martedì 4 giugno 2019

L’Espresso 2.6.2019
Il futuro che ci aspetta senza Draghi a Francoforte
di Bruno Manfellotto
Quando arriverà la manovra “monstre” finirà anche il quantitative easing della Bce. e sul successore l’Italia avrà poca voce in capitolo


Nella sala dell’Accademia dei Lincei, dove si presentava la nuova edizione italiana della “Teoria generale” di John Maynard Keynes, tradotta e annotata con rigore scientifico e passione civile da Giorgio La Malfa per i Meridiani Mondadori, c’erano Sergio Mattarella e Mario Monti, Giovanni Tria e Ignazio Visco. Una celebrata ricetta economica faceva il suo ritorno ufficiale nel dibattito politico. Impegnato altrove, non c’era invece Mario Draghi, cioè l’uomo che il keynesismo lo ha praticato fino in fondo acquistando titoli dei debiti sovrani (più di 250 miliardi solo in Italia) e salvando così la moneta unica, le nostre banche e, se volete, l’Europa stessa.
Ora la coincidenza vuole che a novembre Draghi lasci la presidenza della Bce, proprio quando Salvini e Di Maio, o chissà chi, saranno alla vigilia di una manovra economica pesantissima su cui già incombe la bocciatura di Bruxelles: debito monstre, crescita zero virgola, 40 miliardi da trovare per evitare il salasso dell’Iva e pagare le improvvide trovate del governo verdegiallo. Solo che a quel punto l’ombrello difensivo sarà mezzo chiuso: finirà il quantitative easing, ma almeno Draghi ha predisposto perché i tassi restino a quota zero, i prestiti alle banche continuino e la Bce riacquisti i titoli in scadenza fino al 2020. Ma poi se ne andrà. E allora che ne sarà della Bce, di noi, di lui?
Al decisivo rinnovo delle cariche, l’Italia sovranista di Matteo Salvini, nonostante il trionfo casalingo, arriva minoritaria e indebolita: via Draghi, via Antonio Tajani dalla presidenza del Parlamento Ue, e via Federica Mogherini dal coordinamento della politica estera. A causa del calendario delle cariche in scadenza, poi, resterà pure senza posto nel consiglio della Bce e per riconquistarlo dovrà attendere le uscite successive e contrattare con francesi e tedeschi in cambio del sì al presidente che vorranno loro.
Il candidato più forte alla successione di Draghi è il tedesco Jens Weidmann che, do you remember?, fu l’unico a opporsi allo storico “whatever it takes”. Se invece la Germania dovesse puntare sulla presidenza della Commissione, magari per Angela Merkel, Weidmann proverà a giocare da king maker. Se l’avrà vinta, potrebbe toccare a un finlandese o a un olandese: significherebbe una Bce più tradizionale, meno interventista, non disposta a salvare banche né stampare moneta. Più nel solco di Draghi si muoverebbero invece i francesi Cœuré e Villeroy de Galhau cari a Macron. I giochi incrociati Bruxelles-Francoforte potrebbero pure favorire un outsider ( falco o colomba?), ma qui l’Italia ha poche carte, e pochi nomi forti, da giocare.
Già, a proposito di nomi forti: Draghi che farà? Mai nessuno come lui è stato tirato per la giacchetta così spesso (e così invano): Silvio Berlusconi, che lo vide all’opera nella stagione delle privatizzazioni, gli affiderebbe qualunque incarico; alcuni lo immaginano a Palazzo Chigi se crisi politica e finanziaria dovessero esplodere; altri al Quirinale quando nel 2022 finirà il mandato di Mattarella; il quale, auspicano altri ancora, potrebbe intanto nominarlo senatore a vita, come fece Napolitano con Monti. In altri tempi, forse, sarebbe stato naturale candidarlo proprio alla presidenza della Commissione europea. Ma chi dovrebbe farlo sono gli stessi Salvini e Di Maio che, invece di ringraziarlo, sono arrivati ad accusarlo - testuale - di avvelenare il clima e di non tifare Italia. Draghi aveva solo ricordato loro che la missione della Bce non è quella di finanziare i debiti pubblici. Figuriamoci quando a Francoforte lui non ci sarà più...

L’Espresso 2.6.2019
Dopo il voto
La sinistra è a una svolta.
E tu pd da che parte stai?
di Mario Ricciardi

A qualche giorno dalla pubblicazione dei risultati elettorali possiamo tirare un sospiro di sollievo. In alcuni Paesi la destra (perché è di destra che dovremmo parlare, non di populismo) nazionalista ha avuto successo, aumentando i propri rappresentanti al Parlamento europeo, ma in altri non è andata bene. In ogni caso il risultato complessivo ci presenta un’assemblea in cui le forze politiche favorevoli all’Unione - socialisti, liberali, verdi e popolari - sono ancora in grado di mettere insieme una maggioranza. C’è persino la possibilità, grazie al successo dei Verdi e dei Liberali, che il punto di equilibrio del Parlamento si sposti verso sinistra, con la scelta di un Presidente della Commissione che non sia espressione, come il precedente, del Partito Popolare. Se così fosse, potremmo salutare la cosa come un segnale positivo. Andando oltre le etichette non c’è dubbio che il confine politico tra popolari e destra nazionalista sia, in alcuni casi, poroso. Lo abbiamo riscontrato in passato nelle vicende riguardanti l’Ungheria di Orbán, ma anche nel nostro Paese, negli atteggiamenti piuttosto ambigui nei confronti della destra tenuti da Tajani e Berlusconi. Bene quindi se il prossimo presidente sarà un socialista (meno probabile) o un liberale.
Mentre il clamore dei commenti sul voto va scemando possiamo prenderci un momento di pausa per fare qualche riflessione di carattere più generale sullo stato della sinistra in Europa. Quali sono le sfide da affrontare? Quali le prospettive per il medio termine? Anche se ci sono alcuni partiti socialisti che sono andati bene (ad esempio in Spagna, in Portogallo e in Olanda), non si può certo dire che la sinistra europea goda, in questo momento, di ottima salute. A influire su questa condizione di vulnerabilità sono diversi fattori, in parte riconducibili alla crisi cui vanno incontro i partiti socialisti a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, i cui effetti si avvertono ancora oggi, in parte ai diversi contesti politici nazionali in cui i partiti in questione operano.
Sul primo punto sono stati versati fiumi d’inchiostro, almeno da quando, nel 1978, con la sua consueta schiettezza, Eric Hobsbawm si chiese, in un saggio giustamente diventato famoso, se la «marcia in avanti dei lavoratori organizzati si fosse arrestata» (The Forward March of Labour Halted?). Già si avvertivano, nel Regno Unito in corso di transizione dall’economia industriale a quella dei servizi, i segni premonitori della dissoluzione dei sentimenti di solidarietà alimentati dalla condivisione dei luoghi di produzione, un collante morale che aveva tenuto insieme, nel bene e nel male, sindacati e partiti della sinistra socialista europea nella travagliata storia del “secolo breve”. Le trasformazioni dell’economia internazionale e l’accelerazione del processo di globalizzazione cominciavano a erodere il terreno su cui era stato edificato il “consenso socialdemocratico”, un compromesso tra gli interessi del Capitale e quelli del Lavoro che coinvolgeva anche i partiti moderati (i Conservatori nel Regno Unito non meno dei Democristiani in Italia). Sciolti dai legami di solidarietà, gli operai e i salariati che costituivano la massa d’urto e il bacino elettorale dei partiti socialisti sono diventati nel frattempo lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, in molti casi proprietari di case, investitori, genitori di una nuova generazione che guardava oltre l’appartenenza di classe, verso una società di opportunità e di benessere. Lo spostamento a destra di una parte del vecchio elettorato laburista avviene nel Regno Unito molto prima, negli anni dell’ascesa di Margaret Thatcher, di quanto sia avvenuto da noi. Ma si tratta di un processo unitario, che progressivamente investe tutta l’Europa. L’individualismo, la spinta verso il vantaggio personale, anche quando questo comporta significative diseguaglianze sociali, muta profondamente il paesaggio morale e sociale dell’intero continente europeo. In modo più marcato in alcuni Paesi, come il Regno Unito, e meno in altri, come la Germania o la Francia.
Non sorprende dunque che il crollo del muro di Berlino, nel 1989, venga letto anche dagli stessi socialisti come un passaggio d’epoca. Finito, con qualche anno di anticipo il Novecento, bisogna cambiare, e farlo velocemente, pena l’irrilevanza politica. Dal tentativo di rispondere a questa sfida nasce la Terza Via, che mette sullo sfondo, fino a farlo sparire quasi del tutto, il vecchio ideale egalitario e solidarista, per sostituirlo con un principio della tradizione liberale, quello della cooperazione nel mutuo vantaggio. L’idea è che nella società del benessere, se si produce sufficiente profitto, ci sarà abbastanza da “lasciar cadere” verso gli svantaggiati o i meno fortunati, senza interferire troppo con i meccanismi economici che generano ricchezza. Per un po’ il compromesso sembra funzionare, poi arriva la Crisi, e con essa il drammatico risveglio delle sinistre europee. L’accumulazione della ricchezza priva di efficaci contrappesi politici si trasforma in potere negoziale, per cambiare le regole del gioco solo a vantaggio di alcuni. Grandi risorse affluiscono ai think tank libertari e a favore del mercato, mentre partiti socialisti e sindacati, perdendo iscritti, possono contare su mezzi sempre più limitati.
Da qualche anno la situazione è cambiata. In diversi Paesi europei, e anche negli Stati Uniti, la sinistra sta facendo una profonda autocritica relativamente all’esperienza della Terza Via e degli anni Novanta. C’è chi tenta di riproporre il modello della lotta classe, come fanno tante riviste (da Dissent a The Jacobin o a N + 1) e intellettuali che ritengono sia possibile restituire vitalità e mordente politico alla critica marxista del capitalismo. Oppure chi, a mio avviso con maggiore plausibilità, ritiene che da Marx si possa imparare molto, ma che la risposta ai problemi di oggi la sinistra debba trovarla in un socialismo riformista che sappia tornare a essere radicale, come i socialisti e i democratici sono stati in alcuni passaggi cruciali del secolo scorso. La ragione per mettere sotto accusa le distorsioni del capitalismo è che esse hanno generato un sistema iniquo, che non tratta le persone come degne di eguale rispetto, e che questo sia intollerabile. La strada per trasformare le idee di questo riformismo radicale in politiche sarà verosimilmente lunga, e non si misura sulla distanza di una legislatura. Le condizioni locali hanno una loro influenza sotto questo profilo. Se in alcuni Paesi, come il Regno Unito o la Germania, si comincia a intravedere il profilo di una nuova sintesi dei principi di libertà ed eguaglianza, che passi attraverso strumenti politici diversi, almeno in parte, da quelli della tradizionale socialdemocrazia, ce ne sono altri dove il processo è più lento. Tra questi, purtroppo, c’è l’Italia. La natura ambigua del Pd, il suo voler essere un superamento non solo del socialismo democratico, ma anche della stessa distinzione tra destra e sinistra, si è tra- sformata negli ultimi anni, dopo la crisi, da un vantaggio tattico a un pesante fardello strategico. Un ostacolo alla capacità di costruire una prospettiva di lungo periodo che parli non solo al ceto medio affluente dei grandi centri urbani, ma a tutti gli altri. A chi fatica, a chi ha fallito, a chi ha subito un torto o a chi sogna un mondo più giusto. Nei prossimi mesi, sulla capacità di sciogliere questo nodo si giocherà il futuro politico di Nicola Zingaretti, e forse dello stesso Pd. “Da che parte stai?” dice una vecchia canzone dei sindacati americani, resa popolare per la generazione di Occupy Wall Street da Ani Di Franco. Questa è anche la domanda da rivolgere al Pd, una volta e (speriamo) per sempre: “da che parte stai?”.


