martedì 19 dicembre 2006

il manifesto 19.12.06
Il regno dei preti
di Marco d'Eramo


«Odio il regno dei borghesi, il regno dei poliziotti e dei preti, ma odio ancora di più chi come me non lo odia con tutte le sue forze». Così scriveva nel 1931 il poeta francese Paul Eluard. Si sentirebbe davvero molto solo nell'Italia di oggi Eluard, soprattutto nei giornali che servili corteggiano i borghesi, sommessi obbediscono ai poliziotti, e untuosi s'inchinano al cospetto dei prelati. Non c'è telegiornale «laico» da cui non imperversi il cardinale di turno. Non c'è elezione in cui la Curia non ponga condizioni per concedere il suo appoggio. Non c'è politico di sinistra che non si riscopra una fede forse ben nascosta per decenni, ma pur sempre ardente come brace sotto la cenere (Piero Fassino e Fausto Bertinotti docent). Mangiapreti di ieri come l'ex radicale Francesco Rutelli sono diventati «ranocchie d'acquasantiera», secondo l'espressione francese. Fini letterati che cantarono la Finis Austriae, dell'impero asburgico sembrano rimpiangere anche la cultura tridentina, come Cluadio Magris che sul Corriere definisce Benedetto XVI «molto meno conservatore di quanto si creda», forse perché Ratzinger è intellettuale mitteleuropeo.Ma il culmine ineguagliato dell'ossequiosità al Vaticano lo si coglie nel variegato fronte contrario ai Pacs, che brandisce lo «scandalo» delle coppie omosessuali per negare status legale e legittimo a tutte le unioni di fatto, anche quelle eterosessuali. Come spesso gli è capitato nel corso della storia, il Vaticano combatte un'altra battaglia di retroguardia, e già persa. Basta contare i bambini nati fuori dal matrimonio nei paesi cattolici d'Europa. Escludiamo pure la Francia giacobina, in cui i bimbi nati da mamme non sposate sono il 48% del totale. Ma nella cattolicissima Polonia sono il 37%; nell'ultra clericale Irlanda il 32 %; nel Portogallo del miracolo di Fatima il 18,4%. E in Italia sono il 14%, cioè un bambino su sei. E, per quanto inattendibili e sottostimati siano i dati dell'Istat (in tutti gli altri paesi la percentuale di convivenze di fatto è pari a quella dei bambini nati fuori dal matrimonio, solo in Italia è misteriosamente meno della metà), essi indicano pur sempre che negli ultimi 10 anni tali unioni sono triplicate.Quel che queste nude cifre dicono con inoppugnabile chiarezza è che ormai la Curia non ha più contatto con il diffuso sentire dei cattolici europei. È sconnessa dal suo gregge. Come negli anni '70, su temi quali divorzio e aborto non era semplicemente più ascoltata dai suoi fedeli. E oggi, solo per compiacere il clero, e sempre per l'antico vizio di correre in soccorso dei potenti, o supposti tali, i politici del centrosinistra s'incamminano su questa stessa via di estraniazione del comune sentire di polacchi e irlandesi, portoghesi e italiani. Se la chiesa maledicesse le biciclette, è sicuro che i Mastella, i Casini, i Rutelli (con qualche diessino di scorta) proporrebbero un disegno legge per limitarne l'uso. E non è una battuta balzana, visto che a fine '800 L'Osservatore Romano si scagliò con inaudita violenza contro il «bicicletto», come allora si chiamava, considerato simbolo della sovversione sociale e del disordine moderno. Chissà se i nostri pronipoti reagiranno alle condanne dei Pacs con la stessa ironica bonomia con cui noi leggiamo gli anatemi contro il «velocipedismo». Ma sui Pacs noi non possiamo ancora sorridere.

l'Unità 19.12.06
Partito Democratico Targetti e la nuova questione cattolica
di Carlo Flamigni e Maurizio Mori


Caro Targetti,solo falsando o edulcorando la realtà italiana si può accusare di «conservatorismo» chi mette in luce che non si può formare il Pd senza prima aver chiarito la linea sulle questioni attinenti l’etica e la laicità, in risposta alle difficoltà poste dalla «nuova questione cattolica». I preti hanno il sacrosanto diritto (come tutti) di esprimere le proprie opinioni, ma non possono pretendere che l’etica cattolica regoli la vita pubblica e assuma una valenza politica come invece fanno quando gettano fango sulle posizioni laiche o pongono precisi veti su chi sostiene posizioni «non gradite». L’elenco in proposito è ormai così lungo che non può, caro Targetti, essere più ignorato.Poiché i progressi della scienza impongono riforme strutturali, il Pd non può continuare a lasciare la libertà di coscienza sui cosiddetti «temi eticamente sensibili» o restare ostaggio del ricatto di cattolici pronti a passare all’opposizione. Questo porta a soluzioni negative (vedi legge sulla fecondazione assistita) o all’immobilità (vedi divorzio breve!), oppure, nella più rosee delle soluzioni, a vedere le riforme richieste come un «male minore» da accettare turandosi il naso, e non come un valore positivo di cui essere orgogliosi. Invece di avere una precisa impronta progressista, le nuove leggi sarebbero dei pataracchi frutto di estenuanti compromessi, con un danno per la crescita civile della società italiana. Le questioni etiche e bioetiche vanno discusse prima, perché vogliamo che il Pd sia progressista, e non ancorato al conservatorismo di chi continua a proporre come «non negoziabili» valori che ormai sono fuori dalla storia e bloccano la vita sociale.

l'Unità Firenze 19.12.06
Tarkovskij, Firenze non dimentica
di Edoardo Semmola


A vent’anni dalla morte del grande regista russo, la sua città d’adozione gli dedica da stasera quattro appuntamenti
Non lo possiamo chiamare un fiorentino d’adozione. Perchè quello di Andrej Tarkovskij con la terra toscana, più che un rapporto filiale è stata una vera storia d’amore. A questo fiorentino, dunque, di seconde nozze, autore di indimenticabili pellicole cinematografiche come Solaris e Nostalghia, Firenze ha dedicato una targa commemorativa e 4 eventi per ricordarlo a 20 anni dalla morte. Come ha affermato l’assessore alla toponomastica Eugenio Giani, «Firenze è onorata di aver fra i suoi concittadini il grande regista russo. Per questa ragione, per ricordarne la sua figura e il suo rapporto con la città, come Amministrazione comunale abbiamo voluto l’apposizione di una lapide in via San Niccolò 91, dove lui visse. La cerimonia si svolgerà il prossimo 29 dicembre». In contemporanea è stato aperto al pubblico l’Archivio Tarkovskij, in passato oggetto di aspre contese tra Firenze e Mosca. L’archivio, unico in Europa e tempio sacro di tutta l’eredità del regista esistenzialista russo, sarà custodito in via dell’Oriuolo nei locali che il comune di Firenze ha riservato per le attività e gli uffici dell’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij. Stasera alle 21 al Teatro Goldoni il primo dei quattro appuntamenti di questo ventennale con un concerto in prima assoluta: Stefano Maurizi e Talya G.A con il World Music Quartet. Mentre venerdì 29 alle 21, sempre al Goldoni, sarà la volta del pianista e compositore contemporaneo francese, François Couturier con Nostalgia - Song for Tarkovsky. Innamorato da sempre del cinema di Tarkovskij, Couturier ha realizzato 12 brani per pianoforte, violoncello, sassofono soprano e fisarmonica, ispirati alle immagini e all’opera del maestro russo. Il concerto è stato realizzato in collaborazione con l’etichetta Ecm Nostalgia il cui direttore, Manfred Eicher, sarà presente in teatro insieme a Stefano Maurizi del World Music Quartet. Dal 19 gennaio al 18 febbraio sarà poi allestita presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze la mostra fotografica dal titolo Lo specchio della memoria. Prendendo spunto dal film autobiografico del regista, Lo specchio appunto, la mostra propone 60 vecchie fotografie della famiglia Tarkovskij risalenti alla prima metà del Novecento.

Repubblica 19.12.06
I simboli universali della natività
IL BUIO DELLA GROTTA E LA LUCE DELLA NASCITA
di UMBERTO GALIMBERTI


Tempo. La venuta di Cristo ha diviso in due il tempo della storia: il ciclo della natura ha lasciato il posto alla promessa del futuro

La nascita non è mai così sicura come la morte. Si può infatti morire anche senza essere mai nati, si può passare nella vita come giorni senz´alba. Il richiamo alla nascita, che il cristianesimo ripropone ogni anno alla cultura dell´Occidente sul registro della memoria religiosa e della festa, allude a quel compito che Pablo Neruda, senza troppa enfasi, affidò a uno dei suoi versi: «È per rinascere che siamo nati». E così la vita riassume la sua serietà, sottraendosi all´ingenuità dei buoni sentimenti con cui cerchiamo, ogni anno di questi tempi, di recitare la bontà, la serenità e la pace; un po´ goffamente, come capita a chi non è proprio di casa tra queste disposizioni d´animo.
Venire alla luce da una grotta, questo evento che il cristianesimo celebra il 25 dicembre, era già noto al mondo orientale e poi greco-romano, che in quella data festeggiava la nascita di Mitra, il dio della luce celeste, garante dei giuramenti, custode della verità, avversario della menzogna.
Amico del sole, Mitra è rappresentato dai bassorilievi come colui che inizia il sole, inginocchiato davanti a lui, con un braccio steso sul suo capo, affinché il sole apprenda il suo corso e lo persegua con regolarità e senza sconvolgimenti. Era preoccupazione del mondo antico che fosse assicurata la regolarità del ciclo, che il tempo trascorresse nella regolarità delle sue cadenze, che solo il sole con le sue albe e i suoi tramonti poteva assicurare. Mitra siede al banchetto con il sole, stringendo con lui un patto, e poi sale sul suo cocchio per percorrere insieme gli spazi celesti regolati nelle loro distanze dalla giusta misura. Il culto di Mitra non ebbe templi, ma grotte, in origine naturali, e poi artificialmente riprodotte nel sottosuolo. Dall´oscurità della terra alla luminosità del cielo. Questo è il simbolo di Mitra e il simbolo di Gesù.
Ma probabilmente è il simbolo di ogni uomo che per nascere deve "venire alla luce" da quel "fondo oscuro" che è il ventre della madre, l´antro dove siamo concepiti per una nascita, quella nascita che da sola non basta e che invoca una rinascita per trovare il suo senso. La festa di Mitra e di Gesù ribadisce questa vertigine simbolica dove ciascuno deve diventare antro di se stesso, grotta di generazione, notte buia che ha in vista il nuovo giorno, il dies natalis.
I simboli martellano la nostra depressione, non ci lasciano nella serena amicizia che spesso intrecciamo con la rinuncia. I simboli ci costringono a vivere, organizzano feste gioiose per riportarci alla vita, quando la nostra partecipazione all´esistenza non ha più i toni forti dell´entusiasmo, o quelli seducenti della voluttà. I simboli, questa macchina collettiva di vita, a cui interessa solo la vita, la vita di tutti, la vita del gruppo, del genere, dell´umanità, i simboli che cosa sanno della mia morte? Quel giorno, per ognuno di noi, potrebbe anche cadere il sole. Un altro antro è già pronto. L´antro di un´altra madre: madre-terra. Mitra, con la sua alleanza con il sole, voleva garantire la regolarità del ciclo, Gesù si congeda dal ciclo e dalla sua regolarità per annunciare un nuovo tempo: nuovi cieli e nuove terre. La storia ha un sussulto e si lacera in prima e dopo Cristo.
Nel ciclo ogni epoca non ha una finalità, ma semplicemente una fine. A sancirla è la morte, il giudice implacabile che amministra il ciclo, non nel senso che lo destina a qualcosa, ma nel senso che lo ribadisce come eterno ritorno. Nel ciclo non c´è rimpianto e non c´è attesa. La trama che lo percorre non ha aspettative né pentimenti. La temporalità che esprime è la pura e semplice regolarità del ciclo, dove non c´è futuro che non sia la pura e semplice ripresa del passato che il presente ribadisce. Non c´è nulla da attendere se non ciò che deve ritornare. Questa è la scansione del tempo prima di Cristo.
Dopo Cristo si fa strada una parola dirompente che spezza la ciclicità del tempo e la sua regolarità. Il suo suono è éschaton, una parola che nella direzione dello spazio significa "lontano" e nella direzione del tempo significa "ultimo". L´éschaton è dunque un tempo fuori portata, dove solo alla fine può apparire il fine di tutto ciò che è accaduto nel tempo, che a questo punto cessa di essere puro divenire per tradursi in storia. Guardare il tempo come storia è possibile solo se già si è ospitati nella prospettiva escatologica, dove il primato del fine sulla fine irradia sul tempo la figura del senso. Alla fine si adempie ciò che all´inizio era stato annunciato.
Inaugurando il punto di vista del fine che si realizza alla fine, il cristianesimo genera una temporalità che è assoluto futuro. E così non solo si separa dalle mitologie primitive che leggono il tempo a partire dal passato, da un paradiso perduto, ma proietta la salvezza in quel possibile futuro a cui si agganciano sia l´utopia sia la rivoluzione, quando la nuova figurazione del tempo, inaugurata dal cristianesimo, si contamina con l´ateismo della speranza.
Per lontane che sembrino, utopia e rivoluzione sono eventi cristiani, appartengono al tempo dopo Cristo, scavano il motivo della speranza e della rinascita, sondano possibilità di salvezza, credono che la storia abbia un senso, guardano con sospetto il nietzschiano "tempo senza meta". L´Occidente è stato sedotto da questo nuovo modello di temporalità e, in versione cristiana, utopica o rivoluzionaria, celebra nel natale non il ritmo del ritorno, ma l´atmosfera della rinascita, l´entusiasmo di ciò che ancora è in grado di promettere il futuro: la promessa del tempo.
Non guardiamo il natale con occhi innocenti. Non nascondiamoci dietro lo sguardo dei bambini. Nel loro incanto sappiamo che c´è provvisorietà e un po´ d´inganno. Una festa può essere così universale solo se raccoglie le metafore di base dell´umano e non solo semplicità e innocenza. Di questi temi ne abbiamo percorsi alcuni. Siamo partiti da una grotta da cui presero le mosse sia Mitra sia Gesù, ma subito dai loro messaggi siamo stati scaraventati da Mitra in cielo a seguire l´andamento del sole, da Gesù a seguire il percorso della storia sulla terra. Il tempo si è spaccato in due, la natura e il suo ciclo hanno ceduto al futuro e alla sua promessa. Tornati tra gli uomini e alle loro quotidiane cadenze, li abbiamo seguiti nei loro passi fuori dalla solitudine, in cerca d´amore. Un amore universale per un giorno di rinascita. Ma torniamo all´inizio: il natale non è nato per la confezione dei buoni sentimenti. Il timbro di questa festa è molto più forte: in gioco c´è l´uomo e la sua storia guardati da un punto di vista molto esigente. È il punto di vista per cui: "Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati".

