Agi 20.1.07
Stazione Termini
(AGI) - CdV, 20 gen. - "Avevamo capito male: la principale stazione ferroviaria di Roma continuera' a chiamarsi Stazione Termini". L'Osservatore Romano risponde con ironia alla precisazione del sindaco di Roma Walter Veltroni, sul fatto che "la cerimonia avvenuta il 23 dicembre scorso, alla presenza del card. Tarcisio Bertone, segretario di Stato, e del card. Vicario Camillo Ruini, al di la' delle convinzioni degli stessi partecipanti, aveva il significato di una semplice dedica, materializzata attraverso la posa di due stele". "Per inciso - sottolinea la nota vaticana - le stele recano la scritta, chiarissima, 'Stazione Termini-Giovanni Paolo II'". Cio' nonostante, rileva l'Osservatore, Termini non si chiamera' "Stazione Giovanni Paolo II" ne' "Stazione Termini-Giovanni Paolo II". "Avevamo tutti capito male", continua l'articolo sottolineando che e' bastato che un cittadino dichiarasse di sentirsi offeso dalla nuova intitolazione della stazione. Un atto definito nella lettera alla quale il sindaco Veltroni ha risposto con la sua precisazione, "d'imperio tale da offendere i passeggeri laici e quelli di diverse confessioni religiose". "Qualche malizioso - afferma la nota - ha ricordato tutte le polemiche che nell'aprile del 2005 suscito' proprio l'idea di intitolare al compianto Papa la stazione ferroviaria, con i soliti ossessionati laicisti pronti ad alzare la voce". Puntigliosamente l'Osservatore ricorda che la decisione di intitolare al compianto Papa la stazione ferroviaria era stata osteggiata dai "soliti ossessionati laicisti pronti ad alzare la voce. Quei radicali che, come gia' accaduto per altre questioni, non si fanno sfuggire mai la ghiotta (e rara) occasione per dimostrare a se stessi e agli altri di esistere politicamente". Sono loro, scrive il quotidiano della Santa Sede, che "hanno accusato il sindaco di aver realizzato un blitz, profittando fra l'altro dello sciopero dei giornalisti proclamato il 23 dicembre scorso". Ma tutto questo non scusa il sindaco agli occhi del Vaticano: Veltroni "ha a sua volta colto l'occasione della lettera di quel cittadino per chiarire il suo pensiero su di un equivoco lasciato proliferare per troppo tempo. Ed ha, anzitutto, ricordato i tanti meriti di Giovanni Paolo II, tra i quali le parole spese contro la guerra, l'impegno per il dialogo tra le religioni, caratterizzati da un comune denominatore: il coraggio, quello della fede e quello delle idee. Un coraggio gigantesco, proprio dei Grandi della storia". (AGI)
Repubblica 22.1.07
"Le posizioni del segretario e del correntone sono entrambe nefaste, non sarà un congresso ma un referendum"
"La Quercia ormai è una caserma"
Ds, Angius lancia la terza mozione, attacchi a Fassino e Mussi
di Giovanna Casadio
ROMA - Li ha punti così sul vivo l´analisi di D´Alema e di Fassino sulla necessità di «andare oltre il socialismo» nel Partito democratico, che «i compagni della terza mozione» chiedono di non essere chiamati più «demoscettici» bensì «eurosocialisti». Gli eurosocialisti quindi, guidati da Gavino Angius, Massimo Brutti, da Mauro Zani e Franco Grillini, sfideranno nel congresso dei Ds di aprile Piero Fassino con la "mozione numero 3", attaccano anche la sinistra di Mussi e frenano sul Partito democratico: «Non possono essere un gruppo di intellettuali a decidere sul nuovo partito, e qualsiasi uscita o allontanamento dalla famiglia socialista europea è fuori discussione. Del resto, quando mai i socialisti hanno pensato di essere i soli depositari del cambiamento? La conseguenza però non è lo scioglimento: Blair, Zapatero o Schroeder non lo hanno fatto: Neppure i Ds si sciolgano», dice Angius mantenendo un po´ di suspense (deciderà a fine settimana) sulla propria candidatura alternativa a segretario. Che tuttavia sembra scontata.