L’Espresso 2.6.2019
Presidi, magia e trucco
Commissari ubiqui, preveggenza, risultati anticipati sui social, software impazziti. e parlamentari candidati. il concorso per i nuovi dirigenti scolastici è sommerso da ricorsi
di Elena Testi


Dirigenti scolastici è divenuto un plico da presentare direttamente in procura. Una serie di presunte irregolarità che rischiano di invalidare le prove scritte e costringere il Ministero dell’Istruzione a far ripetere la prova a oltre novemila aspiranti manager destinati a dirigere gli istituti scolastici del Paese. Una lunghissima lista con tanto di foto, verbali e denunce. Ed eccolo il rosario sgranato delle anomalie: membri di Commissione con il dono dell’ubiquità, senatori che partecipano e fanno ricorso contro il Ministero, software che impa ziscono all’improvviso durante la prova scritta, cataclismi naturali che lasciano a casa un’intera regione, la Sardegna. E ancora: annunci profetici sui social network con il numero preciso degli ammessi alla prova orale prima che i risultati siano stati resi pubblici dal ministero dell’Istruzione, liste di nominativi che appaiono e scompaiono per poi essere nuovamente consultabili nel portale del Miur. Fughe di notizie.
È il 17 ottobre scorso, le porte delle aule si aprono. Durata dell’esame 150 minuti con il divieto di parlare e usare dispositivi elettronici. Regole rigidissime, insomma, e celerità nella correzione delle prove scritte, questo era stato il mantra di viale Trastevere, recitato con rigore dal suo capo: il ministro Marco Bussetti. Il tutto si è tramutato in una slavina di
ricorsi al Tar che rischia di sotterrare il corso-concorso per dirigenti scolastici (questa la dicitura corretta) e il sogno del ministro di farne un cavallo di battaglia.
E da puledro vincente si è trasformato in cavallo di Troia. Dei 9.376 concorsisti e aspiranti presidi con 2.910 posti a disposizione, sono 3.795 quelli che hanno superato la prova scritta e ora si apprestano a preparare l’orale. Gli altri sono alle prese con sentenze del Consiglio di Stato, avvocati e accuse che fioccano nel forum del www.mininterno.net appositamente dedicato agli insegnanti. Si va dal «è tutto da rifare» all’«entrano sempre i soliti noti» fino a un più perentorio «la verità è che non bisognava studiare, ma trovarsi una buona raccomandazione».
L’indignazione aumenta, mentre gli indizi che qualcosa sia andato come non doveva andare, diventano un sostanzioso plico che potrebbe invalidare il corso-concorso e riportare gli oltre novemila al punto di partenza come in un gioco dell’oca. Enigmi come quello di alcuni componenti delle sottocommissioni preposte alla correzione delle prove pre- senti contemporaneamente in due posti differenti.
Il sindaco di Alvignano Angelo Francesco Marcucci, mentre correggeva gli scritti, presiedeva alla stesso orario anche la seduta della giunta comunale, dovendo in teoria essere presente in due luoghi distanti 40 minuti d’auto.
L’ispettore del Lavoro di Napoli, Giuseppe Cantisano, veniva immortalato con il sindaco Luigi De Magistris durante un incontro sulla sicurezza, nonostante dai verbali della sottocommissione n. 6 figurasse presente durante le valutazioni. Stesso dono dell’ubiquità per Paola Quaresima: presente nello stesso momento sia alle correzioni delle prove che a una riunione del Consiglio d’Istituto del liceo Cavour di Roma. Non da meno la professoressa dell’università “Aldo Moro” di Bari, Maria Angela Volpicella che, stando alle firme dei verbali di facoltà e sottocommissione, con una mano teneva i libretti degli studenti e con l’altra metteva i voti ai futuri manager.
Dalla facoltà di essere fisicamente in più luoghi si passa ai poteri di preveggenza. E sulla regolare correzione delle prove si assiepano dubbi. La notte dell’8 maggio i candidati hanno ricevuto per posta elettronica le prove in formato Pdf. Il foglio con il nome e il voto finale di alcuni candidati porta una data antecedente alla correzione della prova. Scoprirlo è stato semplice, merito dei miracoli tecnologici che permettono di risalire alla creazione di un file. Ciò significherebbe che alcune sottocommissioni sono state in grado di dare una valutazione senza neanche leggere le risposte date ai quesiti. C’è chi invece sembra aver fatto errori di valutazione. Come la sottocommissione 29 che il 18 aprile, dopo venti giorni dalla pubblicazione degli ammessi agli orali, rettifica i voti di tre concorsisti, depennandoli dalla lista dei promossi. È la commissione 30 a pareggiare i conti, aggiungendone altri inizialmente bocciati per “errori materiali” come si legge nella nota diffusa dal Miur.
Ma al corso-concorso sono in molti ad avere poteri paranormali. Particolarmente diffusa la capacità di prevedere il futuro, come nel caso di News Freschissime. Si presenta come un uomo, campano, sindacalista e matematico. Nessuno sa chi sia, ma viene seguito da tutti gli oltre novemila. Sul sito www.mininterno.net nel forum dedicato al “Concorso DIRIGENTI SCOLASTICI” pubblica lo stato di avanzamento delle correzioni delle prove scritte. Il 7 marzo, venti giorni prima che la lista degli ammessi venga pubblicata ufficialmente dal Ministero dell’Istruzione, News Freschissime scrive: «Totale corretti 8.967/95.6 %; totale ammessi 3.488/38.89 %; rimangono da correggere 500 prove».
Il 27 marzo si scoprirà che il nickname aveva ragione. Fuga di notizia che continua nei giorni successivi. Alcuni con il fiato sospeso, altri informati da qualche membro di sottocommissioni. Lucio Ficara prima pubblica «Concorso a DS, spunta un dato: 5.367 bocciati alla prova scritta». Non appena la lista degli ammessi all’orale spunta on line, digita trionfante: «Mie fonti non tradiscono mai. Esito concorso DS conferma ufficialmente il dato che avevo rivelato su Facebook». Il post è stato cancellato, ma L’Espresso ne possiede lo screenshot. In Umbria alcuni scoprono il voto grazie alle soffiate, la pratica è così disinvolta che un giornale locale pubblica i voti migliori, nonostante il Miur debba ancora inviare la mail ai partecipanti con gli esiti finali. E c’è chi ammette: «Io ho la fortuna di avere un dirigente scolastico all’ultimo anno prima della pensione, ti darebbe anche la moglie se gliela chiedessi».
A partecipare al concorso c’è anche Lucia Anzolina, deputata del Movimento 5 Stelle e componente della Commissione Istruzione della Camera. Nessun conflitto d’interessi, ma tra i novemila piovono lamentele che denunciano l’inopportunità per un parlamentare della commissione Istruzione di prendere parte a una selezione pubblica per dirigenti scolastici. Post chilometrici, frasi lapidarie, in un marasma di oltre migliaia di messaggi. C’è chi immagina il volto dei commissari vedendola arrivare all’esame orale e chi ricorda il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che decise di accantonare il sogno di divenire professore universitario per elegante opportunità politica. Ma l’Anzolina ha deciso di proseguire nella strada, evitando di pubblicizzare la sua vita da cittadina privata, rispondendo alle accuse: «È giusto che un deputato della Repubblica italiana pensi anche all’accrescimento della propria carriera, soprattutto in un partito dove c’è il vincolo dei due mandati» 
Lo scorso 27 giugno, sempre Azzolina, scrive su Facebook: «In bocca al lupo a tutti coloro che vorranno diventare dirigenti scolastici. Pubblicati i quesiti per le prove pre-selettive». Un in bocca al lupo per sé e per la sua collega di partito, Gelsomina Vono, la senatrice che ha deciso di fare ricorso al Tar per essere ammessa alle prove scritte a causa dello scarso punteggio ottenuto alle pre-selettive e ribattezzata per questo dalla rete la sessantina. Il tribunale amministrativo ha accolto la richiesta della pentastellata con sentenza leggibile on line fino a poco tempo fa, poi misteriosamente sostituite da un link error.
Soffiate, partecipanti illustri e un software, quello prodotto da Cineca, azienda partecipata dal ministero di Viale Trastevere, che ha dato segni di follia durante la prova scritta. Bocciato con una sentenza del Tar già nel 2016, abolito nei test di medicina perché considerato inattendibile e nonostante questo utilizzato dal Miur per la selezione dei dirigenti scolastici. Fogli cancellati a metà, colpa di un “conferma e procedi” che non ha funzionato. In molti hanno fatto verbalizzare l’accaduto, altri hanno protestato con i tecnici dell’aula nel momento in cui hanno dovuto consegnare la prova praticamente in bianco. C’è poi chi ha deciso di immortalare lo stato delle aule, scordandosi della regole base di un concorso pubblico: non utilizzare dispositivi elettronici.
Le prove sono state comunque considerate valide, ma c’è chi all’esame non è proprio arrivato il giorno prestabilito. È il caso della Sardegna, rimasta bloccata a causa del maltempo. L’impronta d’Italia è stata richiamata all’appello il 13 dicembre. Esattamente due mesi dopo. Il Miur ha deciso che il concorso non era da invalidare nonostante la legge preveda che «qualora, per cause di forza maggiore sopravvenute, non sia possibile l’espletamento della prova scritta nella giornata programmata, ne viene stabilito il rinvio con comunicazione, anche in forma orale, ai candidati presenti». Questo per garantire l’unicità della prova e che non ci siano «disparità di trattamento». Il risultato è che la Sardegna è la regione con il più alto numero di promossi: 60 per cento.
Eppure l’Italia necessita di nuovi dirigenti scolastici qualificati. Lo dicono i numeri: sono 6.300 quelli in servizio con 400 pronti ad andare in pensione, a fronte di una richiesta di 8000 manager per 8.500 scuole. Lo dice anche il presidente di Anp Antonello Giannelli, che di fronte al concorso “da rifare” chiama a gran voce la “prudenza”. «Abbiamo molti problemi», esordisce, «ma il primo sono gli edifici scolastici». Poi specifica: «In Italia c’è un crollo ogni quattro giorni».
Controsoffitti da rifare, l’intonaco che si stacca cadendo sulle teste degli studenti: «I presidi in teoria dovrebbero passare classe per classe con un bastone per controllare la situazione, se succede qualcosa e noi non abbiamo avvertito, possono riternerci responsabili». Da tecnici a segretari: «Negli ultimi anni», spiega Giannelli, «abbiamo assistito a una riduzione delle segreterie, all’appello ne mancano duemila, con il risultato che siamo costretti ad assumere bidelli per espletare questo genere di servizi. Alcuni di loro si trovano a dover effettuare le ricostruzioni di carriera per mandare i docenti in pensione. Il risultato è che i dirigenti scolastici preferiscono fare da soli e per seguire le segreterie trascurano altre incombenze».
Una scuola poco competitiva con il resto dell’Unione europea e sempre più lontana da Agenda 2030, il piano approvato dalle Nazione Unite per lo sviluppo sostenibile. Giovani italiani demotivati con picchi di eccellenza nel Nord Est, ascensore sociale inesistente, netto ritardo rispetto agli altri Paesi europei persino nelle competenze digitali. È questa la scuola italiana. Copia perfetta di un corso-concorso che doveva avere regole rigidissime e celerità nella correzione delle prove.

