venerdì 26 aprile 2019

Il Fatto 26.4.19
Disturbava i genitori in intimità, perciò la mamma lo ha ucciso


Il piccolo Antonio è stato ucciso perché avrebbe disturbato un rapporto intimo dei suoi genitori, separati e da poco tornati insieme. È questa la terribile verità che emerge dai primi atti d’indagine: secondo quanto riportato dal quotidiano Repubblica, il bambino di due anni avrebbe cominciato a piangere mentre la coppia si era appartata in un campo poco fuori Cassino.
Disturbata dal pianto, la madre l’avrebbe soffocato, davanti al marito che assisteva senza fare nulla. Poi rientrati a casa i due avrebbero inscenato il falso investimento del bimbo, con la madre che sosteneva fosse stato travolto da un auto pirata, mentre il padre si era allontanato. Hanno anche mentito sugli spostamenti, senza però riuscire a ingannare la polizia, che dopo aver arrestato la donna negli scorsi giorni aveva fermato anche il padre, con l’accusa di essere stato presente al momento dell’omicidio.
Mercoledì ai funerali del bambino tutto il paesino di Piedimonte e i centri limitrofi si sono fermati, per l’ultimo ricordo del piccolo.

Corriere 26.4.19
Roma, la madre confessa: «Lui gli ha dato due schiaffi, ma sono stata io a ucciderlo»
di Rinaldo Frignani


ROMA «Il bambino piangeva, e lui gli ha dato due schiaffi». Donatella Di Bona lo racconta nella sua confessione davanti al pm e ai carabinieri. Accusa l’amante Nicola Feroleto di aver assistito senza fare nulla mentre lei strangolava il piccolo Gabriel nel pomeriggio del 17 aprile scorso. Un omicidio agghiacciante con un movente assurdo: il bimbo disturbava la coppia che si era appartata in auto per fare sesso. Ma prima il padre, in carcere con la donna per concorso in omicidio aggravato, avrebbe picchiato il piccolo colpevole soltanto di piangere.
Giorno dopo giorno emergono particolari sconvolgenti sulla tragica fine riservata al bambino nelle campagne di Piedimonte San Germano, in provincia di Frosinone. Per fare chiarezza su alcuni aspetti e individuare le effettive responsabilità di Feroleto, lunedì prossimo scenderà in campo anche il Ris dei carabinieri per accertamenti tecnici irripetibili sul telefonino del 48enne che ha cercato di costruirsi un alibi, poi smontato dagli investigatori dell’Arma, chiedendo alla compagna, Anna Vacca (con la quale convive con un altro figlio quindicenne a Villa Santa Lucia, vicino a Piedimonte), di riferire a chi indaga che lui era rimasto con lei dalle 14 alle 16.30 di quel pomeriggio. Una bugia che ha resistito 48 ore. Poi Feroleto è finito in carcere.
Per il gip Salvatore Scalera avrebbe solo assistito all’omicidio senza fare nulla per salvare il bimbo, pur sussurrando all’amante e al bambino: «Vi levo dal mondo». Mentre la madre uccideva il piccolo dopo essere scesa dall’auto, lui, secondo la versione di Donatella, «un po’ guardava, un po’ si voltava. Guardava in alto, di lato, verso la macchina. No, lui non ha fatto niente, non gli importava. Non gli ha messo una mano addosso per non essere incolpato». Eppure lo avrebbe fatto appena qualche minuto prima. Scene che mettono i brividi solo a pensarci.
Minacce
La nonna del piccolo invece accusa Feroleto «È lui l’assassino e ci ha pure minacciati»
Per la madre di Donatella, Rocca Di Branco, la nonna del piccolo, distrutta dal dolore, il coinvolgimento di Nicola Feroleto sarebbe stato diretto. «Mia figlia non sarebbe mai stata capace di fare una cosa del genere, quell’uomo è un assassino, ha minacciato di bruciarci tutti se avessimo parlato», ha detto la donna, ora assistita dai servizi sociali del Comune. Davanti al gip Feroleto è apparso molto confuso. Ha fornito quattro diverse versioni, ha ripetuto di non essere stato presente al fatto. Ma una testimone lo colloca in borgata Volla dove abitava la famiglia del piccolo Gabriel, un’ora e mezza prima della morte del bambino. Ci era arrivato in auto, una Punto, con la quale si sarebbe poi allontanato proprio assieme a Donatella e al figlioletto. Che alle 16 circa lei ha riportato indietro, a piedi e da sola, ormai esanime.

Repubblica 26.4.19
Migranti, per negare l'asilo i giudici devono provare che nel Paese d'origine non ci sia rischio per la vita
Sentenza della Corte di Cassazione rischia di incidere sulla stretta nella concessione dei permessi. Non bastano più generiche "fonti internazionali"
di Alessandra Ziniti


Migranti, per negare l'asilo i giudici devono provare che nel Paese d'origine non ci sia rischio per la vita
Il caso di un cittadino pakistano potrebbe mettere a serio rischio la stretta sulle concessioni dell'asilo ai mighranti che ne fanno richiesta. E' la Corte di Cassazione ad intervenire disponendo che per negare l'asilo a un richiedente bisogna provare che tornando nel suo Paese non rischierebe la vita. E l'onere della prova è ribaltato e tocca ai magistrati che non possono più basarsi su generiche "fonti internazionali".
Una sentenza che potrebbe allargare le maglie dell'asilo in controtendenza con  le indicazioni che arrivano dalla legge Salvini. Con queste motivazioni i giudici della Suprema Corte hanno accolto il ricorso di un cittadino pakistano che si era visto negare l'asilo sulla base di generiche "fonti internazionali" che attesterebbero l'assenza di conflitti nel paese di provenienza. Adesso la Cassazione esorta i magistrati a evitare "formule stereotipate" e a "specificare sulla scorta di quali fonti" abbiano acquisito "informazioni aggiornate sul Paese di origine" dei richiedenti asilo. Accolto ricorso di un pakistano.
Sulla base di questi principi - inviati al Massimario - la Suprema Corte ha dichiarato "fondato" il reclamo di Alì S., cittadino pakistano al quale la Commissione prefettizia di Lecce e poi il Tribunale della stessa città, nel 2017, avevano negato di rimanere nel nostro Paese con la protezione internazionale.
Alì - difeso dall'avvocato Nicola Lonoce - ha fatto presente che la decisione era stata presa "in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili" e senza che il giudice avesse usato il suo potere di indagine.
Il reclamo ha fatto 'centro', e la Cassazione ha sottolineato che il giudice "è tenuto a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l'esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate", e non di "formule generiche" come il richiamo a non specificate "fonti internazionali". Il caso sarà riesaminato a Lecce.

