L’Espresso 5.5.2019
Quella sinistra che vince
Sánchez in
Spagna. Corbyn nel Regno Unito. Costa in Portogallo. E non solo. Ecco
dove e come i socialisti e i verdi possono fermare l’onda sovranista il
prossimo 26 maggio
di Gigi Riva
Sembrava peggio, fino
all’altro ieri. Stando agli ultimi sondaggi nei ventotto Paesi
dell’Unione europea in vista delle elezioni di fine maggio la sinistra
larga, quella che va dai socialdemocratici all’ala più radicale-
passando per i verdi, dà nuovi segni di vita. All’interno, s’intende, di
un mosaico in cui il dettaglio dei singoli tasselli suggerisce letture
assai diversificate, ma con indicazioni su una linea che potrebbe essere
vincente se perseguita ovunque.
Il segnale più forte in questo
senso è appena arrivato dal partito socialista di Pedro Sánchez, fresco
trionfatore delle elezioni politiche in Spagna. Secondo le proiezioni
demoscopiche, il 26 maggio il Psoe sarà uno dei partiti della sinistra
che crescerà di più nella Ue, rispetto alle europee di cinque anni fa,
grazie al netto profilo che si è dato di alternativa alla destra e di
federatore di tutto il suo campo. Con un occhio particolarmente rivolto
al tentativo di ridurre le disuguaglianze enormemente cresciute
dall’inizio della crisi. Ancora meglio farà, dicono i sondaggi, il
Labour inglese, dove in attesa della Brexit comunque si voterà per
l’organismo comunitario ripudiato via referendum: il partito di Jeremy
Corbyn avrebbe il gruppo nazionale maggioritario in seno al gruppo
socialista con venti seggi, uno in più di cinque anni fa. Cosa se ne
farà non è dato sapere, causa il per ora imperscrutabile sbocco dello
snervante tira e molla tra Londra e Bruxelles. Sicuramente, tuttavia,
Corbyn incassa i dividendi dei tentennamenti di Theresa May e di una
politica che volge lo sguardo a sinistra nel tentativo di recuperare il
suo elettorato storico, quei ceti popolari che al Labour, fino a pochi
anni fa, avevano voltato le spalle.
Sánchez e Corbyn sorpasseranno
così una socialdemocrazia tedesca logorata dal reiterato e infruttuoso
appoggio alla grossa coalizione egemonizzata dalla cancelliera Angela
Merkel (meno dieci seggi, a quota 17), per non dire del Pd che nel
paragone con il 2014 sconta l’abnorme ed effimero exploit di Matteo
Renzi e non supererà, secondo le ricerche, i 16 eletti contro i 31 che
aveva. Mentre non conosce limiti la catastrofica caduta dei socialisti
francesi, ridotti a mera testimonianza (4 anziché 12) quando sino a
sette anni fa ancora esprimevano un presidente della Repubblica,
François Hollande, prima di venire cannibalizzati dal loro figlio
ingrato Emmanuel Macron, eversore dell’ “ancien régime” in nome di un
“né-né” (né di destra né di sinistra) che ha spostato l’asse transalpino
verso un duello tra centro ed estrema destra. Solo in piccola parte i
voti persi dai socialisti andranno ad aumentare i seggi di La France
Insoumise, il partito della sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon,
dato in crescita per le europee.
Germania, Francia e Italia: tre
pesi massimi diventati il ventre molle quando erano stati l’architrave
portante dell’idea progressista con numeri che, se ricordati, producono
solo
nostalgia. E il denominatore comune del loro malessere è l’affannosa
corsa al centro per essere rassicuranti con i mercati, le élite
finanziarie, la borghesia, proprio nel momento in cui i cittadini si
orientano verso un pensiero forte e una polarizzazione netta. Dei
tedeschi abbiamo detto, la parabola di Renzi e del Pd la conosciamo,
Hollande cominciò a suicidarsi con il famoso discorso in cui abbandonò i
dettami del socialismo.
Ora guardano, gli ex pesi massimi, i
risultati del loro fallimento, scoprono che un’altra strada era
possibile non solo grazie ai casi dei Corbyn e dei Sánchez, ma anche di
esperienze periferiche al cuore dell’Unione, in altri Paesi
mediterranei, nel freddo Nord pur scosso da correnti sovraniste, persino
nell’Est che tenne a battesimo il populismo.
Il Portogallo è
l’esempio più eclatante. Da quattro anni il socialista Antonio Costa
guida un governo di cui fanno parte, il Bloco de Esquerda, i verdi e il
partito comunista. Ha trattato con la Troika il piano lacrime e sangue
quando era sull’orlo del fallimento, riuscendo a coniugare una revisione
della spesa pubblica con un welfare dignitoso. Le cifre dicono: deficit
allo 0,5 per cento (nel 2011 era all’11 per cento, praticamente
default), crescita stimata del Pil nel 2019 all’1,9 per cento e oltre il
2 per cento l’anno prossimo, disoccupazione al 6,3 per cento come non
succedeva dal 2002. Tradotto significa, nelle intenzioni di voto,
socialisti largamente in testa col 34,1 (e uno scranno in più a
Bruxelles rispetto al passato) e il Bloco de Esquerda terza forza al
9,2. Un vantaggio rassicurante anche in vista delle politiche di autunno
dove probabilmente ci sarà la conferma dell’esecutivo.