L’Espresso 2.6.2019
Prima i ragazzi
l’Italia sui banchi che Salvini non vede
di Francesca Sironi
Fuori la propaganda. Nelle aule la routine dell’inclusione.
la normalità delle diversità


L’Italia ha già un nuovo dna. Più ricco di quanto vogliano i politici dell’odio, più universale di quanto gridi la Lega, più aperto di quanto sembri ad ascoltare le paure servite a cena dai tg sovranisti. Il dna dell’Italia ha già i colori, le tradizioni e le culture dei suoi studenti. «Nella mia classe ho 24 alunni. Sono di cinque etnie diverse, hanno cinque religioni diverse», scrive Filippo, un maestro delle elementari precario, in un post condiviso da migliaia di persone: «Sul muro abbiamo appeso la foto di Mattarella, il Crocifisso, la mano di Fatima, un’immagine di Buddha e la bandiera della pace». Non è straordinario, affatto, né strano. È l’assoluta normalità nelle classi italiane. Anche Salvini se ne sarà accorto, forse, alla recita di sua figlia in prima elementare (postata dal padre): nelle scuole diversità è una parola amica, una certezza diffusa, con numeri più ampi tra l’altro del previsto, come rivela una ricerca appena pubblicata a Torino. Ad ascoltare la propaganda è emergenza, in aula è routine. Una routine dell’inclusione che ora, però, di fronte al razzismo sdoganato dai vertici, rischia di diventare questione di frontiera. Con i ritardi negli investimenti nazionali e la mancata cura per l’integrazione che rendono difficili percorsi assodati da tempo. E mentre le classi si confrontano ogni mattina con il nuovo dna del Paese servono adesso nuovi anticorpi per fermare l’intolleranza.
Alessio Surian insegna pedagogia all’università di Padova. Esperto di interculturalità, sta attraversando le scuole del Veneto per uno studio su come i bambini percepiscono la diversità. «Quando ero piccolo nel mio quartiere si parlava veneto. In classe ho aiutato miei compagni, spesso più intelligenti di me, a capire cosa dicevano i maestri solo perché a casa mia si parlava italiano. Le lingue non sono né possono essere un ostacolo allo sviluppo delle competenze. Anzi. Così come non lo devono essere le origini dei genitori», spiega: «Diciamo bambini “stranieri”, ma stranieri per chi? Per i loro compagni non lo sono. Parliamo di “problemi”, ma problemi per chi? Le diversità sono un vantaggio, oggi, non una tara da cui liberarsi». Surian cita uno dei pilastri della riflessione contemporanea sul tema, gli scritti di Scott Page dell’università del Michigan, che dimostrano come non per “buonismo”, «ma per crescere nell’attuale sistema economico, sapersi muovere fra culture e identità plurali è una capacità fondamentale».
Davanti a quest’esigenza il corpo scolastico è attivo. Ma la burocrazia in ritardo. Surian elenca tre questioni chiave: «Mancano tavoli di concertazione fra ministero, uffici regionali e comunità per la formazione delle classi. Ogni settembre leggiamo episodi non più accettabili di sezioni ghetto, vediamo azioni estemporanee di amministratori locali. Secondo: la lingua. È necessario che gli alunni possano raggiungere il prima possibile il livello base per la comprensione delle lezioni. Allo stesso tempo, gli insegnanti devono essere formati a cogliere l’occasione che l’avere conoscenze plurali rappresenta. E questo è il terzo punto: l’integrazione non è mimetismo. È imparare a riconoscere la diversità e valorizzarla». Sono punti semplici. Ma in un paese dove ogni mattina il leader dell’attuale primo partito si sbraccia per criminalizzare gli immigrati, diventano scelte di campo. Il dibattito intossicato a cui sono esposte le famiglie non può non avere ripercussioni in aula, conclude il pro-essore, con preoccupazione: «Le scuole devono attrezzarsi ad affrontare il razzismo e l’intolleranza. Non possono lasciarlo scorrere».
Il tema non sembra essere fra le priorità del ministro Marco Bussetti però. Un esempio? Fra la primavera e l’estate del 2017 erano stati pubblicati i bandi per i fondi europei alla scuola pubblica. Erano organizzati per “assi”: alternanza scuola-lavoro, ad esempio, arte, educzione all’imprenditorialità, sport in classe. In cantiere ci sono anche 50 milioni di euro destinati a “Integrazione e accoglienza”. Al Miur sono arrivati centinaia di progetti. Ma mentre gli altri settori sono partiti (alcuni sono già alla seconda edizione), il bando sull’inclusione è fermo. Sono passati due anni e ancora non sono state nemmeno pubblicate le graduatorie di chi ha diritto alle risorse. «Gli uffici scolastici manderanno le loro valutazioni entro la metà di giugno», assicurano ora dal Miur. L’ultimo intervento pubblicato dal ministero per l’area “intercultura”, intanto, risale al settembre del 2017, prima delle elezioni.
«Oggi più che mai è opportuno fare educazione interculturale, e parlare di razzismo», riflette il direttore editoriale di Lœscher, Sandro Invidia, nell’editoriale di dicembre per la rivista “La Ri- cerca”: «Parlarne a scuola, in primo luogo, come nel posto che meglio si presta per verificare la fondatezza delle affermazioni che circolano sul tema. Occorre farlo con sapienza e giudizio, senza mai dimenticare il grande dubbio che resta sullo sfondo della questione.

Primo giorno di scuola in un’elementare multietnica
Come può la differenza – etnica, linguisti- a, culturale - entrare nella quotidiana pratica educativa, al punto da diventare oggetto di riflessione? Non sarebbe meglio comportarsi come non esistesse? La questione è cruciale». E le testimonianze raccolte nel dossier - reperibile online – provano a affrontarla da prospettive non scontate. Di sicuro però c’è un dato che non può essere tralasciato: il fatto incontrovertibile, statistico, della nuova normalità vissuta su milioni di banchi. Una normalità che è più estesa di quanto avvertiamo.
Stefano Molina, ricercatore della Fondazione Agnelli di Torino, lo ha di- mostrato andando oltre le cifre del ministero dell’Istruzione, per il quale sono circa 800mila gli alunni stranieri immatricolati. Molina ha esplorato un registro più ampio: le iscrizioni all’anagrafe di bambini con uno o due genitori non italiani. Ricostruendo le serie degli ultimi 18 anni, è arrivato così alla cifra di un milione e 150mila minorenni nati nel nostro paese da genitori stranieri. A cui si aggiungono 450mila figli di coppie miste, per la stragrande maggioranza con padre italiano e madre di cittadinanza estera. Considerando anche i 400mila nati fuori dai confini si arriva così a due milioni di bambini che hanno radici internazionali. «Dal 2012 le nascite sono calate, anche per gli stranieri», spiega il ricercatore: «Ma l’elemento più interessante da osservare è l’invisibilità di questi “grandi numeri”. Intorno alle nostre scuole si muovono due milioni di nuovi cittadini senza fare rumore». È il segno che il sistema educativo è molto più avanti dello strillismo mediatico-politico. «La “non visibilità” è infatti indice di integrazione. In Francia si parlava di “scomparsa degli italiani”, perché i nostri emigrati semplicemente non erano vissuti più come estranei, e i loro figli o nipoti - Nino Ferrer, Michel Platini - erano considerati del tutto francesi».
Che il paese dei piccoli sia più cosmopolita di quello degli adulti lo racconta anche un altro dato, passato in sordina. Nell’ultimo rapporto nazionale sui test Invalsi, oltre all’italiano e alla matematica - dove i ragazzi di prima e seconda generazione continuano a mostrare maggiori difficoltà rispetto ai coetanei, seppure con molti distinguo - ci sono le risposte all’esame di inglese, sottoposto per la prima volta in quinta elementare e terza media. Bene: su questo aspetto qui non c’è alcuna distinzione per provenienza. Anzi, i “2G” vanno mediamente molto meglio degli italiani. Non ditelo a Salvini, che alla scuola di formazione della Lega, lo scorso dicembre, sosteneva che gli insegnanti vogliono formare giovani «senza patria, senza storia, senza lingua». No: li stanno aiutando a crescere con molte patrie, molte storie, molte lingue comuni.
L’Espresso 2.6.2019
Il coraggio delle parole
L’orgoglio. La voglia di schierarsi. L’alleanza con la società civile. Cinque scrittori si interrogano sull’impegno dell’intellettuale oggi. Contro la povertà culturale.
E per rilanciare lo spirito critico
Colloquio con Marcello Fois, Helena Janeczek, Matteo Nucci, Evelina Santangelo, Chiara Valerio a cura di Sabina Minardi