La Stampa 26.4.19
Il 25 aprile di Mattarella
“Non si baratta la libertà con promesse di ordine”
Il presidente contro la narrazione del derby tra comunisti e fascisti “Non solo partigiani, la Resistenza fu serbatoio di valori morali e civili”
di Ugo Magri


Sergio Mattarella ha smontato un paio di «fake» che da qualche tempo circolano nella politica. Anzitutto la leggenda di un fascismo «buono», che fece opere benemerite tipo le bonifiche, ma commise l’errore di entrare in guerra dalla parte sbagliata; e poi la grossolana rappresentazione della Resistenza che qualche leader (da ultimo ci è cascato Matteo Salvini) riduce a un sanguinoso derby tra comunisti e fascisti, con gli italiani spettatori o vittime. Non andò affatto così, spiega il presidente della Repubblica da Vittorio Veneto, dove ieri mattina ha festeggiato il 25 aprile. Anzitutto il fascismo fu una pessima dittatura che si racconta da sé: «Niente libertà di opinione, di espressione, di pensiero. Abolite le elezioni, banditi i giornali e i partiti di opposizione. Gli oppositori bastonati, incarcerati, costretti all’esilio o uccisi. Bisognava obbedire agli ordini più insensati e crudeli che impartivano di odiare gli ebrei, i dissidenti, i paesi stranieri. Ma soprattutto si doveva combattere, non per difendersi ma per aggredire, per conquistare e per soggiogare». Tradotto nel linguaggio di ogni giorno: il regime fascista fu una vera schifezza morale. Portava ordine, è vero. Ma «la storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva». Maneggiare i mitra è sempre fonte di guai.
Non solo partigiani
Quanto alla Resistenza, è falso dire che mobilitò al massimo 300 mila partigiani. Loro, certo, furono in prima fila. Ma per Mattarella contribuirono anche «i soldati italiani che combatterono fianco a fianco con l’esercito alleato coprendosi di valore». E dei resistenti fecero parte i 600 mila militari, catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, che «rifiutarono l’onta di servire sotto la bandiera di Salò e dell’esercito occupante preferendo l’internamento nei campi di prigionia nazisti», dove morirono in 50 mila. Né va dimenticato, sostiene il presidente, l’apporto «delle centinaia di migliaia di persone che offrirono aiuti, cibo, informazioni ai partigiani», e il contributo «dei tanti giusti delle Nazioni che si prodigarono per salvare la vita degli ebrei, rischiando la propria». La Resistenza fu un vasto movimento capace di affratellare donne e uomini di diversissime tendenze: azionisti, socialisti, liberali, comunisti, cattolici, monarchici e perfino molti ex fascisti delusi. Una rete che ricollegò l’Italia agli «alti ideali del Risorgimento», permettendole di riprendere posto tra le nazioni democratiche e libere.
Le pagine oscure
Poi, certo, ci furono degli eccessi. Al 25 aprile 1945 seguirono «vendette e brutalità inaccettabili contro i nemici di un tempo». Anche quella violenza va condannata, e Mattarella non si tira indietro. L’operazione verità va condotta a 360 gradi. Ma una volta fatta luce sulle pagine oscure, resta il giudizio complessivo: «La Resistenza fu un fecondo serbatoio di valori morali e civili». Chi li snobba rischia di ritrovarsi, come compagni di strada, i camerati di Forza Nuova e di CasaPound. Nemmeno la Lega si pone in alternativa a quei valori, come ha testimoniato ieri la vicinanza a Mattarella del governatore veneto Luca Zaia, insieme a quella di tanta gente.

La Stampa 26.4.19
Il linguaggio della Costituzione
di Giovanni Sabbatucci


«La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva». È uno dei passaggi centrali del discorso che Sergio Mattarella ha tenuto ieri a Vittorio Veneto, a conclusione delle celebrazioni del 25 aprile: l’ultimo di una serie di interventi in cui il presidente della Repubblica sembra aver tracciato una sorta di perimetro ideale della legittimità democratica e dell’etica repubblicana. Qualcosa di simile avevano fatto i suoi predecessori, soprattutto gli ultimi due. Ma in questo caso il riferimento è più puntuale e tutt’altro che neutro, visto che cade in una fase di accesa conflittualità politica: una fase in cui il dibattito pubblico tende a tracimare dall’alveo del fisiologico confronto fra idee e programmi per investire i principi di fondo in base ai quali siamo soliti definire le democrazie.
Vista in tale contesto, l’esortazione del capo dello Stato a non subordinare la difesa degli spazi di libertà alla ricerca di una maggiore tutela, o l’invito a non cedere alle sirene del nazionalismo sovranista (già evocato e condannato in numerosi interventi presidenziali) non possono non richiamare come modello negativo le democrazie illiberali e i regimi securitari dell’Est Europa. Ma il discorso suona anche come ammonimento implicito alle forze politiche italiane (Lega e Fratelli d’Italia) che a quei modelli dichiaratamente si ispirano.
Vanno nello stesso senso – anche se i destinatari politici del messaggio non coincidono specularmente – la condanna della violenza, seppur consumata in uno scenario bellico e in risposta ad altre violenze, e del ricorso alla giustizia sommaria, sempre incompatibile con la democrazia. Un accenno non casuale, in un discorso pronunciato nel giorno della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, in una terra di confine già teatro di conflitti e di violenze e in un paese che ricorda col suo nome la vittoria italiana nella prima guerra mondiale, riproponendo quel filo di continuità (simbolica più che storica) fra Risorgimento, Grande Guerra e Resistenza che già fu caro a Carlo Azeglio Ciampi. Ma è difficile non cogliere in quella condanna anche un’eco delle recenti polemiche politiche sull’uso delle armi e sulla legittima difesa.
Non credo sia il caso di spingersi troppo oltre nella lettura in chiave politica degli ultimi interventi di Sergio Mattarella. O di ipotizzare anche per il suo settennato – come per quelli dei suoi predecessori, da Francesco Cossiga a Giorgio Napolitano – un secondo tempo di accentuato interventismo, che seguirebbe un primo tempo caratterizzato da stretto riserbo istituzionale. Certo la stessa situazione che l’Italia sta vivendo, segnata da una doppia conflittualità fra maggioranza e opposizione e all’interno della stessa maggioranza, potrebbe determinare, quasi per legge fisica, un ulteriore allargamento degli spazi di intervento presidenziale. Finora, però, Mattarella si è tenuto rigorosamente nei limiti del suo mandato. Ha espresso pareri e formulato giudizi anche gravi, ma sempre usando il lessico della democrazia liberale ed evitando ogni riferimento esplicito al confronto fra i partiti e all’azione di governo.
La Costituzione repubblicana, del resto, non si limita a condannare le dittature e i fascismi propriamente detti. Ma contiene in alcuni suoi articoli (vanno ricordati almeno il 9 sulle norme del diritto internazionale e sulla condizione degli stranieri e il 10 sulla guerra e sull’adesione agli organismi internazionali) norme difficilmente compatibili con i modelli nazionalisti e sovranisti. Finché non sarà cambiata, andrà rispettata nello spirito oltre che nella lettera.

il manifesto 26.4.19
La Nuova via della Seta 2.0
Cina. È iniziato a Pechino il 2° summit del progetto cinese. La parola d’ordine è «ribilanciamento». La Cina prova a rassicurare gli scettici sui rischi in tema di trasparenza e «trappola del debito»
di Simone Pieranni