A oriente
del Mediterraneo, la Grecia da grande malata è passata almeno nella
categoria dei convalescenti. Alexis Tsipras e la sua formazione, Syriza,
ha smussato alcune spigolature che potevano preludere a una Grexit per
debiti, si è accollato finanziarie draconiane riuscendo tuttavia ad
evitare il famoso paradosso per cui l’operazione è riuscita ma il
paziente è morto. Atene è viva, ha appena annunciato che potrà
restituire in anticipo al Fondo monetario 3,7 miliardi di euro, è uscita
dal piano di salvataggio della Troika lo scorso agosto, torna a
crescere pur segnando la disoccupazione più alta del Vecchio Continente
(18,6 per cento). Nonostante i sacrifici imposti, misure che altrove
avrebbero provocato uno sprofondo di consenso, Syriza resta alta al 32
per cento, aumenta la propria rappresentanza a Bruxelles (7 contro 6) e
non dispera in un sorpasso sul filo di lana di Nuova Democrazia, la
destra che aderisce al Ppe, ora in vantaggio di tre punti.
Il Grande
Nord temeva che la crisi migratoria e le sue conseguenze potessero
rappresentare la pietra tombale sugli esperimenti forse più riusciti di
socialdemocrazia virtuosa. Ipotesi al momento scongiurata seppure di un
soffio. La Svezia di Greta Thunberg nel settembre scorso ha riconfermato
alla guida del Paese il premier Stefan Lofven, scongiurando l’assalto
dei “Democratici”, nome che si sono dati i nazionalisti euroscettici e
anti-migranti ora accreditati del 19,2 per cento e distanziati di quasi
nove punti dai socialdemocratici. Più recentemente, a metà aprile, i
finlandesi hanno riportato al primo posto i socialdemocratici di Antti
Rinne, seppur di un’incollatura (0,2 per cento) rispetto ai “Veri
finlandesi” alleati della galassia salviniana. Non un trionfo ma almeno
un’inversione di tendenza rispetto alla débâcle subita quattro anni
prima. Un segno di un risveglio che si accompagna a una tendenza
continentale, seppur timida. Nell’Est Europa suffragata, questa
tendenza, da quanto successo in Slovacchia, forse il Paese che più di
tutti aveva accettato il liberismo selvaggio di mercato una volta
archiviata l’esperienza comunista. Qui non si tratta del dualismo tra
destra e sinistra, ancora largamente confuso, ma del convinto europeismo
di Zuzana Caputova, 45 anni, l’avvocatessa ambientalista prima donna ad
arrivare alla presidenza della Repubblica dopo le consultazioni del 31
marzo scorso. La carica è poco più che onorifica però rischia di rompere
il patto euroscettico tra le nazioni del gruppo di Visegrad di cui
Bratislava fa parte. Anche nei Paesi confinanti, a lungo dominati da
partiti xenofobi quando non apertamente razzisti, cominciano a prendere
coraggio forme di opposizione di eterogenea natura che uniscono
sinistra, militanti dei diritti umani, ecologisti. Succede nella Polonia
di Jaroslav Kaczynski come nell’Ungheria di Viktor Orbán.
Certo, si
tratta di segnali in controtendenza rispetto a un quadro complessivo
che a livello Ue vedrà comunque i socialisti perdere seggi, nel
complesso, rispetto al 2014 (e i verdi guadagnarne 5 o 6). Il totale
della sinistra dunque sarà un segno meno. Bisogna rallegrarsi per una
“gloriosa sconfitta”? Certo che no. Ma rispetto al 2014 è cambiato il
mondo. Cinque anni in una politica che muta vorticosamente sono un’era
geologica. E oggi sembra rallentare la deriva a destra. E spunta qualche
fiore al limite del deserto attraversato dall’universo progressista.
L’Espresso 5.5.19
Tutti a scuola da Pedro contro i fantasmi del passato
di Emanuele Felice
Il
successo di Sánchez non è solo una speranza che rinasce, nel quarto
paese più importante dell’Unione. Ma può e deve rappresentare un
insegnamento vitale per il Pd italiano e per la sinistra europea tutta,
di fronte alla sfida dei nazional-populisti. Per l’idea di società che
propone, la «narrazione»: il primo fra gli ingredienti che impastano la
politica, e le leadership. Ma anche per la coerenza strategica e
l’abilità tattica: le due gambe senza le quali non si va da nessuna
parte, e qualunque orizzonte rimane un mi-raggio. Il tutto condito da un
po’ di fortuna, che non guasta mai in questi casi (aiuta gli audaci).
Sull’idea
di società, inutile girarci attorno: Sánchez fa risorgere il socialismo
spagnolo su un terreno felicemente progressista. La sua Spagna è
europeista, ambientalista, femminista. Plurale, perché cerca il dialogo
con le autonomie anziché lo scontro. E sociale. Sánchez ha proposto di
aumentare il salario minimo, di alzare le tasse sui redditi più alti e
sulle grandi corporation, di introdurre una patrimoniale: insomma di
affrontare il grande tema delle disuguaglianze. I diritti vecchi e nuovi
che si tengono insieme, si rafforzano a vicenda, proprio come nella
migliore tradizione della sinistra. La destra peggiore è venuta fuori
anche in Spagna, certo: ma è stata sconfitta, in modo chiaro. Perché
dall’altra parte ha trovato un paese democraticamente maturo, fatto di
cittadini consapevoli e forse perfino ottimisti, che hanno visto nel
Partito socialista e nel suo leader l’alternativa ai fantasmi del
passato.