Abbiamo cominciato a chiedercelo qualche tempo fa: dove sono gli intellettuali, in questo Paese? Poi li abbiamo visti salire a bordo delle navi, e mettere i loro corpi in gioco tra quelli fragili dei migranti. Sfilare nelle piazze e alzare la voce contro le ottusità della politica, in difesa delle donne o della storia. Ergersi a fianco degli insegnanti. Illuminare il cono d’ombra in cui si era accomodata una casa editrice fascista, fino a determinarne l’esclusione dal Salone del libro di Torino. Impegnati - sui giornali, sui social, con i libri, sul palcoscenico - a tenere vivo il senso autentico di parole come umanità, democrazia, civiltà, laicità. Prezioso ruolo quello dell’intellettuale. Mai come oggi bersaglio di un tiro incrociato: della politica e di una koiné a misura di tweet. Di un populismo alleato alla propaganda politica e di uno spirito dei tempi che ha scelto velocità e semplificazione per esprimersi. Più che bersaglio di uno scontro tra élite, insomma - ideologia di destra decisa a scalzare una presunta egemonia culturale di sinistra - un intero mondo, scomodo e complesso, sotto attacco.
«Rimettiamo in moto i fondamentali: puntiamo sull’istruzione», esordisce lo scrittore Marcello Fois. Che riflette, con Helena Janec- zek, Matteo Nucci, Evelina Santangelo, Chia- ra Valerio e il direttore dell’Espresso Marco Damilano.
Marcello Fois: «Lo confesso: sono un intellettuale conclamato, uno che addirittura ama farsi chiamare intellettuale, mi sono fatto un notevole culo per essere chiamato intellettuale e quindi adesso lo pretendo. Volete aggiungere gli aggettivi “buonista” o “radical chic”? Prego, fate pure, dormo sonni tranquilli. Come non ho alcun problema a proporre la mia opinione e a non cedere ad mio del Paese, perché prima di Saviano quell’espressione l’ha usata Gaetano Salvemini, e prima di essere rivolta a Salvini è stata indirizzata a Giovanni Giolitti. È troppo intellettuale ricordare ciò? Dobbiamo lasciar credere al nostro ministro che l’espressione sia stata coniata appositamente per lui?».
Evelina Santangelo: «Questo ruolo, però, non deve far pensare a tante isole. Non siamo figure separate dalla società, ma facciamo parte di un discorso collettivo e agiamo insieme. Per me, oggi, di fronte a un tempo che si appropria di punti di riferimento e di parole per dare loro un significato nuovo, il problema non è tanto di definire un nucleo di persone che si contrappone alla barbarie. Ma di capire che siamo tutti pezzettini in grado di contribuire al progresso civile e cultura- le del nostro tempo. Sento il bisogno, se mi informo su un fatto, di conoscere ciò che su quel tema mi ha detto il giornalismo, e spesso il giornalismo freelance. Ho bisogno del lavoro di insegnanti come la professoressa palermitana Dell’Aria. Mi riconosco nelle parole dure del vescovo di Mazara del Vallo contro le strumentalizzazioni della religione. Noi intellettuali siamo parte di un unico discorso collettivo: non c’è frattura con la società. Bisogna ripensare l’intellettuale in modo più gramsciano: ogni pezzo di società che si pone questioni su questo tempo è parte del discorso intellettuale di questo Paese».
Chiara Valerio: «Non ho mai pensato che ci fosse un’élite intellettuale, e non mi ha mai soddisfatto la polarizzazione tra destra e sinistra. A partire dai simboli. Un esempio: al funerale di Enrico Berlinguer nel 1984 sventolavano bandiere con la falce e martello e tantissime bandiere italiane. Quelle bandiere italiane sono diventate appannaggio di Forza Italia. Com’è possibile che un simbolo popolare sia stato lasciato a una sola parte politica? Credo che abbandonare i simboli della cultura popolare, e polarizzare, sia stato un errore. Un altro grande errore è stato quello di cedere alla paratassi, cioè creare una struttura della frase senza le subordinate. Gli intellettuali devono insegnare a usare le subordinate. Perché se includi una subordinata nel discorso, vuol dire che esiste la causalità, la temporalità e la modalità delle azioni. Che esiste la responsabilità. Il presente televisivo, e più ancora quello social, hanno negato la subordinata. E abbattuto la complessità, la nostra natura. La sostituiamo con etichette: destra e sinistra, laici e non laici... In questo tempo, bisogna dirsi intellettuali senza paura. Etichettare persino le cose, se serve. Gli intellettuali sono funzioni di sistema, non persone: “stringono e avvitano bulloni” nei giornali, a scuola, nella magistratura, nel proprio lavoro».
Helena Janeczek: «Anch’io sono contenta che la figura di intellettuale non sia più intesa alla maniera di Pasolini. Perché in questo “declassamento” io mi sento libera, ad esempio, di andare a una manifestazione, a Milano, sotto la pioggia, solo perché mi fa star bene. Il mio modo di concepire l’impegno è questo: riprendere la prassi di ritrovarsi nelle strade, guardare in faccia gli altri, compiere gesti concreti. Una delle urgenze era rimettersi in moto, mettendo in gioco quello che ognuno sa fare. E io mi sento di saper guardare, ascoltare, cogliere ciò che gli altri ti raccontano, e unire tutto a un approfondimento di letture, di ricerca, di studio. Saldare le due facce: mettersi a disposizione degli altri, interpretare la realtà, con strumenti opportunamente rimessi a fuoco».
Matteo Nucci: «L’impressione che ho io è che in giro ci sia una fortissima esigenza di allenare lo spirito critico. Abbiamo tanto parlato di “crisi” senza dare il giusto significato alla parola: che vuol dire scelta, decisione. È la nostra storia: la capacità di guardare le cose da un altro punto di vista, di mettere in discussione qualunque dogma. Gli anni della crisi sono anni in cui si deve scegliere, esattamente ciò che i ragazzi vogliono: prendere una strada. Non tutti gli intellettuali possiedono spirito critico. La correttezza politica degli scorsi anni ha spianato la strada alle accuse di buonismo. Prendiamo i migranti: smettiamola di difenderli in nome della solidarietà. Affrontiamo la questione in termini di ricchezza, di convenienza, di utilità. Come diceva Chiara Valerio, aver consegnato simboli e parole di tutti solo a una parte politica è stato catastrofico. “Patria”: rileggiamo le lettere dei condannati a morte della Resistenza: di patria si parla di continuo. Per questo trovo inaccettabile che molti intellettuali dicano che la parola fa schifo. La nostra patria è il Mediterraneo. Ed è il senso critico. Nasciamo e cresciamo nel Mediterraneo dove ha origine il mettere in discussione, anche a sproposito, le cose che sembrano scontate».
L’Espresso: Una caratteristica degli intellettuali è sempre stata l’autonomia dalla politica. A vederla storicamente, la lunga fase democristiana ha avuto un disinteresse netto per l’intellettuale. E in fondo anche il berlusconismo faceva cultura di massa con la tv, ma non aveva interesse ad aprire un fronte contro gli intellettuali. Oggi ci troviamo davanti a forze che hanno una prospettiva culturale, intendono cambiare non solo i rapporti di forza politi- ci ma riscrivere la storia, trasformare il giusto in sbagliato, il bello in brutto. È una sfida che non si era mai espressa in questi termini.
