«Per sempre»� Macché:
un divorzio ogni 4 minuti
Matrimoni sempre più in crisi e boom di separazioni e divorzi. Ogni quattro minuti in Italia c’è una sentenza per un’unione naufragata, mentre anche le nozze sono in picchiata, soprattutto al Sud. Comunque sia, oltre la metà degli italiani sceglie la separazione dei beni (54,3%) e nonostante la crisi 8 matrimoni su 10, se celebrati in chiesa, restano in piedi. In aumento, invece le unioni civili, i secondi matrimoni e le mogli straniere. È quanto emerge dal rapporto Eures 2006, l’Istituto di ricerche economiche e sociali, che ha analizzato le dimensioni e le caratteristiche del matrimonio nel belpaese in rapporto alla situazione europea.
Negli ultimi 30 anni i matrimoni in Italia sono diminuiti di un terzo. Se nel 1975 il 91,6% delle coppie sceglieva il matrimonio con rito religioso nel 2005 si è scesi al 67,6%. Mentre le unioni di rito civile ferme in quegli anni all’8,4% sono balzate al 32,4%. Aumentano le seconde nozze soprattutto tra i divorziati, mentre è costante il calo dei vedovi che scelgono di risposarsi.
l'Unità 9.11.06
Ingrao, una luna di libertà
di Goffredo Bettini
«Volevo la luna», l'ultimo libro di Ingrao, non è propriamente una biografia, né una dettagliata storia politica.
Ci sono vuoti e licenze.
È piuttosto un fulminante e palpitante racconto, un fluire libero, di nuclei emotivo-concettuali della vita di un dirigente politico comunista a fronte degli avvenimenti fondamentali del '900, in Italia e nel mondo. Ed è un indagare, di rara franchezza, sull'identità e le ragioni della propria fede.
Anzi, più nettamente, è il disvelamento delle proprie radici: quasi a cercare la scintilla «prima» umana, psichica di una scelta, e la sua necessità. Sono, infatti, così importanti, e felici, le pagine sulla fanciullezza, sulla famiglia, su Lenola; sulle impressioni, le immagini, le emozioni, gli odori dei primi anni di formazione e di apertura al mondo.
Ne viene subito fuori la feconda contraddizione della personalità di Ingrao. Il suo struggente amore per la vita: quasi una voracità nel nutrirsi del mare, dei prati, della natura, del silenzio delle notti o delle bellezze delle città italiane, del calore degli altri, dell'ebbrezza dell'amore fisico e del gusto del buon mangiare; e poi la consapevolezza così precoce del dolore, la percezione di una fragilità dell'esistere, di una precarietà e di una esposizione alla casualità del male, lo spaesamento (e le domande) fin da giovanissimo sulla innaturalità delle gerarchie tra gli esseri umani, e il carico di violenza che esse irrimediabilmente recano.
Ho l'impressione che nel corso degli anni questa contraddizione diventi il motore centrale dell'azione di Ingrao, e del suo essere comunista. Tanto più egli, maturando, allargherà (come racconta nel libro) le esperienze appaganti, tra le quali il rapporto con la moglie Laura e i suoi numerosi figli, tanto più sarà stringente la domanda sul perché della sofferenza e il rifiuto di qualsiasi mutilazione e offesa tra gli esseri umani; quel volerli ridurre a cosa: vero delitto che produce un insopportabile senso di perdita e di nostalgia per potenzialità che si avvertono irripetibili e svanite per sempre.
Le risposte Ingrao, fin da ragazzo, le cercherà prima di tutto nel «fare» e nel rapporto con gli altri. La calda Lenola sarà subito angusta, un campo troppo stretto da arare.
La relazione ampia con l'altro (tema politico tipicamente «ingraiano») lo muove così giovanissimo alla partecipazione ai littorali, occasione di incontro con masse di coetanei. E poi, nel corso degli anni, l'importanza vitale per lui della dimensione collettiva; quel tornare nel libro, più volte, delle parole: compagni di lotta, fratellanza politica, affettuosa amicizia. Come a sottolineare che senza gli altri non si esiste e non ci si salva.
Il rifiuto dell'Isola, come viene dichiarato da Ingrao, nell'ultimo capitolo, bellissima sintesi di una propria nucleare posizione nel mondo.Seppure sappiamo quanto, nelle dimensioni profonde del dirigente comunista, viaggi il dubbio e si affacci il disincanto. La domanda sul significato delle cose e dell'agire umano, sulle convenzioni e sulle regole. Allora accade che si faccia più forte il richiamo al «convento» e alla solitudine interrogante. In questa «scissione» o dialettica interiore, sta la vera cifra, secondo me, dell'ingraismo, della sua ricchezza e capacità evocativa. Affrontare la lotta, l'oggi, il dovere, i tempi dell'organizzazione, la disciplina (quante volte dovrà dire sì a Togliatti) e contemporaneamente sentirsi fuori da quelle mura: smuovendo nuovi terreni, rinnovando interrogativi, coltivando libertà sconosciute, imprevedibili, difficilmente istituzionalizzabili.
Il libro racconta bene l'approdo dell'autore al comunismo. Fu Hitler a spingerlo a pedate nella lotta; l'impensabile idea (e dolore) di un suo dominio sul mondo. Ecco la febbre del fare, l'urgenza di gettarsi con gli altri compagni, nella mischia.
E tuttavia, questa apertura al mondo è segnata (al contrario di tanti altri dirigenti del Pci) dalla scoperta della grande cultura della crisi del '900. Si va oltre Croce e De Santis . C'è l'amore per Joyce, Kafka, Brecht, Freud, le avanguardie: il pensiero, cioè, che si interroga sul soggetto, sulla civiltà europea, sulla ragione, sulla tecnica, sulla fiducia lineare nel progresso. E che si specchia con più coraggio nell'inaudito «macello» della I° guerra mondiale, che ha indecentemente mischiato, nelle trincee, uomini e topi.
Se non si parte da questa complessità, ho la sensazione che non si comprenda bene neppure cosa sia per Ingrao il comunismo, e come drammaticamente egli abbia vissuto la crisi della sua realizzazione nella storia del secolo. Il comunismo è essenzialmente quell'atto, collettivo, di liberazione degli offesi, degli oppressi, degli sfruttati, in grado di ribaltare i rapporti di forza fra chi sta sopra e chi sta sotto. Quest'atto (emblematico il '17 sovietico) è un fatto pubblico, ma è anche un'esperienza intima di ricomposizione dell'identità, di chi è stato spezzato, frantumato, depauperato nelle sue facoltà umane e individuali, irripetibili e immensamente preziose.
L'operaio non si può ridurre solo ai «soldoni» (sarà un tema della lotta politica dell’XI° congresso del Pci), ma è anche dignità, espressività, creatività. E il fascino e il mistero della vita stanno in questo impasto: di esigenze materiali e di libertà dell'anima. La politica deve sapersi muovere su questo crinale, e continuamente riaprire e articolare sé stessa in rapporto al movimento e alla varietà delle nuove domande. Per questo Ingrao sente l'insufficienza della norma; la quale, inevitabilmente astraendosi dalla vita, ne riduce colori, sfumature, timbri e aneliti.
Ed è per questo che per Ingrao, particolarmente per lui, è apparso paradossale e lacerante il percorso del comunismo realizzato in molti paesi. Dittature sul popolo, sorde e spesso spietate, esercitate in nome del popolo. Ma (questa è una mia impressione) la riflessione ingraiana si allarga, con i suoi dubbi inquietanti, ad ogni forma del potere politico, anche quello che nasce da un mutamento: per la difficoltà di comprendere il confine oltre il quale il conflitto e l'atto di liberazione si trasformano in un nuovo dominio e gli oppressi liberati possono diventare i nuovi oppressori.
Vengono in mente le stupende parole di Pasolini, che rivolgendosi ai proletari del suo tempo, li incitava a battersi per i propri diritti, ma con «grazia». Perché non mutuassero essi stessi i modi, i gesti, i simboli, la cultura, la rozzezza e volgarità dei «padroni» che avevano di fronte: si tratta di una immagine poetica, ma di penetrante sostanza politica. Di una politica lontana dalla torva astrezza del potere. Ingrao pone molte domande, il suo libro anche. Tuttavia, la domanda non è incertezza sulle proprie ragioni di fondo, ma è un metodo di procedere nel cammino: perché la politica è scoperta, ricomposizione continua di ciò che è «frantumato», «aspro», «inespresso».
La domanda chiama al dialogo.
Ingrao racconta l'importanza per lui del comizio. E la comunicazione che si crea tra la piazza e l'oratore, quando in assenza di parole prevale il silenzio e l'attesa. Non sono spazi morti; piuttosto sono i più creativi. In essi, ognuno nell'anima elabora la sua reazione emotiva e politica. Costruisce un suo partecipato e intimo spazio di libertà. E lo rimanda a chi parla, in termini di calore e di forza.