Repubblica 19.12.06
La festa religiosa e il rito pagano
Cosa significa per noi la nascita di Cristo
di Corrado Augias e Mauro Pesce


Per i credenti un giorno che evoca l'evento fondamentale della fede
Per la società una tradizione che rischia di smarrire il senso originario

Se si considera la figura di Gesù esclusivamente dal punto di vista storico, è possibile, entro certi limiti, dire dove, quando, da chi egli sia nato. Il suo nome in ebraico è Yoshua ben Joseph. Gesù infatti viene dal greco Jesùs, calco del nome ebraico Jeshu, abbreviativo di Yeoshua. Quanto a "Cristo" riflette la parola greca Christòs, che traduce l´ebraico Mashiah, cioè "messia"; vuol dire "unto" ed è uno degli attributi che a Gesù sono stati dati. I fedeli spesso pensano che "Cristo" sia un nome di persona, in realtà è un titolo che indica un ruolo, appunto quello di "messia". L´impressione che danno i racconti dei Vangeli di Marco, Luca e Matteo è che Gesù sia nato in Galilea, cioè nel Nord della Terra d´Israele, verosimilmente a Nazareth o che, comunque, lì abbia vissuto a lungo con la famiglia. Giovanni invece colloca sua madre Maria sempre in Galilea ma nel villaggio di Cana. E Betlemme? Sulla base di una valutazione solo storica l´ipotesi di una nascita a Betlemme è debole. Solo due vangeli, Matteo e Luca, parlano diffusamente della nascita e, dei due, è Matteo che rende esplicite le ragioni per le quali quel minuscolo villaggio è stato scelto. In un libro della Bibbia ebraica (Michea, 5,1) è scritto: «Ma tu, Betlemme di Efrata,/ la più piccola tra i clan di Giuda,/ da te uscirà per me/ colui che dovrà regnare sopra Israele». I vangeli sono resoconti che hanno lo scopo di suscitare la fede in Gesù detto il Cristo, colui che l´onnipotenza divina ha fatto risorgere dai morti. A questa luce, anche la nascita in Betlemme diventa un dato teologico più che biografico. Gesù doveva nascere in quel minuscolo villaggio perché lì le scritture avevano profetizzato che sarebbe venuto al mondo il futuro re d´Israele.
Nato quando? Poiché siamo nell´anno 2006 dell´era cristiana (5766 dell´era ebraica) dovremmo pensare che egli sia nato 2006 anni fa (cioè nel 3760 d´Israele). Gesù in realtà è nato verso gli ultimi anni del regno d´Erode il quale morì nel 4 a.C. circa. Dunque dovremmo essere come minimo nel 2010, se davvero contassimo a partire dalla sua nascita. Nato il 25 dicembre come ci apprestiamo a celebrare tra pochi giorni? È anche questa una data discutibile. Più o meno in quel giorno cade il solstizio d´inverno dopo il quale le giornate cominciano ad allungarsi; la terra per dir così riprende il suo cammino verso la primavera. Il 25 dicembre è per conseguenza una data simbolica, i romani la definivano del "sol invictus". Infatti anche un altro dio si diceva fosse nato in quel giorno: il misterioso Mitra, divinità benevola che ebbe largo seguito a Roma. La religione a lui ispirata, il mitraismo, contese a lungo il primato al cristianesimo. Una delle leggende diceva che aveva preso forma nel ventre di una vergine; sempre secondo la leggenda, sarebbe tornato in cielo all´età di 33 anni. Del resto solo intorno al 335 d.C., il 25 dicembre venne accettato dalla chiesa come effettiva data di nascita di Gesù.
Nato da una vergine? Per Giovanni, Giuseppe sembra essere il padre fisico di Gesù. Per giustificare l´origine divina di Gesù questo vangelo non ricorre alla nascita verginale. La teologia ha discusso per secoli su questo punto sostenendo che Giuseppe non sarebbe il vero padre, perché Gesù, secondo i vangeli di Luca e Matteo, sarebbe nato in modo miracoloso da una vergine, grazie all´intervento dello Spirito santo. Come spiegare, al di fuori di un´obbedienza dogmatica, un´ipotesi così ardita? Il termine ebraico di riferimento è almàh che vuol dire "giovane donna" e, se si vuole, vergine in quanto giovane donna. Solo che almàh è stato tradotto in greco con "parthenos", che significa "virgo intacta", a dispetto del fatto che in numerose occasioni i vangeli parlino dei fratelli e delle sorelle di Gesù.
Gesù detto il Cristo, era in primo luogo un profeta ebreo, figlio di quella fede, obbediente in tutto alla Torah, ma nello stesso tempo profondamente innovatore, consapevole di possedere qualità straordinarie, ansioso di conoscere da Dio quale uso dovesse farne. Secondo un documento della Santa Sede del 1985: «Gesù era un ebreo e lo è rimasto sempre».
È assai probabile che egli parlasse il dialetto della sua regione, vale a dire il dialetto aramaico della Galilea. Sappiamo che frequentava le sinagoghe ed era capace di leggere i testi biblici, dunque conosceva anche l´ebraico, lingua della Bibbia. Quale diffusione avesse l´ebraico è materia di discussione. Diversi studiosi sostengono che era la lingua corrente. Altri, invece, magari di tendenza antisionista se non proprio antisemita, sostengono che l´ebraico non era più una lingua parlata. Nel complesso possiamo descrivere la situazione come diffusamente multilingue conseguenza di una certa ellenizzazione della Galilea. In ogni caso alcuni indizi nei vangeli sembrano indicare che Gesù parlasse non l´ebraico, ma l´aramaico-galileo. Inoltre conosceva forse un po´ di greco e anche qualche elemento di latino. Infatti non bisogna mai dimenticare, leggendo i vangeli, che la Terra d´Israele ai tempi di Gesù era militarmente occupata dalle truppe romane, che a Gerusalemme risiedeva un procuratore (il famigerato Ponzio Pilato) il quale dipendeva a sua volta dal governatore della Siria. Imperatore regnante in quegli anni era Tiberio.
Gli storici discutono sulle forme e sui limiti del dominio romano. Alcuni tendono a limitare la presenza fisica dei soldati romani in Galilea. Da un punto di vista politico, comunque, quei territori erano dominati dalla potenza romana ed Erode ne era lo strumento. Gesù viveva in una situazione multiculturale ed era ben consapevole dell´importanza di questo dominio. Se non si tiene conto di questo sfondo la sua azione diventa incomprensibile anche se bisogna aggiungere che, vivente Gesù, non si ebbero episodi di violenta rivolta antiromana come quelli che ci saranno nei quaranta anni successivi.
Il giudaismo di quei tempi attribuiva certo al messia una funzione politica, ma in modi molto vari e non sempre diretti. La funzione politica era invece chiara in figure designate con appellativi esplicitamente politici, come ad esempio "re". I testi però non dicono con chiarezza se Gesù si sia mai considerato un messia. È come se Gesù, che certamente si considerava inviato da Dio con una missione particolare, stranamente non avesse scelto in modo esplicito questo titolo per sé stesso. Messia infatti è usato piuttosto dai suoi discepoli. Anzi, in alcune occasioni si ha l´impressione che egli cerchi d´impedire dichiarazioni esplicite sulla sua dignità messianica. Non è facile definire la sua fisionomia anche perché nella letteratura del primo cristianesimo gli vengono attribuiti diversi altri titoli, come quello di profeta o di figlio di Dio. Anche questi vanno ovviamente interpretati nel contesto storico e religioso dell´epoca, non secondo concezioni cristiane successive.

Repubblica 19.12.06
La festa dei bambini e quella degli adulti
Il nostro stupore di fronte al Natale
di Joaquìn Navarro-Valls


Mistero La nascita di Gesù ci mette davanti al mistero che si cela dietro la venuta al mondo di un uomo: la gratuità del dono

Tra le molte storie che narrano l´origine di Babbo Natale particolarmente significativa è quella dello scrittore popolare tedesco Hermann Löns.
Babbo Natale se ne va triste per i boschi nella neve ed incontra Gesù Bambino. L´appuntamento tra i due ricorre ogni anno. Ma questa volta, Babbo Natale ha qualcosa che non va: è triste.
Davanti all´anziano sconfortato per la noia del suo girovagare di casa in casa e di luogo in luogo, oppresso dal peso degli anni, Gesù rimane colpito. Allora, decide di consolarlo. Guardandosi intorno, vede uno splendido albero e glielo indica.
Vincendo lo scetticismo di Babbo Natale, Gesù Bambino comincia a decorare l´albero, addobbandolo e facendolo splendidamente colmo di luci, palline e regali da portare nelle case della gente. Questa ingegnosa invenzione di Gesù Bambino consola e solleva Babbo Natale, che può dire soddisfatto: "Ecco! Finalmente qualcosa di nuovo!".
Arrivati in paese, Babbo Natale e Gesù Bambino giungono in una casetta, aprono lentamente la porta ed entrano. Pongono al centro della sala l´albero decorato e si addormentano. Al risveglio, il padrone di casa rimane stupefatto dalla bellezza che vede e decide di accendere le luci dell´albero. Davanti alla gioia incontenibile dei suoi, tutto assume finalmente un clima di festa. Sia l´uomo e la sua famiglia e sia Babbo Natale si rivolgono a Gesù appagati e grati per il bellissimo dono di serenità e di felicità che hanno ricevuto.
Questa storia parla di un aspetto rilevante del Natale.
La ricerca della cosa insolita ed ambita e la soddisfazione di una sorpresa ricevuta da qualcuno sono infatti ingredienti essenziali della festa.
Il fatto emerge anche in altre narrazioni popolari e rimanda direttamente all´allestimento del presepe. In questo caso, l´origine della devozione spiega bene il significato della solennità.
San Francesco, dopo il suo viaggio a Betlemme, rimasto stupefatto dai luoghi e dallo scenario della natività che aveva visto, fece allestire a Rieti una rappresentazione figurata della nascita di Gesù in occasione del Natale del 1223. Il suggestivo evento colpì tantissimo la gente. Infatti, anche Giotto ha reso immortale l´avvenimento nello splendido affresco che orna la Basilica Superiore di Assisi. L´allestimento del presepe, successivamente, ha preso rapidamente piede con popolarità, diffondendosi ben presto come una tradizione.
Il motivo del trionfo è forse relativo al fatto che il presepe è capace immediatamente di far rivivere con la medesima intensità percepita da Francesco l´immagine della Natività, ogni anno rievocata e riproposta. Anche in questo caso, oltre lo stupore generale, dietro il ricordo scenografico della raffigurazione si nasconde il significato profondo di ciò che esprime per l´uomo la Natività.
Ogni bambino, concentrato davanti alle statuine del presepe, apprende molti aspetti fondamentali della sua vita. Dinanzi alla raffigurazione scenica dell´Avvento viene trasportato all´interno del significato autentico della nascita di una nuova vita, della fragilità ma soprattutto della gratuità dell´esistenza umana.
La Natività è in fondo la figura emblematica della bella sorpresa. La Natività è la celebrazione e l´attesa rituale della felicità provocata da l´unico evento capace di trasformare realmente le cose: l´arrivo inaspettato di qualcuno che ci trascende. La novità della nascita di Gesù spiega chiaramente quale mistero si cela all´interno della nascita: il carattere gratuito della donazione.
E´ chiaro che davanti allo spettacolo del presepe nessuno crede veramente di avere a che fare esclusivamente con una ricorrenza, ma sente di essere trasportato nell´aspetto più intimo e profondo della vita personale, che si esprime nell´inesorabile consumarsi del tempo.
Proprio per questo il Natale non è soltanto la festa per eccellenza dei bambini, ma è anche la festa degli adulti che vengono fermati per un momento dallo scorrere dell´immanenza.
I grandi, totalmente immessi nelle loro attività, sono distolti dalla grande novità, un po´ come avviene per i pastori del presepe. Quello che accade non li lascia indifferenti, ma li coinvolge e li trascina fino a scoprire il senso ultimo della loro esistenza, liberandoli da se stessi e dal proprio irrilevante solipsismo.
Come per i Re Magi, anche per noi la certezza sull´imminente arrivo della persona attesa guida il nostro cammino, lento, costante, perseverante, e ci apre finalmente alla presenza dell´Altro.
Certo al Natale si accompagnano inaudite implicazioni teologiche, ma forse proprio per questo è il valore allusivo dell´elemento poetico che più chiaramente rivela il valore autentico dell´avvenimento.
D´altra parte, il sogno di avere qualcosa di desiderato, qualcosa di sperato, qualcosa di gratuito sfavilla splendidamente nello sguardo scintillante di un bambino che scrive la lettera a Babbo Natale o che dorme attendendo i regali o che finalmente li scarta entusiasta. Tale fiducia, come quella dei personaggi del presepe, si appoggia in noi sulla sicurezza di ricevere il dono promesso, perché è stato assicurato da qualcuno che ci ama veramente.
Dire che il Natale è la festa dei bambini significa, dunque, parlare della Natività, come dell´incedere del nuovo, come del presentarsi dell´atteso o dell´inatteso, ma anche come fiducia di essere amati da qualcuno.
In tal modo, davanti alla grotta di Betlemme, ci troviamo di fronte ad un occasione veramente inaudita, perfino inconcepibile.
In quello scenario, infatti, gli adulti possono tornare un po´ bambini, per stupirsi ancora di qualcosa, per uscire dalla routine della monotonia quotidiana, e i bambini possono aprirsi ad una dimensione definitiva e significativa della vita che trova il senso ultimo nella fedeltà gratuita verso le offerte ricevute.
In fondo, la nostra vita, che spesso chiude lo spazio a tutto ciò che non può essere controllato o previsto, davanti ad una nuova nascita si trova sospesa nel vuoto e direttamente protesa verso lo sconosciuto. Ma, mentre i bambini si immergono nel mistero dell´esistenza, facendo esperienza dell´intangibilità del nuovo regalo della vita che vivranno, gli adulti possono riscoprire e fare emergere in se stessi l´impressionante forza della loro generosità.
E´ per questo che ricevere un regalo a Natale o in un´altra occasione non è la stessa cosa, perché a Natale riceviamo regali senza nessun motivo e senza nessun merito da parte nostra. E´ una vera donazione di qualcosa, che ci attraversa e ci muove verso gli altri, perché ricevuta gratuitamente dagli altri. Questo atto generoso si configura come il significato realmente autentico della natività.
Nascere è, in definitiva, qualcosa di originario e di imprevedibile, che si ripete continuamente nell´incontrollabile sviluppo del nostro presente verso il nostro domani e che ha il suo senso ultimo nella donazione di una nuova vita.
Ed è proprio con questo sentimento che l´uomo vive veramente questi giorni di vigilia, aspettando con impazienza ciò che normalmente accade senza essere visto e senza essere rilevato. Ci affrettiamo perciò anche noi a fare gli ultimi acquisti con speranza e con una gioia inspiegabile nel cuore, preparandoci alla festa.
A Natale ci nutriamo, in definitiva, del sentimento di stupore quotidiano, assaporando l´imprevedibilità della vita e tante altre cose ancora, ma soprattutto vivendo felicemente il vero desiderio di novità che pervade la nostra esistenza personale. Questo avviene perché il Natale è in fondo una festa che ci distoglie per un po´ dal nostro presente e ci spinge ad accogliere con maggiore disponibilità il trascurato presente degli altri.
Chissà se alla fine riusciremo anche noi a esclamare con sorpresa e gioia: "Ecco! Finalmente qualcosa di nuovo!".

