giovedì 6 giugno 2019

La Stampa 6.6.19
In Danimarca
Elezioni, crollo dell’ultradestra
La sinistra verso il governo
di Walter Rauhe


In Danimarca la coalizione di governo formata dai partiti del centrodestra del primo ministro Lars Løkke Rasmussen ha perso la maggioranza a causa del drammatico tracollo della formazione di estrema destra del Partito del Popolo Danese (Dpp) che dal 2014 l’appoggiava dall’esterno.
Alle elezioni politiche di ieri il partito nazionalista ed euroscettico ha ottenuto il 9,8% dei consensi, circa undici punti in meno rispetto a cinque anni fa. Netta affermazione invece dei socialdemocratici finora all’opposizione che sotto la guida della carismatica e popolare leader Mette Frederiksen sono riusciti a conquistare il 25% delle preferenze affermandosi primo partito nel Paese con quattro punti di vantaggio sui Liberali di Rasmussen che nel corso dell’ultima legislatura avevano adottato una linea molto dura sull’immigrazione spostando molto a destra la linea politica di Copenaghen.
Il partito socialdemocratico punta ora al potere e alla formazione di un governo di minoranza appoggiato da diversi partiti di sinistra e da quello ambientalista. In una prima reazione Mette Frederiksen ha respinto l’offerta del primo ministro uscente Rasmussen di dar vita ad una «maggioranza di centro», una specie di Grande coalizione alla danese formata dai Liberali insieme ai socialdemocratici.
Alle urne sono stati chiamati ieri 4,2 milioni di cittadini. L’esito del voto premia una campagna elettorale incentrata dai socialdemocratici sul tema del welfare e sull’immigrazione. Mette Frederiksen aveva promesso una linea dura nei confronti dell’immigrazione incontrollata di profughi extra europei nel Paese, l’introduzione di un obbligo di lavoro e auto-sostentamento per i tutti i rifugiati ai quali è stato riconosciuto il diritto di asilo e l’espulsione invece di tutti quelli respinti. Al tempo stesso la leader socialdemocratica ha posto forti accenti sulla politica del welfare esprimendo la sua volontà di reintrodurre tutta una serie di sussidi e aiuti sociali ridotti dal governo di centro destra di Løkke Rasmussen.
Negli ultimi anni l’estrema destra populista del Dpp era riuscita ad incentrare il dibattito politico in Danimarca sui sedicenti pericoli legati all’immigrazione raccogliendo molti consensi con la sua retorica dai toni spesso apertamente xenofobi, anti-islamici ed euroscettici. Una strategia che ha finito per dare i suoi frutti contagiando non solo il Partito liberale del primo ministro in carica ma anche i socialdemocratici. I populisti devono fare i conti però anche con altre formazioni di destra ancora più radicali come quella del «Stram Kurs», il cui leader è accusato di stretti legami con gli ambienti neonazisti e di aver bruciato delle copie del Corano.

La Stampa 6.6.18
Putin brinda all’intesa con Xi
“Siamo entrati in un’altra era”
di Giuseppe Agliastro


Russia e Cina consolidano la loro alleanza. Nel bel mezzo della guerra dei dazi tra Washington e Pechino e sullo sfondo dei burrascosi rapporti tra gli Usa e la Russia, Vladimir Putin e Xi Jinping si sono incontrati ieri a Mosca per mostrare al mondo di essere in perfetta sintonia su tutte le questioni più importanti sullo scacchiere geopolitico. Ma anche di voler continuare a rafforzare i loro legami economici sempre più intensi. Dopo una solenne cerimonia e tre ore di colloqui, i leader di Russia e Cina hanno firmato al Cremlino un pacchetto di 30 accordi intergovernativi e commerciali nonché due dichiarazioni congiunte sullo sviluppo del partenariato russo-cinese e sull’equilibrio strategico internazionale. Per il Cremlino le nuove intese rappresentano addirittura la chiave di ingresso in «una nuova era». Di certo sono lo specchio della speciale relazione tra Mosca e Pechino. Putin e Xi sono gli unici grandi del pianeta a non essere presenti alle commemorazioni del D-Day in Gran Bretagna. Si chiamano l’un l’altro «caro amico» e sottolineano con enfasi di pensarla allo stesso modo quasi su tutto: secondo loro gli Usa devono aprire al dialogo con la Corea del Nord, devono abbassare i toni in Medio Oriente e hanno commesso un grave errore ad annunciare il proprio ritiro dal Trattato antimissili Inf.
Il leader russo e quello cinese hanno poi continuato a fare sfoggio del loro rapporto di «amicizia» andando sulla stessa auto allo zoo di Mosca per la cerimonia di consegna di due panda giganti cinesi. E poi a un concerto al celebre teatro Bolshoj.
Dopo essere stata colpita dalle sanzioni occidentali per la crisi ucraina, la Russia ha scommesso sulla Cina. Per Mosca è una necessità: ha un estremo bisogno della tecnologia cinese per compensare il fatto di non poter più acquistare da Usa e Ue i mezzi tecnici che le servono. Prima di tutto quelli necessari per sfruttare i giacimenti di greggio. Ma questo è uno dei fattori che rende la Russia il partner più debole nell’asse Mosca-Pechino. L’interscambio commerciale tra Russia e Cina ha raggiunto livelli record: nel 2018 ha superato i 108 miliardi di dollari crescendo del 25% rispetto all’anno prima. Ma, come evidenzia il politologo Aleksandr Gabuev sulle pagine del New York Times, gas e petrolio rappresentano circa il 70% delle esportazioni russe in Cina. Inoltre, Mosca destina al gigante asiatico già il 19% del proprio export, ma riceve solo il 2-3% delle esportazioni cinesi. Il rapporto commerciale è sbilanciato a favore di Pechino. Putin ha bisogno di Xi, che oggi sarà l’ospite d’onore del Forum Economico di San Pietroburgo.

La Stampa 6.6.19
Mao, il Grande balzo nel XXI secolo
L’appeal globale del Grande Timoniere è sempre vivo: in Asia come in Occidente
di Christian Rocca