E l'oratore, rassicurato, non può che ridare alla folla pensiero più libero, chiaro, profondamente sentito. Sta tutta qui la differenza tra un discorso pedagogico, burocratico, statico e un comizio riuscito, che è sempre un'esperienza collettiva inedita e così arricchente per tutti.
«Volevo la luna» si conclude con il rapimento di Moro.
Sappiamo che poi, l'89 e il crollo del comunismo realizzato, contribuiranno in modo determinante alla fine del Pci. Ogni comunista italiano, dopo, tenterà vie diverse per tenere fede alla sua speranza di cambiare la società. Ingrao anche; tuttavia testardamente rimanendo attaccato a quella parola «comunismo», come simbolo del primo vero tentativo di liberazione umana e come una pratica della politica e del potere alternativa a quella violenta delle classi dominanti. Su questi punti, tante riflessioni si potrebbero fare; ed anche a me personalmente affiorano domande e dubbi.
Ma resta tutta la grandezza del pensiero di Ingrao. E il debito che la sinistra ha verso di lui. L'autore del libro pare volersi sempre nascondere e immergersi in una vicenda collettiva, più grande della sua persona. Quasi consapevole che siamo tutti poca cosa, e parte della storia. È anche questa una lezione di sostanza politica.
Non nascondo di avere un po' di nostalgia di questi veri protagonisti della vita pubblica, semplici e forti, con le loro case sobrie, i maglioni consumati, le scarpe con i lacci più comode che eleganti, le tavole abbondanti ma dai profumi familiari e robusti. E poi con la loro disponibilità ad insegnare, raccontare, trasmettere.
Adesso pare che nessuno abbia più tempo per nessuno; si divorano le agenzie e si leggono pochi libri, si parla tanto e solo di sé stessi pensando così di emergere, quando invece nella maggior parte dei casi il tutto risulta un buffo annaspare in cerca di un po’ di notorietà.
Ingrao, con elegante misura, ha segnato e attraversato la storia della sinistra e della democrazia italiana, senza schiamazzi e con riserbo ha fatto sentire la sua voce, e ancora alla sua età la ripropone con struggente autenticità.
Dovrebbero ricavarne una qualche lezione i tanti che oggi praticano la chiacchiera urlata, senza capire che le parole restano, non se hanno più forte volume ma se hanno sincerità e pensiero.
il manifesto 9.11.06
Il nulla osta del prete
di Gianni Rossi Barilli
Si chiamano famiglie di fatto. Dovrebbe quindi essere scontato, per chiunque abbia almeno un neurone funzionante e una rudimentale dimestichezza con le nostre convenzioni linguistiche, che sono «di fatto» perché non sono «di diritto», nel senso legale dell'espressione. Invece no. Per i cattolici reazionari e il loro gregge di comari e compari politici che citano a vanvera la costituzione ogni due per tre, non sono famiglie. Caso mai sono «fatti», di quelli sgradevoli che si tacevano obbligatoriamente nei tinelli piccoloborghesi di una volta. In quei tinelli ormai non c'è più tabù che tenga e si sente di tutto, proprio come in tivù, ma nel generale degrado di stile delle buona famiglie il parlamento della repubblica deve restare un baluardo dell'ipocrisia bigotta. Nasce di qui la bagarre organizzata ieri alla camera dalla destra ratzingeriana, con l'assenso politico ma non procedurale dei teo dem ulivisti, contro il diritto-dovere della commissione affari sociali di sentire anche i rappresentanti della Liff (Lega italiana famiglie di fatto) nell'ambito di un'audizione sulla condizione della famiglia in Italia. C'erano il Forum delle famiglie cattoliche, una delegazione delle famiglie numerose ed erano stati invitati pure i genitori democratici. Ma secondo gli esponenti dell'opposizione, tra cui pure divorziati e concubini/e pullulano, i sostenitori etero e omo del more uxorio non potevano essere uditi dalle onorevoli orecchie di Montecitorio. Fin troppo facile concludere che il solo modo che il fan club del papa ha a disposizione per continuare a imporre la propria agenda politica, data l' assenza di argomenti ragionevoli, è cercare di tappare la bocca a chi la pensa diversamente. Se però le cose stanno così, com'è più che evidente, il diritto di cittadinanza concesso nel centrosinistra all'autoritarismo intollerante di certi cattolici è un problema politico di serie A. Ne vogliamo parlare, magari anche spiegando agli elettori come mai la legge sulle unioni civili, promessa dall'Unione, è tuttora insabbiata come ai tempi di Berlusconi? Ieri il parlamento spagnolo ha votato una legge che permetterà alle persone transessuali di cambiare nome anche senza il permesso del medico e del magistrato. Qui da noi per esistere occorre ancora il nulla osta del prete.
il manifesto 9.11.06
Carcere, l'emergenza è un'altra
di Franco Corleone*
C'è un'emergenza evidente, ma non è quella dell'indulto. E' la smisurata mancanza d'intelligenza della classe dirigente del centro-sinistra e del governo. Lo spettacolo che offrono vari cacasenno, cacadubbi e cacasotto è desolante.
Si comprende lo sconcerto di Mastella che in questa vicenda mostra schiena dritta e spessore di statista, di fronte alla fuga dalla responsabilità di un atto votato dalla maggioranza qualificata del Parlamento e che dovrebbe essere rivendicato come un passaggio qualificante nel merito e soprattutto per contestare l'imbarbarimento della cultura politica nei giornali e nell'opinione pubblica anche, se non soprattutto, della sinistra.
L'indulto era una misura dovuta non solo per ragioni di giustizia, umanità ed equità ma soprattutto perché le carceri vivevano sotto un regime di illegalità costante, nella violazione permanente dell'Ordinamento Penitenziario e del Regolamento di esecuzione del 2000 disatteso da Castelli per cinque anni. Altro che certezza della pena! I diritti fondamentali dei detenuti erano calpestati in modo che sarebbe stata comprensibile se non legittima una sollevazione.
Stare dalla parte degli ultimi, dei senza voce è davvero un miracolo per questa classe politica che teme il giustizialismo che si è insinuato nelle viscere di un paese incarognito.
Certo l'indulto ha disvelato molte incapacità che erano in ombra, nascoste dall'ignavia. Una ridotta applicazione delle misure alternative da parte di una magistratura di sorveglianza pigra e pavida: tutti i detenuti usciti con l'indulto erano nei termini di usufruire di programmi di accompagnamento al ritorno in società, ma stavano a marcire ammassati negli istituti di pena. Ancora l'indulto ha reso evidente che chi esce dal carcere è solo con il suo sacco di plastica nera dell'immondizia perché il welfare dei comuni non ha risorse o ha altre priorità.
Ancora. L'indulto ha denunciato la presenza di massa di una detenzione sociale costituita da immigrati colpevoli solo di non essersi allontanati dall'Italia, da tossicodipendenti che non dovrebbero né entrare né stare in carcere, da poveri che la società opulenta riduce ad avanzi di galera.
Quante riflessioni dovrebbe produrre questa vicenda invece del tormentone sulla sicurezza delle nostre città! Tema che esiste, ma a partire dallo stato delle periferie urbane, della esclusione sociale, della violenza diffusa, della volgarità massiccia e che non è certo determinata dal ritorno nella società dei «sani», anticipato di sei mesi o di un anno, di alcune migliaia di «devianti».
E i dati dei rientri in carcere, per recidiva immediata e in alcuni casi per disperazione, dimostrano che pur in condizioni di difficoltà estrema, la generosità dello stato è stata ricompensata.
La sofferenza del dottor sottile non mi turba, sono invece preoccupato che in assenza di scelte politiche che dovevano accompagnare l'indulto, le carceri ricominciano a riempirsi, non dei detenuti usciti, ma di «nuovi giunti» per gli stessi reati marginali.
L'occasione storica di un carcere con 37.000 detenuti, da cogliere per una grande opera di ristrutturazione e per essere in grado di affrontare la sfida del principio costituzionale di una pena destinata al reinserimento rischia di andare perduta.
I dati del carcere di Sollicciano sono eloquenti: dai mille detenuti prima dell'indulto si era passati a 576 presenze, oggi siamo già a 650 ospiti. In questi tre mesi hanno fatto ingresso dalla libertà circa 350 tra uomini e donne (ovviamente non tutti sono restati in carcere) e una analisi della suddivisione per tipo di reato è assai eloquente. Più di cento sono per violazione dell'articolo 73 della legge sulle droghe, una cinquantina per violazione della legge sull'immigrazione, una ventina per resistenza a pubblico ufficiale, un'altra cinquantina per furto, una trentina per ricettazione. Tranquilli però, c'è anche un omicidio, quattro per mafia e una corruzione da colletti bianchi. Se non si abrogano subito le leggi criminogene, gli ipocriti fra un po' diranno che l'indulto è stato inutile. Soprattutto occorre la nomina di un vertice dell'Amministrazione penitenziara che segni una profonda discontinuità. Siamo già in ritardo.