Repubblica 19.12.06
LA VITA IN SCHIAVITÙ
di Massimo Livi Bacci


Un saggio ricostruisce il commercio di uomini fra il Cinquecento e l'Ottocento
In quattro secoli sulla tratta atlantica furono trasportati undici milioni di persone
Fu un mercato pianificato su larga scala. E non solo un fenomeno di subalternità
Viaggiavano stipati e incatenati nelle stive per guadagnare spazio
Si diceva che fossero più curati i dromedari degli esseri umani

La tratta degli schiavi - cioè l´infame processo di cattura, trasporto e vendita di esseri umani - ha coinvolto decine di milioni di persone in epoca moderna. L´epicentro è l´Africa, l´irraggiamento vastissimo, verso l´Asia, l´Europa e l´America; le conseguenze sociali, economiche e demografiche molteplici. Olivier Pétré-Grenouilleau (La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, Il Mulino, pagg. 472, euro 29) costruisce un quadro che incrocia la storia delle idee, con quella economica e sociale, contrapponendo teorie e paradigmi interpretativi di un fenomeno colossale.
In epoca moderna, la classe degli schiavi non è più il prodotto dell´esclusione o della subalternità permanente e stratificata di una società autoctona, o della sottomissione permanente di popolazioni nemiche, ma il risultato di un commercio organizzato su larghissima scala, in un vasto mercato con ben identificati intermediari, venditori e compratori. Secondo l´autore, l´affermarsi della tratta è subordinato a cinque requisiti: l´esistenza di una stabile rete di approvvigionamento di prigionieri; l´incapacità degli schiavi di riprodursi ed accrescersi demograficamente; la netta separazione (con distanze di migliaia di chilometri) tra luoghi di "produzione" (razzie) dei prigionieri e luoghi di utilizzazione degli stessi; la compravendita per denaro, preziosi o mercanzie; il consenso delle entità statuali dei luoghi di origine, di transito o di destinazione.
La tratta negriera (perché il sesto requisito fu che lo schiavo fosse nero e africano) ha avuto dimensioni enormi. Si calcola che tra il 1500 e la sua abolizione definitiva alla fine dell´Ottocento, la tratta atlantica abbia coinvolto il trasporto di 11 milioni di schiavi dalle coste africane a quelle americane, per quattro quinti circa dopo il 1700. Le cifre della tratta atlantica derivano da fonti attendibili quali il traffico marittimo registrato delle navi negriere o le capacità di trasporto delle navi, che dopo il 1700 potevano normalmente imbarcare dai 250 ai 350 schiavi.
Di non minori dimensioni fu la tratta "orientale", dal Sud del Sahara verso il nord dell´Africa e successivamente verso il levante, oppure dalle coste orientali verso la penisola arabica e l´Asia. Più labili sono le stime delle dimensioni di questa tratta, che consisterebbe di numeri non inferiori a quella atlantica: secondo Austen tra il 650 e il 1920, 9 milioni di schiavi avrebbero percorso le piste sahariane e 8 milioni sarebbero partiti dalle coste orientali, metà da quelle del Mar Rosso e metà da quelle swahili. Un traffico dai costi umani spaventosi: «Sulla pista da Kano a Tunisi, a volte cambiando padrone di tappa in tappa, gli schiavi neri potevano fare anche tremila chilometri. All´arrivo potevano essere spediti verso Levante, oppure nuovamente venduti».
I mercanti di schiavi, si diceva, avevano maggior cura dei loro dromedari che dei disgraziati trasportati. La mortalità in questi trasferimenti era molto alta e si è calcolato che nell´Ottocento variasse da un minimo del 6 ad un massimo del 20 per cento, superiore (in media) alla mortalità della tratta atlantica, che nell´Ottocento era dell´ordine del 10 per cento. Dati attendibili mostrano, sorprendentemente, che anche nei secoli precedenti, la mortalità degli schiavi nel middle passage (la traversata atlantica) fu minore di quella delle ciurme che li trasportavano, nonostante che i primi fossero stipati e incatenati (a coppie) nelle stive dove stavano coricati in formazione testa-piedi per guadagnare spazio durante le interminabili notti delle molte settimane di viaggio.
Antecedente al trasporto c´era la fase della "produzione" di schiavi, ovvero della loro cattura, mediante spedizioni organizzate da intermediari africani, quasi sempre musulmani, capaci di attraversare le barriere linguistiche ed etniche, di piombare sui villaggi al loro risveglio, di neutralizzare eventuali reazioni, di condurre le loro prede per lunghe distanze ai depositi dei porti d´imbarco rivendendoli ai negrieri europei.
Questi - portoghesi, inglesi, francesi, danesi - armavano le navi, che dovevano essere provviste delle mercanzie accettate per lo scambio: tessuti, tele indiane in particolare, utensili, ferro e piombo, recipienti di ogni foggia e misura, asce e cunei per disboscare, alcolici, oggetti di pregio per le élite, armi bianche e da fuoco. Gli armatori negrieri costituivano, nelle città europee, una élite agiata e rispettata, una sorta di aristocrazia minore con incarichi di un certo prestigio ed accesso alle cariche pubbliche. Tuttavia una certa storiografia ha esagerato enormemente i profitti della tratta - gravati da rischi molto elevati - che gli studi più recenti mostrano non discostarsi grandemente dai profitti di altre attività commerciali contemporanee; per la tratta francese tali profitti erano dell´ordine del 6 per cento, per quella britannica del 7-8 per cento.
Nel Settecento, la crescita economica e l´accelerazione della popolazione europea alimentano l´espansione della domanda di zucchero e di altri prodotti coloniali; si moltiplicano e si estendono le piantagioni in America e cresce in conseguenza la domanda di schiavi. Schiavi africani, perché le popolazioni autoctone di America o si erano estinte (come nei Caraibi) o si erano rivelate inadatte (come in Brasile) e, comunque, secondo la legge non potevano essere ridotte in schiavitù.
Importati in ragione di due uomini per ogni donna, impediti nella mobilità, falcidiati dall´alta mortalità, ostacolati nella vita familiare (spesso i padroni scoraggiavano - quando non vietavano - le unioni stabili), le popolazioni in schiavitù non riproducevano se stesse e sarebbero state condannate all´estinzione in mancanza di un continuo flusso di nuovi arrivi. La vulnerabilità della popolazione in schiavitù era massima nei Caraibi, molto alta in Brasile, meno grave nella terraferma Ispanica, mentre negli stati meridionali degli odierni Stati Uniti dove gli ostacoli alla normale vita familiare furono assai minori e le condizioni di vita meno drammatiche, la demografia degli schiavi permetteva la loro crescita naturale. Nei quattro secoli successivi al 1500, più del 40 per cento della tratta si diresse verso le Antille (britanniche, spagnole, francesi ed olandesi), più del 40 per cento verso il Brasile ed il residuo finì nella terraferma ispanica e britannica.
Ad un controverso tema Pétré-Grenouilleau dedica un´interessante parte del suo saggio. Quale fu l´impatto economico della tratta? E quale quello demografico? Si è molto esagerata la rilevanza della tratta sull´economia dei paesi negrieri dell´Europa, che non fu una componente particolarmente rilevante dello sviluppo settecentesco, anche se parte integrante del sistema del commercio internazionale. Per i paesi africani si è anche sostenuta la tesi paradossale che la tratta avrebbe avuto effetti positivi, avendo allentato gli effetti negativi della crescita della popolazione oltre a fornire numerario e merci che avrebbero favorito lo sviluppo; essa poi non avrebbe avuto effetti demografici sensibili.
La realtà fu probabilmente assai diversa: se è vero che sull´intero continente subsahariano - che nel Settecento contava forse 70 milioni di abitanti - gli effetti quantitativi di un flusso complessivamente imponente, ma assai diluito nel tempo, non furono rilevanti, ciò non è vero sicuramente per le aree che pagarono il più alto prezzo alla tratta. Questa non solo era selettiva, privilegiando uomini e donne giovani di età e robusti di costituzione, ma era anche quantitativamente importante, influenzando la stabilità e la crescita demografica. Ve ne sono prove, nel corso del settecento, in varie regioni dell´Africa occidentale. Infine, quale calcolo economico potrebbe mai valutare il costo del degrado umano, sociale e civile (e la sua durata nel tempo) che la tratta inflisse alle popolazioni africane?

il Riformista 19.12.06
Eccesso di religione? No, difetto di politica
di Emanuele Macaluso


Può capitare, anche sotto Natale, che l’agenda politica sia sintonizzata su questioni come le coppie di fatto, l’accanimento terapeutico, il diritto-dovere di vivere. E può capitare, contemporaneamente, che nell’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro - pubblicato dalla Commissione Ue - spunti una rivelazione secondo cui ben il 63 per cento degli italiani ritiene che la religione abbia un «posto troppo importante» nella società. Soltanto i ciprioti (81%) e i maltesi (70) sono più insofferenti degli italiani sull’«invadenza» (virgolette d’obbligo) della religione mentre la media europea di coloro che la ritengono «troppo importante» si attesta al 46 per cento.
Morale della favola? «Parlare di religione in generale non è corretto, basta guardare alla “discrezione” di valdesi, metodisti, evangelici. È forse la Chiesa cattolica ad essere troppo “invasiva”», è la risposta del filosofo Giulio Giorello. Che poi aggiunge: «Ma le gerarchie vaticane fanno il loro lavoro. Il problema sono i politici, di destra e di sinistra, che sono sempre in prima fila per mettere in pratica, rispetto alla Chiesa cattolica, le vecchie parole di Gianni Morandi quando cantava “ritornerò in ginocchio da te...”». Giorello cita, come esempio di autonomia, «Zapatero, premier di un paese in cui, storicamente, ci sono state molte vittime in nome della religione; e, nella Gran Bretagna della religione di stato, Tony Blair». Poi il filosofo chiede: «Arriverà in Italia qualcuno che, cavourianamente, sarà in grado di applicare il principio “libere Chiese in libero stato”?».
Anche il senatore - diessino e cattolico - Giorgio Tonini sembra giungere alle stesse conclusioni di Giorello. Seppur con qualche distinguo, e soprattutto partendo da un’analisi diversa. «Dov’era - è il pungolo di Tonini - questo 63 per cento di italiani quando si votò sul referendum della fecondazione assistita? Il 25 per cento andarono a votare. Ma gli altri?». Il problema, sottolinea il senatore ds, «non è della Chiesa. È la politica che continua a dimostrarsi sempre troppo debole. Un tempo c’erano i politici cattolici, che stavano in un partito solo. Oggi abbiamo addirittura correnti di partiti in competizione tra di loro. Solo nella Margherita, ci sono i teodem, i popolari e i prodiani...». Risultato? Per Tonini aumenta la confusione e, soprattutto, «spuntano correnti di politici che sono più papisti del papa stesso. Come se fossimo tutti in un gioco di ruolo». E poi, aggiunge il senatore, «ci sono volte in cui i messaggi che arrivano dalla Santa Sede risultano amplificati, e quindi più “invasivi”, se li rileggiamo sull’Osservatore romano e sull’Avvenire».
Per Massimo L. Salvadori, i dati di Eurobarometro erano ampiamente prevedibili. Quasi fossero un film già visto. Ad esempio, «nel 1974, quando la Dc si sentiva la vittoria in tasca nel referendum sul divorzio e il Pci, al contrario, aveva affrontato la consultazione referendaria con timore e più d’una timidezza». Ancora oggi, sostiene Salvadori, «i partiti sono sempre molto sensibili alle parole della Santa Sede soprattutto perché credono che, se non lo facessero, pagherebbero un caro prezzo in termini elettorali. I dati di Eurobarometro dimostrano l’esatto contrario. E io, nel mio piccolo, me ne rallegro».