Fois: «Abbiamo avuto paura a ribadire l’ovvio. L’intellettuale dovrebbe prendersi questa responsabilità. In questo Paese, che festeggia gli attici, nessuno si è occupato delle cantine, delle fondamenta crepate, dei tubi che perdono, dei problemi di stabilità degli edifici. Quando crolla il modello, è la manutenzione che non è stata fatta. Ed è evidente che in Italia non c’è stata manutenzione del linguaggio e del pensiero. Perché a un certo punto alcuni intellettuali hanno smesso di parlare? Jovanotti, dov’è finito? Dov’è finito Roberto Benigni? Cito due persone capaci di arrivare a un pubblico enorme e in grado di ragionare sulle fondamenta da sistemare. Negli ultimi tempi ho portato in giro per le scuole un mio libro su “I promessi sposi”. Ripartiamo dai fondamentali. Da “Cuore”, il libro più comunista di questo Paese. Dall’istruzione che, come diceva De Amicis, è «l’unico strumento che abbia- mo per costruire il cittadino». Per spiegare a Salvini perché “Va’ pensiero” non è attendibile per un italiano, perché è un canto di profughi. E perché “Nessun dorma” è ancora peggio, es- sendo la storia di un sans papier che si innamora di una donna ricca. Riprendiamo dalla scuola, che non caso è il punto più bersagliato di questa nazione. Chi governa non ha capito che se l’istruzione va avanti così, gli intelle tuali in Italia saranno tutti extracomunitari. Perché sono loro i primi della classe. Figli di persone che, come i miei genitori, avevano ur- genza di istruzione. Questo è il punto: bisogna prendere in mano la situazione con un atteg- giamento da factotum. C’è un guasto in casa? Io arrivo e te lo riparo».
Janeczek: «Ciò che accade in Italia è preoccupante perché sta accadendo in tutto il mondo, occidentale e non solo. Pensiamo al trionfo di Modi in India, il primo di questi populisti, fondamentalisti di destra. E alla base c’è un’ideologia estrema, con elementi di integralismo religioso, e ossessioni complotti- ste. Sennò non ti spieghi la grande attenzione sulle migrazioni, anche quando parliamo di una barca con venti persone: credono a una sostituzione etnica. È una ideologia precisa, più o meno esplicitamente dichiarata. La Lega queste cose le diceva trent’anni fa. Chiaro che se uno ha una visione così ideologica, lo Stato di diritto diventa un problema. Diventa un problema una democrazia in cui esistono le minoranze».
Valerio: «Lo Stato di diritto è stato costitutivo dell’Europa. È nella nostra cultura: senza non ci sarebbe stata Antigone e lo scontro tra legge morale e legge scritta. L’idea che lo Stato di diritto sia stato sostituito da uno stato legislativo serve a due cose: a non fare esistere i diritti delle persone indipendentemente dallo Stato, ma anche a far sì che la dimensione etica del singolo sia cancellata rispetto alla dimensione giuridica. Riguardo al tema dell’autonomia culturale, penso che il problema sia collegato alla femminilizzazione della scuola secondaria superiore. Nel momento in cui l’insegnamento è diventato quasi esclusivamente un lavoro per mamme, nelle scuole non sono più entrati ingegneri, matematici, biologi, quelle figure, cioè, che non avevano studiato solo una cosa, ma l’intero processo per raggiungerla, quindi portavano con sé la problematicità oltre alle singole nozioni. Come questo ha a che fare con l’autonomia? Con il fatto che i professori di scuola secondaria superiore sono ancora quelli che stanno più di cento ore con i ragazzi. Le rivoluzioni, i cambiamenti, partono da lì. Vigiliamo sulla standardizzazione dei concetti. Sull’uso delle parole come strumenti di oppressione, come gabbie, quando sono usate fuori contesto. Quello che vorrei fare come intellettuale è dire che non esistono le parole, esistono le lettere che fanno le parole, le parole che fanno le frasi, e con le frasi puoi fare tutto».
Nucci: «Stiamo tutti sottolineando l’importanza della scuola, contro la semplificazione e la velocità. Dobbiamo avere il coraggio di dire che le cose sono complicate. Che talvolta bisogna percorrere una strada più lunga per raggiungere un risultato. Siamo fatti di istinto e di velocità. Però c’è la possibilità di mettere in crisi questo istinto con il ragionamento. Cito Pericle: la sua grandezza era nel dire al popolo che aveva paura: “No, abbiate coraggio”
E se il popolo aveva invece troppo coraggio, nel dire: “No, abbiate paura”. Contro gli istinti e le paure bisogna avere il coraggio di dire no: le cose non stanno così».
Santangelo: «Vengo da una terra che negli anni Ottanta, gli anni del “Drive in”, e negli anni Novanta, quelli della Milano da bere, ha imposto alla mia generazione di prendere una posizione chiara rispetto alla mafia. Difendere parole come democrazia e Stato di diritto è stata una battaglia sul campo. A un certo punto i giudici hanno chiesto alla scuola un sodalizio, perché sapevano che bisognava operare su due livelli: uno giudiziario, uno educativo. Siamo in un tempo in cui dobbiamo prendere posizione e capire, e trovare alleati con cui combattere questa battaglia di civiltà. Per far rispettare il senso di alcune parole oggetto di mistificazione. Ma anche per trovare le parole per nominare questo tempo. Ieri ho avuto una grande lezione da un ragazzo del Ghana, che mi ha detto: “Sì, io sono un migrante, rivendico la mia libertà di spostarmi. Che c’è di sbagliato, o di criminale?”. Dobbiamo avere il coraggio di dare un nome alle cose, smantellando la propaganda». L’Espresso: Ma come si fa rete? Con altri scrittori, con autori in vetta alle classifiche eppure silenziosi, con finalisti ai premi, con migliaia di blogger e di influencer?
Fois: «Gli scrittori non sono poi così tanti come sembra a girare per le librerie: non tutti quelli che pubblicano sono scrittori. L’esercizio intellettuale deve avvenire senza timore di sporcarsi le mani. Perché se smettiamo di ribattere colpo su colpo, se schifiltosi taciamo, parlano solo loro».
Janeczek: «Forse è arrivato il momento di selezionare i nostri interlocutori con criteri diversi. Sono favorevolissima a chiunque sappia andare in tv e comunicare sui social in maniera credibile. Tuttavia, se individui delle persone valide, studiosi competenti che magari nessuno conosce, vale la pena seguirli. Ci sono altri tempi, altri contenuti su cui lavorare oltre a tv e social. Penso a “Una piccola favola” di Kafka: c’è un topo spaventato dall’immensità che corre verso i muri, vuole sempre più muri, finché in fondo non vede un gatto pronto a divorarlo. Da un punto di vista della psiche di massa è quello che sta succedendo. Ma al panico dobbiamo reagire».
Valerio: «Lo scrittore che vende 200 mila copie e poi scompare rappresenta la novità, la leggerezza, è senza passato. È il passato che non sappiamo gestire: né il passato dei migranti, né il passato della storia culturale, né quello delle parole. È questo il problema».
Nucci. «Fare rete per me significa agire sul territorio. Come sta facendo Christian Raimo, da assessore alla cultura nel terzo municipio di Roma, che apre spazi agli incontri da centinaia e centinaia di persone. C’è una grande richiesta di incontro autentico. Noi abbiamo il compito di esserci».
Santangelo: «Quanti furono i docenti universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo? Che non ne sottovalutarono le conseguenze? Quindici su circa 1200. Non voglio fare un confronto, ma secondo me molti sottovalutano le conseguenze del tempo che stiamo vivendo. Mi ha colpito che al Friday for future nelle piazze si sia cantato “Bella ciao”. Forse loro, i giovani, hanno capito più di noi».