Ora, sarebbe troppo facile dire che Sánchez ha vinto perché
ha fatto tutto il contrario di quello che proponeva da noi il Pd a
guida renziana: che infatti è sceso al minimo storico. In realtà nei
governi Pd ci sono state diverse misure di orientamento progressista. Ma
erano timide, ambigue, accompagnate da messaggi e interventi di natura
opposta. Le norme contro il capolarato, assieme all’abolizione
dell’articolo 18. Una buona legge sulle unioni civili (cui manca solo
l’adozione), ma scarso coraggio sulla cittadinanza ai figli di
immigrati. Il reddito di inclusione partito tardi e male, a fronte
dell’abolizione indiscriminata delle tasse sulla prima casa, anche per i
più ricchi. Più soldi in tasca per i ceti medi, gli 80 euro; ma la
proposta di un salario minimo legale arrivata solo nel gennaio 2018,
quando ormai si era in campagna elettorale. Il tutto condito da una
narrazione e perfino da atteggiamenti, quelli del leader e dei suoi
collaboratori, lontani dalla tradizione della sinistra. Difettavano
perfino di europeismo, strizzando l’occhio ai populisti, ignoravano una
questione tanto importante qual è l’ambiente. Guardava al centro, Matteo
Renzi, in direzione opposta a quella di Sánchez. E del resto ancora
oggi nel Pd alcuni preferiscono quella sponda, più che i socialisti e la
sinistra europei.
Ma l’esito delle elezioni spagnole deve insegnarci
qualcosa anche sul piano della coerenza strategica. E forse perfino
della tattica. Pochi ricorda- no che quando Sánchez divenne per la prima
volta segretario del Psoe nel 2014, veniva considerato poco più che un
ingenuo belloccio: messo lì per soddisfare il grande pubblico, che tanto
poi c’era la solita nomenclatura a comandare. Ebbene, da allora le cose
sono molto cambiate. Sánchez ha vinto le sue battaglie proprio contro i
maggiorenti del partito, che mai avrebbero voluto l’alleanza con
Podemos o con i catalani (li chiamavano addirittura golpisti) e che
acconsentirono alla nascita dell’ultimo governo Rajoy. Contro quella
scelta Sánchez si dimise, nel 2016, anche da deputato. Sfidò apertamente
la nomenclatura in nuove primarie (da notare: quella nomenclatura
«centrista» aveva la sua roccaforte nell’Andalusia sussidiata e
clientelare). La sconfisse, mobilitando nuove energie che pochi
credevano esistessero ancora. In questo senso, la sua traiettoria è
davvero la nemesi di quella di Renzi: lui era partito per rottamare, ha
finito per allearsi con i cacicchi del Sud, o per candidare Casini a
Bologna, mentre i giovani dirigenti più preparati (i migliori, spesso)
venivano messi ai margini.
Nel giugno 2018 Sanchez diventava primo
ministro, sfiduciando Rajoy, alla testa di una larga alleanza che
includeva Podemos e gli indipendentisti. Lui che era stato solo secondo
nelle urne, dieci punti dietro i popolari. L’asse della politica
spagnola virava di 180 gradi, grazie a quello che in fondo è un classico
ribaltone parlamentare. Ma la buona tattica è questo: capacità di
cogliere il momento opportuno, con spregiudicatezza. E poi, in un
sistema proporzionale (come il nostro, voluto dal Pd), le coalizioni si
formano dopo il voto, nulla è già scritto in partenza. Adesso, meno di
un anno dopo, l’azzardo di Sánchez è stato premiato dagli elettori.
Ampiamente: i socialisti sono diventati primo partito e i popolari,
senza più il potere e travolti dagli scandali, sono crollati.
Certo,
c’è stata anche fortuna. Un’economia in crescita, peraltro in modo
sbilanciato (la disoccupazione resta molto alta): cosa che reclama
politiche sociali, di cui peraltro ora ci sono le risorse. Anche,
paradossalmente, l’emergere di un partito di estrema destra apertamente
franchista, che ha spaventato molti elettori portandoli alle urne e
facendoli convergere sulla grande forza alternativa, i Socialisti.
Infine il sistema elettorale di attribuzione dei seggi, che favorisce i
partiti maggiori, con il centro-destra per la prima volta diviso in tre
tronconi. Ma la fortuna aiuta gli audaci, come si diceva. Ha aiutato chi
maggior- mente ha osato: per visione, coerenza strategica, abilità
tattica. Con in più la capacità di proporre una classe dirigente nuova,
giovane e preparata, contro i vecchi potentati incancreniti. Sánchez
oggi è forse il più importante premier di sinistra nel mondo. E guida il
primo partito socialista d’Europa. Dopo aver vinto battaglie difficili e
coraggiose, in cui si è giocato tutto. Saprà imparare il nuovo Pd da
questa storia?
L’Espresso 5.5.19
Digisex
I nuovi amanti
Sexbot,
ovvero robot pensati per offrire piacere
e, in futuro, addirittura
amore. Tra umanoidi e sex doll sta nascendo un’ inaspettata identità
sessuale. Che solleva profonde questioni etiche e filosofiche
di Emanuele Coen
Fate
l’amore, non la guerra». In un futuro distopico non troppo lontano
potrebbe essere lo slogan pubblicitario di una casa produttrice di sex
robot. A differenza degli umanoidi killer, progettati per seminare morte
tra i soldati nemici, i “sexbot” sono macchine pensate per sostituire
gli esseri umani sotto le lenzuola, offrire piacere sessuale e
addirittura amore. Già disponibili e configurabili in base ai propri
gusti, basta fare un giro sul Web, pronti a soddisfare desideri sessuali
e anche qualcosa di più. “Frigid Farrah” è programmata per dire “no”,
resistere alle avance sessuali del partner o addirittura mettere in
pratica violenze sessuali. Il motto commerciale di un altro robot
intelligente, Young Yoko, recita «così giovane, appena 18 anni, che
aspetta solo te per imparare». Poi c’è “Samantha”, creata da Sergi
Santos, ingegnere elettronico e responsabile della compagnia robotica
Synthea Amatus, talmente verosimile che nel 2017 all’Ars Electronica
Festival a Linz, in Austria, fu letteralmente presa d’assalto,
“violentata” da un gruppo di uomini eccitati. Una scena raccapricciante.