Nel 2024 la Cina comunista supererà i 74 anni di vita dell’Unione Sovietica e gli storici potrebbero ricordare la rivoluzione cinese dell’ottobre 1949 non solo come più longeva, ma anche come più influente di quella russa dell’ottobre del 1917, a maggior gloria dell’attuale Politburo di Pechino impegnato in una grandiosa operazione di soft e hard power nel continente asiatico, con ramificazioni in Africa e in Europa e 800 miliardi di euro di investimenti esteri, in uno scenario di sfida geopolitica con gli Stati Uniti per la supremazia economica, tecnologica e militare.
La narrazione occidentale dell’ascesa cinese, da alcuni giudicata pericolosa e da altri un’opportunità, manca sempre di un tassello che invece è il cuore di un bel libro appena uscito in Gran Bretagna, e non ancora tradotto in italiano, scritto da Julia Lovell, professoressa di Cina moderna all’Università di Londra. Il libro si intitola Maoism - A global History (Vintage Publishing)
Il maoismo è la dottrina politica che costituisce, con tutte le contraddizioni ideologiche riconosciute dallo stesso Mao, l’essenza della Cina popolare e del sistema comunista cinese di ieri e di oggi, oltre che una fonte di ispirazione globale senza confini e senza precedenti.
Nel settembre del 1976, il quotidiano La Repubblica diede la notizia della morte del presidente cinese Mao Tse-tung con un titolo di prima pagina che a caratteri di scatola recitava così: «È morto il grande Mao». L’aggettivo «grande» non è esattamente il primo che viene in mente per descrivere un dittatore che, secondo le stime dello studioso olandese Frank Dikötter, un’autorità in materia di Cina, avrebbe causato la morte di 45 milioni di suoi concittadini. Nella mia libreria di casa c’è, esposta al modo di un oggetto pop, una copia del Libretto rosso di Mao, con splendida copertina vermiglio di vinile. Ovviamente non mostrerei mai il Mein Kampf di Hitler o qualcosa di Stalin, così come a nessun giornale sarebbe mai venuto in mente di affiancare l’aggettivo «grande» al nome di un dittatore criminale del Novecento diverso da Mao.
E, dunque, per capire perché il maoismo da idea di riscatto contadino sia diventato forma di governo e un fenomeno globale e pop, capace prima di ammaliare intellettuali e artisti e poi di mantenere lo status di evento alla moda nonostante lo sterminio di massa, Lovell racconta che il mito di Mao nasce grazie a un libro del 1936 scritto dal giornalista americano Edgar Snow, intitolato Stella rossa sulla Cina e frutto di lunghi colloqui con Mao durante la guerra civile tra i comunisti e il governo nazionalista cinese. Quel libro, tradotto anche in cinese, ha fatto diventare Mao una celebrità politica locale e internazionale e ha fatto da didascalia all’ascesa al potere del Grande Timoniere, al «Grande balzo in avanti» con cui avrebbe dovuto riformare il Paese e alla Grande rivoluzione culturale con cui si riprese in mano il partito dopo il fallimento del piano economico. Mao ha ispirato una serie infinita di movimenti politici in Asia e in America Latina, in Africa e in Europa, vecchi e nuovi, alcuni dei quali sono arrivati al potere, come Pol Pot in Cambogia e Kim Il-sung in Corea del Nord, altri sono sconfinati nella lotta armata, come Sendero Luminoso in Perù, le Brigate rosse in Italia, la Rote Armee Fraktion in Germania, le Pantere nere negli Stati Uniti e l’Olp in Medio Oriente.
Il saggio di Lovell racconta l’ubriacatura politica e culturale dagli anni Sessanta a oggi, dai caffè parigini ad alcuni tragicomici esempi italiani come Servire il Popolo di Aldo Brandirali e le mobilitazioni studentesche a Pisa e alla Cattolica di Milano, ma avverte il lettore che l’appeal globale del Grande Timoniere non è un retaggio del passato. Il maoismo globale, piuttosto, è un’ideologia viva anche nel XXI secolo, in Asia soprattutto, con non poche influenze sull’islamismo radicale, dal regime degli ayatollah sciiti in Iran alle tattiche di guerriglia militare dell’Isis, ma anche sulla retorica della volontà popolare e della «democrazia di massa« contro le élite tecnocratiche delle metropoli.
La parte più preoccupante del saggio di Lovell è quella sulla Cina contemporanea: nel 2018 il presidente Xi Jinping ha cancellato il limite dei due mandati imposto da Deng nel 1982, trasformandosi in presidente a vita e nel Grande Timoniere del XXI secolo, e alimentando un culto della personalità che ricorda quello riservato a Mao. I telegiornali della sera trasmettono servizi che fanno entrare nelle case dei cinesi tutti e quattro i minuti e i sedici secondi di applausi a scena aperta ricevuti da Xi in occasione del ritiro di un qualche premio. Il controllo tecnologico ha raffinato le tecniche di sorveglianza di massa, di repressione del dissenso e di invio degli oppositori nei campi di rieducazione.
In piazza Tienanmen si erge il mausoleo di Mao, mentre il quadro di sei metri per quattro, raffigurante il Grande Timoniere, domina l’accesso alla Città proibita. Nel 2016 una gigantesca statua dorata di Mao alta 37 metri è sorta tra mille fanfare nella provincia di Henan, prima di essere abbattuta senza spiegazione dalle autorità. Le stesse autorità che prima hanno accompagnato l’ascesa di Bo Xilai, una delle figure primarie dell’apparato cinese, noto per voler restaurare i fasti della Rivoluzione culturale maoista, e poi lo hanno incarcerato e condannato all’ergastolo.
Deng aveva rigettato il maoismo, ma al contrario dell’Unione Sovietica che, disfacendosi di Stalin, poteva contare sulla figura unificante di Lenin, la Cina non ha nessun altro mito su cui fondarsi. Tranne Mao.

La Stampa 6.6.10
Il mito antidemocratico della riscossa asiatica
di Carlo Pizzati


Nel secolo scorso avevano successo le analisi su un archetipo dell’Occidente, il cosiddetto «pericolo giallo« di un possibile risveglio dell’Asia. Si pensi alla Sfida globale di Jean Jacques Servan-Schreiber che delineava nel Giappone del 1980 il futuro padrone del mondo. Non andò esattamente così. Ora che gli equilibri economici s’inclinano davvero verso l’Asia, inizia la moda delle agiografie su una Cina tecnocratica che guida la riscossa mondiale del continente.
A questa categoria appartiene Il secolo asiatico? di Parag Khanna (Fazi, € 25) il cui titolo in inglese dichiara, senza punteggiatura interrogativa, che The future is Asian. Si tratta di 455 pagine che si aprono con un distillato vertiginoso di reinterpretazioni storiche, fuori dalla prospettiva eurocentrica, per passare all’Asia-nomics del «sistema Asia» dopo aver eliminato lo stereotipo di un’Asia più bisognosa dell’Occidente che non il contrario.
Un libro da sottolineare e da leggere con cura. Anche e soprattutto per non condividerne l’evidente spregio verso i valori fondanti della democrazia come i diritti civili, la libertà personale e quella politica. La democrazia liberale, dichiara infatti Khanna, non è adatta all’Asia quanto il «dispotismo benevolo» di matrice singaporiana. E qui l’autore, nato in India, ma cresciuto negli Stati Uniti, laureato alla London School of Economics e ora residente nella ricca isoletta di Singapore, rivela i limiti di un’analisi formulata senza abitare nell’Asia vera, quella ancora sottosviluppata, dove c’è il dengue, la malaria, le strade con le buche, dove i macchinari si rompono, i funzionari si corrompono, come anche gli elettori, e non in quell’«Asia globale» delle tecnocrazie che portano risultati, ma imprigionando o esiliando voci contrarie e minoranze religiose, facendo a pezzi o lasciando uccidere i giornalisti scomodi, prendendo a frustate o a lapidando donne indipendenti e Lgbt. Queste preoccupazioni, per Khanna, sono «chiacchiere ipocrite».
Quest’inno alle tecnocrazie asiatiche dell’uomo forte da una prospettiva Pechino-centrica incarna ciò che descrive: la trasformazione di una visione del mondo. Alcune tesi potrebbero anche apparire condivisibili, ma quando Khanna sfora nella futurologia basata sulle promesse di politici come l’indiano Modi, il filippino Duterte o l’indonesiano Jokowi, invece che su fatti comprovati, diventa azzardato fidarsi delle conclusioni.
Siamo nell’era dell’asianizzazione multilaterale, dice Khanna, non del predominio della Cina. L’Asia s’inizia in Turchia e finisce in Australia ed è rinata negli anni ’80 con il boom giapponese, seguito dalle Tigri asiatiche: Singapore, Taiwan e Corea del Nord. Poi è arrivato il boom cinese. Il maggio 2017 sarà una data storica: la nascita della Belt and Road Initiative. Con i finanziamenti infrastrutturali cinesi si rifà il mondo, dice Khanna. Ma come? Facendo indebitare paesi asiatici fino al 75 % per poi avanzare pretese territoriali? Ne sa qualcosa lo Sri Lanka che per rimborsare i debiti cinesi ha dovuto cedere a Pechino l’usufrutto del porto di Hambantota per 99 anni.
Ma l’autore sostiene che non esistono mire imperialiste cinesi, solo commerciali (come se non fossero perennemente intrecciate). Il mondo sarà gestito da Usa, Europa e un’Asia che si rafforza commerciando sempre più all’interno del continente stesso.
Siamo nel panasiatismo di Okakura Tenshin e a quell’invito dello scienziato politico Zhang Weiwei affinché «la gerarchia occidentale sia sostituita dalla parità tra civiltà».
Ma se da un lato Khanna dice che l’Indice di Sviluppo Inclusivo è più importante del Pil e che paesi asiatici come Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Israele occupano i primi posti, poi troviamo Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Cambogia, Laos, Yemen e un miliardo e 400 milioni di indiani tra gli ultimi. In Asia crescono aspettativa di vita, risparmio e reddito medio, ma non sempre si abbassa il livello di povertà né aumenta il tasso di eguaglianza, anzi. Mentre s’impenna l’emissione di carbonio.
Nella sua infervorata prospettiva anti-Occidentale e avendo perso la bussola democratica, Khanna si entusiasma per l’inurbamento, prendendo troppo alla leggera la morte, ogni anno, di 2 milioni e mezzo di persone in India e il milione e 800 mila in Cina per le conseguenze dell’inquinamento. Vittime del futuro asiatico, si presume.
Queste perdite, come quelle dei diritti civili e umani, sono il prezzo necessario alla crescita, questo ci dice il difensore dei regimi autoritari asiatici, paladino della governance tecnocratica, con una leggerezza da tecnocrate cui in Occidente forse non siamo ancora abbastanza preparati.
Il futuro che ci attende nel secolo asiatico rischia di buttar via con l’acqua sporca dei limiti egalitari dell’Occidente anche il bambino di una società democratica sbocciata con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese. In nome del progresso economico.