L’Espresso 2.6.2019
La svastica
Dal beneal male senza ritorno
Così un segno positivo, antico come il genere umano, è stato sequestrato per sempre dai nazisti. Senza possibilità di redenzione. Storia e significati nel libro di un grande art director
colloquio con Steven Heller
di Giuseppe Genna


Una sera di inverno 1922 un viaggiatore arriva a Uffing, sobborgo di Monaco di Baviera. La villa degli Hanfstaengl, nobili tedeschi, è illuminata a festa. È molto atteso l’ospite, a cui il padrone di casa fa da consigliere e comunicatore. Ogni tempo ha la sua Bestia, ma questo tempo più di altri. Ecco arrivare l’uomo in questione, se questo è un uomo. Lo aspettano come un messia. Sembrerebbe ridicolo: è tragico. Su consiglio di Hanfstaengl, indossa una divisa militare, nello stivale destro ha infilato un frustino in pelle di ippopotamo e ha ridotto i suoi tristi baffi spioventi a un quadrotto di peli, con cui intende segnare la storia del pianeta. Ci riuscirà. È Adolf Hitler. Decorato di guerra, a capo di un partito securitarista, sovranista, razzista, anticomunista, tutto votato ai tedeschi che vengono prima degli altri - è l’uomo nuovo, sarà l’uomo forte. Fa innamorare di sé le persone, con la sua parlata enfatica e monocorde, rotta da apici isterici. Si trova a cena dai coniugi Hanfstaengl per incontrare i finanziatori del suo progetto politico: industriali, ceto abbiente, élite. Porta con sé un tubolare dal contenuto misterioso. Lo accompagna il fido Rudolph Hess, che considera un genio e dal quale è considerato a sua volta un genio. I quindici commensali nella villa sembrano adorarlo. Gli pongono domande sulla realizzazione di un colpo di Stato che la finisca con la fiacca democrazia tedesca. Ed ecco il colpo di teatro. Hitler estrae dal tubolare quindici vessilli, uno per ciascuno dei convenuti. È la prima apparizione della bandiera nazista. La illustra a questi complici e investitori: il campo rosso intende sottrarre consenso ai bolscevichi, il cerchio bianco rappresenta l’élite. Al centro c’è la croce uncinata: ed è davvero al centro di tutto. Adolph Hitler pone fine a un simbolo che appartiene al genere umano da millenni. Se ne appropria, lo stupra, lo porta al compimento. Comincia da lì. Non finirà più.
«Non finirà più di irradiare il male in cui è stata inscritta, la svastica. È un simbolo perduto per sempre», dice Steven Heller, una delle leggende planetarie nell’art direction. Per più di trent’anni ha lavorato al New York Times, ha curato decine di mostre di livello internazionale, ha fondato il corso in design alla School of visual arts di New York. Lo venerano ovunque gli art director, i designer, i grafici. Si trova a Milano, invitato da Mimaster, realtà di formazione internazionale per illustratori. Tra i molti titoli di cui è autore Heller c’è “The Swastika and Symbols of Hate”, di cui sta per uscire una nuova edizione riveduta, per i tipi di Allworth Press. Da quasi vent’anni questo testo seminale non smette di insistere sulle inquietudini di chi, ovunque nel mondo, osserva moltiplicarsi le apparizioni della svastica su muri, manifesti, website e pagine social. Genealogia e interpretazione del simbolo più cruciale nella storia dell’uomo, a parte la nuda croce da cui deriva direttamente, questo catalogo sulla svastica appare tanto completo quanto destabilizzante, perché i tempi sono appunto destabilizzanti.
«Se penso che sono stati miei colleghi designer ad avere lavorato tanto bene sul simbolo nazista, avverto un acuto senso di disagio». Non fu un professionista del visual a elaborare il vessillo con cui Hitler si intitolò un utilizzo definitivo della croce uncinata: la bandiera fu realizzata dal dentista del futuro führer, Friedrich Kröhn. Poco importa, poiché il fatto è che la svastica, segno arcaico e positivo per millenni, almeno fino a quella notte bavarese in cui Hitler se ne appropria, mutandone per sempre il carattere, manifesta l’enorme potere di chi sui simboli opera. Una materia scivolosa, una responsabilità enorme, che la storia rischia di portare a rovina.
«Avviene lo stesso con le parole. Victor Klemperer, nel suo sconvolgente “La lingua del Terzo Reich”, mostra come la voce della distruzione occupi il linguaggio quotidiano, lo eterodiriga, si depositi cancellando il passato intero di una terminologia. Dire “ebreo” è ben diverso che pronunciare “l’ebreo”, isolando ed enfatizzando, escludendo e votando il soggetto all’esperienza della violenza». La lingua dei simboli è tuttavia ancora più arcaica e universale, profonda e rischiosa da maneggiare. La svastica è ricca o, meglio, era ricca di una tradizione benigna, profondamente positiva, legata al sentimento dello spazio e del tempo - un patrimonio e un matrimonio totalmente disarticolato e mandato a putrefazione dall’evento nazista, che ne ha prosciugato i significati e ha determinato un ribaltamento radicale. «È quella che io chiamo devoluzione del simbolo. I movimenti antisemiti, nel cuore dell’impero asburgico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo traducono in simbologia politica un’elaborazione fittissima di supposti maestri dell’esoterismo e di ideologi che, nel nazismo, troveranno valorizzazione e compimento».
Nel 1907 la svastica sventola a Vienna dai palchi in cui arringa Lanz von Liebenfels, occultista ed ex monaco cistercense, fondatore di una setta che elabora una teoria ariana della svastica. Si tratta di uno slittamento storico privo di ritorno, il momento in cui un simbolo viene occupato per sempre da una volontà di perversione, che trasmuta una forma, certamente mai innocente, come del resto qualunque forma comporta il proprio lato in ombra, l’alito raggelante del male. Il simbolo, quando è sorgivo e universale, si incarica di una simile follia: mostrare nascondendo, sintetizzare ciò che è benigno con l’oscurità, per significare la totalità, per rendere conto dell’interezza di ogni cosmo possibile. L’Occidente inizia a intestarsi la svastica a partire da un ritrovamento archeologico entrato nel mito, mentre dal mito proveniva direttamente. Nel 1874 Heinrich Schliemann individua reperti istoriati, mentre identifica la Troia omerica. Su quei reperti compare la svastica. Segno augurale, simbolo di fertilità, legato a divinità femminili di qualunque pantheon elaborato nei cinque continenti, la croce uncinata rappresenta il corso del sole e del tempo, lega il neolitico all’epoca minoica, la gnosi iraniana ai buddhismi cinese e giapponese, i Maya ai vichinghi e, secondo lo storico Charbonneau-Lassay, al Cristo. L’esegeta René Guénon ne parla al femminile e al maschile, individuandone la geometria sacra: come il punto al centro del cerchio e come la ruota, la svastica risale a ere preistoriche e appartiene a una tradizione primordiale, che riappare ovunque e in ogni era, per manifestare le origini e l’esito dell’universo. «È una storia praticamente irricomponibile, perché arriva a coincidere con la vicenda umana nella sua interezza. Ciò che possiamo raccontare con precisione è la devoluzione del simbolo: diviene il rappresentante del male assoluto, viene impegnato nello sterminio di milioni di persone. I simboli sono in generale rioccupabili, ma non la svastica: non c’è redenzione possibile», constata amaramente Heller.
E si moltiplicano, reclamano nuovi spazi, le svastiche. Le radici occulte del nazismo e l’ostensione hitleriana vengono rilanciate dall’utilizzo che la cultura pop pratica sul simbolo. C’è un momento di intensa liberazione dei segni, dei marchi, degli antesignani dei brand. Una stagione in cui si persero i confini del simbolico e le rune della guerra si rovesciarono, il topolino disneyano divenne emblema della rivoluzione sessuale, il potere floreale degli hippy deflagrò, per essere repentinamente catturato dal mercato e ridotto a logotipo, a meme, a consumo di massa. Era la cosiddetta “summer of love”, l’eroica estate di San Francisco nel 1967. La cultura psichedelica e quella rock si preparavano a vedere le SS effigiare nel logo dei Kiss, i teschi himmleriani marchiare i Grateful Dead, l’apocalisse premere dalle note dissonanti dello “Helter Skelter” a cui inneggiavano i Beatles. «Quella stagione termina con una svastica o, meglio, con quello che si crede essere una svastica: il tatuaggio sulla fronte di Charles Manson, il satanista organizzatore del massacro di Cielo Drive a Los Angeles, in cui perse la vita la giovane moglie di Roman Polanski, Sharon Tate, incinta. Il sangue dell’attrice ventiseienne servirà a vergare sui muri della sua villa slogan infernali».
È un segno dei tempi la devoluzione del simbolo, su cui Heller impernia la sua storia della svastica. Rimossa, essa ritorna. Quando il rimosso torna, lo fa con una potenza inusitata e una diffusione inarginabile. C’è una sezione impressionante in “The Swastika and Symbols of Hate”. Sono rappresentate una dietro l’altra alcune delle sigle dell’alt-right americana, le fazioni suprematiste che figliano autori di stragi, terroristi bianchi, fanatici del Bund tedesco, più criminali che nostalgici: un’infinita variazione su svastica e rune accompagna queste organizzazioni ai limiti della legge, filiazioni del verbo nazista, che non decresce e anzi aumenta con l’incremento di un disagio nel cuore e ai margini del capitale. Il capitalismo, che nutrì e fece prosperare Hitler e il suo mito atrabiliare, è il medesimo fomentatore degli eredi di quella cupa leggenda, preannuncio del prossimo sterminio, generalizzato e incombente nei caratteri littoriani e gotici che accompagnano le molteplici riedizioni della svastica e della sua evoluzione in croce celtica, tanto negli Usa quanto in Germania come in Italia. E tuttavia il discorso e la panoramica che Heller produce sulla svastica ha un punto cieco. Non si riesce a pieno a comprendere cosa sia la svastica da Hitler in poi, se non si denuncia come la croce uncinata sia il tentativo di opporsi alla croce cristiana. Non nel senso che ci sia puzzo di zolfo nell’operazione simbolica nazista (e c’è ben più che un va- pore tossico intorno al simbolo che Goebbels impose ovunque, in Germania e nella storia
ventura). Non è vedendo Hitler come anticristo, che si può giungere a una comprensione profonda del fenomeno. Va invece rilevato un errore, che testimonia dell’infinita stupidaggine dei circoli nazisti: la loro croce è semplicemente successiva a quella primaria, che è appunto la cristiana. Ne è un’elaborazione postuma: la croce cristiana si vede aggiungere dei peduncoli. Il valore spirituale di un simbolo coincide con la sua capacità di coprire le distanze dello spazio e del tempo, insieme al potere di indurre all’azione. La risposta, a quella che Heller definisce come irredimibilità della svastica, risiede nell’inviolabilità della croce semplice. Sul piano storico e su quello simbolico Hitler perde la sua grande guerra al Cristo. E bisognerà osservare con sguardo acuminato i tentativi continui con cui le destre intendono appropriarsi della croce cristiana, che abbia attaccato un rosario o meno.
È un tempo di simboli, quello attuale, e non c’è da sorprendersi se la cifra stilistica dei nostri giorni risieda nell’emissione rinnova- ta del simbolo, questo aggeggio che il passato recente, non soltanto quello italiano, ha considerato un armamentario vintage, da irridere o da decostruire ironicamente. Quando la storia assume i contorni del dramma, i simboli mostrano la loro facies aeterna. Tornano, non smettono di tornare. La politica nazionale è ormai una lotta tra chi utilizza i simboli (il negro, l’omosessuale, l’arma, il confine, il crocefisso, la gogna) e chi non sembra più capace di riprodurne la potenza. Lo spirito umano non abbandona i suoi codici. Li offusca, per ritrovarli intatti. In una foresta di simboli, dove sono ubiqui i logo dei produttori (di scarpe da tennis, di mele computeristiche, di bottigliette a vaga forma di donna), la civiltà di massa si è illusa di avere seppellito ciò che è primario, incoercibile, fatale. L’uomo simbolico è più vasto dell’uomo del capitale, così come la croce nuda è più radicale di quella uncinata. In questo scontro tra simboli, tra redenzione e impossibilità della medesima, si rinnova il tempo e l’epoca si espone al rischio del collasso o al pertugio che conduce al futuro.


“La svastica e gli altri simboli dell’odio” è il titolo del saggio di Steven Heller che uscirà a settembre negli Stati Uniti in una nuova edizione riveduta e ampliata per Allworth Press.
Heller racconta la storia e i misteri del simbolo della svastica, ne analizza gli usi religiosi e commerciali prebellici e l’appropriazione e l’uso improprio della forma da parte dei nazisti fino alle sue applicazioni contemporanee come icona razzista e apolitica.