E così via, i robot del sesso hanno nomi ammiccanti: Roxxxy, Denyse,
Solana, Isabel, ma anche Rbert o Stew. Dispositivi dotati di
intelligenza artificiale, più evoluti delle sex dolls, le bambole in
silicone per uso domestico o da bordello.
GALASSIA DIGISEXUAL
Se
l’identità sessuale è un concetto sempre più variegato, anche l’offerta
sintetica si fa più ricca e va incontro a esigenze in continua
evoluzione. Persone demi-sessuali, in grado cioè di sviluppare
attrazione fisica solo per persone con cui hanno una forte relazione
emotiva; ases- suali, che non provano alcuna attrazione fisica, o ancora
“skoliosexual”, individui attratti da persone che non si riconoscono
nell’idea secondo cui esistono solo due generi, maschile e femminile. E
così via. Per definire invece i pionieri dell’interazione sessuale
uomo-macchina alcuni esperti hanno coniato il termine “digisexual”, che
definisce una identità sessuale nuova da estendere anche a tutti coloro,
ben più numerosi, che vivono immersi in un mondo dominato da
pornografia digitale, “teledildonics”, vale a dire sex toy azionati a
distanza con l’aiuto di computer, applicazioni per incontri sessuali.
Nei prossimi anni i digisexual aumenteranno.
È suggestivo e
inquietante lo scenario disegnato nel saggio “Benvenuti nel 2050.
Cambiamenti, criticità e curiosità” (Egea) di Cristina Pozzi,
bocconiana, imprenditrice sociale, esperta di tecnologie emergenti e
visioni future. L’autrice, unica Young global leader 2019 per l’Italia
di Forbes, prevede che fra trent’anni i robot umanoidi potranno assumere
la personalità o l’aspetto estetico che preferiamo: una star del
cinema, una ex fidanzata, un defunto, sempre che questo abbia lasciato
il consenso, riportandolo in vita. Navigando on line potremmo ritrovarci
a chiacchierare con robot in social network per persone scomparse, in
un’epoca in cui sarà del tutto normale fare sesso con una macchina.
Già
ora, del resto, la trasformazione digitale della specie è una delle
grandi questioni del nostro tempo: non a caso si intitola “Society 5.0 -
A human centric future” il TedX Roma che si è svolto il 4 maggio al
convention center La Nuvola: 16 speaker provenienti da ogni parte del
mondo tra cui Kate Devlin, per riportare l’uomo al centro di scelte e
obiettivi.
«La società 5.0 non dovrà più basarsi sulla produzione
fine a se stessa di beni, bensì sulla definizione delle soluzioni che
realmente servano all’individuo», spiega Emilia Garito, curatrice di
TedX Roma e fondatrice della società Quantum Leap Ip: «Vale per ogni
settore, anche quello delle relazioni sessuali. In futuro l’offerta sarà
sempre più estrema, tesa alla massimizzazione del profitto di chi mette
i sexbot sul mercato. L’interazione uomo-macchina tuttavia non deve
trasformarsi in compromesso, occorre mantenere spirito critico e libertà
di giudizio di fronte al potere della tecnologia, che è in mano a
pochi».
Al di là della curiosità, a volte morbosa, e dell’apparente
frivolezza dell’argomento, l’idea che esistano robot per raggiungere
l’orgasmo, o intessere una relazione più articolata, solleva una serie
di questioni etiche e filosofiche: procurarsi il piacere da soli, a
volte con l’aiuto di oggetti, è sesso? C’è qualcosa di immorale nel
comprare e nell’avere rapporti con una macchina? Le persone che fanno
sesso con un robot hanno un’inclinazione a praticare violenza sugli
altri e sono incapaci di costruire relazioni affettive stabili con i
propri simili? Temi di notevole portata, ai quali Maurizio Balistreri,
esperto di bioetica e ricercatore di Filosofia morale dell’università di
Torino, ha dedicato il libro “Sex Robot - L’amore al tempo delle
macchine” (Fandango libri). «Dalla nostra analisi emerge che il sesso
non è per sua natura relazionale e che, pertanto, così come possiamo
avere rapporti sessuali a pagamento, con persone sconosciute, a distanza
per telefono oppure facendo sesso in una realtà virtuale, allo stesso
modo possiamo benissimo avere relazioni sessuali anche con i robot»,
dice Balistreri.
E così, dopo aver sostituito i lavoratori, i robot
si apprestano a mandare in pensione anche gli amanti. Ma cosa ne sarà
dell’amore se le nostre relazioni sessuali si consumeranno con una
macchina? «È vero che attraverso i robot del sesso non possiamo avere
gli stessi rapporti che abbiamo con altri esseri viventi: è difficile
riuscire ad amare un robot e anche se fossimo in grado di farlo il robot
non potrebbe ricambiare i nostri sentimenti», aggiunge il ricercatore:
«Ma se l’autoerotismo è sesso, allora possiamo fare sesso anche con i
robot: possono aiutarci a raggiungere il piacere e soddisfare i nostri
desideri sessuali. I sex robot esistono ve- ramente ed è arrivato il
momento di prenderli sul serio».