La contrapposizione con Fassino è senza sconti. «C´è un modo di dirigere il partito che non condivido, un partito ridotto così è una caserma - accusa Angius - dove bisogna tacere e obbedire, dove si conduce una campagna sottilmente intimidatoria verso chi non la pensa nello stesso modo». La riunione della "terza mozione" è stata convocata ieri, non a caso due giorni dopo la direzione nazionale che ha visto la resa dei conti sulle regole per il congresso (è stato alla fine deciso il voto segreto e unico su mozione e segretario, come piaceva al leader della sinistra, Fabio Mussi) e il giorno dopo l´assemblea dei tremila segretari di sezione, sfoggio di forza e vitalità della Quercia.
È proprio quell´«andare oltre» il socialismo che accende il dibattito tra i riformisti. La Margherita apprezza. «Molto bene D´Alema», commenta il coordinatore Dl, Antonello Soro. In settimana Soro e gli altri "saggi" incaricati di scrivere il "Manifesto" del Pd si incontreranno di nuovo, la bozza di 12 pagine sarà ridotta. Nei Ds le acque restano agitate. «È un errore smantellare il riferimento al socialismo europeo, D´Alema non si rende conto che così smantella una cosa che c´è in nome di una che non c´è», denuncia Valdo Spini. Nicola Rossi, l´economista che ha restituito la tessera Ds, afferma di non essersene pentito e ribadisce le critiche al partito: «Non credo che i Ds siano un partito in salute ma continuo a ritenere che in Italia ci sia un disperato bisogno di un partito della sinistra riformista», argomenta in un´intervista su Raitre a "In mezz´ora". «Fu un errore puntare solo sull´antiberlusconismo durante i cinque anni di opposizione - osserva - Bisognava invece fare battaglie interne alla sinistra per sostenerne l´identità».
Dai «compagni della terza mozione» critiche alla sinistra di Mussi che con la "mozione due" dà «solo un alt al Pd», mentre «noi intendiamo condizionare il corso delle cose e alla fine ci ringrazieranno», sostiene Brutti. Al congresso non ci sarà un dibattito ma «soltanto una conta», e Zani, insiste: «Il congresso dei Ds deve essere sovrano, non ratificare decisioni prese a Orvieto». Lancia la proposta di scegliere nome e collocazione del Pd con un referendum. L´obiettivo è anche quello di allargare il nuovo soggetto politico ad altre forze, in primo luogo lo Sdi di Boselli ma anche a Di Pietro. Boselli per ora ipotizza un´intesa con il Nuovo Psi di De Michelis.
il Riformista 22.1.07
Editoriale
Movimenti. perché non è inutile ragionare ancora sul '77
Quegli ostili alieni che ci misero in crisi
Può anche risultare una stranezza, utilizzare queste righe per occuparci di quanto capitò in Italia (e solo in Italia: perché se il Sessantotto fu una febbre che prese la generazione dei baby boomers quasi sotto ogni cielo, il Settantasette fu, in sostanza, una storia italiana) trent’anni fa. Ma a me sembra proprio di no. E non solo perché in occasione del trentennale escono libri (non banali) e si sprecano le rievocazioni sui giornali, Riformista compreso. Il fatto è, «come eravamo» a parte, che il Settantasette fu davvero, anche se pochissimi in diretta se ne accorsero, un passaggio d’epoca, concluso il quale nulla, ma proprio nulla, sarebbe rimasto come prima. Questo furono ancora in meno a capirlo: e forse si può dire che una simile cecità abbia qualcosa da spartire con la crisi (della politica, dei partiti, della sinistra) dei decenni successivi, e pure con la nostra crisi attuale.