L’Espresso 2.6.2019
Classici
Perché continuano a meravigliarci
Grondano sangue. Raccontano guerre. Parlano di vizi più che di virtù. E non ci insegnano a fare le cose giuste. Proprio per questo li amiamo così tanto: è il gusto di andare incontro al pericolo
di Adam Gopnik


Perché leggiamo i classici? L’attacco all’idea di un «canone» della letteratura classica - non intendo soltanto i classici dell’antichità, ma anche gli attuali capolavori della letteratura occidentale - è stato vibrante e per molti versi definitivo, almeno nell’ambiente accademico americano. I classici- ci hanno detto - non rappresentano una fonte di verità, ma un muro opprimente fatto per escludere, un muro che estromette le don- ne e le minoranze, i colonizzati e i perseguitati, chi è ignorato e chi è trattato ingiusta- mente. Il «canone» della letteratura classica non è altro che una cospirazione di uomini bianchi europei per promuovere altri uomini bianchi europei, e ne facciamo benissimo a meno. Il prestigio è potere, e il potere è tutto quello che vale la pena di studiare - e avere il potere di cambiare il potere è tutto quello che vale la pena di fare.
Questo, però, nessuno lo crede veramente: quale che sia il modello prescelto di attacco al canone, per esempio, nessuno può insegnare questo principio senza riferimenti impliciti o espliciti a Marx o Foucault o Fanon. In effetti, il canone degli anti-classici è solido come lo stesso canone classico - per molti versi anche di più. D’altra parte, l’attacco ai classici nel loro complesso rimane una sfida per lo studioso, e lo è ancor di più per il lettore amatoriale che vuole sapere perché - quando qualcuno gli mette tra le mani l’Odissea, o il Paradiso perduto, o la Divina commedia - valga ancora la pena leggerli come qualcosa di più d’un reperto del passato.
Vi sono, io credo, due risposte distinte a questa sfida, caratterizzate da due diversi livelli di persuasività. La tipica risposta dello studioso di vecchio stampo è che i classici sono depositari di conoscenza e saggezza ai quali è possibile attingere ripetutamente, e che se trascuriamo la saggezza e la conoscenza che essi hanno in serbo, lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Leggendo Omero, Dante e gli altri, per non parlare della Bibbia, apprendiamo devozione, eroismo e nobiltà. Abbiamo bisogno dei classici perché senza di essi saremo privati della virtù.
Vi prego di perdonarmi se mi oppongo a questa asserzione. In verità, la maggior parte del tempo che dedichiamo alla lettura dei classici non è impegnata in una lettura diligente alla ricerca di nuove profondità e nuovi significati - di fronte ai quali, invece, passiamo oltre con disinvoltura. Mentre puntiamo verso gli altri piaceri che si suppone il testo abbia da offrire, passiamo oltre su tutto quello che ci sembra palesemente abominevole o esecrabile. Nel Vecchio Testamento, il libro di Ester, per quanto magnifico, è anche la storia del brutale impalamento dei persiani: gente che ci hanno insegnato a non stimare, certo, ma pur sempre esseri umani. (Provate a immaginare un impalamento! E poi rideteci sopra, trovatelo piacevole.) Proprio adesso sto leggendo in inglese moderno, nella splendida traduzione di Richard Fagles, l’Odissea di Omero: nessun libro è più classico di questo, che ne ha ispirati infiniti altri, compreso il classico dei classici del ventesimo secolo: l’Ulisse, la parodia joyceana di Omero (pe ché, di fatto, è di quello che si tratta).
In verità, però, anche se - un verso dopo l’altro - narrazione e invenzione ci conquistano, è comunque uno shock esser tenuti ad accettare i valori d’un mondo in cui l’eroismo militare è quasi l’unico attributo di virtù, in cui il massacro in massa di sfortunati pretendenti è considerato una vendetta legittima e in cui, sotto molti aspetti fondamentali, è soltanto la forza a dettar legge. (Gli dèi devono essere placati, ma solo perché sono potenti.) È per questo che ci sentiamo pervasi di piacere quando scorgiamo, in mezzo alle differenze, l’amo- re di Omero per la primaria virtù umana dell’ospitalità: il benvenuto verso chi viene da lontano è un fondamentale atto di reciprocità che tutti devono rispettare. La sua presenza, sorprendente e gradita, ci emoziona e ci commuove.
Avvicinandoci ai nostri tempi e a quella che un anglofono percepisce come la propria cultura, quando leggiamo il Paradiso perduto di Milton, ci viene chiesto di aderire ai valori spaventosi di un culto del sacrificio sostitutivo. Probabilmente quel culto - la religione cristiana - ci è familiare, ma questo non lo rende meno scioccante. Né, e qui forse rischio di offendere il mio amato pubblico italiano, possiamo leggere l’Inferno di Dante senza avere a tratti la sensazione che ci stiano offrendo una visita guidata ad Auschwitz, con quelle moltitudini che soffrono per l’eternità senza avere colpe più gravi delle nostre - eppure non siamo disposti a provare pietà, ma inclini a fare giustizia.
Non possiamo leggere i classici perché ci insegnano a fare le cose nel modo giusto, perché in realtà non lo fanno. E allora perché li leggiamo? Invece di partire dall’idea che contengano verità profonde, muoviamo da una premessa più semplice. Partiamo dal piacere. Combiniamo una prospettiva epicurea e una prospettiva darwiniana. I classici allora sono semplicemente i testi che - passati al vaglio del tempo – sono giunti a noi, e dai quali più lettori hanno tratto piacere: al punto da voler continuare a «copiarli», ripubblicarli, riprodurli, tramandarli affinché li leggano anche le generazioni future. Nel concetto di piacere non è incluso un qualche semplice concetto di virtù: il piacere è molteplice, pericoloso, autocontraddittorio. Quando leggiamo, le nostre fantasie e i nostri valori sono spesso in conflitto: devono esserlo, per poter essere interessanti. Nessuno, ad esempio, legge, o dovrebbe leggere, un fantasy che rappresenti accuratamente la vita di un maschio dodicenne, con l’eroe sprofondato nella lettura. No, quando un dodicenne s’innamora di Tolkien, non gli diamo una spada, né gli mostriamo dove sono gli Orchi. Gli diamo invece un altro libro. Il piacere della lettura non sta nel fatto che ci mostra un comportamento da imitare, ma che ci mostra altri mondi, altre possibilità, altri valori diversi dai nostri. La cosa peggiore che si possa dire di un libro è che è una lettura d’«evasione» - forse però è anche il commento migliore da fare. L’evasione è il nostro tributo più sincero alla realtà.
Noi leggiamo andando in cerca di pericolo, di meraviglia - per usare un’espressione inglese un po’ datata, “for thrills”, in cerca di brividi, di emozioni. Altrimenti dovremmo smettere di leggere. Leggiamo i classici per piacere: un piacere profondo, complesso e complicato, spesso proibito. Mentre scrivo, sulla mia scrivania ho la serie completa di James Bond, la stessa edizione tascabile dei romanzi di Ian Fleming che avevo quand’ero un ragazzino di dieci anni. Nessuno può essere stato Bond-dipendente in modo più totale di come lo ero io: dunque non sono guarito da questa passione? Sì e no. Ho superato i valori offerti da quei romanzi, ma non la dipendenza. La buona letteratura, gli autentici classici, dovrebbero avere qualcosa della pornografia, del suo aroma - dovrebbero colpirci come piaceri proibiti, più che come una fonte di istruzioni morali. Un grande classico inglese, la “Vita di Samuel Johnson” di James Boswell, è pettegolezzo e conversazione - un passato lontano ma ancora attuale. Trollope e Balzac ci offrono titoli politici – un passato lontano e superato. I classici andrebbero letti stando sotto le coperte, o in piedi in librerie male illumina- te, o nascosti fuori in giardino. Per mantenerci fedeli alla nostra effettiva esperienza di lettori, dobbiamo declassicizzare i classici. Proibiamoli, come è accaduto in tanti regimi totalitari, e loro rivivranno. Noi rientriamo in connessione con l’autenticità del nostro passato moralmente diviso solo quando ci riconnettiamo all’autenticità del nostro sé moralmente diviso. Pettegolezzo e conversazione, seduzione ed eccitamento, manovra politica e scontro fazioso – le piccole province della vita sono il vasto impero della letteratura.

Copyright Adam Gopnik traduzione Isabella Bloom


ADAM GOPNIK leggerà questo inedito giovedì 6 giugno a Roma, sul palco del Festival Letterature di Massenzio al Foro Romano ideato e diretto da Maria
Ida Gaeta. Nella stessa serata leggeranno i loro inediti Anthony Cartwright, Jordan Shapiro e Valerio Massimo Manfredi. La rassegna inizierà il 4 giugno e proseguirà tutti i martedì
e giovedì fino al 3 luglio con molti protagonisti della scena letteraria. A loro il compito di leggere inediti ispirati al tema dell’edizione, “Il domani dei classici”, accompagnati da musica live. Dopo Antonio Scurati, Manuel Vilas e Andrea Satta nella serata inaugurale, il programma proseguirà l’11 giugno con Scott Spencer, Alicia Giménez Bartlett, Antonio Manzini e Roberto Alajmo. Tra i tanti ospiti, Alberto Manguel, i finalisti Strega, Carlo Lucarelli, Chris Offutt, Chiara Gamberale, Philippe Forest, Michela Marzano, Joe Lansdale, Valeria Parrella e Roberto Saviano. Si segnalano le serate del 2 e 3 luglio, promosse grazie al Parco archeologico del Colosseo, che vedranno dopo 20 anni l’incontro tra la Milanesiana di Elisabetta Sgarbi e il festival di Massenzio

L’Espresso 2.6.2019
Il primo villaggio femminista
Per dimenticare la guerra è nata la città delle donne. Benvenuti a Jinwar
Le abitanti vogliono ricostruire la loro esistenza dopo gli orrori perpetrati dall’Isis.
Gli uomini sono ammessi se contribuiscono a migliorare le condizioni di vita, ma non possono fermarsi a dormire. «Siamo qui per lottare. O per necessità. Ognuna ha il suo passato, nessuno giudica»
 di Linda Dorigo