*Garante dei detenuti di Firenze
il manifesto 9.11.06
Csm spaccato: �Ora amnistia�
Ai voti un documento che la giudica «una misura efficace». Critiche dai laici dell'Unione. I Comunisti italiani con Rutelli: «Eravamo contrari all'indulto»
Meglio l'amnistia, una soluzione rapida ed efficace ai problemi causati dall'indulto. Il Csm approverà questa mattina un documento sulle conseguenze del provvedimento di clemenza voluto dal ministro per la giustizia Clemente Mastella in cui si sottolinea che quell'atto «rende superfluo - si legge nella bozza - l'accertamento della responsabilità e quindi il processo». Il tema non è nuovo: l'indulto, pur condonando in parte la pena, non sottrae gli organi predisposti ad accertare le responsabilità provocando in un sistema giudiziario fragile come il nostro un collasso procedurale. E' per questo, si nota nel documento, che «i 17 indulti connessi al periodo repubblicano sono stati tutti accompagnati da corrispondenti amnistie». Non tutti i membri del Csm appaiono convinti dalla prospettiva di un'amnistia: Vincenzo Siniscalchi e Celestina Tinelli, entrambi «laici» in quota Unione si dichiarano contrari. «Non riteniamo assolutamente opportuna una proposta di amnistia».
Il documento, che verrà approvato in mattinata, è stata stilato in risposta alle richieste del ministro pervenute nel settembre scorso dove si sollecitava la magistratura nell'individuare «criteri di priorità» tali da procedere direttamente ai casi giudiziari non interessati dall'indulto. Come evidenziato dal Csm, solo un esiguo numero di procedimenti avrebbero un riscontro in questo senso, creando un blocco della macchina giudiziaria già in forti difficoltà. Nel documento inerente alle conseguenze giuridiche dell'indulto, il Consiglio superiore della magistratura invoca quindi a gran voce un intervento dell'esecutivo. «Quando la giustizia penale è lenta - continua la bozza - la trattazione di tutti i processi per reati interamente condonati finisce di fatto per allontare la definizione di quelli nei quali la pena inflitta è destinata a essere effettivamente scontata». Gravi le conseguenze: «è un grave danno per la collettività».
Mastella, nel settembre scorso, aveva proposto un riutilizzo delle norme contenute nell'art.227 del 1998, che prevedevano particolari criteri di priorità per snellire le pratiche processuali pendenti. Ma il Csm ha fatto notare il carattere transitorio di tali provvedimenti, che non sono in grado di raggiungere l'obbiettivo prefissato: accantonare e non semplicemente velocizzare «una mole consistente di affari». Emerge quindi dal documento la necessità di interventi legislativi rapidi ed incisivi che risolvano la situazione che si prospetta «drammatica» secondo il Consiglio. Il Csm ha comunque assicurato che saranno adottate tutte quelle misure di razionalizzazione delle risorse disponibili e di organizzazione che rientrano nei poteri della categoria.
Nel mondo politico, intanto, non si placano le polemiche. Dopo le dichiarazioni dei ministri Amato e Di Pietro, che hanno in sostanza sconfessato il loro consenso verso l'indulto, il vespaio di critiche non sembra trovare fine. Pino Sgobio dei Comunisti Italiani ricorda l'astensione del proprio partito in sede di approvazione: «Pur giudicando l'indulto una scelta di civiltà per l'insostenibilità delle carceri italiane - ha sostenuto Sgobio - il Pdci con quel voto di astensione, hanno voluto stigmatizzare l'inopportunità di allargare troppo le maglie del condono delle pene». Francesco Rutelli, ministro per i Beni Culturali si unisce al coro di esponenti di spicco del governo che hanno espresso il proprio disagio nel votare l'indulto: «Il provvedimento è stato votato dal centrosinistra e dal centrodestra con maggiori o minori mal di pancia», ammettendo però l'esistenza di una forte necessità nella costruzione di nuove carceri.
«All'inizio fu Di Pietro a definire l'indulto un inciucio - gongola l'aennino Ignazio La Russa - poi è stata la volta di Amato prima («l'ho votato non senza sofferenza») e Mastella poi ( «anche io ho sofferto»); oggi è la volta dei comunisti italiani e di Rutelli. Ma non era allora meglio soffrire di meno e non votarlo proprio come chiedeva Alleanza Nazionale?». E Alfredo Mantovano rincara la dose: «Il parlamento ha votato ignorando i dati reali sulle conseguenze che avrebbe avuto l'indulto. Amato avrebbe dovuto renderli noti». Alessio Marri Roma
il manifesto 9.11.06
Leggere il capitale in laguna
di Roberto Ciccarelli
A Venezia si torna a discutere di Louis Althusser. La città lagunare rappresenta infatti un luogo simbolico per il pensiero althusseriano. Fu qui che, nel novembre 1977, Althusser intervenne in un convegno organizzato da il manifesto dichiarando «Finalmente qualcosa di vitale si libera dalla crisi e nella crisi del marxismo». In un'intervista successiva rilasciata a questo stesso giornale (La questione dello Stato oggi e nella transizione, il 4 aprile 1978), Althusser preannunciò una necessari critica ai partiti comunisti, la confermò negli articoli pubblicati nello stesso mese su Le Monde, poi raccolti in un articolo per l'Enciclopedia Garzanti con il titolo programmatico Ce qui ne peut plus durer dans le parti comuniste. A distanza di trent'anni il convegno internazionale Rileggere Il Capitale. La lezione di Louis Althusser torna a riflettere sull'eredità del filosofo marxista francese. Questo convegno rappresenta, per chi vorrà seguirlo a Venezia da oggi fino all'11 novembre al Palazzo della Malvasia dell'Università Ca' Foscari, un vademecum utile per capire il pensiero di colui che è stato considerato il filosofo marxista che, in Francia e soprattutto altrove, ha suscitato controversie. Non solo perché Althusser ha per lungo tempo ricoperto una posizione centrale nella discussione culturale internazionale, ma anche perché ha «obbligato» gli intellettuali più sensibili della sua stagione a prendere sul serio il marxismo e a farne i conti nei loro contributi filosofici, psicoanalitici, economici e antropologici. Per questa ragione, grazie ad Althusser, il marxismo oggi non può essere considerato un'eredità del passato, oppure un momento della storia delle idee, ma un orizzonte per il «pensiero in atto». L'obiettivo del convegno non sembra essere quello della semplice rivalutazione di un pensatore che ha attraversato alterne fortune nella sua ricezione, ma quello più ambizioso di proporre una lettura della scommessa filosofica lanciata da Althusser nell'ultimo periodo della sua vita, quello meno studiato perché risentiva dell'oblìo in cui era precipitato dopo il tragico assassinio della moglie nel 1980. Una scommessa raccolta dal gruppo promotore del convegno guidato da Maria Turchetto, una delle riconosciute interpreti italiane del pensiero del filosofo francese. A scorrere il programma, consultabile online (www.mercatiesplosivi.com/althusser/conv2006.html), è chiaro l'impegno di tracciare un ritratto complessivo del filosofo che negli anni Sessanta criticava i dogmi imposti dal plumbeo «materialismo dialettico», segnato dall'ipoteca della cultura umanistica e storicista della sinistra di buona parte del XX secolo, mentre negli anni Ottanta percorreva le tracce di un nuovo materialismo che egli individuava nella linea «rivoluzionaria» di pensiero che accomuna Epicuro, Lucrezio, Machiavelli, Spinoza e Marx. Il convegno è organizzato in quattro workshop tematici che indagano le fasi più importanti della produzione di Althusser. Vi partecipano alcuni degli interpreti italiani (Vittorio Morfino, Aldo Pardi, Cristian Lo Iacono, Andrea Cavazzini e Luca Pinzolo), americani (Warren Montag, di cui pubblichiamo la relazione) e francesi (Eric Méchoulan, Etienne Balibar). Il punto forte della tre giorni veneziana è previsto sabato prossimo, quando Etienne Balibar, Yves Duroux, Toni Negri, Augusto Illuminati, Bertrand Ogilvie, Maria Turchetto e Alex Callinicos presenteranno la nuova traduzione italiana di Leggere il capitale (Mimesis , pp.431, euro 30). Il convegno, afferma Maria Turchetto, intende «ricostruire il clima culturale nel quale maturarono i seminari che hanno dato vita ad uno dei testi più importanti del marxismo contemporaneo». Un altro tema importante del meeting veneziano è l'analisi dell'elemento constante dell'ispirazione althusseriana: lo studio dell'epistemologia e dalla psicoanalisi. «Questo sarà un tema importante del nostro incontro - conclude Turchetto - L'interesse per i lavori dei grandi epistemologi francesi come Gaston Bachelard e Georges Canguilhelm e per la psicoanalisi freudiana e lacaniana ha caratterizzato nel profondo il pensiero di Althusser». Il convegno prevede infine una ricognizione sui lavori filosofici pubblicati da Althusser: quello su Montesquieu (ne parlerà Eric Méchoulan) e su Machiavelli (interverrà Filippo Del Lucchese), sui suoi rapporti con Gramsci (Peter Thomas), con Spinoza (Vittorio Morfino) e con Marx (Fabio Frosini).