È in corso da ieri a Pechino il secondo summit della Nuova via della Seta (Belt and Road Initiative nella sua sigla internazionale), il progetto mondiale guidato da Pechino nel quale è sostanzialmente coinvolto tutto il mondo. Tra i partecipanti anche Giuseppe Conte (giunto da solo e senza il seguito aziendale che era previsto) e svariati capi di stato a rappresentare centinaia di paesi. Quando la Bri venne presentata ufficialmente – due anni fa con un analogo forum nella capitale cinese, benché il presidente cinese Xi Jinping ne avesse già parlato nel 2013 – fu definita «il progetto di infrastrutture e connessioni più grande mai attuato nella storia dell’umanità».
NEL CORSO DI QUESTI DUE ANNI la Bri ha ottenuto importanti successi e si è completata con alcuni organi di natura economico-finanziaria, per quanto la Cina non ami definire la Aiib (la banca di investimenti asiatici creata ad hoc) «il braccio economico» della nuova via della Seta. Insieme all’Aiib c’è anche il Silk Road Fund.
Si è discusso e detto molto su questo progetto: un tentativo egemonico da parte di Pechino, una nuova idea di ordine mondiale a guida cinese, la globalizzazione con caratteristiche cinesi. In generale si è sottolineato il carattere di natura geopolitica del progetto di Pechino, considerando che in gran parte si tratta di una fitta rete di infrastrutture, porti, pipeline e ferrovie, in grado di provvedere ad alcuni presupposti fondamentali per la Cina: consentire la circolazione più rapida delle merci, permettere alla Cina di scovare nuovi mercati per il surplus manifatturiero, controllare gli snodi più importanti delle rotte, tanto terresti quanto marittime.
SECONDO LA CINA si tratta di un progetto «win-win», a disposizione di tutti e senza alcuna volontà egemonica da parte cinese.
Ben presto, del resto, il progetto ha superato ampiamente i «confini» iniziali, finendo per porre sotto il cappello della Nuova via della seta anche investimenti e accordi in Africa e America Latina.
    Insieme al dilatare di questa rete mondiale commerciale, sono cominciati anche a sorgere alcuni problemi: Pechino ha potuto così apprendere che la propria presenza – soprattutto in alcuni paesi asiatici – ha sollevato diverse problematiche, dando vita a ribaltamenti politici che hanno finito per mettere in discussione gli accordi sottoscritti.
GLI ESEMPI PIÙ PRECISI in questo senso sono quelli del Myanmar, del Pakistan e della Malaysia: accordi sottoscritti ma poi rivisti alla luce di cambi di governo e delle rinnovate volontà nazionali per ridefinire i contorni economici. Si è così cominciato a discutere della cosiddetta «trappola del debito» e di manovre poco «trasparenti» da parte di Pechino.
QUESTO SECONDO FORUM punta a presentare il progetto sotto altre ottiche, di diversa natura rispetto al passato. Le ragioni sono molte, ma partono tutte da una prima considerazione. La Cina è in una fase interna piuttosto complicata, perché rallenta l’economia e l’accentramento di potere di Xi e del suo gruppo (tutti funzionari che hanno collaborato con lui nel corso della sua carriera) comporta problematiche nuove per la dirigenza cinese. Ma è indubbia la capacità di Pechino di annusare alcune diffidenze e provvedere subito a riadattarsi alla situazione.
    Ecco allora che si parla di «ribilanciamento» del progetto della Nuova via della seta, un termine che esprime una minima rivisitazione del piano, con Pechino forse più cauta in futuro ad allargare la propria influenza, o quanto meno a inserire all’interno della Nuova via della seta qualsiasi progetto che la veda protagonista, in qualsiasi parte del mondo.
Allo stesso tempo questa «ricalibrazione» della Bri sembra una risposta per chi ancora nutre dubbi, legittimi, sulla natura del progetto. La Cina in queste situazioni dimostra straordinaria capacità di modificare i piani in corsa e di farlo velocemente, indubbiamente favorita dalla propria natura politica, con un partito comunista solitario e bel saldo nel controllo totale del paese.
Ma questa ridefinizione dei contorni del progetto, dovrebbe anche favorire Pechino, di recente infastidita dal tentativo di tanti paesi di legittimare propri piani sotto l’insegna della Bri.

Il Fatto  26.4.19
Caro ministro Salvini, sul 25 aprile mi ricorda chi a Palermo non dice “la mafia fa schifo”: la lotta a Cosa nostra e la Resistenza si somigliano
Promemoria per la visita del vicepremier leghista oggi a Corleone: da un radical chic di sinistra con portafogli a destra (ma senza attico). La Liberazione è simile a chi ha combattuto le cosche: patriota è chi, osteggiato dai più, decise di sconfiggere l'impossibile. Al prezzo della propria vita. Probabilmente troverà una parte di Corleone che sottovoce che la mafia è nelle istituzioni e che alla fine Cosa nostra "ha fatto anche cose buone". Le ricorda qualcosa?


Caro ministro Salvini,
qualche giorno fa lei ha dichiarato che considera la festa del 25 Aprile un derby tra fascisti e comunisti, e che non è interessato a questo tipo di derby. Oggi, infatti, sarà a Corleone perché il suo interesse è quello di liberare il Paese dalle mafie e guardare al futuro e non al passato. Se mi permette le voglio raccontare una storia. La storia di alcuni uomini e di alcune donne che anni fa presero una decisione: combattere per la libertà.
Sapevano che mettersi contro un’organizzazione ben strutturata, che aveva ormai preso possesso di ogni parte dello Stato, avrebbe complicato loro la vita e quella dei loro familiari. Ciononostante decisero di andare avanti. Sapevano anche quanto la possibilità di venire uccisi fosse alta. Ciononostante decisero di non indietreggiare. E se uno di loro veniva ucciso, la staffetta non si fermava.
Politicamente la pensavano in maniera diversa, fra loro c’erano molti cattolici, ma anche comunisti e repubblicani. Ma quello che li univa era il bisogno di libertà.
Non tutta la popolazione, purtroppo, sostenne queste persone. Anzi, spesso, una parte del popolo prese le distanze o addirittura gli si mise contro. Ma loro non si arresero.
Molti protagonisti di questa storia sono morti, altri sono sopravvissuti e spesso passano il loro tempo a ricordare il sacrificio di chi non c’è più.
Lei penserà di certo che si tratti dell’ennesimo retorico racconto sui partigiani di un radical chic con il cuore a sinistra e il portafogli a destra, che scrive dal terrazzo del suo attico e che non conosce i problemi reali del Paese. Se è così, si sbaglia. Innanzitutto perché non le sto scrivendo dal terrazzo del mio attico: purtroppo non ne possiedo uno, anche se mi piacerebbe tanto averlo (ma mai tanto quanto una villa a Mondello!). No, le scrivo da un banale primo piano con balconcino. E si sbaglia, anche, perché ciò che in realtà le ho appena raccontato è la storia della lotta alla mafia.
Le ho parlato di persone che politicamente la pensavano in maniera diversa (chi di sinistra e chi di destra) e che, nonostante fossero osteggiati da gran parte della cittadinanza, decisero di prendere una posizione e realizzare l’impossibile: sconfiggere la mafia per vivere in libertà. E lo fecero con l’aiuto di Dio, se credenti, per la loro famiglia e per la loro Patria.
È incredibile. La storia dei partigiani, di chi ha combattuto il fascismo, somiglia molto a quella di chi ha combattuto la mafia. Allora dire che la festa del 25 Aprile è un “derby tra fascisti e comunisti” ricorda tanto ciò che si diceva negli anni Ottanta sul Maxiprocesso, e cioè che fosse un derby che riguardava la mafia e l’antimafia, un derby fra mafiosi e magistrati. E noi normali cittadini non dovevamo curarcene. Falcone e Borsellino, cito loro per tutti, incominciarono a morire in quegli anni, proprio per questo nostro disinteressarci.
Non capire chi sono i veri patrioti di un Paese – o probabilmente fingere di non capirlo – è gravissimo, perché non si può progettare un futuro senza ricordare il passato.
Dare un colore politico alla Resistenza italiana è profondamente ingiusto, sbagliato e storicamente falso: gli unici colori che possiamo attribuirle sono rosso, bianco e verde. Quelli del tricolore.
Quando lei, signor ministro, non riesce a dire che il fascismo fa schifo (e in quelle poche volte in cui lo fa aggiunge sempre frasi del tipo: “Ma anche il comunismo ha ucciso molte persone”), mi ricorda tanto quelli che a Palermo non riescono a dire che la mafia fa schifo e, quando costretti ad ammetterlo, aggiungono: “Ma la vera mafia è a Roma” (con la variante: “La mafia è nelle istituzioni”).
Tutte le riflessioni sono ben accette e spesso necessarie, ma soltanto se si parte dall’assunto di base, che è uno solo. Altrimenti la riflessione rischia di essere esclusivamente una collusione culturale.
Ogni 25 aprile, ogni 23 maggio, ogni 19 luglio (e anche qui purtroppo le date da citare sarebbero tantissime!) ricordiamo i Patrioti morti per la libertà del nostro Paese, a prescindere dal colore politico, anzi, al di là del colore politico.
Lei forse ha le idee poco chiare, perché per anni ha ricordato, e lo raffigura ancora nel simbolo del suo partito, Alberto da Giussano, il patriota della Padania. Ecco, immagini la stessa situazione, ma con patrioti realmente esistiti, spesso realmente morti, che hanno difeso una nazione reale.
Probabilmente, una volta giunto a Corleone, troverà una parte del paese che sottovoce le dirà che la mafia è nelle istituzioni, che il vero nemico è lo Stato e che alla fine “la mafia ha fatto anche cose buone”. Una frase che dovrebbe ricordarle qualcosa… Poi incontrerà l’altra parte del paese che farà una coraggiosa e instancabile “RESISTENZA” alla mafia, senza equivoci e senza esitazione, per difendere la democrazia e la libertà, faticosamente conquistate.
E temo che lo spirito della RESISTENZA la “perseguiterà” anche lì. Perché, che piaccia o meno, signor ministro, lo spirito della RESISTENZA è stato e sempre sarà la salvezza di questo Paese!
*Se avessi avuto un attico con terrazzo, oggi avrei fatto sventolare con fierezza la bandiera italiana. La stessa che voi leghisti, sovranisti dell’ultima ora, qualche anno fa volevate usare per “pulirvi il culo”. Fortunatamente la cacca dei vostri “culi” non ha mai sfiorato il nostro Tricolore, rimanendo così solo nei vostri “culetti” padani.