La rivoluzione è basata sulla terra. La terra è la base di tutta l’indipendenza». Lo diceva Malcolm X nel 1963. Lo dicono oggi le donne di Jinwar, il primo villaggio femminista nel nord-est della Siria. Tra questa cinquanta case costruite come si faceva un tempo - acqua, paglia e fango - vivono una ventina di donne che per necessità o per convinzione hanno deciso di ricostruire a Jinwar un pezzo della loro esistenza. Una nuova casa per lasciarsi alle spalle la guerra o una missione per rivoluzionare il futuro delle donne in Medio Oriente. Jinwar come fuga o Jinwar come lotta. Jinwar accoglie tutte. La base è la condivisione. Pranzi e cene comunitarie dove dalla grande cucina escono cibi semplici come il pane cotto nel forno del villaggio, le zucchine coltivate nell’orto, tutte materie prime che seguono la stagionalità del raccolto. Chi cucina non lava i piatti, gli uomini sono ammessi nella misura in cui contribuiscono, lavorando, a migliorare il villaggio. Ma a nessuno è permesso di restare a dormire.
A Jinwar vivono solo donne. Una scelta radicale che nasce dalla necessità di garantire un luogo sicuro dove potersi esprimere e realizzare in piena libertà senza dipendenze e condizionamenti. «Nella società per cui mi batto e che spero di vedere, non ci saranno più donne costrette in questi ruoli. Una donna che si trova a dipendere dai vecchi rapporti di potere fra i sessi non può che risultare perdente. Per me oggi una donna esiste solo nella misura in cui è libera. Se dipende dal suo uomo non può essere sé stessa. Secondo me una donna ha perso nel momento stesso in cui a proprio rischio si piega alla dipendenza e rinuncia a fare i conti con la questione della propria libertà personale. La donna è sempre stata idealizzata, ma l’ideale può realizzarsi solo nella libertà». Così scriveva Abdullah Öcalan. Le sue parole sono state fonte di ispirazione per questo progetto di vita alternativa. Un impegno, quello del leader del Pkk oggi confinato sull’isola di Imrali in Turchia, che ha condizionato la stessa rivoluzione curda in Siria. Il confederalismo democratico di Öcalan - influenzato dal municipalismo libertario e dalla democrazia senza Stato orientata al femminismo e all’ecologismo di Murray Bookchin, dalla teoria del sistema-mondo di Wallerstein e dalle teorie del nazionalismo di Benedict Anderson - ha dato i suoi frutti proprio in Rojava.
La guerra civile esplosa nel 2011, l’inasprimento del conflitto e il ritiro delle forze governative dal nord-est del paese nel 2012, ha permesso alla minoranza curda di ritagliarsi uno spazio di indipendenza che si è presto scontrato con la minaccia delle formazioni terroristiche. Sconfitto - almeno militarmente - l’Isis nella sua ultima roccaforte di al-Baghouz, nella provincia meridionale di Deir ez-Zor al confine con l’Iraq lo scorso marzo, le forze curde pagano oggi la minaccia del ritiro delle truppe americane. Resta ancora da capire che destino avranno le centinaia di foreign fighters prigionieri nelle carceri curde, le migliaia di sfollati che gravitano intorno ai campi profughi e sistemazioni di fortuna, la ricostruzione di città come Raqqa rasa al suolo dai bombardamenti della coalizione. C’è poi un’intera società da rimettere in piedi, equilibri confessionali, di potere e influenze internazionali da gestire. I capitoli aperti sono tanti e quello della parità di genere tra i più delicati.
«Jinwar è innanzitutto un atto politico», spiega Nujin, 28 anni, tedesca, arrivata qui tre anni fa. Come lei sono passate da Jinwar molte donne straniere ispirate dalla gineologia, il movimento femminista diffusosi anche in Europa che intende innalzare la coscienza di genere nelle donne mettendo al centro le loro esperienze, senza coinvolgere lo Stato, ma appoggiandosi unicamente alle proprie forze ed esperienze. In questo senso Jinwar è diventato un luogo di scambio dove il linguaggio dell’emancipazione si mescola a utopie libertarie. Nujin accoglie comitati, delegazioni e persone curiose di scoprire il villaggio. Ci sono giorni in cui la piazza del villaggio si trasforma in un parcheggio. Il via via è ininterrotto. Ma Nujin è sempre sorridente, accomodante con la sua treccia bionda e i vestiti impolverati. Tra le poche cose che si è portata da Dortmund c’è un diario a cui sono seguiti molti altri. Vivere a Jinwar non è una vacanza, un vezzo o un ritiro sabbatico. Per Nujin è un impegno pratico ma soprattutto di pensiero, nella convinzione che la rivoluzione, per durare, debba partire dal basso. «Questi proiettili li ho raccolti pochi giorni dopo essere arrivata a Jinwar. Non ci crederesti che anche qui c’è stata la guerra». E della guerra a Jinwar non c’è traccia. La rigenerazione ideologica ha coinvolto anche la terra. Fangosa quando piove, secca d’estate quando si dorme sotto alle stelle.
Emira si sveglia all’alba e prepara la colazione per i suoi cinque figli. Con i suoi modi spicci «potrei fare la sindaca di Jinwar», ammette scherzando. «Sono arrivata qui con il cuore aperto al mondo. Quando chiudo gli occhi sogno un villaggio pieno di sorelle con cui lavorare e condividere idee mentre i nostri figli crescono, giocano e studiano insieme». L’anno scorso, quando la scuola del villaggio non era ancora stata inaugurata, Emira è tornata in città per far studiare i figli. «Mi è mancato il respiro. Davanti casa c’era solo strada e cemento. Così abbiamo caricato le nostre cose sulla macchina e siamo tornati qui».
Fino a qualche mese fa vicino a casa di Emira viveva Sadiha, divorziata e per questo ripudiata dalla famiglia, con i suoi due figli. Per tre anni non ha visto il figlio più grande che il marito aveva portato con sé in Turchia. «Quando l’ho preso tra le braccia non mi ha riconosciuta. Spero si ricorderà di me quando diventerà adulto e avrà una famiglia sua». Prima di arrivare a Jinwar Sadiha aveva vissuto per strada chiedendo l’elemosina. Poi aveva sentito dell’esistenza del villaggio e aveva fatto domanda per esserne ammessa. Se ne è andata pochi mesi più tardi per arruolarsi nelle Ypj, i battaglioni femminili delle forze curde, lasciando i figli con i nonni. Anche quando viveva a Jinwar la sua casa era vuota. La cucina era vuota. Solo un paio di cuscini appoggiati sulle stuoie in salotto. «Ho preferito dimenticare la mia vita di prima», diceva davanti allo specchio mentre dipingeva una striscia di sopracciglia. A 15 anni aveva fatto un’operazione per eliminarle definitivamente ma non aveva abbastanza soldi per tatuarle. Così ogni giorno, più volte al giorno, le rimpiazzava con una pennellata dritta e sicura. E nonostante le altre donne del villaggio le dicessero che «make up non è bello» lei non ascoltava nessuna. Era il suo modo per sentirsi bella.
Come Sadiha hanno lasciato Jinwar anche Sabah e Hanan. Madre e figlia erano arrivate da Deir ez-Zor portando con loro il frigorifero, le mucche, i piccioni e le galline. Dopo aver vissuto per quasi tre anni sotto l’Isis, volevano essere indipendenti. Un’indipendenza materiale almeno, dal momento che il dolore del passato lo avevano inchiodato all’ingresso. La foto del figlio Sultan, morto a Raqqa a 19 anni, troneggiava sul fratello più giovane appoggiato al muro a cavalcioni. Saddam, 15 anni, i baffetti appena accennati, fumava con
le movenze di un anziano capo villaggio. Mamma Sabah gli lanciava occhiate rancorose. Quel figlio le ricordava il marito dal quale era stata abbandonata. Stessa sorte accaduta alla figlia Hanan. L’ex marito si era risposato e i due figli vivono oggi col padre a Deir ez-Zor. «Cosa dovrei dire. Mi mancano, ma cosa posso fare? Chi se n’è andato dalla Siria dice che in Europa è tutto più bello, che i bambini vanno a scuola, che tutto questo, lì, non può succedere».
Il posto di Hanan e Sabah lo hanno preso mamma Fatima con le sue sette figlie. Nassrin, la più grande, ha un sogno: suonare il violino. Ma la famiglia del padre è sempre stata contraria per- ché - dicevano - non è cosa per donne. «Il suono del violino esprime il mio dolore. È così che me ne libero, facendolo arrivare a chi mi ascolta». La sofferenza di Nassrin è legata alla perdita del padre, colpito dalla scheggia di una mina durante l’assedio di Kobane. Dopo la sua morte, non avendo fratelli, lo zio l’ha obbligata a sposare il cugino. Lei si è rifiutata, ma è stata costretta a vivere a casa sua subendo ogni tipo di vessazione. Finché Fatima non ha capito la situazione e ha portato tutta la famiglia a Jinwar. «A Kobane vedevo papà in ogni angolo. Non avremmo potuto vivere lì a lungo». Con il tempo quel ricordo è destinato ad affievolirsi, merito anche delle donne di Jinwar che «lavorano sodo e io potrò finalmente ricominciare a studiare».
Lutti, solitudine, abbandoni. Destino, colpa o merito. Non importa. A Jinwar la base comune è l’assenza di giudizio. «Siamo tutte donne - spiegano durante una riunione - a prescindere dall’etnia e dalla religione. L’unica differenza è quanto il sistema capitalistico ci abbia contaminate e quanto dobbiamo aiutarci l’un l’altra per fare pulizia». In quest’isola di derive e approdi, nessuna giudicherebbe Melka per esempio, sordomuta, che ha perso la carta d’identità e non ricorda quanti anni ha. Berivan, la figlia, ha 12 anni e non ha mai visto il padre. Dal miglioramento interiore e collettivo passa anche l’accettazione del prossimo. Il messaggio che Jinwar vuole dare alle donne del mondo è che non esiste una donna giusta o sbagliata, ma solo donne consapevoli.
In cielo sfrecciano le rondini. Badra rientra dal pascolo e a casa l’aspettano i suoi sette figli. In ciascuno rivede l’amore della sua vita, quel soldato morto in guerra a Shaddadi. «Sono ancora magra nonostante 14 gravidanze», ride. «Se non fosse stato ucciso avremmo continuato». Gli altri sette figli sono morti di parto e degli altri sette cinque vanno a scuola e due «giocano a fare le scimmie». Per loro vorrebbe solo che trovassero la propria strada, «per me», conclude, «non ho desideri. Mi basta aver conservato il cellulare di mio marito, così ogni volta che squilla è come se lui fosse ancora qui con me».




https://spogli.blogspot.com/2019/06/lespresso-2.html