Intendiamoci. Non era facile. Anzi: era quasi impossibile, almeno sulla scorta della cultura politica di cui disponevamo. E la comparsa (non sporadica) della P38 davvero non aiutò quei pochi che, nonostante tutto, volevano cercare di capire meglio. Anzi: l’incapacità o il rifiuto di tanta parte del movimento di prendere pubbliche e non formali distanze da quanti teorizzavano e praticavano la guerriglia dettero forza e argomenti praticamente irresistibili alla tesi, al tempo più che maggioritaria, secondo la quale il movimento in questione era prima di tutto l’acqua in cui nuotavano indisturbati i pesci del terrorismo, e dunque, piuttosto che discettare, si trattava di prosciugare, e in fretta, quell’acqua. Tutto vero. Ma ancor più vero, forse, è che per molti motivi a quel movimento e a quella generazione, così diversa dai fratelli maggiori del Sessantotto, mancò qualsiasi tipo di interlocuzione politica, in primo luogo da parte della sinistra, in primo luogo da parte del Pci. Di un Pci che dopo aver superato, un anno prima, il 35 per cento dei voti, ritenne che il modo migliore, o forse l’unico, per utilizzarlo fosse la politica di unità nazionale, scomoda anticamera forse del compromesso storico o forse, chissà, di una democrazia dell’alternanza del futuro. Chiudendosi a riccio nei confronti di chi questa scelta la contestava, nella convinzione che, magari “oggettivamente”, lo facesse per contrastare “l’ascesa della classe operaia alla direzione dello Stato”: non a caso “diciannovismo” e “sovversivismo” furono le maledizioni più gettonate.
Ripeto. Era difficilissimo, quasi impossibile trovarli, degli interlocutori nel movimento. Ma, se non ci si provò neppure, non fu solo perché il movimento, tutto il movimento, a quella politica era fieramente avverso. Fu prima ancora, credo, per via del fatto che quel movimento e quella generazione apparivano (ci apparivano) letteralmente incomprensibili, del tutto diversi com’erano dalla gruppettistica dei primi anni Settanta. Così diversi da rendere inservibili, nonostante fossero oltre ogni dire estremisti, una categoria classica come quella dell’estremismo: quasi degli alieni che ci erano cresciuti attorno senza che ne avessimo il minimo sentore, ma degli alieni ostili. E più di tutto ci colpiva, come ha scritto Adriano Sofri, quel loro voler essere prima di tutto comunità, senza tema di vedersi ristretti in una sorta di riserva indiana: «Non aveva voglia, quel movimento, di conquistare il potere e nemmeno di guadagnare alla propria causa la maggioranza, ma di mettersi in proprio». Almeno fino a quando (e avvenne presto, ai primi di marzo, a Bologna) «la morte non diventò compagna di quella nuova comunità, e la diede in pegno al vecchio gioco della violenza». Già prima, però, l’incomunicabilità fu totale, e carica di ostilità (valga per tutti il ricordo di Luciano Lama all’università di Roma, ferocemente contestato e infine cacciato non tanto per la sua moderazione, quanto perché era il capo della Cgil). E se non si riuscì in alcun modo a comunicare fu pure perché quel movimento, quei giovani anticipavano a modo loro un mondo nuovo, il nostro, che di emancipazione del lavoro movimento operaio blocco storico egemonia strategia delle alleanze non si ricorda neanche più; e irridevano prima ancora di contestare non solo i sindacati ma i partiti, anzi, il sistema dei partiti, proprio quando questo si sentiva invincibile, e come si vide rapidamente non lo era. Si dice che, a differenza del Sessantotto, il Settantasette abbia lasciato poco o nulla, a parte il disastro di chi al suo riflusso credette di sottrarsi scegliendo la clandestinità terrorista. Non è così. Ci parlava anche (non solo) del futuro, il Settantasette. Anche per questo (non solo per questo, si capisce) fu indagato così poco.
Repubblica 22.1.07
La Cina raccontata da Federico Rampini "Alle otto della sera" su Radiodue
Da Confucio al capitalismo sotto l'ombra di Mao Zedong
di Carlo Ciavoni
Nonostante il suo lungo passato, la Cina continua ad offrire un´immagine di sé ancora con troppe zone oscure. Oggi è sulla ribalta del pianeta, per il suo vorticoso decollo economico, tanto che il suo destino sembra essere proprio quello di essere il prossimo "ombelico del mondo" in questo XXI secolo. Ecco allora l´esigenza di conoscerla meglio, anche attraverso l´analisi del suo passato. Un compito che Radiodue ha accettato subito con uno dei suoi programmi più godibili e fortunati ("Alle otto della sera") che propone venti puntate, in onda dal lunedì al venerdì, fino al 9 febbraio, intitolato "Chung Kuo / Cina, l´Impero di mezzo", scritto da Federico Rampini.