Il Fatto 26.4.19
Brescia aspetta il 28: riti e incontri in onore del Duce
La città di piazza della Loggia celebra la morte di Mussolini: non solo sottobosco nero ma imprenditori e gente che conta
di Urbano Croce


L’ombra nera che poi tanto ombra non è. Siamo a Brescia: in una città che tra un mese celebrerà il 45esimo anniversario della bomba in piazza della Loggia, c’è ancora un sottobosco fascista, fatto di appuntamenti fissi, incontri più o meno segreti, celebrazioni pubbliche. Come quella che si ripete ogni anno il 28 aprile, quando un necrologio dell’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della Repubblica Sociale Italiana annuncia una messa per Benito Mussolini. Per il mondo dell’estrema destra nazionale, il 28 aprile è un giorno listato a lutto: è l’anniversario di Piazzale Loreto del 1945.
Tutti sanno, ma nessuno pare scandalizzarsi. Accadrà anche domenica prossima, e nella chiesetta sotto il colle Cidneo, zona nobile della città, si daranno appuntamento pezzi della “Brescia che conta”. Dal dirigente della sanità lombarda, a piccoli e medi imprenditori, ex militanti di Msi prima e An poi. E storici camerati, che nello stesso giorno difenderanno la formella posizionata lungo la salita che porta al Castello, in ricordo di Sergio Ramelli, e che puntualmente ad aprile – raccontano le cronache dei giornali locali – viene sporcata di vernice rossa dai centri sociali che cancellano così la data di morte del militante del Fronte della Gioventù.
Dicono non manchi mai, tra i banchi della chiesetta, nella ricorrenza del 28 aprile, Marco Bonometti, ex presidente degli industriali bresciani, ora a capo di quelli lombardi, che sogna la scalata in Confindustria nazionale e che non ha mai negato le proprie simpatie fasciste, bene rappresentate dalla collezioni di busti del Duce presente nel suo ufficio (nonostante da qualche tempo si sia trasformato in renziano doc, con il sostegno anche economico alle campagne elettorali dell’ex premier e di Maria Elena Boschi, mentre per le Europee strizzerebbe invece l’occhio alla forzista Lara Comi).
Soffia da destra anche il vento che porta un gruppetto, almeno un giovedì al mese, a trovarsi in un ristorante di Brescia, spesso lo stesso, attorno a un tavolo con alle spalle la bandiera di Avanguardia Nazionale. Movimento ufficialmente sciolto nel 1976, evidentemente non per tutti. E tra i reduci di una stagione nera, in tutti i sensi, nostalgici del passato che ritorna, c’è chi come il bresciano Kim Borromeo, a inizio marzo del 1974, venne arrestato sulla strada per la Val Camonica mentre trasportava in auto mezzo quintale di esplosivo.
Questo se si guarda a volti e nomi datati. Ma c’è anche un presente. Qui Forza Nuova e CasaPound (rispettivamente 0,7% e 0,4% un anno fa alle amministrative in città) sono presenti con iniziative “a sostegno degli italiani”, come l’abitazione che CasaPound sta ristrutturando in città “per italiani in difficoltà, solo per italiani”, raccontano dal movimento che prima di Pasqua ha organizzato una cena per raccolta fondi nella sede con vetri oscurati. È legato a CasaPound anche Mirko Mancini, candidato in città alle ultime elezioni e leader dei “Brixia Blue Boys”, un’associazione i cui responsabili sono stati tutti indagati un anno fa dalla Procura bresciana, perché utilizzavano divise non autorizzate, con simboli fascisti e facce del Duce cuciti sulle maniche, durante ronde notturne nella zona della stazione. È invece in una delle vie più multietniche di Brescia la sede di Forza Nuova. L’hanno chiamata l’Ambasciata: è qui che è atteso Roberto Fiore che tornerà nelle prossime settimane in vista delle Europee a Brescia. Probabilmente il giovedì prima del voto, proprio a ridosso dell’anniversario della strage nera di piazza della Loggia.

Il Fatto 26.4.19
Crimini di guerra nazisti: “La Germania deve ancora all’Italia 100 miliardi di euro”
La stima - Dopo la richiesta della Grecia, anche Roma potrebbe pretendere i risarcimenti
di Maria Cristina Fraddosio


La Seconda guerra mondiale – almeno nelle aule dei tribunali civili – non è mai finita. La Germania, infatti, non ha mai risarcito le decine di migliaia di vittime civili dei crimini di guerra compiuti dai nazisti tra il 1939 e il 1945. Il conto – dopo la il voto del Parlamento greco che reclama il pagamento di 290 miliardi di euro e i 500 chiesti nel 2017 dalla Polonia – ha raggiunto i 1.000 miliardi e rischia di salire ancora. Anche l’Italia – infatti – potrebbe avanzare la sua richiesta che, secondo le stime del giudice militare Luca Braida, raggiungerebbe i 100 miliardi di euro per i 23 mila italiani vittime dei rastrellamenti nazisti tra il 1943 e il 1945: “Si tratta – dichiara il magistrato – di una cifra congetturale che manca del calcolo dei risarcimenti per i deportati tornati vivi. L’abbiamo ipotizzata per difetto”. Il credito sarebbe superiore, se non fosse che la Germania non ha mai adempiuto alle sentenze emesse nel nostro Paese che le impongono il pagamento. Una situazione abbastanza critica, in cui è coinvolta anche l’avvocatura di Stato.
A partire dal vertice Italia-Germania, a Trieste nel 2008, gli accordi raggiunti hanno favorito Berlino. L’esito di quell’incontro tra l’ex premier Silvio Berlusconi e la cancelliera tedesca Angela Merkel ha portato il governo tedesco a finanziare monumenti, restauri ed eventi culturali. Nulla invece in merito ai risarcimenti dovuti agli eredi delle vittime. Ma i processi penali conclusi nel 2015 e civili (molti dei quali ancora in corso) li impongono. L’avvocatura di Stato, a favore delle vittime nel penale, dopo quel vertice avrebbe cambiato rotta intervenendo spontaneamente nelle cause civili a favore del governo tedesco per conto della Presidenza del Consiglio e del ministero degli Esteri.
Il motivo di tale condotta è stato oggetto di una richiesta di accesso agli atti avanzata dal magistrato Luca Baiada, in qualità di cittadino. L’avvocatura però ha rigettato appellandosi al “segreto professionale”. Baiada, che ha emesso le sentenze per le stragi di Padule di Fucecchio e di Forlì, non ci sta. La controversia è finita al Tar Lazio e l’8 maggio è fissata l’udienza. Anche l’ex presidente della Corte costituzionale Giuseppe Tesauro, che ribaltò la sentenza dell’Aia relativa all’immunità della Germania considerandola incostituzionale, ha recentemente affermato che in quel vertice del 2008 “l’Italia in ginocchio e con entusiasmo accettò” le richieste di Berlino di non risarcire nessuno. Deportazioni e fucilazioni di massa di civili, tra cui migliaia di donne e bambini, avvennero soprattutto in Toscana e in Emilia Romagna. Ma anche in Abruzzo e Campania. Gli imputati condannati all’ergastolo non sono mai stati consegnati dalla Germania. In Italia ne sono finiti in carcere solo due, perché estromessi da Paesi terzi. Quelli che, allora bambini, sopravvissero vedendosi sottrarre con atroci violenze i familiari più cari non si sono mai arresi. Antonio, all’epoca, aveva poco più di un anno. Vittoria, otto. Tosca, sei. Era il 23 agosto 1944 e nel Padule di Fucecchio quel giorno videro le persone ardere vive. Oggi reclamano ancora giustizia. Le sentenze emesse in loro favore sono rimaste inapplicate.

