il manifesto 5.1.07
Reportage Nell'ospedale psichiatrico di Aversa, l'ex manicomio criminale
Dove l'indulto non arriva
Inferno romano Il costo della follia Per ogni internato un euro e cinquanta al giorno, in tutto 4 milioni all'anno. Molto meno di un normale penitenziario. E con soli 12 minuti a settimana di assistenza psichiatrica I letti di contenzione, le celle e detenuti che non usciranno mai anche se hanno commesso piccoli reati. Basta la pericolosità sociale per finire vittima di un «ergastolo bianco». Storie da un carcere molto particolare
di Dario Stefano dall'Aquila
Aversa. Di ingressi così, nonostante quasi dieci anni di visite in carcere, non se ne ricordano. Non è stato un attimo, ma questione di pochi minuti. Il contrasto tra l'ampio spazio verde, con animale e uccelli rari, e l'area del passeggio della sezione cosiddetta Staccata dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è netto. Il tempo di un portone, due scalini, poi un cancello dai vetri levigati e dalle sbarre di ferro. In un attimo, delle circa cinquanta persone che passeggiano, una trentina ci circonda, in modo frenetico, mani tese, frasi smozzicate, altre più rabbiose, curiosità, richieste di favori, piccole domande. Siamo separati da questo fiume di storie.
Per contrasto all'interesse di molti, una discreta parte degli ospiti di questo cortile largo e irregolare, con l'aria di una stazione di aspetto dimessa, ci ignora, immobile, prigioniera di piccoli e ripetuti gesti. Qualcuno ripercorre freneticamente il cortile di corsa, un internato è poggiato al muro e apre e chiude, ripetutamente, una fontana, altri rimangono immobili, appoggiati ai muri. Si affollano curiosi, ripetitivi, alcuni con le domande classiche del detenuto, una carta processuale sempre in tasca, ma i più con domande insolite, una richiesta di dialogo o una storia raccontata a metà. «Come lei sa io sono un amministratore politico», spiega un ragazzo quando apprende che c'è un parlamentare nella delegazione, Francesco Caruso del Prc.
Gli internati si avvicinano a turno, «chiedono siete voi l'onorevole», e la risposta negativa non serve a scoraggiarli. Sono sporchi, maleodoranti, panni dimessi, cappotti su pigiami, pullover che ricordano altre mode, colpisce quanti di loro siano colpiti da dermatiti, alcune appaiono devastanti, uno ha la pelle del viso squamata, un altro ha come delle stimmate sul dorso della mano.
La Staccata è una sezione figlia di una storia orribile. E' quella dei letti di contenzione, degli elettroshock, dei pazzi pericolosi e irrecuperabili, delle leggende, delle botte, degli esperimenti psichiatrici. «Oggi è diverso», ci dicono. Sicuramente vero, ma in questo posto non è mai soffiato il vento di riforma che ha permesso di chiudere i manicomi. Qui ogni cosa appare sospesa, il tempo, la dignità, i diritti.
La calca di persone dura forse un'ora, forse meno, ma il tempo sembra rallentare. Alcuni ritornano, più volte a ripetere le stesse cose, stesse richieste e domande. Molti bisogni, ma quello del dialogo sembra prevalere. Si presentano, cognome e nome. Quando chiediamo gli anni di permanenza, e ogni giorno in una condizione del genere sarebbe eccessivo, è un brivido. Quattro, sei, dieci anni. Francesco M. digrigna i denti, ogni volta che termina la frase, un rumore di gesso contro la lavagna, come a sottolineare l'importanza di ogni frase. «Si sta male, hai capito, si sta male, si sta male» e tac, un rumore di denti contro denti. Denti così neri che ti chiedi come stiano in piedi. Un internato, privo di un braccio, trotterella da un gruppo all'altro, mentre Francesco M. ripete che c'è violenza, che si sta male e digrigna i denti, con rumore sordo. A placare gli internati le sigarette, gli agenti le distribuiscono come calmante, sembrano funzionare di più degli psicofarmaci. Basta tirare fuori un pacchetto e a gruppetti si affollano, per poi disperdersi ognuno con la sua sigaretta da fumare subito e da difendere dagli altri. Qui il mondo è un cortile e l'orizzonte una grata.