MA SI PUÒ AMARE UN ROBOT?
Chi
li ha presi sul serio, già da tempo, sono il cinema, la tv, la
letteratura. Film come “Lei (Her)” di Spike Jonze, che descrive una
relazione sentimentale tra il protagonista e un sistema operativo dotato
di intelligenza artificiale. Oppure la serie tv “Westworld - Dove tutto
è concesso” con le sue scene di sesso spinto, ideata da Jonathan Nolan e
Lisa Joy e basata sul film “Il mondo dei robot” (We- stworld, 1973)
scritto e diretto da Michael Crichton. E più di recente la serie di
animazione antologica di Netflix “Love, Death & Robots”, creata da
David Fincher e Tim Miller, che mescola estetica da videogiochi,
fantascienza, horror e fantasy. Tra gli episodi colpisce “La testimone”,
in cui la protagonista, che lavora in un bordello in cui gli uomini si
accoppiano con i robot, assiste a un omicidio e scappa dall’assassino
per le strade di una città surreale. C’è poi il nuovo romanzo
retrofuturista di Ian McEwan, Machines like me (J. Cape, pp. 320, £
18,99)
Sex robot, Maurizio Balistreri (Fandango, pp. 282, € 18)
Il disagio del desiderio, Paola Marion (Donzelli, pp. 208, € 28)
“Machines
like me” (edito da Jonathan Cape), la storia del triangolo amoroso tra
Charlie, la giovane Miranda e il robot quasi umano Adam, bello e forte,
plasmato e programmato dalla coppia. Una storia ucronica ambientata a
Londra nei primi anni Ottanta, in cui la Gran Bretagna ha perso la
guerra delle Falkland e il matematico inglese Alan Turing invece di
essere perseguitato in quanto omosessuale è uno scienziato di successo
nel campo dell’intelligenza artificiale. Un romanzo in cui McEwan mette
in guardia i lettori dal potere di creare robot fuori dal nostro
controllo e pone questioni universali: cosa ci rende umani? Le nostre
azioni o le nostre riflessioni interiori? Una macchina può comprendere
il cuore di un uomo? Si può ipotizzare l’attrazione sessuale di un
essere umano per un robot? Questioni che indagano i meccanismi della
mente umana, e che si po- ne anche Paola Marion, psicoanalista,
direttore della Rivista di psicoanalisi e autrice del saggio “Il disagio
del desiderio” (Donzelli editore): «Non so se verso un robot si possa
parlare di desiderio in senso vero e proprio. Il desiderio sessuale, per
come noi ancora lo intendiamo, comprende un altro a cui rivolgersi e a
cui tendere. Mette in gioco, cioè, la relazione con l’altro», afferma
Marion: «Nel caso della sessualità mette in gioco il corpo e i corpi in
relazione tra di loro. Il robot rappresenta un oggetto inanimato, anche
se dotato di intelligenza artificiale, che può soddisfare senza
coinvolgere relazione e corporeità. Mi pare questa la vera rottura».
Come
è facile immaginare, le risposte non sono univoche. Un’altra esperta,
Georgia Zara, psicologa e criminologa, docente nelle università di
Torino e di Cambridge, alla domanda se si possa avere una relazione che
implichi affetto, sessualità e investimento emozionale con un sexbot,
risponde così: «La risposta più semplice è “sì”. Esistono relazioni
sintetiche nelle quali si investe una forte carica affettiva. Gli studi
scientifici evidenziano che quanto più un robot ha sembianze umane,
tanto maggiore è il legame che si potrebbe venire a creare: una sorta di
“illusione antropomorfica”. L’interazione fisica con i sexbot
permetterebbe di avere un amante sempre diverso, senza controversie, con
il quale tutto è possibile», dice Zara, che poi affronta altri aspetti,
toccati anche nel saggio a sua firma pubblicato nel libro di
Balistreri. La docente, infatti, è responsabile scientifica del primo
progetto in Italia sull’uso dei robot per il trattamento degli autori di
reati sessuali, intitolato S.o.r.a.t. (Sex offenders risk assessment
and treatment), che vede coinvolti tra gli altri il Dipartimento di
Psicologia dell’ateneo torinese e il Gruppo Abele, su un campione di 71
sex offender maschi, età media 47 anni, ai quali sono state mostrate
quattro immagini raffiguranti due sexbot adulti, uomo e donna, e due
bambini, maschio e femmina, allo scopo di studiare le loro reazioni.
Argomento controverso e difficile: al momento non ci sono sufficienti
evidenze scientifiche per dire che l’utilizzo dei sexbot possa inibire
il passaggio all’abuso, ma lo studio non è ancora ultimato.
IL RISCHIO DELLA VIOLENZA
Una
delle critiche che vengono rivolte agli androidi riguarda il rischio
della normalizzazione della violenza sessuale. «Il rischio non è solo
possibile, ma anche probabile. In uno studio sul diniego nei sex
offender recentemente pubblicato, si evidenzia il ruolo delle fantasie
sessuali nelle dinamiche sessualmente abusanti», aggiunge l’esperta.
