Corriere della Sera 6.5.06
INEDITI
La dolorosa rottura che dal ’78 divise il medico scrittore e il padre della legge 180 nei documenti dell’epoca
Tobino e Basaglia, duello sulla follia
«La malattia mentale esiste e va curata». «No, i manicomi servono solo al potere»
di Paolo Di Stefano
«Anche loro sono creature umane, si lascino tranquilli, questa è la loro casa». Così scrisse Mario Tobino nel maggio 1978 sulla Nazione. E qualche giorno dopo ribadiva: «Non metto in dubbio i meriti di Basaglia per la liberalizzazione dei manicomi e il nobile spirito che lo anima. Però non ho potuto non sorridere quando ho letto che sarei strumento del dominante potere». L’eco di quella aspra discussione con il padre della legge 180 risuona in una lettera che l’autore di Le libere donne di Magliano inviò il 3 luglio 1979 al suo assistente Franco Bellato: «Caro Franco, questa Legge 180 ha del buon principio, ma come spesso in Italia accade saranno problemi. I malati vanno curati e amati. I politici guasteranno tutto... come sempre, speriamo. Ma, resteremo soli e la moda vincerà. Addio malati, cari compagni della mia vita. Il tuo vecchio Mario Tobino». È questa una delle tante carte inedite (racconti, diari, poesie, lettere) che verranno conservate nella sede della nuova Fondazione intitolata allo scrittore toscano. Ricorda Bellato: «Ci trovammo soli, Tobino e io, nel contrastare l’abbandono e il degrado realizzati dopo la legge 180, che fu recepita a Lucca in modo assai superficiale e demagogico, come sempre accade in Italia, perché a nostro avviso fino a che un malato si fosse trovato nell’ospedale psichiatrico doveva essere curato e assistito al meglio». Nell’intervento sulla Nazione, Tobino precisò in che cosa consisteva la frattura con Basaglia: «Quello che nettamente mi divide da lui è che io credo, ho incontrato, ho partecipato, ho sofferto della follia, (...) lui non ci crede, dice che non esiste, sono i padroni che hanno tirato su i manicomi per tirarvi dentro i diversi, i disturbatori del loro dominio, metterli dentro e farli diventare matti».
Accusato di aver creato la «moda dei matti in libertà», Basaglia scese in campo dopo pochi giorni: «Tobino parla di "carità continua e aspetto umano". Quale significato reale hanno oggi queste espressioni? Nessuno. Il discorso è politico e Tobino non lo affronta. Anzi, finge di non affrontarlo poiché tutta l’impostazione del suo articolo è politicizzata al massimo (...). La psichiatria è la scienza che serve al potere per controllare la persona emarginata». E incalzava con un attacco ad personam contro lo scrittore: «Il rapporto già fragile in molta stampa italiana fra informazione e disinformazione si squilibra a vantaggio della seconda quando si affidi alla penna cechoviana di uno scrittore l’analisi di un ambiente che è in realtà la tesi dell’ideologia dominante. Oggettivamente il suo scritto rende un grosso servizio al potere (...). Ebbene, era tutto falso! Dove erano le donne oscene e cattive, quei bei personaggi femminili descritti dal Tobino? Nella realtà del manicomio non c’era da avere pietà e compiacersi della sofferenza ma soltanto lavorare duramente per abbattere giorno per giorno quei muri».
Nella sua replica, Tobino insisteva: «Io credo che la follia esista e Basaglia invece mi pare che sia convinto che, chiuso il manicomio, svanisca la cupa malinconia, l’architettura della paranoia, le catene delle ossessioni». E ribadiva la necessità che «il manicomio sia al massimo libero, fraterno, civile, umano». Liberi tutti, a quasi trent’anni da quel dibattito, di trarre le proprie considerazioni su chi aveva ragione e chi aveva torto. «Andato in pensione nel 1980, a settant’anni, ha vissuto con dolore questo triste passaggio nelle modalità di assistenza psichiatrica», ricorda oggi Bellato.
Anche Michele Zappella ha un ricordo nitido delle posizioni di Tobino sulla legge 180, e non solo perché è suo nipote, figlio della sorella Tilde (detiene molti manoscritti dello zio, compreso un diario su cui sta lavorando la studiosa Paola Italia), ma soprattutto come neurologo e oggi tra i maggiori psichiatri infantili: «Tobino, come medico, non si opponeva alla libertà per i malati mentali, ma vedeva i rischi che la legge comportava: mio zio insisteva sul fatto che i matti sono creature degne di amore e sulla necessità di una protezione e di un’integrazione. Tobino era contrario al fatto che si facesse finta che la malattia non esistesse, con il suo peso sociale anche drammatico nel compromettere l’incolumità del malato e degli altri. Ridurla, secondo lui, era una falsità. Oggi le sue posizioni sono confermate anche sul piano scientifico».
Che effetto ebbe la polemica con Basaglia su Tobino? «Anche per il gruppo di Basaglia, Tobino era stato un punto di riferimento. Ma la dura polemica del ’78 ne fece una persona isolata, che combatteva su un terreno di verità, ma che finì emarginata dalla maggioranza. Poi, mio zio fu l’unico che si diede la pena di contare quanti suicidi aveva prodotto a Lucca la legge Basaglia, per valutarne a distanza di tempo i risvolti negativi: il risultato fu impressionante». Un ricordo personale? «Studiavo ancora Medicina, ricordo che un giorno lo seguii in ospedale: di fronte alle malate partecipava al loro delirio, se la malata diceva di essere una principessa, lui stava al gioco, entrava nel suo mondo fantastico, non per collusione ma per stabilire un contatto. Era molto amato. Un giorno a Lucca nevicava e le malate uscirono dalla corsia con delle coperte per coprire la sua macchina. Volevano proteggerlo».
