Repubblica 24.2.19
Casta Diva
Ho già vinto il mio Oscar vendicando noi indios
Intervista con Yalitza Aparicio di Laura Tillman
Yalitza
Aparicio, la protagonista di Roma di Alfonso Cuarón, è seduta su una
panchina nell’assolato Parque México, a poche traverse dal quartiere di
Città del Messico che dà il titolo al film. Ha scelto il parco per
questa chiacchierata perché, dice, le ricorda la sua cittadina natale.
Aparicio, che ha venticinque anni, si era appena laureata in Scienze
dell’educazione e viveva proprio a Tlaxiaco, ventimila abitanti tra i
monti dell’Oaxaca, quando per caso sostenne il provino per il ruolo
principale in Roma, quello della tata Cleo; oggi è additata come modello
per le donne e le popolazioni indigene del Messico e la critica ancora
parla della sua interpretazione. In giro la riconoscono continuamente,
ora? « Qui? No » , risponde. « Mi riconoscono se esco in abiti eleganti,
ma se sono al naturale, no. Molti non hanno ancora visto il film, e
sullo schermo sembriamo diversi da come siamo di persona». Il parco
ferve di attività: chi fa jogging, chi passeggia con dieci o dodici
cagnolini al guinzaglio, chi telelavora ai tavolini dei caffè. Yalitza
Aparicio ci è venuta la prima volta nel corso delle riprese, due anni
fa: «Qui mi sento più libera rispetto a quando sono circondata dai
palazzi. Sentirmi rinchiusa non mi è mai piaciuto » . In pochi minuti,
però, viene circondata da qualcos’altro: i fan. Compaiono alla
spicciolata, osservandola da lontano, poi si avvicinano per stringerle
la mano e farsi un selfie con lei. Complimenti, Yali... film pazzesco.
Io sono cresciuto qui, mi ha riportato indietro. Anch’io avevo una tata.
Ho pianto tipo cinque volte quando l’ho visto.
In Messico Roma è
qualcosa di più del progetto di un regista famoso: ha dato il via a un
dibattito sulla disuguaglianza, sul trattamento dei lavoratori domestici
e su chi calca di più i red carpet in un paese dove le donne amerindie
non appaiono sulle riviste, tanto meno nelle dirette tv dei premi di
Hollywood. A dicembre Yalitza è apparsa in copertina su Vogue México:
una svolta, nella storia della rivista, per una donna indigena. Essere
un’eccezione però non le basta: vorrebbe usare la sua influenza di star
emergente a beneficio di un futuro più inclusivo nel suo paese. Segnali
di cambiamento si erano visti anche prima della messa in onda del film
su Netflix. Sempre in dicembre la Corte Suprema messicana ha stabilito
che gli oltre due milioni di lavoratori domestici, in maggioranza donne,
devono avere accesso al welfare nazionale; e il nuovo presidente,
Andrés Manuel López Obrador, ha promesso impegno nella lotta alla
miseria e all’oppressione dei popoli indigeni. Cuarón non aveva
l’intento di girare un film politico, ma ne ha sposato gli esiti.
Qualche settimana fa, a un’anteprima della Cineteca Nacional di Città
del Messico, ha chiamato sul palco un’attivista per i diritti dei
lavoratori domestici: “Tutte le colf messicane sono Libo, ci
riconosciamo in lei”, ha detto Marcelina Bautista riferendosi a Liboria
Rodríguez, la tata d’infanzia che ha ispirato al regista il personaggio
di Cleo. Aparicio intanto, pur celebrata, è anche diventata oggetto di
aggressioni razziste online. Da principio l’hanno ferita; poi si è
concentrata sui tanti che la definiscono un modello e le inviano foto e
disegni. «Però non sono il volto del Messico», aggiunge, perché il paese
ha molte facce.
Nel parco Yalitza Aparicio siede ancora al sole.