Secondo la ricerca, se la fantasia sessuale è quella del dominio e del
controllo del partner, un sexbot può incoraggiarla. Se la fantasia è di
tipo feticista, coinvolgendo solo alcune parti del corpo, un sexbot può
alimentare il gioco erotico. «Sebbene i sexbot possano agevolare persone
in difficoltà nella sfera intima o fungere semplicemente da sex toy
tecnologicamente avanzati, dal punto di vista psicosociale e clinico non
è da escludere che l’utilizzo di tali dispositivi possa diventare
problematico, laddove il sexbot diventa il sostituto esclusivo
dell’altro», conclude Zara, che porta l’esempio di Lilly, una donna
francese che dice di essere attratta solo dai robot e di volerne sposare
uno, dopo le esperienze deludenti con gli uomini. Del resto qualche
tempo fa, in Giappone, un uomo di 35 anni, Akihiko Kondo, ha portato
all’alta- re un ologramma, la versione peluche della popstar Hatsune
Miku. Il matrimonio non ha alcun valore legale, naturalmente, ma è la
spia di un fenomeno in evoluzione.
Nascono alchimie misteriose, legami inediti, forti e inspiegabili.
Viene
in mente la scena finale di “Io e Annie”, il celebre film di Woody
Allen, con la voce fuori campo del protagonista Alvy: «Quella vecchia
barzelletta, sapete... Quella dove uno va dallo psichiatra e dice:
“Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina”, e il
dottore gli dice: “Perché non lo interna?”, e quello risponde: “E poi a
me le uova chi me le fa?”.
Beh, credo che corrisponda molto a quello
che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente
irrazionali, e... e pazzi. E assurdi... Ma credo che continuino perché
la maggior parte di noi ha bisogno di uova».
Il tempo scorre veloce,
il mercato asseconda ogni richiesta con umanoidi sempre più sofisticati
che rimpiazzano gli umani, si creano relazioni sempre più complesse,
dai confini fluidi. E magari c’è chi, da qualche parte nel mondo, sta
già costruendo il sexbot che depone le uova.
L’Espresso 5.5.19
Con la macchina non è tradimento
colloquio con Kate Devlin
I
miti greci e i robot del sesso. Ha unito mondi lontani Kate Devlin,
accademica e scrittrice britannica, archeologa di formazione, docente di
Intelligenza artificiale sociale e culturale al King’s College di
Londra. E ha mostrato che questi universi sono molto più vicini
di
quanto si creda. Si narra infatti che Protesilao, in partenza per la
guerra
di Troia nel giorno delle nozze, si fece modellare una statua a
immagine della moglie, Laodamia, per poterla tenere ogni notte accanto a
sé nel letto. Un oggetto inanimato in grado di sostituire l’essere
vivente più amato. E risulta da studi archeologici che, sempre
nell’antica Grecia, facessero uso di oggetti di forma fallica per
procurarsi piacere sessuale. Sex toys, insomma. Nel suo saggio “Turned
On: Science, Sex and Robots” (Bloomsbury), Devlin analizza le reazioni
della società al cambiamento tecnologico, in particolare le implicazioni
sessuali della relazione uomo-macchina. Temi complessi, di cui la
studiosa ha parlato il 4 maggio nella conferenza annuale TedX Roma
“Society 5.0”.
Cosa c’entra l’archeologia con i sexbot?
«I
robot del sesso, la loro capacità di sedurre, fanno parte del mito,
della leggenda, della fantascienza. Dai tempi antichi di Laodamia fino
alle serie tv del nostro secolo come “Westworld”, le macchine dalle
sembianze umane hanno conquistato il nostro immaginario, le nostre
speranze e paure. Come risulta da pitture murali, scritti e tragedie,
sappiamo con certezza che nell’antica Grecia venivano utilizzati sex
toys, vibratori in particolare, facevano parte del comportamento
sessuale normale. E nelle epoche successive hanno continuato a
utilizzarli. L’interazione con oggetti e tecnologie per raggiungere il
piacere sessuale, dunque, fa parte della storia dell’uomo».
Il suo è un libro sul sesso?
«Non
parla solo di sesso. O di robot. Parla di intimità, tecnologia,
computer, psicologia. Storia e archeologia, amore e biologia. Di futuro,
vicino e lontano: utopie e distopie della fantascienza, solitudine e
amicizia, legge e etica, privacy. Soprattutto, racconta cosa significa
essere umani in un mondo di macchine».
Cosa vuol dire in
concreto?
«Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia diventa sempre più
importante. Da qui nasce il problema di come condividere le nostre vite
con robot e dispositivi dell’intelligenza artificiale, non ancora
senzienti ma sempre più simili a esseri umani.
Basti pensare agli
assistenti vocali: un software consente ad alcuni dispositivi di
riconoscere e rispondere ai comandi vocali. Possono ricordarti la lista
della spesa o regolare il riscaldamento e l’aria condizionata. Fornire
previsioni del tempo, ricette, risultati sportivi. Siamo sicuri che
nessuno rivolga domande oscene agli assistenti vocali? O che con loro
dia libero sfogo a parole sporche? O che addirittura si innamori di
loro?
Ci siamo adattati in fretta a queste trasformazioni: ora
entriamo in una fase nuova, molto interessante, in cui gli individui
sono consapevoli che queste macchine non possono pensare al loro posto
ma non sanno quale direzione prenderà il cambiamento».
Perché in molti hanno paura dei sexbot?
«Temono
la tecnologia, poi le paure si sommano perché il sesso riguarda la
sfera personale. Hanno paura di perdere il controllo, che il partner li
sostituisca con una macchina, di restare soli».
