIONI SBAGLIATE - Ma se è giusto e doveroso ricorrere agli antidepressivi quando siano indicati, ancora più giusto, secondo Bonati, sarebbe prescrivere quelli giusti. I dati presentati dal ricercatore milanese indicano infatti che circa 20 mila adolescenti ogni anno ricevono almeno una prescrizione di antidepressivi off-label, cioè al di fuori dell'indicazione per cui sono stati autorizzati in commercio. «I medici possono prescrivere diversi antidepressivi nel nostro Paese, ma solo uno di questi è indicato per l'utilizzo nei ragazzi e nei bambini. Invece in quasi due terzi dei casi vengono prescritti farmaci che non dovrebbero essere prescritti nei regazzi o che, addirittura, hanno controindicazioni all'uso pediatrico».
Quali rischi corrono i giovani o giovanissimi che li prendono? «Innazitutto di incorrere negli effetti collaterali di questi preparati» ci risponde Maurizio Bonati, «talvolta anche seri». «Ma soprattutto» prosegue l'esperto, «il rischio è che invece di diminuire il rischio suicidario, che è il principale obbietivo della terapia, lo si aumenti».
RISCHIO SUICIDIO - E il rischio sucidiario è in effetti una delel conseguenze più temure delle depressioni non adeguatamente curate nei giovani. Soffrire di depressione in etá evolutiva - spiegano gli esperti - espone a un alto rischio di suicidio. In particolare, negli Usa i casi di suicidio tra gli adolescenti si sono triplicati negli ultimi 40 anni, rappresentando la terza causa di morte. Secondo «A public health approach to innovation», uno studio recentemente condotto dall'Oms (Organizzazione mondiale della sanità), 3 bambini su 1.000 soffrono di un disturbo depressivo in etá prescolare, il 2% in etá scolare e il 4-8% durante l'adolescenza. Inoltre, dal 30% al 50% degli adolescenti depressi soffre anche di disturbi distimici o ansiosi e tra il 20% e il 30% fa uso di sostanze stupefacenti.
IN FEBBRAIO DECISIONE SUL RITALIN - Altra patologia per la quale vengono impiegati psicofarmaci nei ragazzi è l'ADHD (malattia del distrubo dell'attenzione o dell'iperattività). Entro febbraio arriverà la decisione regolatoria per il Ritalin (metilfenidato), relativa alla sua immissione in commercio e ai criteri di rimborsabilità. Attualmente si stima che circa 5 mila bimbi con Adhd in Italia siano trattati con il Ritalin, nonostante nel nostro Paese non sia ancora stato approvato. Il farmaco è molto prescritto negli Usa. Oltre al Ritalin, verrá monitorato anche l'uso di un altro farmaco registrato in Europa con procedura di mutuo riconoscimento.
La prescrivibilità di questi farmaci sarà comunque regolata da Registro nazionale dei trattamenti (farmacologici e non farmacologici) creato ad hoc per «garantire accuratezza diagnostica e appropriatezza terapeutica.
l.r.
Agenzia Radicale 24.1.06
Heidegger nazista? 11 studiosi smontano l'accusa
Esce in Francia il libro che Gallimard aveva rifiutato di pubblicare; il gruppo diretto da Fedier replica alle clamorose tesi di Faye
di Gerardo Picardo
Cade un’altra idiozia che per anni ha ostacolato l’approccio e la lettura di uno dei più grandi speculativi del Novecento. Un gruppo di undici studiosi universitari francesi, svizzeri e italiani, sotto la direzione di Francois Fedier, ha infatti smontato l'accusa di filonazismo rivolta al filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976).
Il libro Heidegger a' plus forte raison, opera collettiva curata da Fedier, che l'editore francese Gallimard ha rinunciato a pubblicare l'anno scorso, sarà edita nel prossimo fine settimana dall'editore Fayard. Si tratta di una “vittoria” per Fedier, la cui integrità morale era stata messa in causa da Emmanuel Faye, il cui libro Heidegger, l'introduzione del nazismo nella filosofia, stampato dall'editore parigino Albin Michel nel 2005, sosteneva che il grande pensatore tedesco era stato un ideologo del nazionalsocialismo travestito da filosofo. Faye ha poi accusato studiosi come Fedier, che hanno consacrato la loro vita a tradurre e commentare l'opera di Heidegger, di essere nientemeno che dei 'negazionisti'.
Il clamore dell'accusa ha provocato un caso internazionale intorno al libro di Faye, al punto che oltre 3.000 universitari di tutto il mondo, in tredici lingue, hanno ridicolizzato l'accusa come “delirante”.
Il sostegno che in certi ambienti è stato dato al clamore delle tesi di Faye - ad esempio quello dei famosi storici francesi Pierre Vidal-Naquet e Jean-Pierre Vernant, recentemente scomparsi - hanno provocato la controffensiva degli specialisti di Heidegger, capitanati da Fedier.
Il libro Heidegger a' plus forte raison era stato annunciato da Gallimard per la primavera 2006 ma poi l'editore ha rinunciato a stamparlo perché Faye aveva fatto circolare l'insinuazione che si trattasse di un'opera 'negazionista'. Claude Durand, direttore di Fayard, ha ripreso il libro in mano ed ha deciso di pubblicarlo. Nelle 536 pagine del libro coordinato da Fedier si replica alle tesi di Faye definite “approssimative” e piene di “controsensi ed errori”. Sarà la fine della ‘saga’ sul pensatore di Sein und Zeit? Ce lo auguriamo di cuore. Tornando ad appassionarci alla pagina di Heidegger oltre tutti i lacci pseudonazisti cuciti attorno al suo Denken potente che ci invita agli Holzwege del nostro tempo.