Gli Opg un tempo si chiamavano manicomi giudiziari. Oggi ve ne sono 6 in tutta Italia, due solo in Campania. Sono a tutti gli effetti carceri e dipendono dal Ministero della Giustizia. Vi sono persone, in linea di massima, che hanno compiuto un reato, ma che non sono in grado di intendere e di volere. Sono quindi condannate non a una pena determinata, ma a una misura di sicurezza che può essere, a seconda del reato, di due, cinque o dieci anni. Proprio perché sottoposti a misura di sicurezza e non a una pena si definiscono internati invece che detenuti. Se al termine della misura il magistrato di sorveglianza ritiene che sussiste la pericolosità sociale, la misura viene prorogata. Non c'è indulto che tenga.
Capita così che una persona che commette un furto per il quale sconterebbe meno di un anno, se viene dichiarata non sana di mente finisce per scontare una pena che dura anche tutta una vita. Si chiamano ergastoli bianchi. Metà degli internati di Aversa è dentro per reati contro il patrimonio.
Ci sono poi detenuti comuni che perdono il «lume della ragione» e la cui pena viene sospesa e vengono mandati in Opg. Se rinsaviscono tornano in carcere. Usciamo dal cortile per visitare la sezione accompagnati dalle ultime frasi, «dottore hai capito, è tentato omicidio, non omicidio, dillo all'onorevole, e, si sta male, si sta male, si sta male». Tac. Si chiude il cancello. Basterebbe così ma si prosegue.
Le celle sono vuote, con l'eccezione di qualche internato che rinuncia al passeggio. Da una spunta un fantasma, si chiama Costantino, è sostenuto da un altro internato e sembra un bambino di tre anni che saluta. Si regge a fatica in piedi. Ha un sorriso sdentato e incosciente. Sta qui da circa 30 anni, ne ha 55, ne dimostra venti in più. Le celle sono vuote, appena un letto, un lenzuolo bianco grigio e una coperta marrone con una striscia bianca. La stanza numero sei ha una scritta su un cartoncino rosa che è di per sé un manifesto psichiatrico: Stanza Coerciti. Dentro tre letti, piccoli, fissati al suolo, con un buco al centro per i bisogni e un secchio sotto a raccogliere. Sono vuoti ma, come apprenderemo dal registro che di lì a poco andremo a vedere, sino a qualche giorno fa ancora occupati. Due strisce di cuoio, una per lato, e il resto non si fa fatica a immaginarlo.
Francesco, la cui bonarietà sembra sorprendere tutti, ci precede in infermeria. Dal registro risulta che un internato, Marco O., è stato legato per 11 giorni. Il personale medico di un Opg è convenzionato. Non ci sono psichiatri assunti ma consulenti con un monte ore mensile. Sono attualmente sette. Se dividiamo il monte ore di consulenza per il numero di pazienti, fanno 12 minuti di assistenza psichiatrica settimanale a testa. Anche larga parte del personale paramedico è a contratto.
Il direttore Adolfo Ferraro spiega che la spesa per il vitto prevista dalle tabelle ministeriali è di 1,50 centesimo di euro a internato. La struttura costa 4 milioni di euro l'anno, molto meno di quanto si spenderebbe per un carcere, ancora molto di meno di quanto si spenderebbe se queste persone fossero ospitate in strutture residenziali. La visita prosegue: altre due sezioni, storie di disperazione, di povertà, assenza di avvocati e famiglie. Chiudiamo dopo quattro ore con Mario, internato semi-muto che con suoni disarticolati ci chiede di avvisare la sorella, di dire alla loro madre di farsi trovare a casa, perché il numero che compone suona a vuoto. E' il primo impegno che manteniamo, una volta fuori. Il secondo è questo racconto, perché a tutti abbiamo promesso che non ci sarà più silenzio sulle loro vite, che non c'è codice penale, norma amministrativa, disciplina psichiatrica che giustifichi questo dolore.