Accoppiarsi con una macchina può essere considerato tradimento?
«Dal
punto di vista tecnico non direi. E neanche legale: non si può
chiedere
il divorzio, equiparare il rapporto con un robot all’adulterio,
perché non è una persona. Tuttavia non esiste una regola generale, ogni
coppia fa storia a sé, i due partner dovrebbero parlarne. Del resto
alcune coppie non vogliono usare sex toys nei loro rapporti e altre ne
sono entusiaste».
Quasi tutti i robot del sesso hanno sembianze
femminili. Perché?
«I sexbot rappresentano un’evoluzione delle sex
dolls, le bambole di silicone. Inoltre, gli sviluppatori sono in gran
parte uomini, così come gli utenti. Credo che l’unico prototipo maschile
sia Henry, inventato da Abyss Creations’, finito sulla copertina del
New York Magazine».
Un gruppo di attivisti porta avanti una
campagna per la messa al bando delle bambole e dei robot sessuali,
perché la loro diffusione incoraggerebbe l’isolamento e la cultura della
mercificazione delle donne. Cosa ne pensa?
«Gli attivisti mettono
sullo stesso piano le relazioni uomo-robot e cliente- prostituta. E
dunque sostengono che la diffusione dei sexbot potrebbe incentivare la
violenza sessuale. Non condivido questa visione, ma su un punto sono
d’accordo: i sexbot, così come sono concepiti oggi, rappresentano il
corpo femminile come un oggetto.
E questo danneggia le donne, che già
devono far fronte al “body shaming” quotidiano nei media, nei film,
nella pubblicità e nella musica. Ma chiedere la messa al bando dei
sexbot mi sembra davvero esagerato».
L’Espresso 5.5.19
Lettere
Aspettando l’educazione civica
risponde Stefania Rossini
Cara
Rossini, di educazione civica nelle scuole si parla da decenni senza
fare nulla. Eppure è una materia importante. Certamente la più
formativa. Purtroppo nella scuola italiana l’educazione civica è la
cenerentola delle materie. Il perché è semplice: per insegnarla bene ci
vorrebbero degli insegnanti specializzati che insegnino soltanto
“educazione civica”. Inoltre ci dovrebbe essere un esame finale e il
voto di rendimento, che avrà un peso sulla promozione. Si dirà subito
che il costo, per lo Stato, sarebbe altissimo. Io credo, e sono certo
che moltissimi italiani, anche cattolici, sarebbero d’accordo, di
sostituire finalmente l’insegna- mento dell’ora di religione (in
contrasto con la Costituzione) con l’ora di educazione civica.
Naturalmente gli attuali insegnanti di religione dovrebbero fare un
corso e specializzarsi nella nuova materia. Ovviamente si dovrà rivedere
il Concordato. Gli articoli 3 e 20 della nostra Costituzione daranno ai
politici e ai legislatori l’appiglio legale per modificare il
Concordato e sopprimere l’ora di religione cattolica. Non sarebbe la
prima volta che si modifica il Concordato con la Santa Sede. Venne
modificato nel 1984 durante il Governo di Bettino Craxi. Questa
modifica, se realizzata, sarebbe un notevole successo storico del
Parlamento e del nuovo Governo che usciranno dopo il voto sull’Europa.
Franco Vicentini, Treviso
Anche
chi non è sostenitore dell’ora di religione cattolica (che sarebbe
ormai saggio trasformare in un insegnamento di Storia della religioni),
difficilmente sarà d’accordo
con la sua proposta, tanto radicale da
voler scardinare un patto quasi secolare tra Stato e Chiesa per fare
spazio a un’educazione alla cittadinanza, come se le due cose non
potessero convivere. Tanto più che un’ennesima legge per introdurre
l’educazione civica nelle scuole va proprio in questi giorni in
Parlamento, portandosi dietro la solita scia di polemiche. C’è chi, come
lei, vorrebbe una materia isolata con docenti specializzati e voti di
profitto, chi ne introdurrebbe elementi in ogni materia di insegnamento,
chi la ritiene pleonastica, chi addirittura dannosa perché toglierebbe
tempo e impegno all’apprendimento. Qualcuno si chiederà: ma come, la
materia non c’è già, non la volle Aldo Moro come ministro
dell’Istruzione nel lontano 1958? In effetti Moro l’aveva istituita, ma
nei decenni è stata dimenticata, resa marginale, affidata alla
sensibilità di qualche docente volenteroso, riproposta da ogni ministro
che “riformava” la scuola a modo suo, magari solo cambiandole il nome,
come per esempio in Cittadinanza e Costituzione. Ma ora c’è fretta di
tornare sull’argomento perché l’imbarbarimento delle giovani generazioni
è sotto gli occhi di tutti e la violenza è arrivata anche nelle aule.
Così il governo muscolare ha fatto una sintesi di 15 proposte di legge
parlamentari e di una di iniziativa popolare (che ha raccolto 100 mila
firme) e farà presto, prestissimo, come è sua abitudine. Anche perché il
progetto fa scena e non costa niente: 33 ore di civismo e legalità
spalmate qua e là sulle altre materie, senza un’ora di più di scuola,
senza un euro di più per gli insegnanti.
L’Espresso 5.5.19
Eugenio Scalfari
Il vetro soffiato
Tolstoj, il violino e il pianoforte
Nei
giorni scorsi ho letto attentamente un libro di Tolstoj intitolato
“Sonata a Kreutzer”. Sono rimasto sbalordito non soltanto dal racconto
ma anche dal titolo, importante per diverse ragioni.