il manifesto 6.6.19
Solo alla psicoanalisi sta a cuore il senso della sofferenza mentale
L’efficacia incompresa dell’orientamento psicodinamico
di Francesca Borrelli


Da anni, ormai, della sofferenza mentale si è impossessato un ingegnoso mercato, che punta sulla idealizzazione delle neuroscienze e sugli effetti delle terapie cognitiviste, entrambe perfettamente sintonizzate con l’individualismo contemporaneo e il tempo della fretta. La cacciata in esilio del senso ha colonizzato il senso comune: non è un gioco di parole, è precisamente quanto è avvenuto in coincidenza con ciò che Alain Ehrenberg chiama, nel suo ultimo libro – La meccanica delle passioni (Einaudi, 2019) – l’avvento di un uomo nuovo: «l’uomo neurale».
ANCHE A CHI non sia un cultore di Freud è evidente come ciò che ci identifica non è il nostro cervello, bensì ciò che facciamo della nostra esistenza. In questo contesto, notava nel 2015 Miguel Benasayag, quel che spesso si nasconde dietro gli attacchi alla psicoanalisi non è ascrivibile alle sue lacune, ma è piuttosto frutto delle sue virtù: sembra che a venire soprattutto rifiutata sia infatti, la «dimensione tragica» della cura analitica, quel contatto del singolo con il mondo in cui risuona l’eco hegeliana di una teoria della storia secondo la quale gli individui, pur dedicandosi alle loro attività e perseguendo fini egoistici servono, sebbene inconsciamente, un comune disegno di emancipazione. L’universo dell’uomo contemporaneo – scrive ancora lo psichiatra argentino – si ferma invece ai confini del corpo. Eppure, nemmeno quando si limita a un fenomeno fisico, il dolore si esaurisce, in realtà, in un impulso nervoso: la sua percezione dipende, infatti, dalla diversa griglia interpretativa che ha in dotazione ciascun individuo. Detto altrimenti, non esiste dolore che preceda il senso.
A dispetto di questa evidenza, Anna Maria Nicolò, attuale presidente della Spi, introdurrà il convegno L’efficacia della psicoterapia psicoanalitica nei contesti di cura (promosso dalla Società Psicoanalitica Italiana, dalla Associazione Italiana Psicologia Analitica, e da Soci Italiani European Federation for Psychoanalytic Psychotherapy) il 7 giugno all’Università La Sapienza di Roma, sottolineando come «la psicoterapia sta praticamente sparendo dalle istituzioni e l’approccio psicodinamico, che aveva tanto bene orientato la prevenzione, la diagnosi e la cura nei consultori, nelle équipe mediche psicopedagogiche delle scuole, nei centri di salute mentale e negli ospedali, viene relegato a settori o a operatori rari e isolati».
ORMAI ALMENO due generazioni di psichiatri sono stati allenati a ignorare la ricorsività intrinseca a giochi linguistici che, se interpretati, potrebbero aiutare sensibilmente molti dei loro pazienti, trattati invece farmacologicamente sulla base di un investimento di interessi sul cervello piuttosto che sulla psiche.
Nel denunciare la illusoria prassi di sbarazzarsi dei sintomi schizofrenici trasferendoli sui farmaci, il grande psicoanalista inglese Christopher Bollas ha parlato di «incarcerazione psicotropa», identificando nella medicalizzazione vigente una minaccia alla dimensione umana. Per molti aspetti, infatti, sintomo e persona sono tutt’uno. «Di fatto – scrive Bollas – l’idea che i disturbi mentali possano essere risolti tramite un intervento neurologico è un errore categoriale ridicolo quanto lo è confondere un programma radiofonico con la radio stessa».
Da che la ricerca empirica ha ormai dimostrato l’efficacia dei trattamenti analitici, ciò che è in gioco – dirà Antonello Correale al convegno – è «capire come e per chi il trattamento analitico funziona e chiarire quali siano i fattori terapeutici realmente attivi». La psicoterapia a orientamento dinamico ha rivelato la sua particolare efficacia nel trattamento della depressione, «inesorabile contropartita dell’uomo che si pretende sovrano» ha scritto Ehrenberg, in un saggio ormai famoso, La fatica di essere se stessi, che analizza questa «malattia della responsabilità» come tipica di dinamiche sociali dove il conflitto non è più fra ciò che è permesso e ciò che è vietato, bensì tra ciò che è possibile, ovvero alla nostra portata, e ciò che è inaccessibile, sebbene propagandato come dipendente dalle nostre capacità autoimprenditoriali.
AL CONVEGNO che avrà inizio venerdì, Antonello Colli si incaricherà di riassumere le critiche più frequenti alle terapie psicoanalitiche: «non sono validate empiricamente; laddove esistano prove empiriche l’efficacia delle terapie psicoanalitiche è modesta se paragonata ad altre terapie evidence based; sono eccessivamente e inutilmente lunghe e costose». Ma «mettere in atto una valutazione psicodinamica in età evolutiva, significa – farà notare Mirella Galeota – sostare senza fretta a osservare e interrogarsi sulla persona intera del paziente, non solo sul disturbo o sull’organo o la singola funzione… Valutare psicodinamicamente un minore significa utilizzare il metodo psicoanalitico che è il solo che consente di stare con propria mente in relazione con la mente dell’altro».