il manifesto 5.1.07
Il processo che sconfisse i religiosi contrari alla teoria darwiniana
In relazione all'articolo di Francesco Ferretti, che ieri su queste pagine aggiornava la disputa tra creazionisti e evoluzionisti, una sintesi del famoso «Scopes-Monkey Trial». In quel processo, che si svolse nel 1925, coloro che difendevano la teoria dell'evoluzione impressero una sonora sconfitta ai fondamentalisti religiosi, il cui insegnamento venne relegato ai margini della società. Per poi riacquistare protagonismo negli anni '80
di Mario De Caro
Sino a tempi recenti in Italia era pratica comune distribuire i film stranieri traducendone in modo strampalato il titolo. In un'ideale palmares di questa categoria, il primo premio sarebbe senz'altro da attribuire all'inarrivabile Non drammatizziamo: è solo questione di corna! (titolo originale: Domicile conjugal) del povero Françoise Truffaut. Ma una menzione speciale spetterebbe anche a E l'uomo creò Satana, titolo con cui nel 1960 venne da noi distribuito Inherit the Wind, un filmone diretto da Stanley Kramer e interpretato da tre star come Spencer Tracy, Frederick March e Gene Kelly. Con quel terribile titolo, peraltro, il distributore italiano aveva probabilmente cercato di alludere allo spirito laico e progressista che animava il film: esso infatti rappresentava, in maniera sostanzialmente fedele, lo spettacolare processo (il famoso «Scopes-Monkey Trial») in cui nel 1925, a Dayton, Tennessee, i difensori della teoria dell'evoluzione avevano impartito una sonora sconfitta ai fondamentalisti religiosi contrari al suo insegnamento. In virtù della sconfitta in quel processo il fondamentalismo rimase relegato ai margini della società americana per molti decenni; e a tenerne a bada il revanchismo contribuì anche il grande successo del generoso filmone che Kramer gli dedicò trentacinque anni dopo.
A partire dagli anni Ottanta, però, i circoli di intellettuali teo-con che hanno ispirato le politiche prima di Reagan e poi di Bush Jr. sono riusciti nell'impresa di ridare nuovo fiato al fondamentalismo religioso. E così - come ha mostrato ieri, su queste pagine, Francesco Ferretti - ottantadue anni dopo lo Scopes-Monkey Trial e quarantasette dopo il film di Kramer, gli attacchi contro la teoria dell'evoluzione, e più in generale i tentativi reazionari di instaurare una nuova alleanza tra stato e religione, si sono fatti di nuovo minacciosamente vitali. Per comprendere le origini dell'attuale scontro cruciale sulla teoria dell'evoluzione può allora essere utile tornare di nuovo al famoso Scopes-Monkey Trial, in cui il fondamentalismo ricevette la sua prima, sonora sconfitta. Nel 1925, dunque, al pari di altri stati dell'Unione, il Tennessee aveva promulgato una legge che vietava l'insegnamento della teoria dell'evoluzione perché in urto con il dettato biblico (in particolare contro il racconto della creazione dato nel Genesi). Un gruppo di difensori delle libertà civili decise di reagire. Serviva un insegnante che si prestasse a violare quella legge liberticida, tenendo una lezione sul darwinismo.
La scelta cadde sul ventiquattrenne John T. Scopes, che venne arrestato appena iniziata la lezione. Tutto però si sarebbe risolto in un processo di scarso interesse, se non fosse stato per i due pesi massimi che presero rispettivamente le parti dell'accusa e della difesa. Come pubblico ministero, infatti, venne scelto William Jennings Bryan, un democratico del Sud che era stato Segretario di Stato per il Presidente Wilson e tre volte candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Bryan era un fondamentalista, convinto assertore dell'interpretazione letterale della Bibbia, e da tempo desiderava impartire una lezione ai darwiniani. La difesa di Scopes non fu da meno dell'accusa, perché fu affidata al più famoso legale del tempo, Clarence Darrow, ben noto anche per il suo radicale laicismo. Di fronte a un pubblico enorme e a un gran numero di giornalisti di tutto il mondo, Bryan e Darrow lottarono con tutte le loro forze per difendere le rispettive visioni del mondo. Ad un certo punto, però, la posizione dell'imputato, e dunque del partito evoluzionista, parve farsi disperata. Fu quando il giudice decretò che nessuno scienziato poteva deporre al processo, perché la legge di cui si discuteva menzionava la Bibbia, ma non la teoria di Darwin. Fu a quel punto che Darrow ricorse a una mossa procedurale che passò alla storia del sistema giudiziario americano: come testimone della difesa chiamò, quale grande esperto della Bibbia, il Pubblico ministero.