Il racconto è
fatto da un signore di mezza età (naturalmente siamo in Russia dove
Tolstoj vive e scrive) che ha commesso un delitto: ha ucciso la propria
moglie per una serie di incomprensioni non soltanto psicologiche, ma
anche di fatti realmente avvenuti, privi però dei significati che il
personaggio invece gli attribuisce. La prigione è durata otto anni e poi
il suo comportamento e i dubbi insorti nei giudici che l’hanno
condannato hanno abbreviato la pena e il risultato è stato la messa in
libertà di quella persona. Il racconto, molto diffuso nei particolari,
viene fatto dal protagonista del libro a un altro viaggiatore del tutto a
lui ignoto che però è il solo che possa ascoltare in quel lungo viaggio
in treno nello scompartimento che i due occupano. Quello che racconta
non si ferma un attimo, quello che ascolta interviene di tanto in tanto e
soltanto per la richiesta di qualche chiarimento. È una vita assai
singolare quella raccontata dal protagonista del libro, durante la quale
lui e sua moglie vivono per parecchi anni amandosi intensamente e anche
fisicamente in certi momenti della giornata, mentre in altri l’amore è
sostituito dall’odio, motivato da sciocchezze che l’uomo considera
gravissime e la moglie egualmente. Insomma è un alternarsi continuo, nel
racconto che costituisce il nerbo del libro, tra amore e odio. La
conclusione è che il treno arriva al termine della corsa e i due
interlocutori si salutano e il libro finisce lì. La lettura è
affascinante per il lettore, del resto Tolstoj scrive come uno dei più
grandi autori della storia letteraria dell’Ottocento e quindi non c’è da
stupirsi del fascino che quel racconto suscita.
Resta da tornare
sul titolo. Che cos’è Kreutzer? È una sonata di Beethoven per violino e
pianoforte. E perché mai Tolstoj usa per la vicenda proprio quel brano
musicale? La ragione è la seguente: la sonata di Beethoven si compone di
quattro tempi, musicalmente parlando: nel primo tempo pianoforte e
violino alternano o congiungono i loro suoni con piena armonia. Nel
secondo tempo predomina la parte assegnata al pianoforte e il violino si
limita ad un accompagnamento assai modesto. Nel tempo successivo le
parti si invertono: quella assegnata al violino è dominante e il piano
l’accompagna con un significato marginale. Il tempo finale vede i due
strumenti che suonano con pieno vigore e quasi in lotta l’uno con
l’altro. Il risultato è questo alternarsi di potenza musicale tra l’uno e
l’altro strumento fino al punto in cui entrambi danno il massimo della
propria parte facendo scaturire una conclusione musicale di formidabile
significato e impressione sugli ascoltatori.
A questo punto il
titolo del libro del quale abbiamo accennato il contenuto acquista un
significato ulteriore: la sonata di Beethoven realizza tra i due
strumenti un comportamento analogo a quello tra moglie e marito
raccontato dal protagonista del libro stesso.
Questo modo di
abbinare titolo e racconto è molto singolare ma rispecchia l’arte di
Tolstoj: ha sempre raccontato nelle sue molteplici opere il bianco e
nero, il bene e il male, la buona e la cattiva sorte, la tirannide e la
libertà, la pace e la guerra, ma non sempre i titoli hanno affrontato
direttamente il tema trattato. Questa è stata la grande arte di uno
degli scrittori più importanti di tutta Europa; del resto lo si vede
benissimo in “Anna Karenina”, in “Guerra e Pace” e in tutta l’opera di
questo grandissimo artista e dei significati profondi che ciascuno dei
suoi romanzi porta con sé. Qui naturalmente bisognerebbe che il lettore
mentre legge ascoltasse la musica di Beethoven, questa sarebbe la
pienezza e il maggior godimento e non è un caso che nella stessa epoca
Tolstoj e Beethoven furono al vertice, l’uno nella letteratura e l’altro
nella musica.
Naturalmente nella stessa epoca dominata
letterariamente da Tolstoj ci furono altri artisti assai diversi ma di
analoga importanza letteraria. Il più eminente è Proust e la sua
“Recherche”, scrisse anche libri di assai minore importanza e la ragione
è questa: la “Recherche” in apparenza è un unico libro ma nella
sostanza sono almeno tre: tre diverse fasi della vita dell’autore perché
la “Recherche” è un’autobiografia che però varia continuamente poiché
riflette analoghe variazioni di Proust e delle persone da lui
frequentate. Proust è Proust ma non è mai lo stesso e contemporaneamente
registra nel suo racconto i mutamenti che avvengono intorno a lui;
mutamenti reali e non fantasticati dall’autore del libro.
Nella
stessa epoca e in modi completamente diversi della tecnica letteraria ma
sostanzialmente analoghi nei contenuti c’è Kafka nell’Europa germanica,
Joyce in Inghilterra. Questi nomi sono i più importanti ma ovviamente
non i soli. Se per esempio prendiamo i grandi letterati del nostro Paese
oltre a Manzoni potremmo indicare Alfieri e Foscolo. Limitarsi a questi
nomi tuttavia non riflette la ricchezza della letteratura europea che a
partire dall’Ottocento raggiunge probabilmente il massimo fino ai primi
del Novecento, ci vorrebbe un libro ma qui ci limitiamo ad un articolo.
https://spogli.blogspot.com/2019/05/lespresso-5.html