il manifesto 9.11.06
Lo specialista in totalità è come un personaggio di un cartone animato che corre sospeso in aria. Parla fino a quando non si accorge che è nel vuoto
Louis Althusser Appunti di un guastatore sulla religione della teoria
di Warren Montag
Da oggi a Venezia un convegno sul filosofo francese. Un'anticipazione della relazione dello studioso statunitense Incursioni e svelamenti di una strategia della filosofia Lo studioso francese discute raramente della nozione di «intellettuale». E quando lo fa rinvia spesso alla più cruda ortodossia per giungere però a conclusioni che poco hanno a che fare con essa
La nozione di «intellettuale» è quasi assente nei lavori di Althusser. Un'assenza che colpisce per l'importanza che la nozione riveste, invece, in intellettuali del calibro di Raymond Aron o Jean-Paul Sartre e, naturalmente, Antonio Gramsci. Per i critici «da sinistra» si tratta di un sintomo: non è stata forse l'incapacità di riflettere sulla propria posizione sociale che ha spinto Althusser a produrre questo marxismo così «intellettuale», in cui il pensiero autentico di Marx non si distingue più da quello «accademico» di Freud o, peggio, dell'oscuro Spinoza? Piuttosto che tentare una risposta a tale domanda, è interessante interrogarsi sugli effetti che questa assenza produce. Come e in che misura, cioè, non si tratti di una banale omissione ma di una scelta precisa che caratterizza l'intera teoria.
Nei pochi luoghi in cui discute dell'intellettuale - non tanto l'interruzione di un silenzio, quanto la sua continuazione con altri mezzi - il linguaggio di Althusser rinvia alla più cruda ortodossia e al lessico sterile di quel partito che descriverebbe come un'«Apparato Ideologico di Stato». Nell'intervista rilasciata a Maria Antonietta Macciocchi su L'Unità nel 1968, ad esempio, cita Lenin a proposito degli intellettuali. Alcuni di loro, sosteneva Lenin, presi individualmente possono anche essere dei «coraggiosi rivoluzionari». Ma in maggioranza restano degli incorreggibili piccolo borghesi, chiusi nella loro ideologia. Per diventare ideologi della classe operaia (Lenin) o intellettuali organici (Gramsci), aggiunge Althusser, è necessario un lungo e doloroso lavoro di rieducazione, una «lotta interiore» senza fine. Emerge qui un'auto-critica quasi rituale che sembra forgiata per i due apparati ideologici che, in sequenza, hanno dominato la vita di Althusser: la chiesa cattolica e il partito comunista.
Perfino in questo passaggio, però, affiorano i sintomi di una diversa visione dell'intellettuale. Althusser aveva descritto comicamente la «lotta senza fine» del piccolo borghese contro i propri «istinti di classe» che, come spiega nella stessa intervista, riemergono subito dopo esser stati dominati. In Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati, pensando a Samuel Beckett, che ammira profondamente, Althusser evoca un suo personaggio che si rialza dopo esser caduto, per riprecipitare nuovamente in una buca. In questa versione comica non esiste nessun «altro» rispetto a cui misurare la corruzione o l'abiezione del filosofo: nessun peccato, quindi, e nessun orizzonte di redenzione.
Nel campo del nemico
Cerchiamo di interpretare la cruda rappresentazione che emerge da quell'intervista. Althusser, forse più di qualunque altro filosofo che si autodefinisce marxista, ha pensato e scritto sulla «strategia» della filosofia. I suoi modelli sono Lenin, Machiavelli e soprattutto Spinoza. Supremo stratega della filosofia, Spinoza indossa i panni del dogmatico e comincia la sua opera nientemeno che da Dio. Comincia da Dio perché è un ateo! Infiltrandosi nella piazzaforte del nemico, è in grado di rivolgere contro gli avversari i loro stessi cannoni.
Quella stessa condanna della piccola borghesia intellettuale, caratterizza gli scritti dello stesso periodo, come Lenin e la filosofia del '68 o Ideologia e Apparati Ideologici di Stato, del '69. La formazione sociale è qui concepita da Althusser come un sistema la cui coerenza è talmente assoluta che il solo risultato possibile è la sua riproduzione: la sovrastruttura assicura in modo ferreo e deterministico la riproduzione delle relazioni di produzione. Non solo siamo agli antipodi del materialismo dell'incontro, che Althusser stava parallelamente e altrove sviluppando, ma perfino la nozione stessa di sviluppo storico viene messa in questione dalla rigidità di tali conclusioni.
Cosa significa tutto ciò per gli intellettuali? La più parte di essi, naturalmente, ha come unico ruolo quello di celebrare, in piena e buona coscienza, lo stato di cose esistenti. La minoranza, che sceglie invece di unirsi alla classe operaia nella lotta contro il capitale, desidera essere qualcosa di diverso da ciò che è. Il suo rapporto con la classe operaia, immancabilmente, resterà sempre quello di una strutturale e permanente esteriorità. L'intellettuale è eroico in tanto in quanto riesce a resistere all'irresistibile. Si ha la meglio sui propri istinti e sull'appartenenza di classe solo attraverso il sacrificio e la negazione di sé, cioè attraverso la soggezione volontaria alla disciplina di un apparato esteriore.
Brilla qui una specie di moralismo, che saremmo tentati di definire piccolo borghese. Eppure, sebbene espresse nell'idioma della migliore tradizione stalinista, tali conclusioni hanno esiti sorprendenti. Come Althusser sostiene a proposito di Spinoza, il dogmatismo filosofico più estremo riesce a produrre i più straordinari effetti di liberazione. Le sue meditazioni sulla strategia filosofica, non soltanto la propria ma anche quella dei suoi avversari, lo portano alla conclusione che la vera resistenza che il marxismo affronta nell'ideologia dominante non assume principalmente la forma di un attacco proveniente dall'esterno. Il revisionismo, ad esempio, può consistere nel tentativo di importare nel marxismo idee che gli sono estranee, come l'esistenzialismo o la teoria della scelta razionale. Ma può trarre i propri argomenti anche utilizzando l'autorità di Marx, Engels e Lenin. Le tendenze non-marxiste che sorgono al suo interno si alleano così con le filosofie non-marxiste che lo incalzano dall'esterno.
Ora, se come molti critici hanno sostenuto a proposito dello strutturalismo, un'ideologia piccolo borghese può emergere all'interno del marxismo sulla base di un riferimento testuale a Marx, o se un «oggettivo» anti-marxismo può presentarsi come il suo più valido campione, perché non dovrebbe essere vero il contrario? Althusser sembra sostenere così che il marxismo può affermarsi anche all'interno di un pensiero non-marxista, o perfino anti-marxista.
Il marxismo, dunque, può sviluppare una teoria adeguata alla sua pratica solo riconoscendo che non esiste in un vuoto, ma che è circondato da filosofie non-marxiste con cui rimane in costante comunicazione e attraverso cui può condurre la propria lotta. Possiamo spingerci addirittura oltre: se l'attacco più efficace contro il marxismo ha origine al suo interno, il modo più adeguato di combatterlo, in determinate circostanze, può richiedere proprio una deviazione al suo esterno, come suggerisce la prefazione a Per Marx, intitolata «Oggi». Essere comunisti in filosofia, questa la sua conclusione, può essere più utile che tentare di elaborare una filosofia marxista.
Per quanto possa sembrare strano, proprio una lettura approfondita di Lenin sembra aver guidato Althusser verso tali posizioni, inedite e ben poco ortodosse. Althusser aveva in precedenza scoperto la «debolezza teorica» di Lenin. Incomparabile «clinico» e teorico pratico - scrive a Franca Madonia nel '67 - Lenin è debole quando si sporge sulla teoria. Credendo di fare della teoria, in realtà pone e definisce soltanto dei concetti pratici, utili per ingaggiare la lotta. Ora, cinque anni più tardi, il giudizio muta ed è proprio la lettura di Lenin che permette ad Althusser di comprendere per la prima volta gli «effetti» prodotti dalle sue definizioni di filosofia. Che la filosofia sia la «Teoria delle pratiche teoriche», dice molto sul rapporto della filosofia con le scienze, ma non dice niente sul suo rapporto con le ideologie, dove invece si dà lo scontro di classe. È questa la relazione organica che, per Althusser, la filosofia intrattiene con la politica.