Corriere 6.6.19
Saggi L’invito all’ascolto, a identificarsi con chi soffre: le riflessioni del grande studioso in «La follia che è anche in noi» (Einaudi)
La psichiatria gentile
Borgna: scienza naturale ma anche umana, indaga l’interiorità, non il cervello
di Giancarlo Dimaggio


Oggi chi si occupa dell’animo umano e vuole ammantarsi di scienza ama anteporre il prefisso: «neuro» a termini psicologici. Neurocognizione. Neuropercezione. Lo fa per abbeverarsi di potenza e innalzare la propria parola di un gradino, verso un sapere che pretende inattaccabile. È come se dicesse: le mie sono più che confabulazioni psicologiche, quello che dico corrisponde a stati del cervello che localizzerete in quell’area della corteccia, lì poco a destra e sopra l’orbita. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: gli studi sulle basi cerebrali del funzionamento psicologico ricevono finanziamenti spropositati, le ricerche sulla comprensione dei processi mentali e sulla cura psicoterapeutica pochi spiccioli. E in realtà la psicoterapia è più efficace dei farmaci.
Poi si legge Borgna (La follia che è anche in noi, pubblicato da Einaudi) e arriva un momentaneo sollievo. Che l’oggetto della psichiatria, della psicologia e della psicoterapia non sia «il cervello con le sue disfunzioni, ma la soggettività, la interiorità dei pazienti: il loro modo di essere nel mondo delle relazioni interpersonali». Borgna invoca una psichiatria che sia al contempo scienza umana e scienza naturale.
Perché è difficile? A che serve la ricerca presuntuosa e inutile dell’oggettivazione della sofferenza? Ad arricchire le case farmaceutiche? In gran parte no, gli psicofarmaci sono spesso necessari o complementari alla cura della parola. E allora? Perché frapporre quel fastidioso prefisso «neuro» tra l’articolo e le parole che indicano psiche? Per paura.
La fenomenologia italiana ha avuto un ruolo fondamentale nel mostrare che comprendere chi soffre significa calarsi nel pozzo con lui, entrare nella visione di fiamme e sangue con lei, sempre ben muniti della mappa per tornare indietro salvi, ben inteso. Scrive Borgna: «Senza la ricerca di quello che ci unisce, nonostante ogni differenza, con le figure e le dissolvenze, con i fantasmi e le ombre, con il dolore e la sofferenza, della malinconia e dell’angoscia, non si riesce ad aiutare chi sta male».
Empatia
La comunicazione al malato è già inizio di cura se la frase e il tono di voce sanno manifestare accoglienza e vicinanza
Entrare in quei luoghi di draghi e prigioni, di spettri e deserti costa un grammo di dolore personale. L’ascolto empatico invocato da Borgna non significa riconoscere alla follia lo statuto di verità alternativa, ma capire che alle sue radici c’è lo stesso dolore che proviamo noi. La tua angoscia è simile a quella che ho provato io per mio figlio, la tua vergogna è quella che io ho vissuto quando la mia lingua è inciampata mentre parlavo in pubblico. La tua ossessione è la stessa che nutre il mio pensiero ripetitivo — «la brutta figura accadrà ancora e ancora» — che ha colonizzato la mia mente in una giornata umida di novembre.
A volte gli psicoterapeuti ascoltano pazienti che si trovano in stati di frustrazione, fallimento, non vedono via di uscita, leggono solo la costellazione di perdite e sconfitte che è stato il loro passato e decidono che il futuro continuerà identico. Oppure che si sentono tagliati fuori dalla società, diversi oggi e per sempre, non esiste un gruppo che possa accoglierli. Per aiutarli a uscire da questo stato gli psicoterapeuti devono prima entrarci. Ricordare quel giorno in cui camminando per la periferia di Roma a fine luglio si sentivano anche loro tagliati fuori dalla comunità, come mi ha raccontato una collega. Questa capacità di identificazione è tanto costosa quanto preziosa e capace di ricambiare con generosità, solo grazie ad essa saremo vicini a chi soffre. L’invocazione di Borgna a pronunciare parole fragili e gentili vale anche per i medici: la comunicazione al malato è già inizio di cura se la frase, il tono di voce sanno manifestare accoglienza e vicinanza.
Alla fine Borgna parla di una cosa sola: quel nucleo di fragilità che è alla radice della follia e della sofferenza psichica. Se il curante sa leggerla, avvicinarvisi con grazia, scoprire come risuona con la propria fragilità, il percorso di cura si apre, diventa possibile. Gli sforzi dei fenomenologi non sono stati invano se persino il DSM 5, il manuale generato dalla psichiatria americana e spesso additato come simbolo di oggettivazione fredda della malattia mentale, arriva a descrivere alcuni pazienti riferendosi alla loro esperienza interna; descrive i disturbi di personalità come forme in cui risuonano bassa autostima, senso di vuoto, perdita dello slancio vitale che genera l’azione intenzionale.
In primavera ho insegnato a Aarhus, Oslo, Bergen. Sempre la stessa impressione: locali caldi, ampi, accoglienti. Stanze verniciate di fresco, poltrone morbide e comode, viali alberati. Ad Aarhus i colleghi scherzavano sulla scelta dell’architetto di dipingere le pareti di rosa, e non era un reparto femminile. Poteva piacere o meno, ma il pensiero era: creiamo un’ambiente gradevole. Mi perdevo a leggere le targhette che indicavano tanti tipi di psicoterapia diversa. E pensavo: è possibile. Una psichiatria orientata all’ascolto, alla psicoterapia, sostenuta dallo Stato. Senza il prefisso «neuro».

La Stampa 6.6.19
Italia, Francia, Ungheria e Polonia:
il sentiero sovranista in Europa
di Carla Reschia