La sua migliore amica nella vita e nel film, Nancy García García (che
interpreta Adela, la cuoca) le ha detto che ha l’aria stanca; e lei si
sente stanca davvero. Lo scorso agosto è stata a Venezia per la prima di
Roma, e lì ha visto il film la prima volta. A mezz’ora dall’inizio si è
messa a piangere e non ha smesso fino ai titoli di coda. Dopo è partito
un vortice di viaggi a Londra, San Francisco, New York, Toronto, Los
Angeles.
Ma il vero viaggio di Yalitza era iniziato due anni
prima. Il direttore di un centro culturale di Tlaxiaco aveva invitato
sua sorella maggiore, Edith, a un misterioso casting. Si sarebbe poi
rivelato quello per il cine- ritratto di Cleo e della Città del Messico
anni 70 pensato da Cuarón, che cercava la sua protagonista da mesi e
aveva visionato i provini di oltre tremila donne, nessuna delle quali
gli pareva quella giusta. Ma prima dell’audizione Edith Aparicio, che
era incinta, chiese a Yalitza di provarci lei, così avrebbe potuto
raccontarle tutto. Il regista la conobbe a una seconda chiamata.
«Cominciavo a disperare, e all’improvviso arriva Yalitza: un po’ timida,
ma molto sincera», ricorda al telefono. Lui voleva ricreare la
sensibilità di Libo, la stessa empatia nel rapporto con gli altri.
Quando disse ad Aparicio che voleva affidarle la parte, lei vacillò. Si
era appena laureata, doveva parlarne con i suoi. Poco dopo Yalitza lo
richiama: c’è tempo prima di fare domanda per degli incarichi di
insegnamento. « “ Boh” mi fa “ direi che posso venire” » , ricorda
Cuarón. « “ Non ho niente di meglio da fare” ». Per prepararsi alle
riprese il regista chiede a lei e a Nancy García di improvvisare delle
scene, e rimane stupefatto dalla rapidità con cui le due si mettono a
recitare Cleo e Adela, anziché replicare un qualunque scambio di battute
dopo una lezione in facoltà. «Quella che si vede nel film non è
Yalitza, quella è Cleo » , dice Cuarón. « Lei lo ha costruito, quel
personaggio, mi spiego? E con abbondanza di particolari». Le due attrici
non hanno mai visto un copione, neanche un intreccio. Aparicio attinge
al mondo complesso del set, basato sui ricordi d’infanzia di Cuarón, e
alla sua personale visione del personaggio, fondata in parte sulle
esperienze della madre, collaboratrice domestica; e si cala nel ruolo al
punto che quando viene colpita da una tragedia, la sua Cleo soffre con
un realismo straziante.
Sul set Cuarón ha creato una realtà a cui
Yalitza Aparicio potesse dare vita; adesso lei spera di creare in
Messico una realtà nuova, dimostrando che le donne amerindie sono in
grado di raggiungere i livelli più alti in qualunque campo. È
un’aspirazione che incontra parecchi ostacoli: oltre il settanta per
cento della popolazione amerindia messicana vive in povertà, e le
discriminazioni — sul lavoro, nell’istruzione e nel sistema giudiziario —
sono all’ordine del giorno. Con la nomination all’Oscar, dove stanotte è
candidata come miglior attrice accanto, tra le altre, a Lady Gaga e
Glenn Close, Yalitza è certa di aver «infranto lo stereotipo che siccome
siamo indigeni, il colore della nostra pelle ci impedisce di fare certe
cose. La nomination ha dato un bello schiaffo a parecchie idee
preconcette: apre delle porte ad altri — a tutti, anzi — e può
rafforzare la convinzione che quelle cose, adesso, possiamo farle». Non è
certa, invece, che continuerà a recitare. Da insegnante si rende conto
che il cinema può trasmettere messaggi importanti: plasmare la mente e
il cuore dei bambini è molto più facile che cambiare le credenze
radicate degli adulti, dice, eppure è rimasta attonita nello scoprire
che Roma sta facendo proprio questo. «Alla fine, non è un mestiere molto
diverso da quello che volevo fare. Ho capito che il cinema può educare
persone di tutte le età, e in modo efficace».