lunedì 18 dicembre 2006

Corriere della Sera 18.12.06
Bilenchi
«Il mio Nuovo Corriere chiuso dal Pci perché stava con gli operai polacchi»
di Paolo Di Stefano


S i è parlato molto, in questi mesi, delle reazioni che suscitarono in Italia, e specialmente dentro il Pci, i fatti d'Ungheria. Pochi hanno rievocato la rivolta operaia di Poznan, avvenuta qualche mese prima, nel giugno 1956. Bene ha fatto dunque la moglie di Romano Bilenchi, Maria, ad autorizzare la pubblicazione, presso Alet, di una plaquette che contiene le carte di quello che per il Pci fu un vero e proprio caso politico che impose la chiusura del Nuovo Corriere di Firenze diretto dallo scrittore toscano e la sua conseguente fuoriuscita dal partito.
«Questa è la storia di una ferita». Così Benedetta Centovalli, che cura la raccolta del libretto, intitolato I fatti di Poznan. Premessa: parliamo di un quotidiano nazionale di sinistra, finanziato dal Pci pur non essendo un organo di partito. Bilenchi ne assume la direzione nel 1948, aprendo il primo numero con queste premesse: «Io sono per il colloquio con i cattolici, per l'unità sindacale, per l'unione delle sinistre, di tutte le sinistre di tutti i partiti, non credo alla dittatura del proletariato che porta alla dittatura della polizia politica». In effetti, come avrebbe rivelato in un'intervista degli anni Ottanta, i patti erano chiari: «Accettai di dirigere il giornale purché me lo avessero lasciato fare come dicevo io: pluralista, aperto, senza opposizioni da nessuna parte». Vi avrebbe collaborato, tra gli altri, gente come Aldo Capitini, Piero Calamandrei, Giorgio La Pira.
Su queste basi di libertà estrema, il Nuovo Corriere riuscì a consolidare il suo pubblico, anche se le 50 mila copie quotidiane non garantivano una sopravvivenza tranquilla. «Il giornale — scrive la Centovalli — fu sostenuto ed elogiato da molti, tollerato e osteggiato dai dirigenti di partito più conservatori e a poco a poco lasciato in balia di se stesso».
Si arriva così al 28 giugno 1956, quando quindicimila operai di una fabbrica di Poznan, in Polonia, esasperati dalla sordità del governo alle loro richieste sindacali, avviano una manifestazione di protesta che in poco tempo diventa una vera e propria rivolta. L'intervento della polizia e dell'esercito è durissimo e i morti tra gli operai alla fine sono un centinaio. Il 1˚ luglio esce sul Nuovo Corriere un editoriale firmato da Romano Bilenchi che sin dall'incipit non lascia dubbi sulle posizioni dello scrittore: «I morti di Poznan sono morti nostri. Intendete che cosa vogliamo dire? Vogliamo dire che anch'essi sono caduti sulla via che porta ad una società più giusta e più libera». Si tratta di un atto d'accusa contro i regimi socialisti e di un invito all'autocritica rivolta ai comunisti occidentali, italiani compresi. «E se dall'Est venissero prove che le cose sono in parte sbagliate, tutte sbagliate, noi affermeremmo tranquillamente che quell'esempio, quelle esperienze di socialismo non vanno bene, faremmo di tutto per correggerne gli errori».
Ovviamente, a scanso di equivoci, non manca la denuncia contro chi vuol «dare lezioni di libertà e di giustizia» pur aiutando «una minoranza di sgherri a calpestare il popolo del Guatemala che era riuscito a liberarsi dei suoi pochi sfruttatori», contro «chi favorisce il linciaggio dei negri». Tuttavia, aggiunge, «comprendiamo come in questi giorni Poznan sia un fatto favorevole a Washington, a Londra e a Parigi».
Un mese dopo, il giornale viene chiuso. Il Pci sospende i finanziamenti nonostante la promessa da parte di Enrico Mattei di investire in pubblicità dell'Eni per favorire la sopravvivenza del quotidiano.
Il 7 agosto, esce l'ultimo numero con un congedo in cui il direttore saluta e ringrazia i lettori e i collaboratori, ma non il partito. Lo scambio di corrispondenza che segue tra Bilenchi e Togliatti avrà toni piuttosto acidi. Il segretario del partito condanna come «menzogna» l'opinione che vorrebbe la chiusura legata a questioni politiche; ricorda di essere stato «costretto a letto» con un lieve attacco di polmonite proprio nei giorni in cui fu presa la decisione; lamenta la mancanza di riconoscenza. Lo scrittore, da parte sua, gli rimprovera di essere stato «messo così brutalmente dinanzi al fatto compiuto» per ragioni essenzialmente politiche. E si interroga: «Ma che concetto si ha degli uomini?». In una conversazione con Pino Corrias dell'85, Bilenchi ricorderà l'editoriale di Poznan come la vera causa della soppressione del giornale, ma cercando di attenuare la responsabilità di Togliatti: «Sugli operai non si spara, dissi. Togliatti, che mi aveva sempre appoggiato, era ammalato e la segreteria era retta ad interim da Scoccimarro (…). Dopo un anno riconsegnai la tessera che accettai di riprendere solo nel 1972. Ma comunista sono sempre rimasto».
In una lettera in risposta a Elio Vittorini, che a un mese circa dalla chiusura del giornale manifestava tutto il suo stupore per una soppressione inaspettata, Romano Bilenchi avrebbe precisato che «i migliori redattori del giornale, tutti solidali con me, hanno dato le dimissioni dal Partito: Nomellini, che era vicedirettore, Carnevali e Signorini, Modellini e Domenichini e altri». Elio cerca di attenuare la rabbia dell'amico: «Io non so che cosa augurare. Vorrei che avessi almeno un periodo di calma, di distacco da tutto, anche a caro prezzo, per scrivere un libro come ti meriti di scrivere».
Nel 1959 la ferita è lungi dall'essere rimarginata. In un'intervista di Roberto De Monticelli, Bilenchi dice che il ricordo di quella vicenda gli «fa ancora rovesciare lo stomaco». Il che è dimostrato da una lettera molto dura che nel marzo dello stesso anno Bilenchi scrive all'amico Elio (il quale gli ha sottoposto, per ottenerne la firma, una lettera aperta al Psi), esprimendo tutta la propria rabbia e una più generale delusione ideologica: «Noi abbiamo fatto parte del Pci. Ce ne siamo staccati perché in fondo è un partito reazionario, i cui dirigenti sono dei carabinieri». L'opinione sulla sinistra italiana nel suo complesso è impietosa: «Io non credo a questi partiti: il Pci, il Psi, il Psdi sono sputtanati, sputtanatissimi. Io penso che noi dovremmo se mai agire perché si formi un partito di sinistra più moderno, democratico».
Ma ancora nel 1972, quando poi Bilenchi deciderà di rientrare nel partito, in una lettera all'amico Silvio Guarnieri, il ricordo di quella lontana vicenda continua a bruciare. Brucia soprattutto il fatto di essere stato scaricato, mentre negli ambienti politici circolavano voci artificiose su una sua ricollocazione all'Unità o alla Feltrinelli. Brucia il fatto di avere intuito loschi traffici interni al partito per tenere all'oscuro Togliatti (ma era davvero possibile che il leader fosse rimasto tagliato fuori dalla vicenda?): «In realtà non mi offrirono nulla e, approfittando della malattia di Togliatti, mi allontanarono (…). Dentro il Partito c'era e c'è ancora una banda nefasta». E aggiunge: «Io non sarei uscito per la soppressione del Nuovo Corriere, non sono uscito a causa dei fatti di Ungheria come molti hanno detto. Uscii perché ero stato trattato bestialmente, uscii per una incazzatura personale». Evviva la sincerità.

«Caro Elio, dicono che ero d'accordo. È falso»
La chiusura del Nuovo Corriere doveva essere motivata da ragioni economiche. E anzi, nei piani dei dirigenti Pci, doveva passare per una decisione presa in accordo con Bilenchi.
Lo dimostra una lettera che Elio Vittorini, a cose fatte, il 24 settembre 1956, invia all'amico: «Mio caro Romano, ho saputo del Nuovo Corriere mentre mi trovavo a Feltre da Guarnieri il quale sostiene la versione che tutto è avvenuto col tuo accordo e per "il meglio" (…). Ma qui a Milano sento altre voci». Le voci riguardano la nomina di Bilenchi come direttore dell'Unità milanese. Ma si trattava di «voci maligne», che tentavano di oscurare la portata politica della rottura e di far passare per consensuale la chiusura del Nuovo Corriere.
La risposta di Bilenchi a Vittorini fu rapidissima e tassativa: «Carissimo Elio, non dare retta alle chiacchiere. Le mettono in giro apposta. Figurati se vado all'Unità di Milano. I miei rapporti con loro sono tesi e se passerai da Firenze ti mostrerò i documenti. Il giornale non è morto con la mia complicità: tra l'altro non mi sarei mai sentito la forza di togliere il pane a un sacco di persone. Anzi se sono stato tanto tempo lì contro il mio stesso interesse era per non uccidere un giornale importante e per non mettere troppe persone nel mezzo di una strada (…). Entro due o tre mesi dovrò trovarmi un lavoro. Vedremo. Un lavoro non da loro. Me lo cercherò per conto mio». E poi: «Guarnieri è un bravo ragazzo, ma chissà che balle gli hanno raccontato. Quando hanno deciso di farci fuori io ero in ferie da cinque giorni».
La replica di Elio contiene una raccomandazione per il futuro: «Se vuoi ancora insistere nel giornalismo ti consiglierei in ogni modo di non assumere impegni che vadano oltre la direzione di una terza pagina». Bilenchi, infatti, seguirà l'invito, assumendo fino al 1971 la responsabilità della terza pagina della Nazione di Firenze.

Romano Bilenchi.
Nel '72 vinse il premio Viareggio con «Il bottone di Stalingrado»
Oltre alla plaquette «I fatti di Poznan», edita da Alet, che raccoglie i testi relativi alla chiusura del quotidiano fiorentino di cui Romano Bilenchi era direttore, «Il Nuovo Corriere», è uscito in questi giorni il romanzo dello stesso Bilenchi «Conservatorio di Santa Teresa» (Bur, pagine 245, e 8,60). Entrambi i volumi sono a cura di Benedetta Centovalli
Nato a Colle Val d'Elsa (Siena) nel 1909, Bilenchi fu giornalista e scrittore, collaborò con «Il Selvaggio» di Mino Maccari e diresse «Il Nuovo Corriere» dal 1948 al 1956. Morì nel 1989
Bilenchi vinse il premio Viareggio nel 1972 con il romanzo «Il bottone di Stalingrado». Tra le sue altre opere narrative: «Il capofabbrica» (1935), «Anna e Bruno e altri racconti» (1938) «La siccità» (1941), «Dino e altri racconti» (1942), «Il gelo» (1982)

domenica 17 dicembre 2006

l'Unità 17.12.06
Giordano: Casini vorrebbe un governo dc eterno

ROMA La proposta lanciata da Pier Ferdinando Casini di un governo dei volenterosi che escluda le ali estreme del Parlamento, non suscita particolari inquietudini nel segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano: «Casini è simpatico, vorrebbe un governo democristiano eterno. Un'aspirazione legittima ma non si può tradurre nella realtà italiana, che nel frattempo è molto cambiata». Quanto alla definizione di governo dei volenterosi Giordano replica con una battuta: «Noi tutti siamo volenterosi - dice - non capisco perché questa distinzione sulla sinistra radicale. Anche noi abbiamo tanta voglia di cambiare questo paese». «Più seriamente - aggiunge Giordano - c'è un disegno che porta al governissimo che vorrebbe snaturare il mandato elettorale. A quel punto non esisterebbe più l'Unione, ma non mi pare siamo in queste condizioni».

l'Unità 17.12.06
Indulto e pregiudizio:
Erba, l’immigrato e gli orrori di stampa
di Carlo Patrignani