Cinque anni fa, Valery Giscard D’Estaing ha pubblicato un libro, «Europa: The Last Chance for Europe», (L’ultima occasione per l’Europa). Essendo stato uno dei promotori più qualificati del progetto, avvertiva del rischio creato dalla spinta delle identità nazionali, che minaccia di snaturare l’Unione. Sottolineava l’esistenza di due diversi modelli di Europa: quello guidato dal Regno Unito che non era e non è altro che una zona di libero scambio con libertà di circolazione e di scambi di capitali, e quello dei fondatori Schumann e Monnet, che immaginavano la costruzione di un gruppo economico assolutamente integrato, in grado di competere con lo strapotere degli Stati Uniti e della Cina.
All’epoca della pubblicazione dell’opera molti degli attuali problemi del continente avevano già cominciato a manifestarsi, anche se non erano ancora esplosi. Il libro era uscito in concomitanza con lo svolgimento del referendum sull’indipendenza della Scozia e Cameron non aveva ancora convocato quello che avrebbe dato origine alla Brexit.
Vale la pena rivedere i commenti dell’ex presidente francese, poi ampliati dall’ex cancelliere Helmut Schmidt, alla luce di quanto accaduto nelle recenti elezioni per il Parlamento europeo. Sottolineavano come le sfide che si presentano all’Unione vengano da lontano. Hanno molto a che fare con l’insoddisfazione sociale dei cittadini per le risposte inadeguate delle istituzioni alle loro richieste; la paura della globalizzazione e il crescere del populismo e della demagogia di cui soffrono praticamente tutti i paesi membri stanno aprendo la strada alla democrazia dell’indignazione.
Poiché i sondaggi davano previsioni nefaste sulla crescita dell’estrema destra nel continente, crescita che invece è stata alquanto limitata, assistiamo all’espressione di un volonteroso ottimismo da parte dei media e dei leader europeisti.
Credo, tuttavia, convenga moderare l’entusiasmo. Il fatto che il neofascismo non abbia visto confermate le sue aspettative non significa che sia stato sconfitto. Un quarto dei seggi in parlamento sarà occupato da deputati di estrema destra, per lo più xenofobi, nazionalisti e in parte neofascisti; e anche più di un terzo potrà essere assegnato alla destra reazionaria, a seconda di come vengono effettuate le somme e le sottrazioni dei diversi gruppi parlamentari.
Particolarmente preoccupante è quello che è successo in due paesi centrali, fondatori del trattato di Roma, come la Francia e l’Italia; in altri di non secondaria importanza, antichi sudditi dell’impero sovietico (Polonia e Ungheria), trionfano i partiti al potere che si sono distinti per la loro deriva antidemocratica e la mancanza di rispetto per la separazione dei poteri; per non parlare dell’incontestabile trionfo nel Regno Unito di Nigel Farage, già descritto dalla stampa internazionale come l’uomo più pericoloso della Gran Bretagna.
È improbabile che sia coronata da successo l’annunciata intenzione di Salvini di unire in un movimento europeo di estrema destra le varie formazioni che hanno vinto nei rispettivi collegi elettorali. Tra l’altro perché molte, a cominciare proprio dalla Lega, affondano le loro radici in un nazionalismo radicale e questo le porta differenziarsi in modo sostanziale le une dalle altre. Ma non si dovrebbero sottovalutare i legami ideologici che le uniscono, che vanno dal rifiuto frontale dell’immigrazione a un notevole disprezzo per i problemi derivanti dai cambiamenti climatici, insieme a una certa resistenza passiva contro l’euro, convinti come sono delle difficoltà che ne implicherebbe l’abbandono da parte di coloro che lo hanno adottato.
Una delle caratteristiche più evidenti delle recenti elezioni è il ritorno al voto - in una chiave nazionale che soddisfa anche i bisogni dell’Europa. Non esiste ancora, però, un popolo europeo in quanto tale, una cittadinanza riconoscibile in grado di realizzare quel progetto unitario che è politico oltre che economico, e che richiede massicce dosi di solidarietà tra gli Stati.
Gli stereotipi dei Paesi del Nord sviluppato sui loro cittadini che risparmiano mentre il loro denaro viene sperperato dalle indolenti popolazioni del Sud, non hanno smesso di far breccia nell’opinione pubblica fin dalla crisi del 2008 e dal salvataggio delle finanze greche. Oggi l’arroganza di chi la pensa così si rivolge contro gli immigrati, necessari d’altra parte per poter finanziare lo stato sociale in un’Europa che invecchia ed è abituata a beneficiare di una spesa sociale che per i governi è sempre più difficile da mantenere.
Il rivolgersi a potenziali salvatori della patria, si chiamino Salvini, Le Pen o Orban, perché forniscano soluzioni semplici a problemi complessi non è peraltro una caratteristica esclusiva del panorama europeo. Trump negli Stati Uniti, Putin in Russia, Xi Jinping in Cina, Modi in India, Erdogan in Turchia, sono altrettanti esempi del nazionalismo dilagante e del culto dell’autoritarismo politico come formula da sfruttare per mobilitare nelle elezioni il voto di pancia.
È urgente che l’Europa democratica, che è ancora una potenza economica, ma manca di qualsiasi capacità di guida nella battaglia tecnologica o nella difesa comune, si organizzi in consonanza con i valori che l’hanno illuminata e che rischiano di sparire. I difensori della regola della maggioranza con il rispetto assoluto del pluralismo e dei diritti delle minoranze, oggi sono segregati, annullati e ripudiati da un settarismo nazionalista che porta allo scontro.
traduzione

Il Fatto 6.6.19
Noa, storia sbagliata di un suicidio
Olanda. Aveva chiesto l’eutanasia ma non l’aveva ottenuta. Secondo i medici, doveva attendere almeno i 21 anni. E curarsi. Noa Pothoven, 18 anni quasi, si è lasciata morire. Ma in Italia l’hanno raccontata in un altro modo
di Eleonora Martini


Una storia sbagliata, finita con un fiume di inchiostro (si potrebbe dire parafrasando Fabrizio De André). È la storia di Noa Pothoven, che ha occupato le prime pagine di quasi tutti i giornali italiani, ieri. È la storia di una ragazza olandese di quasi 18 anni (li avrebbe compiuti a dicembre), morta suicida (aveva smesso di mangiare e bere da giorni) nella sua abitazione di Arnhem e non per mano eutanasica come hanno erroneamente (e consapevolmente, a volte, ne abbiamo le prove) scritto tutte le maggiori testate giornalistiche italiane, e non solo.
Invece, a conferma della notizia così come l’ha data in perfetta solitudine il manifesto, è arrivata ieri tra l’altro anche la nota del ministero della Salute olandese che comunica di aver avviato «un’ispezione sanitaria per verificare se è necessario aprire un’indagine» non sull’eutanasia, che non c’è stata, ma sul «tipo di cure ricevute da Noa e se ci sia stato qualche errore» nei trattamenti somministrati alla giovane che da anni era affetta da anoressia e depressione, in seguito al trauma di due stupri subiti da bambina, e che era stata già ricoverata molte volte, ma solo nel tentativo di evitarle il suicidio.
INFATTI LA RAGAZZA aveva più volte chiesto di poter essere aiutata a morire, cosa a cui ambiva ormai senza tentennamenti, come aveva scritto nel suo libro autobiografico Winner of leren (Vinci o impara) e sui suoi profili social, dove il suo caso aveva prodotto un vasto dibattito tra i follower. Già nel 2018, intervistata dalla testata de Gelderlander, Noa aveva raccontato di essersi rivolta due anni prima, di nascosto dai genitori, alla clinica Levenseind de L’Aja, dove opera la Fondazione Levenseindekliniek, per chiedere di ottenere l’eutanasia. Ma la risposta era stata: «No».
«PENSANO che sia troppo giovane per morire – aveva riferito la teenager olandese ai giornalisti – Pensano che dovrei completare il trattamento per curare il trauma e dicono che il mio cervello deve prima completare la crescita. Cosa che avviene fino ai 21 anni. Sono devastata, perché non posso aspettare così tanto tempo».
IN OLANDA, dove l’eutanasia è legalizzata dal 2002 (e non praticata nell’illegalità, come in Italia) ed è concessa anche ai minorenni in casi particolarmente gravi e previo consenso dei genitori, i giornali hanno raccontato questa “storia sbagliata” nel modo giusto. Hanno riferito che la ragazza era stata perfino esentata dall’obbligo scolastico, e non frequentava più la scuola. Che era stata ricoverata tante volte in trattamento obbligatorio e che una volta, all’ospedale Rijnstate di Arnhem, l’avevano dovuta indurre in coma farmacologico per nutrirla artificialmente con una sonda. Addirittura i suoi genitori, che avevano visto la figlia cambiare improvvisamente sotto i loro occhi ma che per molto tempo nulla avevano saputo degli stupri subiti da Noa, avevano infine cercato perfino un ospedale che la trattasse con l’elettroshock.
I QUOTIDIANI olandesi, invece di inveire contro l’eutanasia o il suicidio assistito come hanno fatto politici e prelati in Italia – «È una grande perdita per qualsiasi società civile e per l’umanità; dobbiamo sempre affermare le ragioni positive per la vita», ha affermato per esempio la Pontificia Accademia per la Vita – hanno ricordato che Noa «ha dovuto aspettare un anno e mezzo per un posto in una clinica dove curano i disordini alimentari, a Zutphen».
E che, come aveva riferito un anno fa la madre della ragazza, Lisette, «per motivi di sicurezza, Noa è stata ammessa in tre istituti per la cura della gioventù negli ultimi anni, ma in realtà dovrebbe essere ricoverata in un istituto chiuso per la psichiatria infantile. Ma ci sono enormi liste d’attesa lì. Vogliamo un posto per lei dove possa stare e in cui vengano affrontati tutti i suoi problemi fisici e mentali. Ma non ce ne sono, nei Paesi Bassi». E neppure in Italia, se è per questo.
SI POTREBBE continuare a lungo, a raccontare la “storia sbagliata” di Noa Pothoven. Ma di fiumi d’inchiostro se ne sono già spesi abbastanza. Non rimane che lasciare la parola a chi, come il radicale Marco Cappato, promotore della campagna «Eutanasia Legale», sottolinea che il lasciarsi morire di fame e di sete è una «possibilità contemplata anche in Italia». E che anche da noi la legge prevede l’impossibilità di poter intervenire con l’idratazione e la nutrizione forzata, «a meno di Trattamento sanitario obbligatorio su persona incapace di intendere e di volere». «È bene comunque ricordare – aggiunge Cappato – che le pdl in discussione nel Parlamento italiano, su esplicito richiamo della Corte costituzionale, a partire dalla proposta di legge di iniziativa popolare, prevedono la possibilità di accesso al percorso eutanasico solo per le persone maggiorenni e portatrici di malattie fisiche terminali o inguaribili».
Dj Fabo
Infatti in questi giorni in Commissione Affari sociali, alla Camera, è stato avviato l’iter per una legge sul suicidio assistito, come caldeggiato dalla Consulta che, trattando il caso di Dj Fabo, al legislatore italiano aveva dato tempo un anno per colmare il vuoto normativo. Ieri 17 deputati del M5S hanno presentato un’altra proposta di legge «per consentire di compiere un passo avanti in tema di diritti civili e di libertà». Perché, scrivono nella premessa alla pdl, «nelle società moderne e secolarizzate l’opinione pubblica è sempre più favorevole a richiedere una morte assistita, dignitosa e, quando possibile, libera da una sofferenza inutile. C’è un diritto alla vita ma anche un diritto alla morte».

