lunedì 4 marzo 2019

Repubblica 24.2.19
Casta Diva
Ho già vinto il mio Oscar vendicando noi indios
Intervista con Yalitza Aparicio di Laura Tillman


Yalitza Aparicio, la protagonista di Roma di Alfonso Cuarón, è seduta su una panchina nell’assolato Parque México, a poche traverse dal quartiere di Città del Messico che dà il titolo al film. Ha scelto il parco per questa chiacchierata perché, dice, le ricorda la sua cittadina natale. Aparicio, che ha venticinque anni, si era appena laureata in Scienze dell’educazione e viveva proprio a Tlaxiaco, ventimila abitanti tra i monti dell’Oaxaca, quando per caso sostenne il provino per il ruolo principale in Roma, quello della tata Cleo; oggi è additata come modello per le donne e le popolazioni indigene del Messico e la critica ancora parla della sua interpretazione. In giro la riconoscono continuamente, ora? « Qui? No » , risponde. « Mi riconoscono se esco in abiti eleganti, ma se sono al naturale, no. Molti non hanno ancora visto il film, e sullo schermo sembriamo diversi da come siamo di persona». Il parco ferve di attività: chi fa jogging, chi passeggia con dieci o dodici cagnolini al guinzaglio, chi telelavora ai tavolini dei caffè. Yalitza Aparicio ci è venuta la prima volta nel corso delle riprese, due anni fa: «Qui mi sento più libera rispetto a quando sono circondata dai palazzi. Sentirmi rinchiusa non mi è mai piaciuto » . In pochi minuti, però, viene circondata da qualcos’altro: i fan. Compaiono alla spicciolata, osservandola da lontano, poi si avvicinano per stringerle la mano e farsi un selfie con lei. Complimenti, Yali... film pazzesco. Io sono cresciuto qui, mi ha riportato indietro. Anch’io avevo una tata. Ho pianto tipo cinque volte quando l’ho visto.
In Messico Roma è qualcosa di più del progetto di un regista famoso: ha dato il via a un dibattito sulla disuguaglianza, sul trattamento dei lavoratori domestici e su chi calca di più i red carpet in un paese dove le donne amerindie non appaiono sulle riviste, tanto meno nelle dirette tv dei premi di Hollywood. A dicembre Yalitza è apparsa in copertina su Vogue México: una svolta, nella storia della rivista, per una donna indigena. Essere un’eccezione però non le basta: vorrebbe usare la sua influenza di star emergente a beneficio di un futuro più inclusivo nel suo paese. Segnali di cambiamento si erano visti anche prima della messa in onda del film su Netflix. Sempre in dicembre la Corte Suprema messicana ha stabilito che gli oltre due milioni di lavoratori domestici, in maggioranza donne, devono avere accesso al welfare nazionale; e il nuovo presidente, Andrés Manuel López Obrador, ha promesso impegno nella lotta alla miseria e all’oppressione dei popoli indigeni. Cuarón non aveva l’intento di girare un film politico, ma ne ha sposato gli esiti. Qualche settimana fa, a un’anteprima della Cineteca Nacional di Città del Messico, ha chiamato sul palco un’attivista per i diritti dei lavoratori domestici: “Tutte le colf messicane sono Libo, ci riconosciamo in lei”, ha detto Marcelina Bautista riferendosi a Liboria Rodríguez, la tata d’infanzia che ha ispirato al regista il personaggio di Cleo. Aparicio intanto, pur celebrata, è anche diventata oggetto di aggressioni razziste online. Da principio l’hanno ferita; poi si è concentrata sui tanti che la definiscono un modello e le inviano foto e disegni. «Però non sono il volto del Messico», aggiunge, perché il paese ha molte facce.