Althusser rivede così la sua precedente critica di Lenin, per denunciare la pretesa di elevarsi al di sopra della lotta di classe, di parlare «della» filosofia o di costruire, appunto, una filosofia marxista. Questa sarebbe, nel migliore dei casi, l'ennesima versione (di sinistra nelle pretese e di destra nei risultati) della «negazione teorica della propria pratica», che Althusser vedrà di là a poco come costitutiva della filosofia in quanto tale. Un marxismo paradossale, quindi, che - dematerializzato in una dimensione trascendentale - parlerebbe di una totalità di cui pure non è parte.
In Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati, Althusser aveva descritto lo «spettacolo comico» del filosofo che afferma, in tutta modestia, di essere nientemeno che «lo specialista della totalità». Costui, un tempo, era il portavoce dell'universale che trascende gli egoismi individuali. Per gli Habermas di oggi, per gli auto-proclamati eredi del progetto incompiuto dell'illuminismo, questo universale non esiste più come esisteva per Kant o per Hegel. Non si oppone più, cioè, al mondo disgregato degli individui in competizione, ma a quello altrettanto disgregato delle collettività in competizione. Questo intellettuale può così parlare della comunità di tutte le comunità, della sfera di tutte le sfere pubbliche, elevandosi al di sopra delle lotte tra i gruppi e dello scontro tra interessi.
Come il personaggio di un cartone animato, egli corre sospeso in aria. E parla solo fin quando rimane incosciente del suo mancato posizionamento. Svelare l'assurdità di questo parlare da nessun luogo (cioè da ogni luogo), significa far precipitare a terra il filosofo. Precipitarlo sul proprio terreno, sulla propria posizione, la posizione che occupava fino a quel momento e che solo nella sua illusione egli poteva credere di non occupare. Questo il grande merito di Lenin: l'aver mostrato che ogni filosofia è di parte, che prende parte alla lotta per il dominio ideologico e che lo fa tanto più quanto più pretende di negare questo suo ruolo.
La verità storica, dunque, è conoscibile e conosciuta solo a condizione di occupare una certa posizione, piuttosto che un'altra, all'interno del conflitto di una certa epoca. Ciò richiede, a sua volta, che il filosofo sappia di occupare una posizione nello spazio della filosofia. Una posizione contesa, diversa e opposta a quella occupata da altri. Egli non percepisce passivamente, ma pensa attivamente, entro e attraverso la lotta in cui è impegnato.
Se la filosofia «occupa», cioè conquista e difende determinate posizioni di fronte ai suoi avversari, in gioco non è né la verità né la totalità. La filosofia non può reclamare neanche la conoscenza, poiché essa non inventa né scopre alcunché. La filosofia non «parla» nel senso comune del termine, ma piuttosto «agisce», tracciando linee di demarcazione che rendono visibili differenze e antagonismi.
Gli apparati dell'ideologia
L'attacco di Althusser agli intellettuali non è ancora completo. All'interno del marxismo, da Marx stesso a Engels, da Kautsky a Lenin in Che fare?, esiste una nozione di intellettuale come colui che, libero dalle condizioni del lavoro manuale, può sviluppare un sapere attraverso il proprio pensiero libero. Questo sapere potrà essere comunicato al proletariato, limitato invece dalle proprie condizioni materiali di esistenza e dagli imperativi della lotta. Marx e i suoi incauti seguaci hanno direttamente tratto tale nozione da La ricchezza delle nazioni di Adam Smith.
Su questo punto si inserisce il lavoro di Althusser sull'ideologia. Se gli intellettuali sono liberi dal lavoro manuale, essi non sono affatto liberi di pensare o di parlare o di schierarsi dalla parte della classe operaia. L'intellettuale parla e pensa solo entro un determinato apparato, governato dalle sue pratiche e dai suoi rituali. La figura dell'intellettuale è così soppiantata da quella del giornalista o del professore, costretti a parlare dall'interno dell'apparato della comunicazione o dell'accademia (o del partito politico, perfino quello comunista).
La possibilità, per l'intellettuale, di resistere al meccanismo che gli dà la vita e alla disciplina che gli dà la parola, non è determinata dal volere dell'individuo, ma da rapporti di forza in perenne mutamento, che soli possono portare a spezzare l'apparato stesso, cioè a «pensare diversamente». Ma anche questa possibilità sarà sprecata se l'intellettuale si ritira nella religione della teoria. È una tentazione a cui è difficile resistere, quando non solo l'alternativa non offre alcuna sicurezza, ma quando una valutazione lucida dei rapporti di forza significa intravedere che l'orizzonte della sconfitta può durare un'intera generazione. Prendere sul serio Althusser, oggi, significa accettare anche questo. Pensare entro e attraverso la congiuntura non è solo un'alternativa migliore rispetto a tutte le forme di negazione teorica, ma è l'unica alternativa possibile.
Traduzione di Filippo Del Lucchese
il Riformista 9.11.06
REVISIONISMI. UNA LEZIONE PER I MORALISTI
Togliatti contro Lombardi, via Pertini
Gli incroci pericolosi tra politica e soldi
di Fabrizio Cicchitto
Le rivelazioni contenute in un saggio di Andrea Ricciardi di cui ha parlato il Corriere della sera, intorno a un passo di Togliatti presso Pertini contro Riccardo Lombardi nel 1957 perché il leader socialista venisse isolato nel Psi visto che era la punta più avanzata dell'autonomismo socialista, costituiscono una ulteriore conferma di una storia politica della quale abbiamo già parlato sul Riformista. Togliatti aveva scelto bene il suo interlocutore nel Psi. In quegli anni Pertini aveva posizioni assai confuse, ma sentiva in modo fortissimo il richiamo a una unità indifferenziata della sinistra ed era su una posizione “centrista” fra gli autonomisti e i frontisti. Del resto egli fu eletto presidente della Repubblica su suggerimento di Andreotti, con il quale aveva ottimi rapporti, perché era la personalità del Psi più indipendente da Craxi e più gradita al Pci che invece pose un veto su Antonio Giolitti, il vero candidato del segretario socialista.
Fra Sandro Pertini da un lato e Riccardo Lombardi e Fernando Santi dall'altro i rapporti erano pessimi. La rottura fra Pertini e Lombardi risaliva al famoso congresso socialista svoltosi nel 1948 quando Nenni e Morandi furono messi in minoranza da una coalizione di autonomisti socialisti di vario orientamento guidata da Riccardo Lombardi, che diventò direttore dell'Avanti, da Jacometti che fu eletto segretario del partito, da Fernando Santi, Vittorio Foa, Giovanni Pieraccini ed altri.
Nella fase precongressuale Pertini si schierò con gli autonomisti che poi abbandonò clamorosamente durante il congresso, evidentemente influenzato dal Pci. Lombardi e Santi non perdonarono per tutta la vita a Pertini quel voltafaccia e Pertini a sua volta li ripagò con altrettanta durezza. Successivamente da presidente della Repubblica Pertini fu così ingeneroso con Riccardo Lombardi che non lo nominò senatore a vita preferendogli Camilla Ravera. Ma quella vicenda socialista e un'altra avvenuta nel 1964 mettono in evidenza due questioni: il ruolo decisivo svolto dai soldi in politica, il tipo di azione svolta dal Pci per tenere sotto controllo il Psi, il ruolo svolto dal Kgb nella vita politica italiana. Molti anni dopo quegli avvenimenti Riccardo Lombardi ricordava che non appena nel congresso del 1948 si affermò quella maggioranza autonomista essa si ritrovò senza alcun mezzo economico perché i finanziamenti del Psi provenivano tutti dal Pcus e dalle società di import-export con i paesi dell'Est. Per un anno il Psi andò avanti non potendo pagare funzionari, chiudendo sedi, facendo debiti, rischiando il fallimento dell'Avanti. Nel 1949 fu celebrato un nuovo congresso che, sia pure di pochissimo, gli autonomisti vinsero, ma in sede di commissione verifica poteri essi stessi accettarono un ribaltamento del risultato: la sinistra di Nenni e Morandi sconfisse Lombardi, Santi, Jacometti, Pieraccini piegandoli per fame: allora la divisione del mondo era netta e Lombardi e i suoi compagni non avevano a disposizione, sul terreno del finanziamento del partito, una “terza via” fra quelli del Kgb e delle cooperative rosse e quelli della Fiat e degli Usa.
Così essi furono costretti a riconsegnare il partito a Nenni e a Morandi e Riccardo Lombardi, per punizione, fu mandato alla presidenza dei partigiani della pace, una cupa organizzazione internazionale stalinista. Poi nel 1955-56 non appena si riaprì uno spiraglio, Riccardo Lombardi guidò la riscossa autonomista insieme a Pietro Nenni che allora rovesciò tutte le sue posizioni, riconsegnò il premio Stalin, scrisse due bellissimi e preveggenti saggi sul XX Congresso, due saggi che erano agli antipodi della famosa intervista a Togliatti su Nuovi Argomenti. Nenni sosteneva fin da allora che il sistema sovietico era irriformabile. Poi con l'invasione sovietica in Ungheria, che Togliatti non solo giustificò ma che anzi riservatamente sollecitò, la rottura fra Nenni e Togliatti, fra il Psi e il Pci, fu radicale. È nel corso di quella vicenda politica che Togliatti si rivolse a Pertini per colpire e isolare Lombardi, ma ormai era troppo tardi.