La Stampa 6.6.19
La morte assistita e la scelta italiana
di Vladimiro Zagrebelsky


Il Parlamento è chiamato dalla Corte costituzionale al difficile compito di ammettere e disciplinare l’assistenza al suicidio, che sia richiesta da persona determinata a por fine alla propria vita.
La notizia della morte della giovane olandese Noa Pothoven, prima data come un caso di eutanasia e poi corretta nel senso che si è trattato di un lento suicidio accompagnato da presenza medica, cade mentre il Parlamento sta esaminando alcuni progetti di legge. La correzione della notizia non sembra cambiare significativamente i gravi interrogativi che si pongono, prima di tutto per la giovane età della ragazza. Ora però può essere utile svolgere qualche argomento legato al lavoro legislativo del Parlamento. Il codice penale vieta e punisce l’omicidio del consenziente e l’assistenza al suicidio. La Corte costituzionale ha ritenuto che sia in contrasto con la Costituzione l’assenza di qualunque eccezione e limite al divieto generale di assistenza a chi ha deciso di uccidersi. Diversi sono gli argomenti svolti dalla Corte costituzionale, ma il cuore della sua posizione sta nel richiamo al diritto di ogni persona all’autodeterminazione, derivante dalla dignità che va riconosciuta a ciascun essere umano. Sarebbe difficile oggi dissentire e ammettere che nel più delicato dei momenti della vita, quello della morte, alla libertà della persona si sostituisca l’autorità dello Stato o l’imposizione della società, fosse pure in una sua parte maggioritaria.
Tuttavia sono tutt’altro che semplici sia la nozione di autodeterminazione, sia, ancor più, l’accertamento della sua realtà concreta in ciascuna delle infinitamente diverse vicende. È ovvio che autodeterminazione non significa assenza di condizionamenti. Ogni atto di volontà è frutto di una deliberazione frutto di molte e contrastanti spinte, della più varia natura. Forse nemmeno l’interessato è pienamente cosciente di ciò che lo condiziona. E la ricostruzione e valutazione delle ragioni della deliberazione di un altro individuo è estremamente complessa. Si dice naturalmente che la decisione di metter fine alla propria vita deve essere libera e consapevole da parte di una persona capace. Ma, mentre l’esclusione del minore o del malato di mente può trovare in Italia largo accordo, non può essere superficiale l’accertamento della libertà della decisione di morire e di chiedere ad altri di essere in ciò aiutato. Esso richiede invece l’opera di specialisti, di diversa formazione: non solo psichiatrica o psicologica, ma anche sociale. Non vi è libertà se non vi sono alternative e queste non sono necessariamente solo mediche.
Una disciplina legislativa che riconosca il diritto di morire e assicuri modalità umane e dignitose, attraverso l’opera esperta dei medici del Servizio Sanitario Nazionale, dovrà prevedere procedure rigorose di accertamento della volontà dell’interessato. Ciò non solo per escluderne aspetti patologici, ma anche per dialogare, prospettando concretamente vie di uscita, che forse non sempre, ma spesso esistono (dalle cure palliative nel caso di sofferenze fisiche, a cure e soluzioni sociali quando si tratti di sofferenze di altra natura). Non si otterrà sempre un ripensamento, poiché le alternative potrebbero essere rifiutate, ma almeno si potrà effettivamente parlare di libertà e di autodeterminazione. Si pensa che escludendo l’idea stessa di assistenza al suicidio si salvino delle vite (e si salvi anche la buona coscienza della società e dello Stato). La realtà è invece che in molti casi si spingono le persone a uccidersi in modi violenti e crudeli o le si obbliga al travaglio dell’interruzione di trattamenti di artificiale mantenimento in vita.
I progetti di legge in discussione in Parlamento sono carenti sotto il profilo dell’accertamento della volontà dell’interessato e del dialogo sulle possibili soluzioni esistenziali, che spingano a una riconsiderazione della scelta del suicidio. I progetti di legge si concentrano sulla definizione della condizione oggettiva in cui si trova chi chiede aiuto nel suicidio. Sarà difficile assicurarne la ragionevolezza e l’idoneità a impedire drammatiche scelte di suicidio negli altri casi. Soprattutto occorre che la nuova legge preveda forme di accertamento della natura della decisione di metter fine alla propria vita e di dialogo approfondito su possibili alternative.

il manifesto 6.6.19
Ora Salvini fa controllare la vita privata dei giudici “scomodi”
Stato di Polizia. Dopo il motivato stop dei giudici amministrativi della Toscana alle “zone rosse” di Firenze, ritenute apertamente anticostituzionali, e le decisioni dei tribunali civili della stessa Firenze, di Bologna e di Genova, che in base alle leggi oggi in vigore hanno autorizzato i richiedenti asilo ad essere iscritti all'anagrafe, il Viminale avvia un dossieraggio sui magistrati e annuncia ricorsi su ricorsi.
di Riccardo Chiari