Cara Unità, qualche giorno fa i maggiori mass media ci informano che un tunisino 25enne ha ucciso spietatamente tre donne (moglie, suocera e vicina di casa) e un bambino di due anni, suo figlio. Perché? Non ce lo dicono, quel che tengono a evidenziare è che il tunisino è in libertà grazie all’indulto, all’indigesto indulto. Colpa dell’indigesto indulto, allora, se un musulmano, il temuto extracomunitario, ha compiuto una strage familiare che mai un occidentale farebbe.
Tre dati concomitanti, dunque, la strage, il musulmano e l’indulto, assemblati insieme per confezionare una notizia che, rivelatasi falsa, sottintende ben altro che una svista, una distrazione, una disattenzione.
L’informazione in sé non esiste, esistono i giornalisti che o fanno servizi o scrivono articoli: dipende dal «fare informazione», la loro affidabilità e credibilità, la loro onestà. Appunto, in questi giorni mi son chiesto: cos’è l’onestà? È non rubare, non truffare, non far del male o altro?
«L’onestà è un modo di essere: cosa mi ha insegnato la vita? Ad esser onesto, prima di tutto». E non si è onesti per il timore di leggi più o meno severe o per la pena da scontare, per il carcere («queste - diceva - sono cose che appartengono al fascismo») ma «per la coerenza» tra dire e fare, tra enunciazione e comportamento, «per non ingannare mai gli altri».
In questo modo, Riccardo Lombardi rispondeva, a suo tempo, alla questione morale posta dal Pci: «non aspiriamo ad un governo degli onesti, ma un governo diverso, di sinistra».
Mi serve questa considerazione dell’ingegnere socialista per comprendere cosa c’è dietro la campagna mediatico-politica contro l’indulto, contro il musulmano, l’extracomunitario, che ovviamente ha un’altra cultura e religione: non sarà per caso che ciò che è «diverso» (e ci metto anche la donna) è temuto perché rende evanescenti e inconsistenti convenzioni e conformismi per quieto vivere?
Carlo Patrignani

il manifesto 17.12.06
VOI SIETE QUI
D'Alema ha sorriso

Ho fatto un mio personale sondaggio e ho scoperto che c'è solo una cosa che interessa alla gente comune meno del cricket e della vita dei lamellibranchi: il partito democratico. Eppure non mancano piccoli segnali, noterelle di costume, indizi che l'appassionante argomento sta prendendo piede nei cuori del popolo. Ecco degli esempi.
Un ragioniere di Modena è stato il primo italiano a risolvere il difficile rompicapo «Sudoku del Partito Democratico». E' riuscito a infilare tutti in un quadratino di nove caselle senza mettere sulla stessa riga la Binetti e Livia Turco. Ha ricevuto le felicitazioni di Palazzo Chigi e una telefonata di Rutelli. D'Alema ha sorriso.
Ancora misterioso il possessore del biglietto vincente della Lotteria Italia, quest'anno abbinato ai grandi leader del Partito Democratico. Il biglietto è stato venduto all'Autogrill La Macchia Est (Frosinone). Il tagliando vincente, F264294, abbinato ad Arturo Parisi, è probabilmente finito nelle mani di un automobilista di passaggio.
I ragazzi della 4° B dell'istituto tecnico Volta di Pescara hanno realizzato il Partito Democratico in laboratorio. «E' bastato capire a che temperatura si scioglieva la Margherita e a che temperatura i Ds. Poi li abbiamo mischiati allo stato gassoso». Unico incidente: Mussi non voleva sciogliersi ed è stato abbattuto a badilate. Congratulazioni dalle autorità scolastiche. D'Alema ha sorriso.
Al via il concorso di architettura per progettare il grande palasport dove si terrà il primo congresso del Partito Democratico. Alcune proposte innovative: le poltrone della dirigenza orientate verso il Vaticano, o le seicento stanzette singole per i 600 delegati al congresso, per simboleggiare l'unità e la coesione della nuova forza politica. Visti i progetti, D'Alema ha sorriso.
Esaurito in tutti i negozi (e introvabile fino a dopo Natale, lo dico per i genitori) il Partito democratico della Barbie. Il giocattolo più fortunato dell'anno è letteralmente andato a ruba, soprattutto per l'effetto sorpresa. Tolta la carta da regalo e i fiocchi, aperta la scatola, dentro non c'è niente. D'Alema ha sorriso.

il manifesto 17.12.06
L'alleanza strategica contro l'anoressia

Nelle stesse ore in cui il tribunale di Roma respinge il ricorso di Piergiorgio Welby mettendo in rilievo l'inerzia legislativa del parlamento e del governo, un trionfale comunicato annuncia «l'alleanza strategica» contro l'anoressia stipulata fra il governo, nella persona della ministra Giovanna Melandri, e l'industria della moda. Coincidenza casuale e per certi versi macabra, ma illuminante della biopolitica ai tempi del centrosinistra prodiano. C'è da una parte il corpo malato e immobilizzato di un uomo condannato alla fine, che invoca di essere lasciato finire e fa di questa invocazione la sua ultima battaglia politica. C'è dall'altra parte il corpo dell'anoressica, mobile e imprendibile, anch'esso malato ma nella mente, anch'esso in perenne battaglia - con il sé, con l'altro, con gli imperativi dell'opulenza e del consumo... - ma silenziosamente, sintomo che domanda decifrazione. Il primo non trova ascolto nel vuoto della norma in cui si spegne. Il secondo trova un ascolto divorante, proprio quello che non cerca, in un'offerta di norme - estetiche, sanitarie, commerciali - che improvvisamente lo stringono, lo medicalizzano, lo vittimizzano.
Coincidenza nuova di una favola antica: l'incertezza e l'impotenza (e i veti incrociati, cattolici contro laici) della politica a trovare la bussola sui dilemmi sempre più complessi che la scienza e la coscienza impongono, si ribalta in certezza e potenza quando si tratta di normare e disciplinare il corpo femminile, dove la scienza diventa opinabile e la coscienza si fa finta che non ci sia. L'offensiva contro l'anoressia scatenata negli ultimi mesi nella Spagna di Zapatero, nell'Argentina di Kirchner, nell'Italia di Prodi, e prima nella Gran Bretagna di Blair, dà da pensare, per l'ennesima volta, sulla «tutela» delle donne di marca progressista. Non è forse per il loro bene che i governi si mobilitano? Non è forse per ottemperare ai loro doveri in materia di politica sanitaria che innescano le loro strategie di prevenzione di un sintomo così diffuso da avere tutte le caratteristiche di una malattia sociale? Di anoressia, come di bulimia, si può morire; il 3% della popolazione ha una diagnosi di anoressia-bulimia conclamata, e si tratta per il 95% di donne: di fronte a questi dati, non fanno bene Zapatero e Melandri a pretendere che almeno l'industria della moda la smetta di alimentare e diffondere il mito della magrezza?
Senonché ci vorrebbe una misura, e non solo nei vestiti che sfilano in passerella. Incompetente e approssimativa, la parola della politica sull'anoressia va fuori misura e diventa bulimica, spalleggiata dei media. Giornali, settimanali, televisioni si sono buttati in questi ultimi due mesi sulla magrezza femminile come su una grande abbuffata, in cui c'era da mangiare per tutti: esperti improvvisati, conduttori pietosi e pelosi, moralisti a tempo perso, dive e divette con le rotondità rifatte piene di buoni consigli per le donne-grissino. Con la diagnosi più facile e più pret-a-porter: è colpa della moda, delle modelle, del canone vincente della bellezza efebica, del culto dell'immagine. E di conseguenza: è colpa della subalternità femminile alla moda, alle modelle, al canone, all'immagine.
L'anoressia è un sintomo complesso. Chi se ne intende non nega che il canone e la moda lo supportino, ma si guarda bene dall'individuarvi le cause prime o seconde. Si guarda bene anche dal ridurlo a un «disturbo alimentare»: il sintomo si posa sul cibo, ma nasce altrove. Dove? Nella società grassa dell'opulenza, dove l'ingiunzione obbligata è al consumo e al godimento, e quel rifiuto di mangiare portato all'estremo segnala una resistenza estrema, un no a quell'ingiunzione, un desiderio d'altro: di qualcosa di non misurabile e non consumabile, che all'anoressica restituisca il senso dell'essere e non dell'avere. Disturbo dell'amore e della sessualità più che dell'alimentazione, segnale di una richiesta all'altro o di un rifiuto dell'altro, manovra talvolta di anestetizzazione fisica e psicologica dai dolori o dalla caduta di difese che la relazione con l'altro può provocare; strategia, talaltra, di libertà dai comandamenti di una femminilità tradizionale, quella che la tv ci somministra continuamente, che il corpo femminile lo vorrebbe sempre gravido, rotondo, accogliente, disponibile, pronto per l'uso.
La moda e le modelle in passerella intervengono, se intervengono, nell'ultimo anello della catena. Nel primo, c'è un trauma dell'esistenza affettiva che nessuna offerta di telepolitica può alleviare, ma semmai solo acuire: lo dicono le facce perplesse e disorientate delle ragazze magre intervistate in tv come esemplari di una specie da sorvegliare, medicalizzare, vittimizzare e alla fine, come sempre, colpevolizzare e punire: né più né meno che come ai tempi dell'isteria, di cui l'anoressia è il sintomo rovesciato, che incorpora un secdolo di mutamento della soggettività femminile. Nessuna punizione, al contrario, per l'industria della moda. Da qualche taglia 48 in più in circolazione per Natale e ai saldi di gennaio, piccol i e grandi loghi avranno solo da guadagnare.

il manifesto 17.12.06
divino / Fede e ragione ratzingeriane

Se la gerarchia cattolica si era prefissa una forte presenza nei mass media bisogna ammettere che in queste ultime settimane lo scopo è stato raggiunto. Dai pacs all'eutanasia, sembra che non si parli d'altro. Giornali, tv, ma anche aule parlamentari. In primo piano proprio i temi dei quali si occupa la gerarchia cattolica, che con la moltiplicazione degli interventi sta dividendo il paese. Non tanto in credenti e non, quanto in obbedienti e non; per non dire in teocons e laici. Ma quello che sta accadendo si può veramente considerare come un successo per la gerarchia (il papa e il cardinale Ruini)? Se ne può, a dir poco, dubitare. Non è chiaro se questa maggiore presenza rappresenti un passo avanti, come vorrebbe il Vaticano, nel livello di cattolicità del nostro paese. Al segnale di questa maggiore presenzialità nei mass media e nella politica bisogna accostare altri segnali, ben diversi se non addirittura contrari. Lo stesso aumento delle unioni di fatto, di cui tanto si discute, dice un accrescimento della laicizzazione, non certo della evangelizzazione. Così la costante diminuzione della frequenza alla messa domenicale; così le difficoltà per l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole, soprattutto superiori. Così il continuo e costante spostamento degli interventi ecclesiastici: sempre più verso il sociale e politico, sempre meno nel campo strettamente evangelico. Si ha l'impressione, soprattutto con questo papa, che il testo base sia il diritto naturale più che il vangelo.
Uno spostamento che risponde ad una logica ben precisa: il papa cerca di parlare a tutti gli italiani, non soltanto ai credenti cattolici. Logico, allora, l'uso dello strumento della ragione più di quello della fede. La ragione è per tutti. Logico, allora, il continuo sforzo per dimostrare il collegamento fra la fede e la ragione. Ma questo abbraccio ratzingeriano fra fede e ragione non è esente da limiti e da difficoltà. Da una parte e dall'altra. La ragione, da parte sua, risulta come limitata, nel tempo e nello spazio. Basti pensare allo stesso matrimonio: è difficile considerare irrazionale - e quindi da condannare - il matrimonio che una larghissima parte dell'umanità pratica in maniera diversa da quello della «nostra» ragione. Non è facile , ai nostri tempi, parlare di una ragione al singolare. Sono lontani i tempi di una ragione universale, valida per tutti e della quale il Vaticano sarebbe custode. Ma l'abbraccio comporta difficoltà anche sul versante della fede. La sua razionalizzazione comporta la eliminazione di quegli aspetti di «follia della croce», che pure sono essenziali al vangelo. Finiscono in soffitta le lezioni sugli ultimi che dovrebbero diventare primi, sui bambini e sui poveri dei quali dovrebbe essere il regno e così via.
L'abbraccio fra fede e ragione, dunque, rischia di offendere sia la moderna ragione, inevitabilmente relativa, sia la radicalità del messaggio evangelico.

sabato 16 dicembre 2006

il manifesto 16.12.06
Questione cattolica I rapporti tra Italia e Santa Sede, dalla Dc ai teocon
La legge di Dio sullo Stato laico
«Il Vaticano nega allo stato la legittimità a legiferare in autonomia sui temi che ne minacciano l'egemonia culturale». Parla lo storico Giovanni Miccoli


Giovanni Miccoli, emerito di storia della Chiesa dell'Università di Trieste, preferisce sorvolare sui volantini, con su scritto «Lasciaci in Pacs», lanciati dal palazzo del manifesto durante il corteo papale dell'Immacolata Concezione: «E' stata una discutibile goliardata, ma non ha senso parlare di violazioni delle norme del Concordato. Di più: non ha senso parlarne».

Professore, c'è in questo momento in Italia una nuova forte tendenza del Vaticano a riproporsi in termini di egemonia culturale?
Direi che c'è una linea di continuità che caratterizza il pontificato di Benedetto XVI come la seconda metà di quello di Giovanni Paolo II. Mi sembra che siano tre i nodi su cui c'è un particolare impegno della Santa Sede per ristabilire la propria egemonia culturale: la crisi delle grandi ideologie che crea un vuoto, sconcerto e incertezze: si vuole riempirla con una proposta forte. Ci sono poi tutti i problemi, seri e gravi, posti dalle nuove tecnologie nella ricerca biomedica con nuovi scenari che vanno regolamentati. E, per ultimo, c'è il profilarsi di società multietniche e multireligiose conseguenza delle migrazioni. La questione è che la Santa Sede tende a negare allo Stato la legittimità a legiferare autonomamente su queste questioni e mette in discussione la laicità dello Stato. Non a caso in un'intervista sul Corriere della sera di giovedì il cardinale Cafarra, come faceva Ruini qualche anno fa, parla di un concetto di laicità ormai superato.