Quell'episodio dimostra alle anime belle qual è l'importanza decisiva dei finanziamenti in politica. Qualora Lombardi, Santi, Jacometti e Pieraccini avessero avuto un'autonomia finanziaria il corso della vita politica italiana avrebbe potuto essere diverso perché il Psi avrebbe assunto una posizione autonoma fin dal 1948 con conseguenze imprevedibili: la glaciazione frontista e stalinista del Psi non sarebbe durata fino al 1956.
Il passo di Togliatti nei confronti di Pertini non era una iniziativa isolata.
Quale fosse l'azione del Pci per condizionare gli orientamenti politici del Psi è confermato anche da un colloquio di Agostino Novella, allora ancora nella segreteria del partito, con l'ambasciatore sovietico Kostylev, riportato nel fondamentale libro di E. Aga Rossi e Victor Zaslavsky Togliatti e Stalin. «Alla vigilia del congresso del Psi, per assicurare la maggioranza dei voti a Nenni, il Pci doveva iscrivere nel Psi migliaia di comunisti, o semplicemente comprare la quantità necessaria di tessere socialiste e introdurre i loro numeri tra quelli votati a favore della piattaforma di Nenni. Molti comunisti sono diventati militanti e dirigenti locali del Partito socialista. Dobbiamo avere a ogni costo una direzione del Partito socialista stabile e vicina alla nostra posizione» (pag. 251).
Sempre a proposito dell'importanza dei soldi in politica, vale anche quello che successe nel 1964 quando al decollo del centrosinistra la forza politica del Psi sul terreno delle riforme fu ridotta dalla scissione della corrente di sinistra di Dario Valori, Tullio Vecchietti, Vincenzo Gatto e Luciano Lami. Si dice che Togliatti e Amendola non erano favorevoli alla scissione, mentre lo era Ingrao. Comunque la scissione fu finanziata da un lato dal Kgb, dall'altro lato fu propiziata dalla destra democristiana di Segni che fece avere i soldi dell'Eni a Lelio Basso. Un'operazione da manuale: sinistra filosovietica e destra democristiana alleate contro il riformismo socialista e il riformismo democristiano allora portato avanti con grande capacità e impegno da Amintore Fanfani.
Ricordava a proposito di quell'episodio del 1964 Riccardo Lombardi: «Codignola, Santi e io incontrammo Vecchietti, Valori, Gatto e Lami per convincerli a non fare la scissione. Mi rispose Valori: “Caro Riccardo, troppo tardi, è tutto fatto. Tu conosci bene Lami, sarà il segretario amministrativo del nuovo partito”». Lombardi: «Ma far nascere e mantenere in vita un nuovo partito richiede una grande quantità di soldi. Io ne so qualcosa. Come potete farcela?». Valori:«Riccardo, non ti preoccupare. Ci hanno pensato i compagni sovietici. Il nuovo partito è autosufficiente per i prossimi due anni».
Dedichiamo questo ricordo a due categorie di persone: ai moralisti che sostengono che non deve esserci finanziamento pubblico ai partiti e che comunque i soldi non hanno importanza in politica, e a coloro (comunisti e post-comunisti) che hanno sostenuto e sostengono che il Kgb non ha esercitato un ruolo assai importante nella vita politica italiana. Ma fortunatamente quel po' di archivi sovietici che sono emersi, prima di essere stati richiusi o venduti a chi sa chi, e il rapporto Mitrockin che è un'autentica miniera, con riscontri sempre verificati, stanno lì a dimostrare che è giusto quello che da tempo alcuni storici stanno facendo: essi stanno smontando la lettura della storia italiana dal 1944 in poi quale è stata fatta da altri storici che a suo tempo hanno contribuito a dare proprio un fondamento storiografico all'egemonia culturale del Pci.
Sappiamo che questo nuovo tipo di revisionismo (anche se l'espressione è del tutto impropria ed è già indice di una certa subalternità) fa impazzire alcuni nuovi «socialdemocratici e riformisti» ma ormai si tratta di un lavoro sul campo che le pagine culturali di alcuni quotidiani possono anche occultare, ma alla fine la forza di analisi storiche fondate su documenti si sta affermando malgrado tutto e tutti.
lastampa.it 9.11.06
LA STORIA DEI PARTIGIANI È SUL BANCO DEGLI IMPUTATI, MA GLI STUDIOSI CHE SI RICONOSCONO NELLA TRADIZIONE COMUNISTA TACCIONO. HANNO GETTATO LA SPUGNA?
Resistenza: hanno vinto i revisionisti
di Giovanni De Luna
Nelle turbolenze che periodicamente investono l'«uso pubblico della storia» si combatte per il presente in nome del passato. L’infittirsi dei libri di Giampaolo Pansa e Bruno Vespa sulla Resistenza e sull'Italia repubblicana ha reso più stridenti che mai le contraddizioni tra quanto il mondo della ricerca storica ha prodotto in questi anni e quello che è filtrato sul piano del senso comune. In questa divaricazione si sono accampate una serie di paradossali incongruenze.
1 Sulla Resistenza, ad esempio, la «grande bugia» che si intende smascherare è quella costruita dal vecchio Pci: si sono nascosti i crimini dei comunisti per poter legittimare, nel segno della «Repubblica nata dalla Resistenza», un partito altrimenti troppo schiavo dell'Urss per potersi considerare veramente «italiano». Sul banco degli imputati c'è quindi la storia del Pci; bene, nella lista degli storici accusati di difendere la «grande bugia» dei comunisti, da Bocca in giù, ci sono ex azionisti, ex liberalsocialisti, ex di Lotta Continua, ma nessuno che si sia riconosciuto nei filoni storiografici riconducibili al vecchio Pci. E, nonostante gli eredi di quella tradizione siano oggi ai vertici politici e istituzionali dello Stato repubblicano, il silenzio sui temi che mettono in discussione la loro storia, proponendone una versione quasi caricaturale, è imbarazzante. Ne deriva la bizzarra conseguenza che viene accusato di «difendere il Pci» proprio chi - dagli anni 70 in poi, quando il Pci era veramente forte e non ridotto alle espressioni crepuscolari e minoritarie dei comunisti di oggi - ha più duramente contestato le sue impostazioni storiografiche sulla Resistenza. Ci si scontrò allora su questioni cruciali: la diversa importanza da attribuire alla «spontaneità» e all'«organizzazione» nel passaggio dall'esiguità della cospirazione antifascista alle attive minoranze di massa protagoniste della lotta partigiana; l'accentuazione delle istanze classiste e rivoluzionarie contro la versione patriottica e «nazionale»; l'attribuzione della Resistenza allo slancio delle «minoranze eroiche», contro l'ignavia qualunquistica della «zona grigia» maggioritaria; il peso della «continuità dello Stato» e della transizione indolore di uomini e istituzioni del fascismo nell'Italia repubblicana, opposto all'esaltazione della «rottura» operata dall'avvento dei partiti e del pluralismo politico.
2 Quelli della lista dei difensori della «grande bugia» sono stati dipinti come una sorta di Armata Rossa, pronta a marciare compatta per difendere l'ortodossia ufficiale. Non è così. Con Sergio Luzzatto e Angelo d'Orsi, ad esempio, esiste da parte mia un esplicito dissenso storiografico per quanto si riferisce alle loro posizioni su Calamandrei o sulla politica culturale a Torino tra le due guerre; e con altri si sono consumate dolorose rotture personali. Credo che si debba riconoscere che questa frantumazione sia conseguenza anche di una profonda amarezza di fronte a quanto è successo in questi anni. Nel nuovo senso comune storiografico, le tesi «revisioniste» si sono affermate in modo straripante. Che a cogliere i frutti di questa vittoria siano oggi Pansa e Vespa è però un dato che dovrebbe far riflettere anche gli storici revisionisti.
3 Proprio in questa direzione ci si imbatte in un ulteriore paradosso. Molto del fascino esercitato dalle posizioni scaturite dall'asse Pansa-Vespa è legato a una rappresentazione mediatica che ne esalta il coraggio eretico, quasi si trattasse di un pugno di audaci iconoclasti pronti a lottare contro l'assolutismo del potere politico e accademico. Non è così. Le tesi di Renzo De Felice (da cui derivano le loro argomentazioni, senza però nemmeno una briciola delle imponenti ricerche che sostenevano il lavoro del loro predecessore) sono oggi largamente dominanti nella programmazione televisiva e nei giornali, senza contare l'unanime riconoscimento politico e istituzionale arrivato da sinistra («i ragazzi di Salò» evocati da Violante) e da destra, lungo un percorso che ha visto anche recentemente, con il governo di centro-sinistra e il ministro Parisi, la battaglia di El Alamein (da noi combattuta insieme con i nazisti) affiancarsi all’eccidio di Cefalonia (consumato dai nazisti contro i nostri soldati) nei «luoghi di memoria» della Repubblica.