FIRENZE Il motivato stop dei giudici amministrativi della Toscana alle “zone rosse” di Firenze, ritenute apertamente anticostituzionali, e le decisioni dei tribunali civili della stessa Firenze, di Bologna e di Genova, che in base alle leggi oggi in vigore hanno autorizzato i richiedenti asilo ad essere iscritti all’anagrafe, hanno fatto infuriare Matteo Salvini.
Il vicepremier e ministro dell’interno, in risposta, ha annunciato il ricorso al Consiglio di Stato contro il provvedimento del Tar di Firenze; altri ricorsi sulle sentenze che permettono l’iscrizione all’anagrafe dei migranti; ma soprattutto un ricorso all’Avvocatura dello Stato “per valutare se i magistrati che hanno emesso le sentenze avrebbero dovuto astenersi, lasciando il fascicolo ad altri, per l’assunzione di posizioni in contrasto con le politiche del governo in materia di sicurezza, accoglienza e difesa dei confini”. Un concetto ribadito la sera in tv al programma Otto e Mezzo su La7.
Le mosse del Viminale fanno tornare alla mente momenti bui delle recente storia italiana, come la delegittimazione messa in pratica dai media di casa Berlusconi ai danni del giudice Raimondo Mesiano, reo di aver condannato la Fininvest nelle pieghe del processo sul lodo Mondadori.
Questo caso appare ben più grave, perché ad agire è una istituzione statale che, nei fatti, avvia un “dossieraggio” contro magistrati considerati scomodi. Non altrimenti è possibile giudicare la decisione di Salvini di far analizzare le uscite pubbliche dei magistrati firmatari delle sentenze, e i loro rapporti di “vicinanza e collaborazione con chi difende gli immigrati contro il Viminale”.
Il calcolo politico del leader della Lega, in un momento in cui l’Associazione nazionale magistrati e lo stesso Consiglio superiore della magistratura vivono giorni difficilissimi, a causa di ben altre, gravi vicende, è evidente. Ma l’Anm reagisce comunque: con un documento approvato all’unanimità, l’organo sindacale dei magistrati chiede “che il Csm effettui tutti i passaggi necessari a tutela della collega Luciana Breggia, presidente della sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale di Firenze, e dell’autonomia e indipendenza della giurisdizione”.
Nel ripercorrere la vicenda, l’Anm denuncia: “In seguito a un provvedimento collegiale che ha dichiarato inammissibile il reclamo del ministero dell’interno, si è ipotizzato l’intento ‘politico’ del giudice diretto a disapplicare norme di legge, a fronte di un provvedimento sgradito. La critica non si è rivolta quindi al contenuto del provvedimento, ampiamente motivato, ma alle supposte ‘idee politiche del giudice’ e alla sua partecipazione a convegni, peraltro di carattere scientifico, in ragione dei partecipanti e dei relatori evidentemente loro sgraditi”.
Il documento dell’Anm richiama sul caso anche un post pubblicato su facebook dallo stesso Salvini, che “riportando un articolo de ‘Il Giornale’ che contiene i medesimi attacchi alla persona del giudice, è stato seguito da commenti contenenti insulti e minacce che non risultano essere stati rimossi”.
Ma di cosa dovrebbero essere “colpevoli” Luciana Breggia ma anche Matilde Betti, presidente della prima sezione del tribunale civile di Bologna? Soprattutto Breggia di aver detto in una intervista a Famiglia Cristiana che i Centri di accoglienza straordinaria sono un “limbo di insicurezza”, e che “le leggi che costituiscono il diritto non sempre vanno nella direzione della giustizia”, ricordando le leggi razziali. Poi di essere stata relatrice alla presentazione del libro “’L’attualità del male, la Libia dei lager è verità processuale”, scritto dall’avvocato Maurizio Veglio che collabora con l’Asgi, al fianco della portavoce di Mediterranea, Alessandra Sciurba.
Quanto allo stop del Tar toscano alle “zone rosse” fiorentine, dopo un ricorso dell’Aduc sul caso di Matteo Innocenti, attivista di Pap denunciato per possesso di cannabis e per questo considerato “pericoloso”, è la stessa associazione a tirare le somme dopo il ricorso del Viminale al Consiglio di Stato: “Stato libero di Bananas? E’ il primo pensiero che viene in mente, ma vogliamo credere e sperare che non sia così. Perché ancora crediamo che l’Italia sia uno Stato di diritto, coi poteri separati e l’autonomia di ogni potere rispetto agli altri”.
L’associazione infine ricorda: “A noi preme la sicurezza di tutti, e ci preme che possa essere preservata a partire dai diritti costituzionali degli individui, quelli che la sentenza del Tar della Toscana ha evidenziato essere stati violati con l’ordinanza della Prefetto di Firenze. Preservando i diritti individuali, le autorità dovrebbero essere in grado di preservare anche i diritti della collettività. Altrimenti si passa dallo Stato di diritto a quello di Polizia”.

Il Fatto 6.6.19
Radio Radicale, la svolta: Di Maio cede e la salva
La proroga - Nel dl Crescita è stato inserito un emendamento che fa slittare di un anno i tagli
Radio Radicale, la svolta: Di Maio cede e la salva
di Patrizia De Rubertis

Nella battaglia intestina del governo gialloverde, la Lega si appunta sul bavero un’altra medaglietta: quella del salvataggio di Radio Radicale. Lunedì pomeriggio, quando si riuniranno le Commissione Finanze e Bilancio della Camera per votare il dl Crescita, sul tavolo finirà anche un emendamento condiviso dai due partiti di maggioranza che dovrebbe prorogare di un altro anno il fondo dell’editoria e il cui taglio slitterebbe così al 2020. Ossigeno, quindi, per la radio fondata nel 1976 da Marco Pannella e per tutte le altre storiche testate locali a rischio chiusura per la crisi del settore.
Così, dopo mesi in cui Vito Crimi, sottosegretario M5s con delega all’Editoria, si è battuto per non prorogare la convenzione stipulata nel 1994 con Radio Radicale e che ha permesso alla storica emittente radiofonica di ottenere un finanziamento da 10 milioni di euro l’anno, lo stesso ministro dello Sviluppo economico che ha la competenza della convenzione ha fornito la soluzione. Secondo quanto riportato ieri da Repubblica, sarebbe infatti Di Maio il promotore del testo che concede a Radio Radicale il finanziamento poi finito nel dl Crescita. Del resto il vicepremier M5s già il sabato prima delle Europee aveva chiaramente lasciato intendere che si sarebbe occupato del salvataggio di Radio Radicale: “Una soluzione si può trovare, partendo però da un presupposto e cioè che non possiamo dare milioni a un’unica radio e lasciare le altre sul mercato”.
Dalle parole ai fatti. M5s ha depositato, d’accordo con la Lega, una mozione che di fatto salva Radio Radicale ma che punta a non rinnovare la concessione senza una vera gara, digitalizzando però gli archivi della radio “che rappresentano una risorsa preziosa”. Anche perché lo Stato italiano lo ha finanziato fino ad oggi, per quasi 30 anni, con 250 milioni di euro.
Ed anche se nelle prossime ore dovesse riaprirsi la partita tra gli alleati di governo, il più è ormai fatto e indietro difficilmente si potrebbe tornare: sul dl Crescita il governo sta valutando l’ipotesi di mettere la fiducia alla Camera. Si tratta del primo voto blindato dopo le tensioni delle ultime ore. Una sorta di tregua armata tra Salvini e Di Maio che possono sostenere solo ingoiando un po’ di rospi a vicenda. E nel caso di Radio Radicale a ingoiarlo è stato il vicepremier Luigi Di Maio.
Oggi, intanto, al Senato verranno votate 5 mozioni presentate dalle opposizioni, dal Pd a Forza Italia, dalla Svp a Fratelli d’Italia, che hanno continuato a battersi per il salvataggio di Radio Radicale. Testi fotocopia che prevedono che le imprese private che abbiano svolto attività di informazione di interesse generale mantengono il diritto ai contributi previsti dalle norme sulle provvidenze all’editoria. Ma le mozioni non serviranno non solo perché rappresentano solo un impegnano del governo a occuparsi di un tema. L’accordo per il salvataggio di Radio Radicale è stato trovato. E a cedere ci ha già pensato Di Maio.