Non c'è anche un quarto punto di preoccupazione per il Vaticano e cioè la mancanza oggi in Italia di un partito di riferimento come era la Dc?
Sì, questo è un problema oggettivo e reale: il venir meno della mediazione della Dc ha portato la gerarchia ecclesiastica a dover intervenire direttamente nel campo politico e civile italiano. E dall'altra parte i cattolici (ma non solo), divisi in vari fronti contrapposti, competono per catturare il consenso della Chiesa. Che così ottiene molta più udienza di prima. Non esiste più un Andreatta che in pieno Parlamento denuncia lo Ior di Marcinkus. Dentro la variegata Dc c'erano cattolici, come De Gasperi, che avevano il senso dello Stato e sapevano dire no alle richieste della Santa Sede, oggi sono più rari. Le domande del Vaticano passavano dal partito, mentre ora sono dirette e i due schieramenti concorrono per esaudire i desiderata della Chiesa.

Qualche giorno fa Ratzinger, incontrando i giuristi cattolici, ha messo in guardia contro la deriva laicista difendendo invece la laicità intesa come «effettiva autonomia dalla sfera ecclesiastica, ma non dall'ordine morale». Secondo lei in Italia oggi c'è davvero il rischio di un eccesso di laicismo?
No. Certamente, come ci sono insorgenze di vetero clericalismo, ce ne sono anche di vetero anticlericalismo. Ma il punto che va fortemente riaffermato è che la laicità non si può davvero considerare superata. Come faceva Giovanni Paolo II anche Benedetto XVI al sostantivo laicità affianca spesso un aggettivo: sana o legittima, ecc. Distinguendo un concetto di laicità valido e legittimo da uno non valido e illegittimo.

Come definirebbe la laicità?
Il concetto di laicità dello Stato, che ha una lunga storia di scontri e revisioni, implica il riconoscimento delle diverse ideologie e fedi senza farne propria nessuna. In una società pluralista e multiculturale, cioè democratica, è essenziale che lo stato si ponga in una posizione neutrale dando a ciascuno il legittimo spazio e cercando il proprio punto di riferimento nella Costituzione e nelle leggi. Originariamente la tradizione liberale vuole relegare la religione nella sfera privata, senza alcuna incidenza sul diritto di cittadinanza (che ovviamente era giusto). Discutibile invece era la prima pretesa, perché la religione è una netta espressione comunitaria e, come le ideologie e le varie fedi, ha un rilievo pubblico che va riconosciuto. D'altra parte l'enorme rilevanza pubblica che ha la Chiesa in questo momento in Italia nelle università, scuole, ospedali, istituzioni e nel dibattito culturale, mostra come sia una forzatura infondata parlare di una deriva laicista che sarebbe operante nel nostro paese. Attenzione perché la laicità non riguarda solo la religione ma anche le ideologie politiche: l'Urss non era uno stato laico, per esempio, ma portatore di un'ideologia che si presentava come una sorta di religione secolarizzata.

Il cardinale Grocholewki, due giorni fa, ha detto che «per la Chiesa l'importanza del matrimonio nasce dal diritto naturale: non tutto risale al diritto positivo». Qual'è la differenza tra i due concetti di diritto?
C'è una profonda differenza tra la concezione dei diritti nella dottrina ufficiale della Chiesa e quella che risale alla tradizione illuminista, da cui nasce poi la laicità dello Stato attraverso percorsi molto lunghi. Per il Vaticano i diritti devono fare riferimento a un ordine esterno oggettivo, un ordine morale dettato da Dio e inscritto nella coscienza, una legge naturale di cui la Chiesa è depositaria e interprete. In sostanza a ogni diritto corrisponde un dovere dettato dalla legge naturale. Nella concezione laica i diritti sono individuali e trovano il loro limite non in un codice esterno morale ma nel rispetto dei diritto altrui. E in quella che si può definire l'etica della responsabilità che non manca ovviamente di molti punti di incontro con l'etica cristiana.

Questa concezione dei diritti individuali però ha dei limiti...
In una società profondamente divisa in ceti forti e deboli, i detentori di poteri forti possono conculcare i diritti individuali di chi è più debole. Ciò che non è utile in questo contesto è affermare, come fa spesso la Chiesa, di essere depositaria di verità esclusiva. Nessuno nega che abbia il diritto di affermarlo, ma allo stesso tempo se vuole stabilire un dialogo, dovrebbe accettare che c'è molta gente che non le riconosce questa esclusività di verità. Anche perché ci sono diritti in conflitto tra di loro: il diritto del nascituro può entrare in conflitto con quello della madre o con il principio della maternità responsabile. Questo conflitto, tra l'altro, è stato riconosciuto nei secoli dalla Chiesa quando, ad esempio, contro gli eretici privilegiava il diritto alla difesa della «verità» rispetto a quello alla vita o si riconosceva la pena di morte a tutela dell'ordine sociale. Esiste un relativismo dei diritti che è legato ai processi storici e alla crescita di consapevolezza.

Non le sembra che il Vaticano stia cercando di fare concorrenza all'Islam e alla sua capacità di dettare legge nelle società dove è radicato?
Infatti il discorso che ha fatto spesso Ratzinger già da quando era cardinale è che la diffidenza del mondo islamico nei confronti dell'occidente è legata alla mancanza di senso di Dio e della sacralità. E quindi la via, per la quale l'occidente può diventare interlocutore valido e non creare timori nell'Islam, è proprio quella di recuperare con più forza una propria identità, che è anche un'identità religiosa e cristiana. Le argomentazioni su cui si buttano a pesce tutti, teocon e neocon, la Magna carta di Pera, insomma. Anche se con toni bellicisti rispetto a quelli ecclesiastici, parlano di recupero delle radici cristiane per fermare l'avanzata islamica.

In questo «relativismo dei diritti» qual è il ruolo dello Stato?
Un'opera di equilibrio e di regolamentazione alla luce dei valori che ne fondano la convivenza, e intervenendo su temi che possono generare conflitto. Sui Pacs, per esempio, non si può parlare di volontà di sradicare la famiglia mentre c'è la necessità di regolamentare delle realtà che si sono affermate su larghissima scala. E' qui che scatta la pretesa di mettere in discussione diritti e doveri dello Stato rispetto alla società civile. La cosa peggiore sarebbe la rinascita di una contrapposizione, antica e vetero, che non ha fatto bene al nostro paese, tra clericalismo e anticlericalismo. Però mi sembra che da parte della classe politica tutta ci sia una grande incertezza e debolezza, una scarsa chiarezza nei principi dei reciproci limiti e doveri. Ad esempio sarebbe del tutto ovvio che, in una società normale e consapevole, non fossero affissi simboli religiosi come il crocefisso nei luoghi pubblici, scuole o ospedali. Cosa che peraltro è stato il primo segno dell'alleanza Chiesa-fascismo che portò al Concordato del '29. Anche perché segna un depotenziamento di quello che è il vero significato, forte e profondo, del crocefisso. Diversa cosa è lasciare la libertà alle persone di indossare i propri simboli di fede, il velo islamico o il turbante dei sikh.

Per concludere: ma tutti questi sforzi riusciranno davvero a spostare la società italiana nella direzione sperata dal Vaticano?
A me pare che in prospettiva la pretesa della Chiesa di essere depositaria delle soluzioni per la vita sociale è, a lungo andare, una battaglia perduta: depotenzia le capacità che il mondo cristiano può avere rispetto alla vita collettiva ed è un enorme passo indietro rispetto a quelle che potevano essere le prospettive aperte dal Concilio Vaticano II.

l'Unità 16.12.06
Adozioni e coppie gay
Sono deluso lascio i Ds
di Aurelio Mancuso, Segretario nazionale Arcigay


Caro Fassino,
con questa mia, per quanto ciò possa valere, ti informo che non rinnoverò la tessera ai Democratici di Sinistra.
È una decisione sofferta, assunta dopo 25 anni ininterrotti di iscrizione al più grande partito della sinistra italiana.
Le tue dichiarazioni sulle adozioni alle persone omosessuali, sono l’ultima offesa, di una lunga serie di atti formali, che non mi permettono più di essere iscritto ad un partito, che individua nel nostro vissuto un tema da cui rifuggire, mentre tutti i giorni le gerarchie cattoliche, i “teodem”, la destra non perdono occasioni per alimentare un clima di odio e discriminazione, che è pagato direttamente, anche attraverso violenze fisiche e verbali, da milioni di cittadini e cittadine gay e lesbiche.
Ieri abbiamo scoperto che il relatore della Finanziaria in Senato è riuscito a cancellare dalla dicitura del nuovo Osservatorio contro le violenze «l’orientamento sessuale».
Ebbene, proprio in quel giorno il segretario dei Ds si scaglia contro la genitorialità omosessuale, argomento fino ad oggi utilizzato dalla destra.
Come militante della sinistra italiana, ti esprimo la mia profonda delusione e la presa d’atto, che la classe dirigente dei Ds non può comprendere cosa avviene concretamente nella società, perché non conosce, non approfondisce i temi, tratta questioni delicate con superficialità.
Infatti, se tu fossi stato più accorto ed informato, avresti saputo che esistono nel nostro Paese diverse centinaia di migliaia di genitori omosessuali, e da tempo sono presenti anche famiglie omogenitoriali, soprattutto formate da due donne. Dal tenore delle tue dichiarazioni («i bimbi non possono crescere con due persone dello stesso sesso») si evince che la prossima frontiera sarà quella di predisporre una legge che tolga alle madri lesbiche la potestà dei propri figli, per affidarli alle amorevoli cure di famiglie eterosessuali, possibilmente sposate in chiesa!
Se lo sguardo si volge fuori dallo spazio nazionale, il baratro tra le politiche messe in campo dai partiti del socialismo europeo e le posizioni tue e di altri leader dei Ds è per ora non colmabile: prendete la parola per marcare lontananze, per evocare recinti etici, per mettere in guardia rispetto ai processi reali della società moderna. Per questo stai zitto quando i nostri fratelli e sorelle sono violentati, picchiati, derisi. Per questo pensi che il tema del riconoscimento della dignità lgbt (lesbiche, gay, bisex, transessuali, ndr) sia una concessione «difficile» e, non la logica concretizzazione dei valori della sinistra. Rassicuri tutti i giorni la gerarchia cattolica perché entrambi condividete l’idea che esista un primato morale da rispettare, che invece la sinistra ha combattuto e che grazie ai movimenti delle donne, dei diritti civili, ha dovuto lasciare il passo all’autodeterminazione delle persone, alle libertà democratiche.
Naturalmente nei Democratici di Sinistra, si impegnano donne e uomini, che quotidianamente sono al nostro fianco, che negli anni hanno dimostrato concretamente la propria vicinanza, ma tu hai deciso di non rappresentarli e di scegliere il campo del confessionalismo progressista.
Avevo riposto, dopo Pesaro, molta fiducia nei tuoi confronti, conoscevo la tua serietà e determinazione. Negli ultimi tempi, forse a causa del fatto che il progetto del Partito Democratico prevede un mutamento genetico della sinistra riformista di cui sei il massimo rappresentante, le tue promesse sui Pacs, sulle norme anti discriminatorie, sul riconoscimento della cittadinanza gay e lesbica, sulla salvaguardia della laicità, si sono perse e con loro la fiducia di tanti e tante di noi.
È bene, quindi, segnare una marcata distanza tra il mio impegno personale dentro il movimento lgbt e un partito che sembra aver smarrito il senso dell’umanità e del socialismo democratico.

la risposta di Piero Fassino:
Difesa dei diritti
siamo in prima fila
Piero Fassino
Caro Aurelio,
non credo che il tuo disagio nasca dalle mie parole, ma dalla campagna di ostilità e pregiudizio promossa da settori clericali e conservatori nei confronti degli omosessuali. È una campagna contro la quale, oggi come ieri, abbiamo il dovere di reagire.
La società italiana, infatti, da molto tempo ha maturato pieno rispetto per le scelte sessuali delle persone, riconoscendo a ciascuno il diritto di vivere liberamente la propria vita. Ed è, dunque, del tutto naturale che anche sul piano normativo e legislativo l’Italia - così come è accaduto da tempo in molti Paesi democratici - si doti di leggi e strumenti che riconoscano i diritti di coloro che, del tutto consapevolmente e liberamente, hanno scelto la convivenza di fatto. E questi diritti devono essere riconosciuti a coppie di fatto eterosessuali e omosessuali senza alcuna discriminazione.
È una battaglia che i Ds - grazie anche al contributo tuo e di compagne e compagni omosessuali - hanno sempre sostenuto e continuano a sostenere con convinzione. I fatti lo dicono. Ti ricordo che sono stato il primo Segretario dei Ds a partecipare ad un Congresso di Arci Gay. Che i Ds hanno depositato nel 2004 un progetto di legge - primi firmatari Fassino e Pollastrini - per l’introduzione dei Pacs in Italia. Che abbiamo dato riconoscimento statutario nella vita del nostro partito a Gayleft, organizzazione degli omosessuali iscritti ai Ds. E oggi siamo determinati a far sì che sia rispettato l’impegno assunto da Prodi e dai capigruppo del centrosinistra per una rapida approvazione in Parlamento della legge per il riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto. Di tutte, sia eterosessuali che omosessuali. E ti assicuro che non accetteremo veti fondati sul pregiudizio e la discriminazione e cercheremo di costruire in Parlamento le condizioni perché quella legge possa essere approvata con il più ampio consenso.
Quanto al tema delle adozioni - che in ogni caso non sarebbe oggi oggetto della legge sulle coppie di fatto - non mi sfugge affatto che esistono anche in Italia genitori omosessuali, così come esistono famiglie omogenitoriali. E ho verso di loro assoluto e massimo rispetto.
Non sfuggirà a te che l’adozione da parte di coppie gay è fenomeno ancora diverso e che investe una complessità e una delicatezza che non si possono liquidare sbrigativamente.
Personalmente - e ovviamente questa mia opinione non impegna altri - ho molte perplessità e non ho maturato fin qui un’opinione favorevole. Rispetto naturalmente ragioni e opinioni diverse e sono interessato a discuterne nel modo più aperto possibile.
In ogni caso credo che una discussione su questo tema debba muovere dalla consapevolezza che al centro di qualsiasi adozione sta il bambino e le sue esigenze di serenità e crescita e che ad esse debba essere vincolata l’aspirazione, del tutto legittima a essere genitore.
Comunque di tutto ciò potremo ancora discutere, tanto più se - come auspico - continueremo a lavorare insieme nei Democratici di Sinistra.
Con amicizia

venerdì 15 dicembre 2006

il Riformista 15.12.06
ETICA. CRITERI CONDIVISI E CONDIVISIBILI
Su alcune controversie politico-morali
DI LUIGI MANCONI