4 Sarebbe il momento per tutti gli storici «revisionisti» di riconoscere che la loro battaglia ha ormai raggiunto i suoi principali obiettivi politici: cancellare la Resistenza dal paradigma di fondazione della Repubblica e aprire una nuova stagione, con una «rifondazione» che tenga conto anche di famiglie politiche e culturali del tutto estranee all'antifascismo. Purtroppo, fin dai suoi esordi alla fine degli anni 80, il revisionismo ha come interiorizzato nel suo Dna un vittimismo piagnucoloso e aggressivo. Questo fatto, che i vincitori si presentino sempre come perseguitati, alimenta molti dei paradossi che stiamo attraversando. Ci vorrebbe un atto di onestà intellettuale. Sulla Resistenza è stato già scritto moltissimo, dai revisionisti e dagli altri. Da Pavone, ad esempio. Si possono avanzare le tesi più estreme, esplicitare dissensi storiografici, culturali, politici; ma è giunto il momento di abbandonare l'artificio retorico delle «rivelazioni», di presentare sempre le proprie posizioni come se fossero «nuove» e eretiche. Quest'ansia di «smascheramento» è un puro espediente dialettico.
5 Per il libro di Pansa si è fatto un gran parlare dell'assenza di note a piè di pagina, attribuendo i rilievi di D'Orsi a una sorta di impuntatura corporativa. Non è così. Pansa è certamente un giornalista affermato, ma ha anche un curriculum da storico che lo portò, da giovane, a essere uno di quelli che contribuirono a sottrarre le ricerche sulla Resistenza alla dimensione etico-politico allora prevalente («Vecchio e nuovo nella storiografia della Resistenza», in Rivista storica del socialismo, fasc. 7-8, 1959). Le sue considerazioni sulla specificità dell'esercito partigiano e della lotta armata, a distanza di quasi quarant'anni (Guerra partigiana tra Genova e il Po. La Resistenza in provincia di Alessandria, Laterza, 1967), restano acquisizioni importanti, così come le osservazioni sulla guerra civile e sulle violenze partigiane, ribadite - ma in una direzione contraria alle sue tesi più recenti - ancora nel 1998 (per la nuova edizione del volume del 1967). Pansa conosce benissimo l'importanza che le note hanno nel nostro mestiere. È l'unica possibilità per certificare la fondatezza delle nostre argomentazioni, indicando le fonti e i documenti utilizzati nelle nostre ricerche a sostegno delle tesi interpretative. La sua scelta di rinunciare alle note (che invece erano fitte e rigorose negli scritti che ho citato) e di ricorrere all'artificio narrativo del dialogo con un interlocutore immaginario è il frutto di una profonda consapevolezza: le note sono un impaccio per un lettore assetato di semplificazioni manichee, che non chiede di essere rassicurato sulla fondatezza delle pagine che legge ma solo di potervisi «rispecchiare». In questo modo ci si garantisce il successo ma ci si sottrae anche a ogni possibilità di verifica critica.
Liberazione 9.11.06
Il rappresentante Ue per la politica estera Javier Solana: «Stop a simili azioni»
Bertinotti e Giordano: «Deve intervenire la comunità internazionale»
Una strage, l’ennesima. Le cannonate dei carri armati israeliani hanno colpito Beit Hanun, nella striscia di Gaza. Il bilancio è di 19 morti e più di 20 feriti. Una strage di civili, il più alto numero di vittime palestinesi in un solo attacco negli ultimi quattro anni. Un’intera famiglia di tredici persone spazzata via. Il presidente Abu Mazen e il premier palestinese Ismail Haniyeh hanno interrotto le trattative per la formazione di un nuovo esecutivo di unità nazionale, hanno chiesto una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’inviato speciale delle nazioni unite in Medio Oriente ha condannato il bombardamento israeliano e ha chiesto l’immediata cessazione delle operazioni militari israeliane. Il rappresentante Ue per la politica estera Javier Solana è stato esplicito: «E’ tempo che si metta termine al ciclo di violenze attuali che condanno nei termini più forti». «Bisogna lasciare una chance al processo di riconciliazione», ha fatto presente, e «bisogna sostenere il presidente Abbas nei suoi sforzi per formare un nuovo governo».
Anche il ministro degli Esteri Massimo D’Alema ha condannato la strage. A margine di un incontro con il collega del Marocco Taieb Fassi Fihiri, ha sottolineato che per sbloccare la questione palestinese è «fondamentale un’iniziativa internazionale». «Spero - ha detto D’Alema - che queste operazioni militari cessino di fronte alla tragedia accaduta e si possa riprendere la via del rapporto negoziale tra le parti». La strage ha suscitato rabbia e dolore nel resto del mondo arabo. L’ambasciata della Siria a Roma ha condannato in una nota «il feroce massacro» di Beit Hanun e «il terrorismo di stato commesso da Israele», invitando «i fratelli palestinesi, qualunque sia la loro appartenenza politica, all’unità nazionale contro i crimini israeliani».
«Non si può assistere inerti all’aggravarsi della situazione, a scenari di distruzione, a un numero di morti sempre crescente in Palestina», ha dichiarato il presidente della Camera Fausto Bertinotti.
«La comunità internazionale deve intervenire. In particolare l’Europa, che già ha espresso un meditato giudizio sugli avvenimenti, intraprenda una decisa iniziativa politica e diplomatica. Il tempo di una conferenza internazionale, per favorire una soluzione al conflitto israelo-palestinese, costruendo una politica di pace - ha concluso Bertinotti - è ormai non più rinviabile».
«La situazione del Medio Oriente sta diventando sempre più insostenibile. Bisogna affermare la sistematica aggressione nei confronti del popolo palestinese». Lo ha detto il segretario di Rifondazione comunista, Franco Giordano. E ancora: «Bisogna prospettare subito una conferenza internazionale di pace e il nostro paese deve diventare promotore di questa iniziativa, che dovrà avere al suo centro la parola d’ordine: “due popoli, due Stati”».
«Il governo si attivi immediatamente ed elevi la sua protesta ai più alti livelli verso quello che è un crimine contro l’umanità». Anche il gruppo del Prc del Senato, con una dichiarazione del presidente Giovanni Russo Spena e di Francesco Martone, capogruppo in commissione Esteri ha protestato per i bombardamenti israeliani sulla striscia di Gaza parlando «dell’ennesima strage di civili nella cittadina di Beit Hanun», che impone «a tutti noi, ma soprattutto al governo, la massima attenzione».
«Esprimiamo la più ferma condanna dell’ennesima strage che ha colpito la già stremata popolazione di Gaza, dove da più di una settimana continua l’offensiva militare israeliana nell’indifferenza e nel silenzio colpevole della comunità internazionale», ha aggiunto Fabio Amato, responsabile esteri del Prc. «Adesso più che mai è necessario manifestare per la pace: il 18 novembre saremo tutti in piazza a Milano per la manifestazione nazionale promossa da diverse realtà pacifiste».
«La continua strage di civili nella striscia di Gaza ferisce coscienze di tutti i cittadini del mondo ed è un crimine verso la popolazione. La comunità internazionale deve dare un’adeguata risposta non solo in termini di condanna, ma anche di avvio di un processo di pace come è stato fatto in Libano». Parole che arrivano dal capogruppo dei Verdi alla Camera Angelo Bonelli. «La violenza va fermata. La comunità internazionale ha il dovere morale ancor prima che politico di fermare la violenza a Gaza».
La segretaria di Stato Condoleezza Rice ha chiamato il presidente palestinese Abu Mazen per esprimergli la sua «profonda tristezza». E in serata arriva la notizia che il Consiglio di sicurezza dell’Onu si riunirà oggi. La comunità internazionale deve intervenire, l’ha detto Bertinotti, tutta Rifondazione, i Verdi, il ministro degli Esteri D’Alema. Bisogna fare qualcosa, subito.
Liberazione 9.11.06
Il ministro Amato manifesta malessere e ripensamenti. Intervista al senatore di Rifondazione comunista
Di Lello: «L’Indulto? Misura giusta e necessaria»
di Davide Varì
«Una soffferenza accettare l’indulto» afferma il ministro degli interni Giuliano Amato. «Non è frutto del mio magazzino, l’ha deciso il Parlamento», fa eco il guardasigilli Clemente Mastella. Insomma, soprattutto dopo le notizie da far west che arrivano da Napoli, sembra di assistere ad una gara di prese di distanza dall’indulto.