Nel parco Yalitza Aparicio siede ancora al sole. La sua migliore amica nella vita e nel film, Nancy García García (che interpreta Adela, la cuoca) le ha detto che ha l’aria stanca; e lei si sente stanca davvero. Lo scorso agosto è stata a Venezia per la prima di Roma, e lì ha visto il film la prima volta. A mezz’ora dall’inizio si è messa a piangere e non ha smesso fino ai titoli di coda. Dopo è partito un vortice di viaggi a Londra, San Francisco, New York, Toronto, Los Angeles.
Ma il vero viaggio di Yalitza era iniziato due anni prima. Il direttore di un centro culturale di Tlaxiaco aveva invitato sua sorella maggiore, Edith, a un misterioso casting. Si sarebbe poi rivelato quello per il cine- ritratto di Cleo e della Città del Messico anni 70 pensato da Cuarón, che cercava la sua protagonista da mesi e aveva visionato i provini di oltre tremila donne, nessuna delle quali gli pareva quella giusta. Ma prima dell’audizione Edith Aparicio, che era incinta, chiese a Yalitza di provarci lei, così avrebbe potuto raccontarle tutto. Il regista la conobbe a una seconda chiamata. «Cominciavo a disperare, e all’improvviso arriva Yalitza: un po’ timida, ma molto sincera», ricorda al telefono. Lui voleva ricreare la sensibilità di Libo, la stessa empatia nel rapporto con gli altri. Quando disse ad Aparicio che voleva affidarle la parte, lei vacillò. Si era appena laureata, doveva parlarne con i suoi. Poco dopo Yalitza lo richiama: c’è tempo prima di fare domanda per degli incarichi di insegnamento. « “ Boh” mi fa “ direi che posso venire” » , ricorda Cuarón. « “ Non ho niente di meglio da fare” ». Per prepararsi alle riprese il regista chiede a lei e a Nancy García di improvvisare delle scene, e rimane stupefatto dalla rapidità con cui le due si mettono a recitare Cleo e Adela, anziché replicare un qualunque scambio di battute dopo una lezione in facoltà. «Quella che si vede nel film non è Yalitza, quella è Cleo » , dice Cuarón. « Lei lo ha costruito, quel personaggio, mi spiego? E con abbondanza di particolari». Le due attrici non hanno mai visto un copione, neanche un intreccio. Aparicio attinge al mondo complesso del set, basato sui ricordi d’infanzia di Cuarón, e alla sua personale visione del personaggio, fondata in parte sulle esperienze della madre, collaboratrice domestica; e si cala nel ruolo al punto che quando viene colpita da una tragedia, la sua Cleo soffre con un realismo straziante.
Sul set Cuarón ha creato una realtà a cui Yalitza Aparicio potesse dare vita; adesso lei spera di creare in Messico una realtà nuova, dimostrando che le donne amerindie sono in grado di raggiungere i livelli più alti in qualunque campo. È un’aspirazione che incontra parecchi ostacoli: oltre il settanta per cento della popolazione amerindia messicana vive in povertà, e le discriminazioni — sul lavoro, nell’istruzione e nel sistema giudiziario — sono all’ordine del giorno. Con la nomination all’Oscar, dove stanotte è candidata come miglior attrice accanto, tra le altre, a Lady Gaga e Glenn Close, Yalitza è certa di aver «infranto lo stereotipo che siccome siamo indigeni, il colore della nostra pelle ci impedisce di fare certe cose. La nomination ha dato un bello schiaffo a parecchie idee preconcette: apre delle porte ad altri — a tutti, anzi — e può rafforzare la convinzione che quelle cose, adesso, possiamo farle». Non è certa, invece, che continuerà a recitare. Da insegnante si rende conto che il cinema può trasmettere messaggi importanti: plasmare la mente e il cuore dei bambini è molto più facile che cambiare le credenze radicate degli adulti, dice, eppure è rimasta attonita nello scoprire che Roma sta facendo proprio questo. «Alla fine, non è un mestiere molto diverso da quello che volevo fare. Ho capito che il cinema può educare persone di tutte le età, e in modo efficace».