Le questioni che qui tratterò hanno, ognuna, uno spessore etico-giuridico assai robusto; e implicazioni particolarmente delicate e talvolta aggrovigliate. E, tuttavia, questo non impedisce che siano trattate sul piano del dibattito pubblico e della decisione politica, a partire da due criteri essenziali e condivisi (meglio: condivisibili).
Il primo criterio teorico-pratico è quello della «riduzione del danno»: ovvero la traduzione in termini politico-sociali di quel principio che, nella teologia e nella morale del cattolicesimo, è il «male minore». Il secondo criterio risiede nella consapevolezza della possibilità di fondare e argomentare in termini etici - non necessariamente di ispirazione religiosa - le opzioni su quei temi controversi e la loro trascrizione normativa.
Questo può aiutare a trovare soluzioni comuni su alcune questioni aperte.
1) Il confine tra cura doverosa e accanimento terapeutico è sottile, lo sappiamo: e spesso incerto. Ma quando una terapia si rivela inequivocabilmente incapace di fermare il progredire devastante del male, di alleviare le sofferenze e di migliorare in qualche misura la qualità di vita del paziente, lì si ha accanimento terapeutico.
E, in presenza di una terapia ostinata e inutile, il codice deontologico dei medici, tutta la giurisprudenza e i protocolli scientifici sono chiari: quella terapia va sospesa. Come affermò l’allora cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, «la rinuncia all’accanimento terapeutico è anche moralmente legittima».
La vicenda di Piergiorgio Welby rientra in quella definizione? A mio avviso, sì. Senza quella macchina, senza il ventilatore polmonare, la sua vita si sarebbe conclusa da tempo e, come dire?, naturalmente. L’intervento del ventilatore si presenta, pertanto, come una protesi, un sussidio meccanico, una strumentazione tecnologica, destinata a prolungare artificialmente la vita di Welby. Questo intervento - utile, e fin provvidenziale, come soluzione d’urgenza e terapia d’emergenza - in una situazione di cronicizzazione, si riduce a motivo di coercizione e afflizione e a fonte di sofferenze.
Interrompere l’attività di quella macchina significa sospendere una terapia fattasi aggressiva e ostile.
Non c’è nulla di utilitaristico in questo ragionamento e non c’è alcuna svalutazione del significato della vita umana. Certo, quella vita può avere un senso e una qualità anche quando non risponde ai parametri economicistici, salutistici e “mondani” della mentalità corrente: ma un corpo che decade progressivamente a sede esclusiva di sofferenze rischia di negare qualunque senso alla sopravvivenza, riducendola a mera perpetuazione del dolore.
Sospendere quel trattamento sanitario è, dunque, ragionevole, pietoso, perfettamente coerente con la nostra Costituzione e, poi, con leggi, regolamenti e codici professionali: e risponde a un’istanza morale, facendosi carico della sofferenza del malato terminale, e delle «scelte tragiche» che quella sofferenza impone.
2) Le tabelle relative alle sostanze stupefacenti sono una questione esclusivamente di natura giuridica, medica, penale e sociale. Di conseguenza, con criteri giuridici, medici, penali e sociali vanno elaborate e valutate. Non certo in base a opzioni morali o religiose. Tali opzioni sono importanti e contano, ma vanno fatte valere altrove e altrimenti rispetto agli ambiti e ai parametri che devono orientare la fissazione di quei limiti tabellari.
Tali limiti, all’interno della normativa vigente, hanno la sola funzione (approssimativa e imperfetta) di indicare un qualche accettabile confine tra detenzione a fini di uso personale e detenzione a fini di spaccio. A questo, e solo a questo, sono funzionali quei limiti.
Fissare quelle soglie massime risponde esclusivamente a un’esigenza di efficacia. Ovvero evitare il carcere, e ciò che comporta, a chi non è spacciatore: così come dichiara di volere la legislazione vigente (Fini-Giovanardi compresa).
Le scelte morali si collocano altrove, e sono legittime e preziose, ma non devono interferire con quei limiti tabellari. Fissare, poniamo, a 5 o a 10 quel tetto non significa disapprovare (se il limite è a 5) o approvare (se è a 10) il consumo di sostanze. Significa permettere che un certo numero di consumatori (se il limite è più alto) o un numero ancora superiore (se il limite è più basso) entri in carcere - contro la ratio della stessa legge, che pure contestiamo.
Dopo di che, superato o ridotto ai minimi termini il rischio detentivo per i consumatori di sostanze, si porrà il problema di elaborare intelligenti e razionali politiche di dissuasione dal consumo: tanto più efficaci quanto più saranno dirette, contemporaneamente, nei confronti delle cosiddette droghe legali (alcol e tabacco). A questo punto, ciascuno farà valere le proprie opzioni morali, le proprie strategie educative, la propria ispirazione anche religiosa.
3) A proposito di coppie di fatto, il punto cruciale mi sembra il seguente: alla famiglia eterosessuale fondata sul matrimonio si riconosce un progetto, una condivisione di aspettative e di valori e, dunque, una costituzione morale. Cosa, quest’ultima, che si nega alle altre forme di convivenza e che colloca queste, pertanto, in una condizione di inferiorità: innanzitutto morale. E infatti, secondo i sostenitori in buona fede dell’unicità della famiglia tradizionale, le «altre famiglie» possono essere tollerate e, in alcuni casi e per certe prerogative, tutelate: senza riconoscere loro, però, la piena dignità di relazione, dotata di una intenzionalità morale e di un progetto antropologico-sociale. E, ancor prima, senza riconoscerle come famiglie (e, addirittura, senza dirle famiglie). Questo sia nel caso delle famiglie di fatto a composizione eterosessuale, sia nel caso delle unioni omosessuali. Tanto la prima tipologia quanto la seconda vengono considerate come espressione, se non di disordine, di irregolarità (sociale e morale): e, dunque, suscettibili - al più - di venire tollerate (perché diventate fenomeno statisticamente rilevante).
Ma questo non è sufficiente. Non lo è, in primo luogo, rispetto alle trasformazioni avvenute (e da decenni!) nella società italiana; trasformazioni culturali e sociali, che hanno determinato il passaggio da una tipologia di famiglia a una pluralità di forme relazionali e coniugali. Così che - oggi, in Italia - le «nuove famiglie» riguardano milioni di persone e costituiscono il 17% di tutte le aggregazioni familiari.
Ma la tolleranza risulta insufficiente per una seconda (ancora più importante) ragione: perché non tiene conto della grande «trasformazione morale» in atto. Ed è il punto che più mi preme sottolineare.
Quella trasformazione consiste, sostanzialmente, in questo: una gran parte delle famiglie di fatto (eterosessuali e omosessuali) fonda la propria scelta relazionale e coniugale su principi morali. Che non sono, certo, quelli della «morale di maggioranza» (di derivazione religioso-cattolica): ma che, comunque, chiedono riconoscimento e domandano tutela.
A ben vedere, poi, in termini giuridici, i Pacs si limitano a prevedere l’allargamento del numero di cittadini garantiti da alcuni diritti: che sono una parte di quelli attualmente riconosciuti a due persone che contraggono matrimonio. Chi promuove una visione esclusivizzante di quei diritti («Vuoi usufruirne? sposati!») fraintende la sostanza stessa delle libertà cui essi sono preposti. Quella sostanza è positiva e tende a essere universale e generale. Se è vero che l’esercizio di un diritto non può condurre alla violazione di un altro diritto (da qui il principio della «coesistenza dei diritti»), è altresì vero che - come scrive Giuseppe Capograssi - i diritti «sono tra di loro solidali, fanno insieme sistema; nessuno può essere sacrificato col pretesto di arrivare, mediante questo sacrificio, all’appagamento degli altri». Ecco, esemplarmente, un caso in cui si rispettano entrambe le condizioni: riconoscere diritti ai cittadini impegnati in una convivenza duratura e solidale non minaccia i diritti di alcun altro. Per contro, riconoscere quei diritti vuol dire promuovere quel principio di mutualità, fare sistema, ridurre le disparità, garantire tutela e possibilità di convivenza: oltre che tra due persone, tra i cittadini tutti.
Rifiutare ciò è, a mio avviso, un errore grave: significa ignorare domande e comportamenti assai diffusi e significa accogliere una visione della società italiana, propria di alcuni settori più malinconicamente conservatori delle gerarchie ecclesiastiche: ovvero la società italiana come un deserto etico, dove resiste - assediata e clamans - la morale cattolica, quale solo presidio di valori forti. Le cose non stanno affatto così. La crisi della «morale di maggioranza» (che fu di maggioranza) non ha causato un vuoto di valori e di principi - il deserto dell’etica, appunto - ma ha prodotto, al contrario, un pieno di morali. Al plurale: morali di gruppo e di comunità, di subcultura e di tendenza, di minoranze e di identità. E tuttavia morali. Parziali e provvisorie, ma qualificanti e dirimenti per coloro che vi si riconoscono e meritevoli di rispetto e di tutela in una società pluralista.


Repubblica 14.12.06
SE IL FILOSOFO TI ASCOLTA
Dibattiti/ Una forma diffusa di aiuto per chi ha problemi esistenziali
di PIER ALDO ROVATTI


Non si tratta di una cura con i modelli tradizionali
è implicita la critica a un eccesso di tecnicismo
I nuovi Socrati non si ritengono dei terapeuti ma piuttosto "aiutano a pensare" chi si rivolge a loro
Un ricorso non accolto dell'Ordine degli psicologi rilancia la discussione sul senso del "counseling filosofico"