Il giornalista e scrittore che vive a Pechino, corrispondente di Repubblica, racconta la vera storia di Confucio, un pensatore laico la cui influenza nel mondo rivaleggia con quella di Cristo e Maometto e che oggi conosce un revival davvero inaspettato. E ancora Gengis Khan, il Kublai Khan, Marco Polo, la grande epopea delle scoperte navali della dinastia Ming, tutti capitoli di una lunga storia che vide la Cina come il paese più avanzato e sviluppato del mondo. Arrivò il ‘700 e poi l´800, due secoli che segnarono un declino crudele della nazione, già allora la più popolosa del mondo, umiliata e saccheggiata sia dagli imperialismi occidentali che dal Giappone. Si scrissero così, per circa duecento anni, pagine di miseria, decadenza, abiezione morale, schiavismo ed economia dell´oppio. Rampini, sera dopo sera, ricorda quegli orrori – protratti fino alla prima metà del Novecento – sottolineando come riportarli alla memoria sia decisivo per capire la vittoria di Mao Zedong, l´artefice della rivoluzione comunista. L´ombra di Mao continua intanto ad incombere sulla Cina di oggi. La sua eredità è tuttora vivissima, malgrado l´evoluzione marcatamente capitalistica del paese. Ma portare alla luce alcuni aspetti della politica maoista, come l´invasione del Tibet o la Rivoluzione culturale, risulta importante anche per svelare il volto opaco del miracolo economico cinese. Un´opacità che preoccupa, se non altro per il fatto che, per la prima volta nella storia contemporanea, l´economia globale rischia di essere dominata da un paese non democratico capace, al momento, di esportare solo modelli autoritari. Oggi andrà in onda la sesta puntata del ciclo, dopo una prima fase in cui si è introdotta la figura di Confucio, tra interrogativi legati al dubbio se sia stato più di destra o di sinistra e sulle ragioni per cui oggi la sua immagine viene così rilanciata dal regime di Pechino. Stasera entrano in scena il grande ammiraglio Zheng He e le esplorazioni navali cinesi. Ovvero: chi scoprì l'America per primo?
Panorama 15.1.07
Dentro la mente. Incontro con un Nobel
Consigli per una buona memoria
di Luca Sciortino
Eric Kandel, scienziato famoso per i suoi studi sulla capacità umana di ricordare, ne svela i meccanismi segreti
Il destino ha voluto così.
Che tra gli ebrei fuggiti agli orrori del nazismo, fedeli al monito «Non dimenticare mai», ci fosse proprio chi ha capito le basi biologiche di questa esortazione, ovvero chi ha vinto il Nobel per aver dato il massimo contributo alla comprensione dei processi del cervello che ci mettono in grado di ricordare.
Eric Kandel, professore alla Columbia University di New York, a 9 anni emigrò negli Usa, poco dopo l'unione dell'Austria con il Terzo Reich. Proponendosi di comprendere quanto era accaduto nell'Europa della Seconda guerra mondiale, si laureò in storia e letteratura europea; poi, nel «tentativo di capire le radici spesso irrazionali delle motivazioni umane», si interessò di psicoanalisi.
Infine si dedicò alla neurobiologia. Studiando un modello semplice, la lumaca di mare (Aplysia), ha chiarito molti dei meccanismi genetici e molecolari alla base dei processi di memorizzazione.
Il suo nuovo libro Alla ricerca della memoria (Codice) è un'autobiografia intellettuale o, con un gioco di parole, la memoria di chi alla memoria ha dedicato una vita.
Nel suo ultimo libro c'è tutto quanto è rimasto impresso nella sua memoria. Alla fine di tutta la vita, dunque, non restano che pochi ricordi?
In un certo senso sì. Il cervello si è evoluto per immagazzinare informazioni, ma anche per liberarsene. Troppi ricordi disturbano il cervello e le persone che possiedono moltissima memoria non hanno vita facile.
Come quell'Ireneo Funes che in un racconto di Jorge Luis Borges ricordava ogni istante della sua vita?
E che soffriva: le cose non importanti interferiscono con il pensiero. Siamo fatti in modo che l'esperienza, per passare dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine, deve essere focalizzata attentamente o rivissuta. Inoltre la memoria decade nel tempo.