Corriere 26.4.19
Crisi libica e profughi l’Italia è troppo isolata
di Goffredo Buccini


Stavolta più dei numeri peserà lo status di coloro che tentano di raggiungere le nostre coste: e l’ennesimo scontro acceso da giorni nella maggioranza di governo pare dimostrarlo. Tuttavia, nella ridda di slogan che gravano sempre più sulla questione migratoria, le cifre restano un appiglio razionale. E da lì conviene ripartire. Nonostante i distinguo e (persino) le ironie, quella che Fayez al Sarraj ha gettato di recente sul tavolo della geopolitica — 800 mila fuggiaschi pronti a invadere l’Italia e l’Europa — non è affatto tirata a casaccio.
Non c’è dubbio, certo, che i toni ultimativi (e l’aggiunta dei «terroristi Isis» mischiati ai migranti) servano soprattutto pro domo sua, a smuovere noi e la comunità internazionale contro il «traditore» Haftar. Lo spauracchio di sbarchi biblici è peraltro un grande classico dei regimi nordafricani. Testimoni dell’incontro tra Al Sisi e l’allora ministra Federica Guidi in Egitto (nei giorni in cui venne ritrovato il corpo di Giulio Regeni) raccontarono che il rais ammonì la nostra delegazione con toni quasi sprezzanti, ricordando come potesse scaraventarci sulle coste due milioni di immigrati che lui, magnanimo, tratteneva. Sull’altra sponda del Mediterraneo la disperazione dei popoli è la migliore alleata dei tiranni.
Ciò premesso, la cifra di Sarraj è alta ma plausibile, perché coincide con quella contenuta in un rapporto dell’Onu (pubblicato proprio sul Corriere di recente). Il report del 18 dicembre 2018 dell’Alto commissariato per i diritti umani (Unhchr) e della Missione di supporto (Unsmil) afferma infatti che ci sono in Libia in questo momento tra i 700 mila e il milione di stranieri provenienti soprattutto dall’Africa subsahariana e dal Nord Africa. Di questi, 53 mila si troverebbero nei campi di detenzione governativi: ma nei lager «informali» ce ne potrebbe stare il triplo.
Emergenza
Le cifre fatte da Sarraj sono plausibili perché coincidono con quelle
di un rapporto dell’Onu
Parlare di «poche migliaia» come fa il ministro Moavero appare davvero ottimistico. Giusto invece prendere con le molle la tempistica dell’«invasione». Quand’anche saltassero tutte le precarie strutture di quel simulacro di Stato, i famosi 800 mila non sono certo tutti ammassati sulla costa con un piede su un barcone: sono al momento sparsi in un territorio immenso e difficile da attraversare, forse nel mezzo di percorsi che durano mesi o anni. È sensato inoltre pensare che una parte di questi, soprattutto molti libici, cercherebbero rifugio negli Stati nordafricani vicini (in primis proprio l’Egitto) come già accadde durante i tumulti che portarono alla caduta di Gheddafi. Ne resterebbe comunque un numero sufficiente a provocare sulle nostre coste un impatto critico importante. Basti pensare che il picco migratorio di questi ultimi anni è stato di 181 mila arrivi nel 2016 e che nel 2017, poiché se ne prevedevano 250 mila, Marco Minniti fu costretto ad aprire la via dei controversi accordi con i «sindaci» libici, che hanno avuto quale risultato un drastico calo delle partenze ben prima dell’era di Matteo Salvini.
C’è da considerare, poi, il problema più serio: in questo caso i respingimenti sarebbero esclusi dalle norme internazionali (e dalla nostra Costituzione) poiché ci troveremmo di fronte, senza bisogno di grandi indagini, non a cosiddetti «migranti economici» ma a un flusso di profughi che scappano dalla guerra e hanno diritto, ictu oculi, allo status di rifugiato. Costoro arriverebbero in condizioni che renderebbero impensabile bloccarli. Salvini, cogliendo la portata del rischio, ha aperto per tempo il fuoco di sbarramento, sostenendo che non vi sarebbero rifugiati in questa umanità dolente e rilanciando l’allarme terrorismo paventato da Sarraj: ma applicare a donne e bambini, feriti e fuggiaschi traumatizzati un’etichetta da miliziano dell’Isis è operazione complicata anche per un formidabile giocoliere della politica come il ministro dell’Interno (che ha peraltro appena ridotto «d’ufficio» il numero degli irregolari in Italia da 600 mila a 90 mila). La sua (asserita) policy dei porti chiusi verrebbe spazzata via, infliggendo forse il primo colpo all’uomo forte del governo italiano. Resterebbero tuttavia gli effetti della sua predicazione. Va soppesata infatti l’ulteriore variabile di un’opinione pubblica ormai isterizzata sul tema migratorio rispetto a tre o quattro anni fa e che, dunque, reagirebbe presumibilmente assai male a un’impennata di sbarchi: le conseguenze sulla nostra convivenza civile potrebbero essere notevoli.
Fuga dalla guerra
La politica dei respingimenti verrebbe esclusa dalle norme internazionali
In un quadro simile, l’invito all’unità delle forze politiche lanciato di recente dal premier Conte è apprezzabile, ma rischia di cadere nel vuoto se neppure le forze politiche al governo appaiono unite, mentre, fuori dall’Italia, paghiamo un perdurante isolamento che potrebbe costarci carissimo. Di fronte a una possibile estate di sbarchi e a una sicura crisi umanitaria aperta in Libia, avremmo bisogno, se non della solidarietà di tutta l’Unione, almeno del sostegno degli Stati mediterranei con cui condividere il fardello, Francia e Spagna in prima linea. Ma, con la battaglia per le istituzioni Ue che sarà aperta dopo il 26 maggio, anche questa appare una pia illusione.