L'interrogatorio che seguì sancì il trionfo del pensiero scientifico sul fondamentalismo religioso. In varie occasioni Bryan, secondo il quale il testo biblico andava inteso letteralmente, cadde in contraddizione (come poteva essere, per esempio, che durante il diluvio universale tutti gli animali che non erano saliti sull'Arca annegassero? E i pesci, allora?). Poi Darrow menò i suoi fendenti più poderosi, dimostrando - almeno a chi avesse orecchie per udire - che il tentativo di giustificare il Creazionismo sulla base dell'interpretazione letterale della Bibbia è intellettualmente insostenibile. In primo luogo egli lesse il famoso passo del Libro di Giosuè dove si dice che Dio fermò il Sole per non far calare le tenebre: se questo passò fosse vero letteralmente, allora il Sole si muoverebbe attorno alla Terra e dunque Copernico avrebbe torto - nonostante le prove inconfutabili del contrario di cui oggi disponiamo. Poi Darrow attaccò la tesi, tipica del Creazionismo, secondo la quale la Bibbia testimonierebbe che la creazione del mondo è avvenuta molto più recentemente di quanto non richiederebbero i tempi lunghi dell'evoluzione. Darrow chiese a Bryan se i sette giorni della creazione fossero stati necessariamente lunghi ventiquattro ore: e questi dovette concedere che se Dio avesse voluto, un 'giorno' sarebbe potuto durare trenta ore o trenta mesi o trenta milioni di anni. Ma allora - chiosò trionfalmente Darrow - i tempi lunghi dell'evoluzione non sono affatto incompatibili con il dettato biblico. Alla fine dell'interrogatorio tutti gli osservatori concordarono che l'interpretazione letterale della Bibbia era stata demolita. Il processo si concluse con una condanna simbolica per Scopes, poi revocata in appello. Bryan morì cinque giorni dopo, non si sa se per crepacuore o per indigestione; e i fondamentalisti vennero messi a tacere per vari decenni.
Oggi, però, i neo-con sono riusciti a resuscitare il fondamentalismo. Attualmente, il 42% degli statunitensi crede nell'interpretazione letterale della Bibbia, mentre un altro 18% ritiene che gli esseri umani siano frutto dell'evoluzione, ma che questa sia stata guidata dalla mano divina. Solo uno statunitense su tre, ritiene che la teoria dell'evoluzione basti a spiegare l'origine della specie umana. Forse è ora di mettere in cantiere un altro filmone sullo «Scopes-Monkey Trial».
Corriere della Sera 5.1.07
L'intervista
Bellocchio: «Commissioni ormai ridicole e insensate Non frenano la violenza»
di Giuseppina Manin
«Signora mia, che dire? Anche la censura non è più quella di una volta...». Scherza Marco Bellocchio davanti al tiramolla di consigli e sconsigli di visione innescato dall'apocalittico Gibson. «Una volta — prosegue il regista, i cui film sempre scomodi e provocatori ne hanno passate davvero tante — la censura in Italia era una brutta bestia, ma sapeva fare il suo mestiere. Colpiva sì, e duro, ma secondo criteri ben precisi, mirati a proteggere il potere e i suoi tabu».
Che erano?
«Il sesso, il potere, la religione. I bersagli preferiti dei cineasti della mia generazione, dei Bertolucci, Ferreri, Cavani, Faenza... E difatti, chi più chi meno, di divieti, condanne, sequestri, in quegli anni ne abbiamo collezionati un po' tutti.
Ma la repressione, anche la più feroce, non ha mai fermato nessuno. Si faceva a gara per realizzare opere che denunciassero l'ipocrisia, la falsità, il conformismo delle istituzioni, della chiesa, della politica».
E adesso?
«Adesso la censura mi pare abbia perso il suo vero senso. La presa di posizione degli esercenti, che paradossalmente rivendicano proprio loro il diritto a "sconsigliare" il film di Gibson ai minori di 14 anni, mi sembra la vera pietra tombale di queste ridicole commissioni, che ormai paiono allo sbando, pronte a lasciar passare quasi tutto. Anche quello che forse non si dovrebbe. Come padre di una ragazzina di 11 anni mi sento tenuto a una certa prudenza. Vorrei poter preservare mia figlia da tutte quelle immagini di inaudita violenza ormai così "normali" in troppi film, che escono regolarmente indenni dalle forbici agitate a vanvera da revisori, evidentemente loro sì assuefatti».