Una gara che, paradossalmente, da credito alla tesi, del tutto infondata, secondo cui gli ultimi fatti di cronaca nera siano il frutto diretto dell’indulto.
Ne abbiamo parlato con il senatore di rifondazione comunista Giuseppe Di Lello che, a tal proposito, ha ben pochi dubbi: «quello che sta succendendo a Napoli non ha nulla a che vedere con la decisione di concedere l’indulto».
Amato dice che accettare l’indulto è stata una sofferenza.
Credo che l’indulto sia un irresistibile paravento dietro il quale nascondersi quando ci si sente sotto assedio o quando non si vuole parlare delle difficoltà strutturali del sistema giudiziario e detentivo. Vorrei chiarire che le notizie che arrivano da Napoli hanno ben poca relazione con l’indulto. La gran parte della popolazione carceraria che ha beneficiato di questa decisione era già fuori: era in regime di libertà condizionata, oppure seguiva programmi di pena alternativa. Isomma, erano persone che potevano delinquere già da prima, senza aspettare indulti o indultini.
Il consiglio superiore della magistratura si lamenta del fatto che i detenuti continuano ad uscire.
Certo, è evidente che il numero dei beneficiare sarebbe aumentato. Non dobbiamo dimenticarci che siamo in Italia, dove per chiudere un processo ci vogliono anni e anni. Sono ancora in corso, e ce ne saranno ancora a lungo, processi che giudicano reati contestati anni e anni fa. Reati che rientrano entro i termini previsti dall’indulto. Insomma, l’indulto non produce effetti istantanei, produce effetti sui processi in corso e col passare dei mesi produce nuove scarcerazioni.
Quindi questa nuova, o presunta tale, ondata di crimini nulla ha a che vedere con l’indulto.
Dire di no. Basta dare un’occhiata alle statistiche dei crimini commessi per rendersi conto che i dati sono sostanzialmente stabili. Io in commissione giustizia ho chiesto questi dati proprio per dimostrare che l’indulto non ha nulla a che vedere con quello che sta accadendo in questi giorni. Ho chiesto anche i dati delle pene alternative presenti. Ripeto, dobbiamo avere bene in mente che la gran parte dei beneficiari dell’indulto erano già fuori.
In ogni caso Mastella e Amato sottolineano come la scelta sia stata del Parlamento.
Come se non fosse chiaro a tutti che l'indulto l'ha voluto il Parlamento e quindi tutta la classe politica. Del resto la situazione carceraria era diventata esplosiva e non si poteva attendere.
A questo punto, col clima che si è creato, parlare di amnistia è proibito.
Vero, con questo clima forcaiolo direi che sarà difficile tornare a parlare di amnistia. Io resto convinto che l’amnistia sarebbe la soluzione più logica. Una decisione che eviterebbe perdite di tempo ai magistrati, i quali oggi si trovano a lavorare su reati che saranno indultati. Del resto, storicamente, indulto e amnistia hanno viaggiato insieme proprio per questo motivo: perchè con l’amnistia si evita di fare processi su reati che di certo potranno beneficiare dell’indulto, reati contestati molto tempo prima.
Quindi vale la pena continuare a difendere la decisione del parlamento?
Direi di si, l’indulto è stata una decisione saggia e giusta. Dare una chance a chi ha commesso un reato è una grande questione di civiltà. Visto poi che questo sistema penale ignora, di fatto, il reinserimento e il recupero della persona detenuta - lo ignora per problemi oggettivi dovuti allo stato delle carceri - allora l’unica soluzione è l’indulto. Altro problema poi, è la gestione di queste persone. Offrire loro, una volta fuori, dei percorsi lavorativi e formativi che sono stati finanziati.
Liberazione Lettere 9.11.06
Pena di morte
Di eccezione in eccezione
Cara “Liberazione”, per l’illustre politologo Giovanni Sartori «ogni regola ha la sua eccezione», e l’acuta osservazione è fatta in un’intervista andata in onda sul Tg1 (mi pare) a proposito della pena di morte comminata a Saddam Hussein. E giù a dire che secondo lui sono tanti i personaggi che (volentieri?) avrebbe condannato a morte: Hitler, Pol Pot, Stalin eccetera. Ora, personalmente non so come mi sarei comportato, che so, 40 o 50 anni fa, so solo che, oggi, la mia cultura, la mia coscienza non accetta, in nessun caso - senza eccezione alcuna - la pena di morte. Mi farebbe piacere sapere in quali altri casi lui oggi riterrebbe giusta l’applicazione “eccezionale” della pena di morte. Mi sa tanto che le sue “eccezioni” non coinciderebbero con quelle di altri… Di questo passo ognuno avrebbe le proprie “eccezioni”, e non si sa bene perché quelle di Sartori dovrebbero valere e quelle di altri no… Inviterei Sartori a riflettere sugli effetti - perversi - di quel suo ragionamento.
Domenico Gioia via e-mail
Tiscali notizie 9.11.06
Psicofarmaci ai bambini di 8 anni: è polemica
Giù le mani dai bambini. A pochi mesi dalla decisione dell'Agenzia europea per il farmaco (EMEA) di abbassare da 18 a 8 anni l'età a partire dalla quale sarà possibile somministrare psicofarmaci, Prozac e non solo, è questo il grido d'allarme lanciato da psicoterapeuti, psichiatri ma soprattutto dai genitori che temono per la salute dei propri figli. Se da una parte si sostiene che i vantaggi derivanti dall'assunzione di farmaci siano superiori ai rischi corsi dai minori affetti da una qualche forma di depressione, dall'altra si teme che l'uso/abuso possa scatenare drammatici effetti collaterali, da modificazioni del comportamento, al suicidio, a forme incontrollate di aggressività.
Un timore che tantissimi genitori esprimono con rabbia e che è testimoniato dalle tantissime mail giunte alla nostra redazione. "Quando facevo la mamma - scrive Agnese - ricordo che anche i miei figli a volte, nella loro infanzia e durante l’adolescenza, hanno avuto momenti in cui erano tristi, depressi, come si usa dire adesso, ed i motivi scatenanti erano i più svariati: un voto brutto a scuola, un voltafaccia dell’amico del cuore, l’essere stati lasciati dalla ragazza, una perdita, che causava in loro un temporaneo calo d’interesse nella vita di tutti i giorni, pianti e insonnia; ma io e mio marito, armati di amore, comprensione e tanta pazienza e buona volontà, siamo sempre riusciti a calarci nella loro realtà ed ad aiutarli ad affrontare i problemi che di volta in volta si presentavano, per poi risolverli nel migliore dei modi". "No alla prescrizione degli psicofarmaci ai bambini - conclude la nostra lettrice - Così facendo, uccideremo la loro naturale vitalità". Esprime grande sgomento nei confronti del provvedimento anche Antonella, insegnante e mamma, che denuncia: "Un tempo si faceva la caccia alle strege, oggi il bersaglio è diventato il bambino. E per colpirlo una parte di psichiatria ha coniato delle malattie le cui diagnosi non sono supportate da evidenze scientifiche, ma si basano unicamente sulla catalogazione di soli sintomi. L'uso di farmaci a base di anfetamina negli USA - denuncia l'insegnante - ha già causato vittime fra i piccoli".
Dagli USA all'Italia - Ed è proprio dagli USA che l'allarme è partito. Solo in America, dopo la decisione della Food and Drug Administration, di autorizzare l’uso di antidepressivi, nella cura di bambini e adolescenti, le ricette del Ritalin, altro farmaco nell'occhio del ciclone insieme al Prozac, sono aumentate del 600 per cento ed oggi sarebbero tra i 6 ed i 7 milioni i bambini americani trattati con questo psicofarmaco.
Sotto accusa il provvedimento - L'agenzia europea per il farmaco si è attirata numerose critiche in particolare per quel passaggio nella delibera dove si subordina la somministrazione della molecola sui bambini al fallimento della terapia psicoanalitica protratta per oltre 4/6 settimane: gli addetti ai lavori sostengono, infatti, che alcuna terapia psicoanalitica può riuscire ad ottenere risultati soddisfacenti in così breve tempo.
Perchè la polemica - Il timore è che in futuro ci sarà un sempre più massiccio quanto ingiustificato ricorso agli psicofarmaci, sia nei casi di depressione che in quelli di "semplice" iperattività e disattentenzione. Senza contare che spesso gli stessi medici che li prescrivono, non sempre conoscono a fondo questi farmaci. L'allarme degli psicoterapeuti è anche un altro. Quella del ricorso agli antidepressivi denunciano - è una soluzione considerata "più comoda" rispetto a quella di interrogarsi sulle ragioni vere e profonde che sono all’origine del crescente disagio psicologico dei bambini. Agire sull'effetto, ci si chiede in sostanza, può avere un senso se non si curano le cause?
M.E.P.