Non c´è dubbio che la filosofia stia attraversando in Italia un momento abbastanza magico. Il fenomeno è singolare. Non riguarda tanto la qualità e l´originalità delle ricerche specialistiche, è piuttosto un aumento dell´interesse generale verso la filosofia stessa (come attestano le piazze affollate dei proliferanti festival e le mille iniziative che si contano nel solco delle cosiddette pratiche filosofiche).
Il fenomeno covava da anni, adesso però esplode in maniera quasi contagiosa e si accompagna alla nascita, un po´ dovunque, di un oggetto alquanto misterioso (la «consulenza filosofica») sul quale convergono - pare - molti desideri. Questa «pratica» è neonata, nel senso che non si regge ancora sulle sue gambe, ma è già avvolta in una nuvola densa di discorsi che si depositano in saggi, libri, dibattiti e relative polemiche, e che sono decisamente sproporzionati rispetto all´entità effettiva della cosa.
Il fenomeno complessivo del boom della filosofia si presta a molte interpretazioni, nonché equivoci, ma è un fatto davanti ai nostri occhi. E´ ingenuo credere che si tratti di una montatura artificiale ai fini particolari del relativo mercato. Vi si manifesta un´esigenza diffusa, certo tutta da analizzare, anche se già vi si legge con buona evidenza il bisogno di affidarsi a qualche fonte, se non proprio di verità, almeno capace di tenere assieme i segmenti sparsi e spesso confusi di ciò che oggi passa nella testa della gente.
Il fenomeno più ristretto della consulenza filosofica nascente si presta a considerazioni più puntuali. Qui, in vari modi, e per adesso più nell´ambito di ciò che si immagina che in quello di ciò che accade, si gira attorno alla parola «terapia», come se stesse diventando disponibile una specie di cura al deficit di senso che tutti lamentano: una cura che ci permetterebbe di evitare lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psicoanalista, e - chissà - perfino lo psichiatra. Come se - in termini ancora più espliciti - andare dal filosofo (quando e se ciò fosse possibile) ci esimesse da una qualche medicalizzazione, targata psi, del nostro disagio.
Se è questo il cuore della questione, occorre aprire un dibattito serio, non di parte, che cerchi di vedervi le diverse dimensioni. Il piccolo mondo della consulenza filosofica prende le distanze: noi - dicono - andiamo per la nostra strada, non vogliamo curare nessuno, vogliamo solo «aiutare a pensare» con gli strumenti della filosofia chi ne avesse voglia. E dunque, poiché non siamo terapeuti, non invadiamo in alcun modo il campo della psicologia, né abbiamo alcuna intenzione di farlo.
Il grande mondo variegato e complesso della potente psicologia se ne sta per parte sua abbastanza silenzioso. Un episodio, come quello appena conclusosi al tribunale di Trieste con l´assoluzione di un consulente filosofico denunciato dall´Ordine degli psicologi per abuso della professione, non increspa la superficie tranquilla della numerosa comunità. Il giudice ha sentenziato: «Il fatto non sussiste». Ma secondo me non basta un malaccorto e pur sintomatico autogol per cambiare la partita.
E´ infatti risibile prevedere che un esercito di nuovi socrati sloggi gli psicologi dal loro consolidato ruolo sociale, in una società - appunto - che ha integrato nel suo sistema la cura della psiche attraverso un dispositivo di consulenza capillarmente diffuso e in via di ulteriore espansione.
Umberto Galimberti ne ha parlato ampiamente, su questo giornale, nella sua duplice veste di filosofo e di analista, e credo converrà con me che non ci troviamo per nulla in una situazione di congedo dalla psicologia (uso questo termine per denotare l´intero universo psi) e che i consulenti filosofici, con il loro equipaggiamento tecnico così evanescente, non sono certo in grado di rappresentare - anche se lo volessero - una qualche reale concorrenza alla psicologia. Eppure, qualcosa sta accadendo, al di là delle buone intenzioni e delle ragionevoli dichiarazioni che provengono dal piccolo o piccolissimo mondo dei consulenti filosofici.
La filosofia riceve nuovo credito, il che solleva subito tante domande: quale filosofia? Che tipo di filosofi? Per la loro capacità etica? Perché possono chiarificare i nostri pensieri confusi? Ma, se la filosofia riscuote favore, perché comunque sembra in grado di aiutarci, è difficile non vedervi un segnale almeno di perplessità nei confronti dei trattamenti psicologici. La richiesta di aiuto è di per sé un problema.
Cosa dobbiamo infatti pensare di una società, come la nostra, che intensifica la richiesta di un «aiuto» di questo genere? Qualcuno l´ha chiamata «cultura terapeutica» e a me pare una definizione azzeccata. Quello che viene messo in dubbio è se la psicologia possa fornire una risposta davvero convincente.
In un saggio che ho appena pubblicato (La filosofia può curare?, Raffaello Cortina) ho risposto alla domanda contenuta nel titolo che la filosofia può innanzitutto curare se stessa, svestendosi del proprio accademismo e riscoprendo la sua vocazione di esercizio e di pratica pubblica. E´ plausibile una trasformazione dell´insegnamento della filosofia grazie a un bagno di anti-intellettualismo e vedo nella consulenza filosofica, pur con tutte le sue ingenuità, la possibilità di funzionare da pungolo in questo processo.
Mi auguro anche che il topolino testé partorito possa pungolare il gigante della psicologia. Gli psicologi, che per ora osservano curiosi e magari con un sorriso di sussiego quel che sta accadendo, non hanno proprio nulla da temere da quel topolino, ma forse dovrebbero sentir suonare un campanello in casa propria. E chiedersi da dove si origini la perplessità della gente verso le loro pratiche, pur così calzanti alla società di oggi.
E se proprio la filosofia potesse fornire agli psicologi un´occasione autocritica, mettendoli di fronte all´eccessivo tecnicismo delle loro discipline e pratiche? E´ una vecchia questione. Oggi però i termini risultano un po´ diversi, se non altro perché i dispositivi della psicologia sono diventati molto più strutturati e potenti, e la cultura psicologica si è rinforzata e consolidata con criteri «obiettivi» e metodi sperimentali. Non che la psiche sia diventata un oggetto docile e del tutto disponibile. E´ il rapporto tra lo psicologo e il suo oggetto che si è stabilizzato e forse calcificato in un modello di tipo medico-scientifico.
In genere la psicoanalisi ha rappresentato il ventre molle di questo corpo disciplinare, e infatti dalla porta della psicoanalisi sono spesso entrate ventate di rinnovamento filosofico. Ricordo anche che una parte della psichiatria, nel suo dissenso istituzionale, ha dato negli anni Sessanta e Settanta (l´Italia resta un esempio mondiale con le esperienze di Gorizia e di Trieste e la lotta contro i manicomi) una decisa spallata a questo modello e ancora adesso ne costituisce un´antitesi.
E´ davvero un modello vincente? Credo che si stia avvicinando il momento in cui i settori più avvertiti della psicologia debbano porsi davvero questo interrogativo. Non c´è dubbio che nel modello che ho chiamato medico-scientifico, e che oggi è dominante in tutta la cultura psicologica di lingua inglese, ci siano presupposti di pensiero stabilizzati che corrispondono spesso a una sorta di «metafisica ingenua». Una nuova alleanza con la filosofia servirebbe agli psicologi per cominciare a ridiscutere le proprie assunzioni di pensiero, e dunque per riaprire l´orizzonte critico della disciplina mettendo di nuovo al centro la questione del soggetto.
Faccio solo un esempio. Le facoltà di Psicologia, luogo della formazione e laboratorio dei criteri, potrebbero introdurre nei loro piani di studio insegnamenti di filosofia in modo più organico, cioè non solo episodico e complementare come accade adesso. So di non parlare nel deserto poiché questa sensibilità già esiste. E allora c´è da sperare che il fenomeno di cui sto parlando produca qualche effetto virtuoso in questa direzione.
Certo si ritorna al nodo: quale filosofia? Un insegnamento anodino costituito da pacchetti di nozioni lascerebbe le cose come sono. Ci vuole una filosofia critica, rivolta più alla «cura di sé e degli altri» (come direbbe Foucault) e dunque più all´esercizio della soggettività che non alla sistemazione delle conoscenze.

Repubblica 14.12.06
Sul banco degli imputati finisce sempre l'indulto
di ADRIANO SOFRI


Si è saputo che il marocchino era tunisino. Che il convivente della giovane donna italiana di Erba era suo marito. Che il furgone usato da Azouz Marzouk per la fuga e ritrovato poco distante non era stato usato da Marzouk, non è stato ritrovato, e non era un furgone. Che l´assassino della moglie, del figlioletto, della suocera, e della coppia di vicini non era l´uomo che ha perso moglie figlioletto suocera e vicini amici. (È morto anche il cagnolino dei vicini, soffocato dal fumo). Che l´uomo con precedenti penali per rapina e spaccio non aveva precedenti per rapina, bensì solo per piccolo spaccio. Eccetera. Contrordine dunque: sei o sette contrordini. Diramati, in copia conforme, agli inquirenti, ai cronisti, ai direttori di telegiornali e giornali, alla cittadinanza di Erba e del resto d´Italia. Perfino le dichiarazioni dei conoscenti, promosse al rango di titoli, per una volta non avevano ricalcato l´avvilente copione delle stragi domestiche: «Era una brava persona, uno come noi: normale, regolare», anzi, l´aggettivo più sintomatico del nostro tempo, prima del raptus: «Tranquillo, tranquillissimo». No, questa volta l´occhio dei conoscenti si era affinato: «Sapevamo che era violento. Ci aveva minacciati tutti». Contrordine anche per loro. Non aveva minacciato nessuno, benché, come ha avuto la forza di dire ancora in sua difesa quell´ammirevole signor Carlo Castagna prima di scoppiare in pianto, «sapessimo che non era uno stinco di santo».
Nella sequela di contrordini, un punto rimane fermo, dopo ulteriore verifica: l´indulto, anzi, L´INDULTO, così, maiuscolo, come nei titoli a piena pagina. Marzouk è effettivamente uscito grazie all´indulto. Su questo punto cruciale nessuno può sollevare dubbi, a meno che non sia in totale malafede. È uscito grazie all´indulto: dunque, se avesse voluto lui massacrare i suoi e i vicini, grazie all´indulto avrebbe potuto farlo.
A questa constatazione nessuno deve sottrarsi, data la verosimiglianza della supposizione: la stessa verosimiglianza che, nel commento autocritico di un importantissimo giornale, ha caratterizzato «tutta la storia, a cominciare dal profilo del suo protagonista». Sebbene Marzouk non sia il feroce assassino della sua famiglia e dei suoi vicini, era verosimile che lo fosse. Infatti era marocchino e/o tunisino, ed era USCITO PER L´INDULTO. Tiriamola bene la conseguenza, senza maramaldeggiare con l´importantissimo giornale, che almeno ha sbattuto in prima pagina la propria resipiscenza. La conseguenza è che L´INDULTO è la verosimile premessa della più efferata strage famigliare. Peraltro la conseguenza era stata tirata, l´altroieri, senza riserve di verosimiglianza, da fior di campioni della demonizzazione dell´indulto, e dei suoi promotori gelosamente scelti.
Non è che abbia voglia di scherzare, né di affidarmi al sarcasmo. L´indecente e vanesio conformismo pressoché universale sulla vicenda di Erba rischia oltretutto di far passare in second´ordine una tragedia agghiacciante e commovente. Fosse stato quel Marzouk, la si sarebbe esorcizzata e archiviata più facilmente. Adesso, bisogna tornare a guardarci dentro, come quei bravi pompieri che sono intervenuti nella casa pensando a un incendio, e ne sono usciti vomitando. È difficile dire francamente quello che ci passa dentro, ogni volta che le pareti di una casa si spalancano davanti ai nostri occhi, a Novi Ligure o già un´altra volta a Erba, o a Parma e in troppi altri posti, e ci sorprendiamo a sperare che i colpevoli non siano "extracomunitari", come se il caso, del resto così frequente, in cui siano italiani, servisse ad attenuare le nostre paure, e a spuntare le armi dei razzisti.
Ma voglio ora, quando la lezione del contrordine di Erba è così fresca, e induce a maramaldeggiare alla rovescia contro i maramaldi anti-indulto, fare il contrario. Proporre ancora un esercizio di ragionevolezza. Rinunciare per qualche riga al senno di poi, e proporre di ragionare come si sarebbe potuto fare due giorni fa, quando il delitto di Marzouk veniva dato per provato. «Era uscito per l´indulto». Costui era in carcere con una condanna patteggiata a tre anni e mezzo, per spaccio di cocaina. Grazie ai tre anni d´indulto, avendo scontato i sei mesi, ne è uscito (salvo che anche queste informazioni d´ufficio siano smentite) nello scorso agosto. Senza l´indulto, ne sarebbe uscito perché la legge prevede una misura alternativa alla detenzione per i condannati sotto i tre anni (o quattro, se siano tossicodipendenti) che abbiano un domicilio ed eventualmente un lavoro. Senza ottenere - e non si vede perché no - una misura alternativa prima del fine pena, o almeno i tre mesi all´anno di liberazione anticipata prevista per chi tenga una condotta ordinata, sarebbe comunque uscito allo scadere dei tre anni, una volta espiata l´intera pena. I suoi propositi omicidi sarebbero caduti in prescrizione? La sua violenza, capace di spingersi fino a sgozzare il figlioletto, sarebbe stata addomesticata e placata da altri anni, altri mesi di cella? (Qualche altro centinaio di giorni illuminato ognuno, come si è saputo, da una lettera della moglie, qualche decina di settimane illuminate dall´ora di colloquio con lei e il bambino?) Nessuno, avvisato di una nefanda tragedia, può immaginare quali mire assassine possano sorgere o spegnersi nell´animo di un uomo recluso. Ma intitolare: «Ha sterminato la famiglia», e completare: «Era uscito per l´indulto», vuol dire che l´indulto non solo mette in libertà i delinquenti né solo promuove Previti dagli arresti domiciliari all´affidamento ai servizi sociali, ma autorizza e provoca la strage degli innocenti. Anche a non voler vedere la mutilazione della carità, manifesta oggi per tanti altri segni, e più tristemente dove se ne fa professione, c´è in questo una penosa irresponsabilità civile. E dov´è della giustizia che si fa professione, si può sorvolare sulle scarcerazioni davvero pericolose e oltraggiose, procurate non dal maiuscolo indulto, ma dalle minuscole colpose scadenze di termini. Normali, com´è normale che la nomina del primo presidente della Corte suprema finisca con dodici voti a favore e dodici contro, e un astenuto, supremo esempio di equanimità. Il fracasso sull´indulto ha avvelenato le acque. Chi resti attaccato alla ragione e alla pazienza, e non abbia perso la carità in qualche incidente di carriera, misura sui veri effetti dell´indulto - non dunque i mentiti, né i «verosimili» - la convinzione che la reclusione carceraria sia in una larghissima misura superflua, nociva, e cattiva. Ci sarà tempo per tirare le somme.
Né occorre, per opporsi alle strumentalizzazioni e all´allarmismo, farsi troppo buoni e ottimisti. L´amore di Raffaella Castagna merita la commozione, il rispetto e l´inquietudine che anche i suoi famigliari gli avevano dolorosamente riconosciuto. «Lei lo amava» - e questo ha deciso: era giusto così. Lei, e non solo lei, non ha voluto separare una vocazione professionale di educatrice, di assistente, dal sentimento personale. Ha bruciato una distanza di sicurezza. È stata libera di farlo, e questo non può che ispirare solidarietà e rispetto. Chi abbia esperienze simili sa in quante forme, e con quanti rischi, la distanza bruciata che chiamiamo amore pretenda la vita delle persone. Ci sono ragazzi maghrebini che non imparano a sopportare che la "loro" ragazza italiana resti padrona della propria vita. Ce ne sono che se ne aspettano un vantaggio per la loro sistemazione. Ce ne sono che si servono di una dipendenza dalla droga, e fra un carcere e l´altro si passano la compagna italiana. Ce ne sono capaci di un amore che sappia rinunciare a fare da padroni sulla donna italiana, ma incapaci di sopportare che sia sottratta loro la proprietà di un figlio. Sono sentimenti, lo vedete, molto simili a quelli che si trovano ancora fra gli italiani e cristiani "di ceppo", benché acuiti e complicati dalle differenze di lingua, di religione, di abitudini e di educazione. Spesso, a dirimere le guerre private che usurpano l´amore o gli succedono, nessuna persuasione basta, e bisogna chiamare la polizia, e bisogna che la polizia risponda. A volte non si è abbastanza pessimisti da figurarsi quanto possa costare. Da figurarsi, per usare le parole dette ieri da Marzouk, che «siamo diventati bestie, animali»: sapesse o no di chi parlava.