Supponiamo di vivere un'esperienza intensa: come viene fissata una traccia indelebile nel nostro cervello?
Accade che vi è un'alterazione reversibile nella comunicazione tra cellule nervose. Ripetere un'esperienza accende dei geni che codificano per proteine che producono una crescita di nuove connessioni tra cellule nervose, cambiando di fatto l'anatomia del cervello.
E come mai la musica o un profumo fanno affiorare ricordi anche contro la nostra volontà?
È il meccanismo con cui i ricordi vengono alla luce: uno stimolo esterno mette in moto il processo del ricordo. Musica e profumi sono tra gli stimoli più forti.
Perché invecchiando la memoria a breve termine si fa più debole?
Perdiamo cellule nervose e neurotrasmettitori come la dopamina o la serotonina e diventiamo suscettibili a malattie che compromettono la memoria.
Come si può rimediare?
In vari modi: impegnando il cervello e cercando di rimanere in forma fisica. Diverse aziende, tra cui la mia, lavorano per produrre farmaci che, si spera, potranno essere di aiuto.
Quali sono i suoi interessi adesso?
Il mio gruppo ha identificato nei topi una serie di geni che hanno un ruolo nel far scattare la paura appresa o istintiva. Sono geni che potrebbero in futuro divenire il bersaglio di farmaci che combattono l'ansia e inducono una sensazione di sicurezza e rilassamento.
Ma la paura cosa ha a che fare con la memoria?
Molto. Supponga di aver avuto un'esperienza traumatica nella vecchiaia. Potrebbe averne perso le componenti cognitive: ma ogni tanto, senza sapere come mai, un viso, un odore o altro richiama in lei qualcosa di quell'evento scatenando una risposta inappropriata, come la paura. Ciò avviene perché si conservano esperienze emozionali oltre che cognitive, solo che le prime sono radicate nell'inconscio.
Viene in mente la psicoanalisi...
Un mio antico interesse.
Eppure, filosofi come Karl Popper hanno obiettato che la psicoanalisi non è scienza perché le sue affermazioni non possono essere empiricamente controllabili.
Concordo, ma penso pure che se non facciamo ricerche sulla psicoanalisi questa rischierà di divenire una filosofia. Invece la si può far diventare un ramo della scienza. Per esempio, con le tecniche del brain imaging si potrebbe esplorare quale sia il risultato di una psicoterapia. Ma questo è il futuro.
adnkronos.com 21.1.07
Filosofi: Hegel, 200 anni fa la "Fenomenologia dello Spirito"
Roma, 21 gen. - (Adnkronos) - Duecento anni fa, nel 1807, il filosofo tedesco Friedrich Hegel (1770-1831) pubblicava ''La fenomenologia dello spirito'', da lui presentata come propedeutica rispetto al sistema filosofico. Aveva infatti il compito di accompagnare la ''coscienza'' naturale, dai suoi gradi piu' immediati e poveri fino al riconoscimento del ''sapere assoluto'', ossia di quel superamento delle scissioni che solo rende possibile la ''scienza speculativa''. L'opera ha avuto un influsso straordinario su tutto lo sviluppo successivo della filosofia moderna.
''La fenomenologia dello spirito'' e' definita da Hegel come ''storia romanzata della coscienza che attraverso contrasti, scissioni, quindi infelicita' e dolore esce dalla sua individualita' e raggiunge l'universalita', riconoscendosi come ragione che e' realta' e realta' che e' ragione''. In essa ritornano, trovando un piu' ampio sviluppo, due presupposti gia' presenti nelle opere precedenti.
In primis, la ''Fenomenologia'' obbedisce al principio per cui ''il vero e' l'intero'': la verita' si consegue soltanto quando i diversi aspetti parziali della realta' sono considerati non piu' nella loro astratta separazione, bensi' come momenti e articolazioni della totalita' di cui fanno parte. In secondo luogo, Hegel ribadisce che questa totalita', che e' oggetto del vero sapere, non e' qualcosa di gia' dato, che staticamente si offra all'analisi del soggetto come una realta' diversa e contrapposta ad esso. Al contrario, la conoscenza della totalita' assoluta in cui consiste la verita', e' il risultato di un processo gnoseologico, nel quale il soggetto che conosce e' intimamente implicato.