Il Fatto 26.4.19
Burgess, vendetta all’Arancia (filosofica)
Ritrovato un dattiloscritto sulla “condizione umana”: la risposta dell’autore alla trasposizione di Kubrick
di Federico Pontiggia


Un’altra spremuta di ultraviolenza? Per ora c’è solo la notizia del rinvenimento di un seguito di Arancia meccanica (A Clockwork Orange) nell’archivio dello scrittore inglese Anthony Burgess. Ad annunciarlo la Fondazione che prende il suo nome, il manoscritto venne scoperto tra le carte della casa di Burgess sul lago di Bracciano, quindi alla morte del romanziere nel 1993 fu trasferito a Manchester, sede della fondazione, con tutto l’archivio: recentemente è saltato fuori, è stato catalogato e si avvia a una prossima pubblicazione. La fama di Arancia meccanica, edito nel 1962, non è solo letteraria, ma sopra tutto cinematografica: Stanley Kubrick nel 1971 ne trasse il cult omonimo, veicolo e spia insieme della violenza metropolitana perpetrata da Alex (Malcom McDowell) e i Drughi.
Dopo stupri, pestaggi e sadismo vario ed eventuale, il giovane subirà la rieducazione coatta da parte dello Stato, con tanto di Cura Ludovico nata nella distopia più crudele per la “redenzione” dei delinquenti abituali ed entrata di diritto nell’immaginario collettivo: violenza chiama violenza, la pena viene somministrata per via oculare, e ogni riferimento al seriale binge-watching attuale è puramente sorprendente.
Le conseguenze dell’uscita del film nel Regno Unito – negli Usa viceversa fu un successo anche commerciale, e si guadagnò la nomination quale miglior film agli Oscar nel 1972 – furono imponderabili, gli episodi di emulazione delle infami gesta dei Drughi non si contarono, e alcuni consigli comunali inglesi lo misero al bando. Non andò meglio al suo autore: Kubrick e famiglia vennero addirittura minacciati di morte, e il regista infine ottenne dalla Warner Bros il ritiro del film dalle sale inglesi, dove venne distribuito solo dopo la sua morte nel 1999.
Nel resto del mondo la misura prevalente per far fronte alla carica virale dell’adattamento è stato il divieto ai minori: in Italia è stato abbassato a 14 anni solo nel 1998, per dire della tenuta dello scandalo. Che conosce oggi un’inedita tappa con A Clockwork Condition, un testo di circa duecento pagine che s’interrompe all’improvviso, tanto da palesarsi incompleto, e raccoglie pensieri dello stesso Burgess sulla condizione umana. In “parte riflessione filosofica e in parte autobiografia” dell’autore, promette il direttore dell’International Anthony Burgess Foundation, Andrew Biswell, “getterebbe nuova luce su Burgess, Kubrick e le controversie sul celebre libro”, risolvendosi tra fogli dattiloscritti, note e schemi in un compendio “sul crimine, la punizione e i possibili effetti corruttivi della cultura visuale”, in particolare film e televisione.
Aggiornando la lezione, solo apparentemente immorale, di Arancia meccanica, che mai domo né soddisfatto continuò a revisionare fino alla morte, con The Clockwork Condition, scritto tra il 1972 e il 1973 e citato unicamente in un’intervista di due anni più tardi, Burgess prende consapevolezza dei propri limiti – “Il saggio era oltre le proprie capacità, giacché era un romanziere e non un filosofo” – e decide di mollare il colpo, ma non prima di averne inflitti di devastanti agli anni Settanta, descritti quali “un inferno meccanico”, con gli esseri umani ridotti a meri ingranaggi, “non più naturalmente sviluppati, non più organicamente umani”.
Intenzionalmente suddiviso in sezioni di chiara derivazione dantesca, ovvero Infernal Man, l’uomo intrappolato in un mondo di macchine, e Purgatorial Man, quello che tenta la fuga, il lavoro rivela anche l’origine del titolo A Clockwork Orange, che Burgess cercò disperatamente di applicare a qualcosa per un ventennio e infine affibbiò a un’opera “sul lavaggio del cervello”.
“Sentii quell’espressione in un pub londinese, per bocca di un ottantenne Cockney che parlava di qualcuno ‘matto’ (queer in originale, ndr) come un’arancia meccanica”, e rimase avvinto dalla miscela di surreale e popolare, facendone quindi uno dei titoli più icastici e fortunati della letteratura mondiale. Mentre oggi al Design Museum di Londra inaugura un’imponente mostra di Kubrick, che include materiale di Arancia Meccanica, la comparsa del seguito di Burgess rinverdisce la loro dialettica: Stanley prese il libro e ne dispose a propria immagine e somiglianza, Anthony non gradì, del resto, esistono due arance uguali?

La Stampa 26.6.19
Sudan
Un milione di manifestanti in piazza contro i militari
di Lorenzo Simoncelli


Non si ferma la marcia dei manifestanti per le strade di Khartoum, capitale del Sudan, che chiedono a gran voce le dimissioni della Giunta militare attualmente al potere dopo la destituzione dell’ex Presidente Omar al-Bashir. Attivisti e opposizioni l’hanno ormai definita «la marcia del milione», dato che si stima che, i manifestanti arrivati da tutto il Paese con ogni mezzo, abbiano incrementato notevolmente il numero di quanti sfilano per le strade della capitale da circa due settimane. «È un momento storico, siamo pronti ad aspettare anche 100 anni, i militari stanno solo perdendo tempo» ha detto un manifestante alla Bbc. Per la prima volta nella storia del Paese è arrivato l’appoggio anche da parte della magistratura, scesa in piazza dicendosi «pronta a lottare per l’indipendenza».
Abdel Fattah Burhan, leader della Commissione militare, attualmente alla guida del Paese, a seguito delle continue pressioni popolari ha incontrato i rappresentanti delle principali sigle dell’opposizione che chiedono una rapida transizione di potere democratica. Tante ancora le differenze da limare. Al momento l’unica concessione della Giunta prevede la decisione di mettere da parte altre figure considerate troppo vicine all’ex Presidente al-Bashir. Si tratta di tre generali dell’esercito, Omar Zain al-Abideen, Jalal al-Deen al-Sheik e Al-Tayeb Babakar Ali Fadeel, accusati anche di avere un approccio all’Islam eccessivamente rigido.
Ad inizio settimana, il Presidente egiziano Al-Sisi, nella sua funzione di Presidente di turno dell’Unione Africana, aveva riunito i principali Capi di Stato del Continente per decidere come muoversi, scegliendo una via conservativa, concedendo una finestra temporale ulteriore di due settimane per risolvere l’impasse internamente. Rispetto a due settimane fa, la mobilitazione civile ha dato un grande contributo a fare piazza pulita non solo di al-Bashir, ma anche dei suoi principali alleati, molti dei quali accusati di crimini contro l’umanità nei 30 anni al potere. Manca, tuttavia, una figura alternativa credibile, capace di coordinare le proteste di piazza e questo non aiuta a velocizzare la transizione. Anche se ormai sembra difficile che la Giunta militare possa rimanere in carica per due anni prima di indire nuove elezioni. In attesa di capire i prossimi sviluppi, è emerso da alcune fonti russe, che se non fosse intervenuto l’esercito, l’ex Presidente al-Bashir, sarebbe stato pronto ad intervenire con le maniere forti sui manifestanti. Attualmente si trova detenuto nel carcere di Kobar.