Il Fatto 6.6.19
Herlitzka e Lucrezio: un riscatto che manda all’inferno persino Dante
L’attore ha pubblicato il suo lavoro sul “De rerum natura” dopo averlo portato a teatro
di Paolo Isotta


Roberto Herlitzka (1937) è il più grande attore italiano. Adesso se ne stanno accorgendo: come sempre succede, non per le cose importanti ma grazie a una deliziosa interpretazione semicomica in un mediocre film di Sorrentino (non ricordo quale dei tanti: in parentesi: Sorrentino, uno ch’era nato talento e che il successo ha reso un routinier piccolo- borghese). Il grande attore tragico è sempre grande anche nel comico. Me ne accorsi in uno straordinario film surreale del 1983 di Lina Wertmüller, Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada. Recitavano due colossi come Tognazzi e Moschin; lui non era inferiore, nella parte, davvero da lui creata, di un faccendiere meridionale che fa da segretario al ministro dell’Interno democristiano. Per conoscere Herlitzka occorre vederlo a teatro. Un testo grottesco e tragicissimo venne ridotto da Ruggero Cappuccio dal più tetro romanzo che conosca, Il soccombente di Thomas Bernhard. Herlitzka reggeva due ore di monologo sciorinando tutte le angosce e le nevrosi di un pianista fallito che sa di esserlo. Da brivido. E chi oggi potrebbe interpretare Re Lear meglio di lui? O Tutto per bene o Enrico IV di Pirandello?
Quel che meno si conosce è che Herlitzka è anche il più colto degli attori italiani. Non ne fa esibizione. Però due anni fa volle, col suo tipico understatement, calare la maschera. E portò un po’ in giro un altro suo monologo, una silloge di passi del De rerum natura, Il poema della Natura, di Lucrezio. Ma con un particolare: il più arduo dei poeti latini, uno dei più ardui poeti di tutti i tempi, veniva recitato da Herlitzka nella sua traduzione.
Questa traduzione l’aveva compiuta lungo tutta la vita. Al liceo torinese aveva avuto come insegnante Oreste Badellino, uno dei grandi latinisti del Novecento. E adesso il lavoro viene pubblicato: La natura di Tito Lucrezio Caro (La nave di Teseo, pp. 276, euro 18). Consiste di quattro libri sui sei del poema; non dispero che il Maestro voglia dedicarsi a completare l’opera.
Mentirei se affermassi che si tratta di un testo facile. Herlitzka ha fatto più una versione d’arte che una volta a far comprendere i riposti sensi del testo. Va letta per la sua bellezza e per la sua enorme musicalità. E anche per essere una scommessa della quale la portata potrebbe sfuggire. Il poema è volto in endecasillabi di terzine dantesche, e nello stile dei nostri trecentisti. Diventa un trionfo di ritmi, rime e luci. Poi, per capire la rivelazione del più grande poema scientifico di tutta la poesia occorre rivolgersi a più didattici traduttori. Il mio preferito è Armando Fellin (Utet), che si aggiunge alla lunga schiera principiata col secentista Alessandro Marchetti. Come mai, se il poema venne riscoperto da Poggio Bracciolini nel 1418, venne volto solo nel Seicento? Ma perché nel Quattrocento e nel Cinquecento i coltissimi e dotti prelati atei se lo leggevano nell’originale, e la Chiesa non pensò mai a proibirlo per la sua difficoltà. In italiano, era altra cosa: e Marchetti venne messo all’Indice. Dante non aveva letto Lucrezio, ma nel X dell’Inferno lo colloca senza menzionarlo fra coloro che l’anima col corpo morta fanno. Ed ecco la scommessa di Herlitzka: costringere Dante, il massimo piacere del quale, almeno nella prima Cantica, è quello di condannare a supplizi atrocissimi tutti i suoi nemici e anche gran parte degli amici morti e vivi, a cantare un poeta che spiega ch’esiste solo la materia, e che la materia è fatta di minuscole particelle indivisibili ruotanti nel vuoto e componentesi e scomponentesi. La morte è scomposizione di atomi, e l’anima immortale non esiste. Tutto qui. Anche Dante ha trovato, grazie a Herlitzka, il suo meritato inferno.
www.paoloisotta.it

La Stampa 6.6.19
Non solo spinelli
Dalle pagine della Bibbia a nuova fonte di energia
gli utilizzi della canapa sono moltissimi

Gentile Nadia Ferrigo,
negli ultimi tempi si fa un gran parlare dei fiori di cannabis light. La canapa legale si può fumare, a qualcuno va bene e a qualcun altro invece no. Staremo a vedere che capita ai tanti che hanno creduto e investito in questa attività e che ora rischiano di perdere tutto. Questo lo abbiamo capito. Ma i fiori non sono l’unico prodotto valido in cui può essere trasformata la canapa industriale. Perché non se ne parla mai?
Cecilia Lo Cascio, Modena

Gentile Lo Cascio,
gli utilizzi della pianta di canapa sono davvero moltissimi. Alcuni legati alla tradizione, come le gomene delle navi, altri invece risultato delle tecnologie più innovative. Con la fibra di canapa si può produrre la carta. Di canapa importata in Germania dall’Italia sono fatte le prime copie della Bibbia stampata da Gutenberg. La fibra tessile in passato era considerata l’«oro verde», poi sostituita quasi del tutto con il cotone. La parte legnosa della pianta unita ad acqua e calce crea un materiale naturale, con buone proprietà isolanti.
Secondo il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, la canapa è il produttore di combustibile da bio-massa che richiede meno specializzazione sia nella coltivazione sia nella trasformazione di tutti i prodotti vegetali. Gli idrocarburi in canapa infatti possono essere trasformati in diverse fonti di energia da biomassa, dal pellet ai combustibili liquidi e a gas. Non è certo una scoperta recente: nel 1941 Henry Ford creò la Hemp Body Car, con la scocca in bio plastica di soia e canapa e alimentata a etanolo, ottenuto raffinando i semi della stessa pianta.
I possibili impieghi della canapa, fusto e foglie comprese, sono così tanti da avere meritato il nomignolo di «maiale vegetale». Tra questi c’è anche quello di combattere l’inquinamento.
Quando la pianta cresce cattura quattro volte l’anidride carbonica immagazzinata dagli alberi. Nel 2001 un team di ricercatori tedeschi ha confermato i risultati di Chernobyl, dimostrando che la canapa è in grado di estrarre piombo, cadmio e nichel da un appezzamento di terra contaminato da scarichi fognari. Nel 2011 centinaia di coltivatori in Puglia hanno iniziato a seguire questa teoria, piantando canapa nel tentativo di risanare i terreni inquinati dall’Ilva. In conclusione, non è vero che non se ne parla mai. Ma certo sarebbe utile parlarne di più.


https://spogli.blogspot.com/2019/06/la-stampa-6.html