Ma lei, a sua figlia Apocalypto lo proibirebbe?
«Per costituzione e convinzione, io non proibisco nulla. E tanto meno invoco pericolosi ritorni di censure. Se proprio ha da esserci, i legislatori attuali farebbero bene a ripensare a nuovi parametri. Personalmente credo che dei limiti vadano posti. Ma più che allo stato, penso che spetterebbe a noi genitori, alla scuola, il compito di educare lo sguardo. Compito difficile, lo so bene, ma davanti al dilagare di immagini di ogni tipo e su ogni schermo, al cinema ma ancor di più in tv e su Internet, l'unico vero deterrente è cercare di irrobustirli nella loro identità, nella capacità di riconoscere il bello, di valutare e di rifiutare quello che potrebbe offendere la dignità loro e altrui».
Lei ha visto l'altro, e sempre contestato, film di Gibson, The Passion?
«Sì. L'ho trovato molto manierato, di una violenza estrema che pare studiata apposta per compiacere i gusti di una certa platea. Ma in Italia la violenza non è mai stata messa in discussione. Non ricordo un film proibito per quella ragione. Evidentemente non deve essere considerata pericolosa».
E difatti i suoi film sono stati messi sotto torchio, ma per ben altre ragioni
«L'episodio più recente è successo con L'ora di religione. Oggetto, una bestemmia. Se la togli il film passa per tutti, se no scatta il divieto, mi hanno chiaramente mandato a dire. Non l'ho tolta, e il film ha potuto girare solo in un circuito limitato. Poi, per la tv, quell'espressione ho dovuto toglierla. Altrimenti non sarebbe mai passato. Immagini di torture, di violenza, di impiccagioni sì, una bestemmia in un contesto di riflessione sul sacro, no. Un altro caso fu Il diavolo in corpo. La scena della fellatio, nella copia che presentai alla commissione di censura, era oscurata, non si vedeva quasi nulla. Passò. Ma nelle altre copie, quelle che uscirono nei cinema, la tenni più visibile. Diritto di difesa dalle ottusità dei moralizzatori ».
ANSA POL 05/01/2007 14.27.52
EDITORIA: LEFT; DOPO GRILLO NUMERO SU CONTRATTO GIORNALISTI (ANSA)
ROMA, 5 GEN - 'Left' avvia il suo corso guidato da Alberto Ferrigolo (direttore) e Andrea Purgatori (condirettore): oggi il primo numero firmato dalla nuova direzione ha in copertina Beppe Grillo, mentre il prossimo sara' dedicato alla difficile vertenza per il rinnovo del contratto di lavoro dei giornalisti. Il settimanale cambiera' presto anche nella sua veste grafica e sara' 'battezzato' a febbraio, annuncia Andrea Purgatori. Sul fronte dei contenuti, ampio spazio alle notizie e alle inchieste, e una promessa importante visto i precedenti: le opinioni non dovranno interferire, ne' confondersi in alcun modo con la linea del settimanale. ''Non ci saranno commistioni. Spero - dice Purgatori - che il trauma vissuto l'anno scorso dal giornale possa essere superato''. Il riferimento e' all'abbandono dei direttori che parteciparono direttamente al progetto 'Left': Giulietto Chiesa e Adalberto Minucci si sentirono costretti a lasciare il settimanale perche' consideravano troppo forte l'ingerenza in redazione di Massimo Fagioli, lo psicanalista 'eretico' una volta vicino a Marco Bellocchio. Questo discrimine e' stato oggetto di una lunga trattativa con gli editori, Luca Bonaccorsi e Ivan Gardini, ma sembra che chiarezza sia stata fatta e che si possa quindi puntare a un rilancio pieno del settimanale nato da 'Avvenimenti' che un tempo arrivava a vendere 70 mila copie. Grazie anche al mondo della satira al quale Purgatori e' particolarmente legato: ''C'e' bisogno di dare aria fresca ai cervelli e cercare di ragionare e far ragionare''. E non e' dunque un caso che il primo numero abbia in copertina Grillo e che fra le voci nuove ci sia quella di Diego Cugia. (ANSA). SN 05-GEN-07 14:22 NNN