La Stampa 26.4.19
Quel velo che confonde le tre grandi religioni
Il sondaggio. Per 2 italiani su 3 il trasferimento dei ragazzi all’estero è una minaccia pari o superiore all’arrivo dei migranti
di Federico Fubini


Una donna, velata di nero dalla testa ai piedi, sbuca dalle strade di Mea Shearim, il quartiere haredi (ultraortodosso) di Gerusalemme. Entra in Città Vecchia dalla porta di Damasco e si ferma davanti al portone del monastero greco-ortodosso sulla via Dolorosa. Da dietro è quasi impossibile dire se sia una suora, una donna musulmana o un’ebrea ortodossa.
Negli ultimi vent’anni è sempre più frequente vedere donne ebree e musulmane nascondersi sotto strati di scialli, tuniche e veli che richiamano le monache ortodosse per aderire a regole religiose di modestia. La nuova mostra all’Israel Museum di Gerusalemme, Veiled Women of the Holy Land: New Trends in modest dress (Donne velate della Terra Santa. Nuove tendenze nell’abito modesto), racconta questa tendenza con oggetti, interviste e conversazioni condotte dalla curatrice No’am Bar’am-Ben Yossef sul significato del velo nel contesto interculturale israeliano. «Per 4 anni - racconta - ho cercato di individuare somiglianze e significati religiosi, politici, di protesta o provocazione di questo look estremo. Ci vuole una grande sensibilità per ottenere la fiducia delle donne, perché si aprano».
Confessioni video
L’esposizione solleva molte questioni: gli strati che coprono il corpo della donna proteggono o riflettono secoli di oppressione? E quali reazioni provocano? Oltre a manichini, fotografie e testi, la mostra cerca di rispondere alle domande con una video-installazione dell’artista Ari Teperberg, You Need to be Ready to Let Go of What the Eye Sees (Devi essere pronto a lasciar andare ciò che l’occhio vede). Se le similitudini derivano dal desiderio comune di assomigliare alle matriarche - Sarah, Rebecca, Rachele e Lea per l’ebraismo, le mogli di Maometto per l’islam e la Vergine Maria per il cristianesimo - quello che emerge dalla mostra sono soprattutto contraddizioni e paradossi. Anche all’interno dello stesso gruppo religioso. «Siamo tutti esseri umani con le nostre debolezze. Nel mio monastero - racconta una suora nel video in mostra - siamo in venti e sempre in conflitto. Alcune dormono con il velo, io lo tolgo. Questo mi rende meno suora delle altre? Certo che no. Vivere in convento è importante perché insegna a rispettare le altre».
L’«halakha», la legge religiosa ebraica, obbliga le donne sposate a coprire il capo ma non l’intero corpo. Tuttavia negli anni Duemila, dopo la seconda Intifada, alcune donne «haredi» hanno cominciato a indossare tuniche sempre più lunghe e scure. «Finché una donna si mantiene modesta e fa attenzione a non attirare lo sguardo degli uomini, eccetto suo marito - spiega un’ebrea ortodossa -, li salva, impedendo loro di peccare. Mi sento come se Dio mi avvolgesse con il suo amore, come se camminassi scortata».
A Mea Shearim, dove ci sono un’ottantina di famiglie in cui le donne si velano e la tendenza è in crescita, la loro comparsa ha suscitato reazioni violente. L’establishment «haredi» le percepisce come ribelli e la modestia diventa paradossalmente provocazione. Spesso i mariti, in imbarazzo, negoziano un compromesso, ottenendo che le mogli si coprano completamente solo quando escono da sole. In alcuni casi il velo è stato motivo di rottura familiare. «Nel momento in cui ho indossato il niqab ero sia eccitata sia spaventata. Temevo che la mia vita finisse ma ora le persone mi trattano con rispetto. Mi sento al sicuro come una perla dentro l’ostrica». «Ciascuno di noi - fa notare la curatrice - ha un velo virtuale sugli occhi, quello del pregiudizio. La mostra è un invito a calarlo e ascoltare senza giudicare».

Corriere 26.4.19
La fuga dei giovani è la nuova paura


Alcuni dei governi europei più ostili all’immigrazione hanno dietro di sé elettori impensieriti da un fenomeno un po’ diverso: i loro amici e i loro familiari che, anno dopo anno, gettano la spugna e vanno all’estero. Per numeri crescenti di italiani, polacchi, ungheresi — ma anche di spagnoli o rumeni — l’emigrazione dei propri connazionali preoccupa più dell’arrivo degli stranieri. Nel caso dell’Italia, sono due su tre gli abitanti che vedono nella fuga dei propri giovani all’estero una minaccia superiore o almeno altrettanto grande rispetto all’immigrazione.
Qualcosa si sta muovendo in profondità negli umori del Paese e dell’intera fascia di fragilità sociale lungo il fianco sud e orientale dell’Unione europea. Ma la politica, di governo e opposizione, per ora non sembra in grado di capirlo e non riesce a dar voce alle nuove paure dei cittadini. Almeno questo emerge in un sondaggio che, per la prima volta, pone agli elettori in Italia e in altri tredici Paesi dell’Unione una domanda impensabile fino a pochi anni fa: è più l’immigrazione o l’emigrazione che li tiene svegli la notte? L’indagine è condotta fra fine gennaio e fine febbraio su 46 mila europei (dei quali 5 mila italiani) da YouGov per conto dello European Council on Foreign Relations. E i risultati fanno emergere ragioni di stress fra gli elettori che non rispecchiano gli slogan della campagna elettorale per le europee. In Italia il 32% degli elettori è più preoccupato dall’emigrazione dei connazionali, mentre solo il 24% lo è per l’ingresso di sempre nuovi stranieri. In Romania, che vede ormai un quinto della popolazione all’estero, il rapporto è di 55% a 10%. In Ungheria il 39% è più impensierito dall’emigrazione dei propri figli e solo il 20% lo è dall’immigrazione: poco importa che dell’ostilità agli stranieri Fidesz, il partito al potere, faccia ormai la propria ideologia ufficiale. Persino in Spagna, malgrado anni di ripresa, coloro che sono più impensieriti dalla fuga all’estero dei propri connazionali sono il doppio rispetto all’altro gruppo. E in Polonia, anch’essa guidata da un governo dagli accenti xenofobi, la dinamica è simile.
È come se gli elettori in Italia e altrove stessero cercando di dire ai loro politici che le linee di frattura non sono quelle fra sovranisti e liberali di cui molti parlano. Emergono paradossi invisibili al dibattito fra partiti, assenti dai talk show della sera. Gli stessi leader che in Europa si sono imposti promettendo di «chiudere le frontiere» oggi si vedono chiedere dai cittadini di fare esattamente quello. Solo, per la ragione opposta: impedire ai giovani di andarsene altrove, tenerli vicino a sé. Il 52% degli italiani, il 50% dei polacchi e il 49% degli ungheresi si dichiara a favore di «misure che impediscano ai connazionali di lasciare il Paese per lunghi periodi come risposta all’emigrazione». Vorrebbero fermarli, chiuderli dentro, non essere lasciati indietro in periferie urbane sempre più popolate di anziani e di appartamenti vuoti.
I dati Istat
Secondo l’Istat sono 738 mila gli italiani emigrati all’estero fra il 2008 e il 2017
Gli ultimi dieci anni evidentemente hanno lasciato il segno nella coscienza degli elettori. Secondo l’istituto statistico Istat sono 738 mila gli italiani emigrati all’estero fra il 2008 e il 2017. Secondo dati di Eurostat riportati dal Centre for European Policy Studies, il 3,1% della popolazione italiana adulta vive e lavora altrove nel mondo. È praticamente certo però che i numeri reali siano molto più alti, per il semplice fatto che molti italiani non cancellano la residenza prima di espatriare e dunque non sono catturati nelle statistiche. Nel 2017 secondo l’Istat 14.200 sono andati in Germania, ma l’istituto statistico tedesco Destatis ne ha registrati in arrivo quattro volte e mezzo di più. Sempre secondo l’Istat 22 mila italiani sono andati in Gran Bretagna due anni fa, ma il governo di Londra ne ha contati più del doppio. Per la Spagna, i numeri degli emigrati italiani del 2017 sono ottomila fotografati dall’Istat e più di ventimila contati dalle autorità a Madrid.
Anni di opportunità scarse e malpagate — o di maggiore dignità sul lavoro altrove — stanno scavando così un trauma non solo nei giovani: anche negli amici e nei genitori che restano ad aspettarli. Rispondere proibendo i deflussi non ha mai funzionato e infatti nel 1989 innescò il collasso l’intero blocco del socialismo reale. Ma mettere la testa nella sabbia di fronte alle paure reali degli italiani e di tanti milioni di europei non è sicuramente una ricetta migliore.