LUOGHI
E l’ospedale diventa Fondazione
L’ex Ospedale psichiatrico di Maggiano (in provincia di Lucca), dove lo scrittore e psichiatra abitò e lavorò per molti anni, sarà la sede della Fondazione Mario Tobino, che nasce per iniziativa della Provincia di Lucca, del Comune di Viareggio e degli eredi Tobino. Come presidente della Fondazione è stato designato Andrea Tagliasacchi, come vicepresidente Franco Bellato, come direttore lo storico Marco Natalizi. Nel Comitato scientifico figurano Laura Barile, Luciano Del Pistoia, Alba Donati, Giulio Ferroni, Paola Italia, Gloria Manghetti, Corrado Stajano, Enrico Stampo, Michele Zappella e Luisa Zappella.
Per le iniziative speciali della Fondazione sono coinvolti anche il regista Mario Monicelli, gli scrittori Manlio Cancogni ed Enzo Siciliano (quest’ultimo curatore del Meridiano Mondadori di Tobino previsto per il 2007), gli italianisti R.P. Harrison e Rebecca West, lo psichiatra Arnaldo Ballerini e lo storico Stefano Ballerini.
L’attività della Fondazione verrà inaugurata il prossimo 20 maggio presso il Palazzo Ducale di Lucca alle ore 10. Nel programma della giornata sono previsti anche un convegno dal titolo «Rileggere Tobino» e una tavola rotonda sul tema «L’Italia letteraria: identità e mercato».
«Ho portato in clinica una furia di ricordi e un barroccio di vecchi libri
di MARIO TOBINO
Tornato in patria dalla Libia per una ferita che lo lascerà parzialmente invalido, nel 1942 Mario Tobino prese servizio nell’ospedale di Maggiano, in provincia di Lucca. L’anno dopo decise di aderire alla Resistenza, come racconterà nel Clandestino (1962). Un cospicuo nucleo di lettere di quell’epoca inviate a Paola Olivetti, che sarebbe stata la sua compagna fino alla morte, sono conservate dalla nipote Isabella Tobino. Raccontano «in diretta» i disagi della guerra.
«Cara Paola, ieri, stanotte, solo in Viareggio fredda, buia, tutti all’imbrunire corrono in bicicletta verso la campagna, distanti; allora mi misi in cucina, avevo mandato a prendere due razioni di pane dal ragazzo di farmacia, e c’erano dei formaggini che alcuni non erano andati a male, levai l’olio da un fiasco, e mi misi a cantare. Poi a letto, raggomitolato, avevo ancora un po’ freddo, e leggevo avidamente, e gli apparecchi mi passavano col ronzio sopra la testa (...). E il bombardamento che ci fu non fu gran cosa, che era una notte tiepida e si stava bene anche in giacchetta. Colpirono tutto tranne la stazione e le rotaie, al di fuori di una polverosa» (5 novembre 1943).
Qualche mese dopo Tobino racconta lo sfollamento da Viareggio: «Tra poco guarderò se mi riesce trovare un carro da portarmi via qualche cosa, il resto lo abbandono (...). Ma intanto le tue lettere mi amano, e le rileggo. E dello sfollamento e della roba mi porta poco» (12 aprile 1944). Passano due giorni, un’altra lettera che anche nella grafia risente della concitazione del momento: «Ieri e oggi non ti ho scritto per via delle casse, delle mani sudice, la mia casa è piena di roba, ho seta, lana, una ricchezza enorme, libri, disegni, quadri, tè, liquori, marsala all’uovo, non sapevo, devo sfollare, non so dove; e i miei quadri di bastimenti! (...). Camion, carri, ciuchi storditi dal peso, per le strade del mio paese. Solo il mare è sempre lo stesso (...). Da Viareggio porterò via, se anche questo mi riuscirà, un lettino per visitare, forse un armadietto bianco, qualche libro, le tue lettere, poco altro; qualche grammo. Il resto che Dio lo guardi, che è roba umana. Il resto rimarrà nella mia casa».
Abbandonata Viareggio, Tobino è pieno di poetica tristezza: «Così dalla mia casa non potrò più vedere il mare che lumeggia laggiù i suoi occhi contro i miei, non vedrò dunque, respirando, la giostra della marina leggenda marina come quando dal terrazzo respirando guardavo; come un porco non rivolterò le mie membra in ciò che amo; né la darsena. Me ne venni via, solo, con pochi libri consunti e con qualche bastimento, col cuore che non ci credeva e intanto già metteva un sentiero per la realtà. Ho abbandonato la mia casa (...). Qua non rotolano più le onde. Non più. Qui è solo terra. Non le prue che vanno verso altri colorati mondi; e ritorneranno. Abbiamo abbandonato il mare. Ci hanno allontanato con la mano aperta (...). Stamani col barroccio ho portato qualche libro al manicomio e una furia di ricordi. Mai si potrà distaccare dal mio cuore quel quarto, tagliato nettamente, di cocomero che sbava le notti estive marine. La morte è un pesce putrefatto. I ricordi mi fanno alzare un velo di pianto e nostalgia» (20 aprile 1944).