Repubblica 26.4.19
In vista delle elezioni di domenica, è diventato virale il video di un lavoratore che parteggia per Abascal, leader del partito filofranchista. Non è il solo. E chi sceglie la sinistra si vergogna
L’operaio e la destra
Viaggio nella periferia di Madrid alla ricerca degli elettori di Vox “Difende le donne e l’unità spagnola”
di Concita De Gregorio


MADRID Non si parla d’altro. Nei bar di periferia, in coda alle poste, persino sul marciapiedi aspettando il verde. Hai visto il video?, chiede lui a lei. Sì, certo, mi è arrivato su Facebook: forte, no? Un tizio alle spalle della coppia si inserisce nel dialogo: ma sarà autentico? Claro que sì.
Certo. Sicuri? Non sarà una trovata elettorale? No, non lo è.
Il video di cui tutti parlano, in Spagna, a tre giorni dal voto, è l’intervista che un reporter di Ctxt (autorevole giornale online fondato da Miguel Mora e, tra gli altri, da Soledad Gallego-Díaz, attuale direttrice de El País) ha fatto a un operaio, l’altro ieri.
L’uomo, piegato sotto il peso di un grande oggetto imballato, senza fermarsi — continuando a camminare, mentre lavora — dice: «Io voglio solo che vinca Vox». Poi dice anche: «Mia moglie, che lavora in un supermercato, anche lei vota Vox senza dubbio: perché è l’unico partito che protegge le donne, è quello che promuove l’ergastolo per chi le aggredisce».
Santiago Abascal, il leader del partito di estrema destra, lo ha condiviso sui suoi profili social con questo commento: «Ecco cosa succede quando un progressista tocca il naso a un operaio». Mezzo milione di condivisioni in mezza giornata.
Willy Veleta, il giornalista che ha realizzato l’intervista, ha dovuto cancellarsi da Twitter e da altri social. Lo bombardavano di insulti e minacce, gravi.
Quattro ore dopo la moltiplicazione epidemica del video dell’operaio ne è comparso un altro, in Rete. Un camionista, questa volta. Un video-selfie. Dice: «Con tutti gli studi che avete fatto avete il cervello come una noce. Gli operai secondo voi stanno col coda? (Pablo Iglesias, leader di Podemos, ndr). Ma andate a dormire, dai. Andate in spiaggia, che è meglio. Evviva il presidente Santi (Abascal, Santi per Santiago)».
Tema, quindi. Compito del giorno per chi voglia provare a capire cosa sta succedendo in Spagna, dove governa il Psoe di Pedro Sánchez e dove domenica si vota. Vox e il voto degli ultimi, delle periferie, delle classi sociali più povere. Vox e le donne. Il partito di estrema destra, neo-franchista, ha già vinto e governa in Andalusia, con il Partito Popolare e Ciudadanos. Il suo leader, Abascal, non ha partecipato ai confronti pubblici degli ultimi giorni. Non poteva, secondo le regole dei dibattiti televisivi, non avendo rappresentanza parlamentare. Alle ultime elezioni politiche, quattro anni fa, ha infatti avuto solo lo 0,5 percento. I sondaggi oggi lo accreditano al 12, ma la voce del popolo dice che arriverà oltre, sopra il 15: dice che potrebbe, addirittura, superare il Partito Popolare. Ieri sera Abascal era a Valencia, in comizio: la coda per entrare in sala pareva quella per il concerto di una rockstar.
Stasera chiude la campagna a Madrid.
C’è un modo sicuro, in questo Paese, per sapere come stanno le cose: andare a chiedere a chi ha già votato. Qui difatti chi non può andare alle urne la domenica (per qualsiasi motivo, anche per una gita di piacere fuori porta) ha la possibilità di andare alle poste e votare per corrispondenza. Un milione e trecentomila persone, su 24 milioni di votanti, lo hanno fatto alle ultime elezioni. Molti di più promettono di essere questa volta, tanto che la possibilità di votare per correo è stata estesa di due giorni, fino a stasera. Le code negli uffici postali occupano interi isolati. Le foto sono sulle prime pagine dei giornali, dei siti online: il 40 percento di indecisi sembra avviato a decidere.
Quindi vediamo. Proprio in compagnia di Willy Veleta — che molti riconoscono, «Sei tu quello dei video?» — andiamo a Vallecas, quartiere popolare “fuori raccordo”, fortissima presenza di immigrati, zona operaia storicamente di sinistra. Fra chi ha già votato o si appresta a votare, è interessante registrare che chi sceglie la destra lo afferma con orgoglio, si lascia volentieri filmare. Chi ha scelto la sinistra prima si nega, poi dietro insistenza lo “confessa” ma chiede di non essere ripreso. Accade cioè il contrario di quel che — anche dalla fallacia dei sondaggi — abbiamo imparato negli anni: il voto a destra è ora dichiarato con fierezza, quello per il Psoe o per Podemos malvolentieri e sottovoce. Molte le donne tra le elettrici di Vox, all’uscita dall’ufficio postale. Tre amiche, Pilar, Gloria e Ana. Votano per Vox: «Abbiamo bisogno di un cambio, vogliamo più aiuti alla gente di Spagna, vogliamo gli aiuti alle piccole e medie imprese. Non è vero che questo partito sia contro le donne, al contrario: vuole condanne più dure per chi maltratta le donne», dicono. Soprattutto: apprezzano il piglio di Abascal, l’uomo che cavalca i purosangue a pelo, senza sella, che ama le corride, che porta la pistola.
«Quei due sembrano due commessi del Corte Inglés » .
Quei due sono Pablo Casado, il leader del Partito Popolare, e Alberto Rivera, presidente di Ciudadanos. La “ destrucola codarda”, secondo Abascal. Due commessi di un grande magazzino. Anonimi, scambiabili. “ I gemelli”, li chiamano anche.
Una ragazza con un brillantino piercing al naso, Laura, 26 anni, disoccupata: « Ho votato Vox perché chiede il permesso di maternità di sei mesi » . Non pensi che sia una via indiretta per scoraggiare le donne che lavorano? « Per nulla. I neonati hanno bisogno delle madri e non è questo il problema: le donne che lavorano non sono state aiutate da nessuno, in questi anni, e comunque il lavoro non c’è » . Escono ora madre e figlia, tutte e due si chiamano Macarena. La figlia, 30 anni, ha votato Pp, la madre ha votato Vox: « Perché è dalla parte delle donne, perché Abascal è uno che sa quello che vuole, perché la Spagna è una e deve restare unita » . La questione catalana, grande motore della campagna elettorale: l’hispanidad, l’identità e la fierezza della bandiera della nuova- antica destra, contro le ragioni indipendentiste.
Mentre in Rete continua a moltiplicarsi la condivisione del video dell’operaio che vuole “ andare tranquillo alla corrida, e Vox è per la tauromachia” nella vita reale, in piazza, in fila alle poste, al banco del verduraio e alla formata dell’autobus, in periferie, sono le donne, soprattutto, quelle che con fierezza rivendicano di votare, di aver già votato per Vox. Un partito contrario all’aborto, al divorzio. Ci sono i sondaggi, i giornali, ci sono i dibattiti tv. Poi c’è la strada, conviene stare a sentire.
Oggi Abascal chiude la campagna elettorale a Madrid, Plaza de Colón. A casa del nemico. Nei luoghi dove Podemos è nata, dalla protesta degli indignati. Conviene non fidarsi dei talk show, davvero. La rumba della strada dice altro.
Conviene andare a vedere.


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