lunedì 4 marzo 2019

Corriere 25.2.19
I negoziati con la Cina
La via della Seta è più vicina: l’invito all’Italia di Xi Jinping
di Federico Fubini


La firma con cui l’Italia, prima fra le prime dieci economie del mondo, aderisce alla cosiddetta Via della Seta, che dal 2013 è il grande progetto Xi Jinping, potrebbe essere pronto per il 22 o 23 marzo.
L’ accordo per ora non c’è, ma non sembra affatto lontano e potrebbe essere pronto per il 22 e 23 marzo. In quei due giorni, salvo cambi di programma ormai improbabili, Xi Jinping sarà in visita ufficiale a Roma per poi proseguire il suo viaggio europeo verso Parigi. Il presidente cinese arriva per colloqui politici al massimo livello, per confermare l’importanza degli investimenti già da quasi tredici miliardi di Pechino in Italia ma in agenda potrebbe entrare anche un punto più specifico: la firma del memorandum d’intesa con cui l’Italia, prima fra le prime dieci economie del mondo, aderisce alla cosiddetta Via della Seta che dal 2013 è il grande progetto di proiezione globale di Xi.
«La discussione sul memorandum è a uno stadio molto avanzato» conferma Michele Geraci, il sottosegretario allo Sviluppo economico che sta portando avanti il negoziato e dal 2008 è vissuto per dieci anni in Cina con ruoli principalmente da accademico. L’accordo, al quale guardano con attenzione crescente l’amministrazione americana e vari governi europei, per il momento non è ancora chiuso e non è del tutto certo che lo sarà per l’arrivo di Xi a Roma. «Il memorandum non è stato definito e non lo sarà fino all’annuncio. Stiamo formalizzando alcune parole, ma non credo esistano dubbi sui contenuti», dice Geraci. «C’è la decisione politica di portare avanti la trattativa e sono rimasti solo alcuni punti aperti, penso facilmente risolvibili».
La Via della Seta voluta da Xi, «One Belt One Road Initiative» (Bri) secondo il suo nome internazionale, è un progetto di espansione dei canali commerciali e d’investimento cinesi dall’Asia del Sud-Est, all’Asia centrale fino all’Europa via terra e dai porti di Guangzhou (Canton) e Haikou attraverso Malacca, Singapore, lo Sri Lanka, Gibuti e Suez fino all’Adriatico settentrionale. Anche se formalmente non fa parte del memorandum, le discussioni con i cinesi sono in corso anche per il coinvolgimento di una o più aziende di Pechino nel porto di Trieste. «A noi interessa che qualunque investimento porti a un aumento della capacità dell’infrastruttura», osserva in proposito Geraci.
La Via della Seta ha già coinvolto formalmente 71 Paesi — soprattutto in Asia e in Oceania — e sotto il suo marchio la Cina ha già impegnato 210 miliardi di dollari in infrastrutture e altri interventi all’estero. Uno degli aspetti del progetto di proiezione globale di Xi è che il governo cinese prevede di creare due tribunali internazionali a Shenzhen e a Xian per la risoluzione di eventuali dispute commerciali legate alla Via della Seta, sulla carta un po’ sul modello delle corti commerciali di Dubai e di Singapore. Una seconda caratteristica è che alcuni Paesi più deboli coinvolti dalla Via della Seta — Pakistan, Mongolia e Montenegro fra gli altri — si sono trovati indeboliti e politicamente condizionati dai forti debiti accumulati nei confronti di Pechino. Queste peculiarità non passano inosservate a Washington e fra i principali governi europei. Preoccupa per esempio che molti dei porti coinvolti dall’iniziativa cinese vedano ampliamenti che li rendono potenzialmente adatti al doppio uso, civile e militare. Tempo fa i 28 ambasciatori a Pechino dei Paesi dell’Unione europea avevano concordato una serie di «linee guida» che, nei fatti, equivalevano a un invito a non firmare i memorandum della Via della Seta. La stessa amministrazione americana da prima dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca non ha mai nascosto l’irritazione per l’iniziativa di Xi Jinping, anche se non ci sono conferme che l’argomento sia stato sollevato venti giorni fa quando l’ambasciatore Usa Lewis Eisenberg ha visto il premier Conte a Palazzo Chigi.
Di certo Luigi Di Maio è già andato in Cina due volte nelle vesti di vicepremier e ministro dello Sviluppo, a settembre e novembre scorsi. Ma il suo vice Geraci non condivide le riserve degli alleati occidentali dell’Italia. «Forse sì, può esserci un po’ di preoccupazione da parte americana — riconosce —. Ma sarà dissipata quando si comprenderà che i contenuti del memorandum d’intesa sono limitati. L’Italia resta alleata degli Stati Uniti. Non c’è nessun cambio di rotta, non vogliamo spostare l’asse geopolitico del Paese».
Il sottosegretario sottolinea che l’accordo, se sarà firmato, non implica obblighi o vincoli per il governo di Roma. «Non assumiamo impegni finanziari — dice —. Il memorandum ha solo clausole di intenti che mirano a facilitare per le nostre imprese l’accesso al mercato cinese, agli investimenti in Cina e la loro cooperazione con imprese di Pechino in Paesi terzi, per esempio nelle costruzioni, nell’energia e in agricoltura. Cerchiamo solo di recuperare un ritardo». Oggi l’Italia è appena il ventesimo maggiore esportatore in Cina con un fatturato annuo di 18 miliardi di euro, cinque meno della Francia e soprattutto cinque volte più piccolo rispetto alla Germania.
Per ora quattro governi dell’Ue hanno sottoscritto la Via della Seta: l’Ungheria di Viktor Orban e la Polonia, entrambi in rapporti tesi con Bruxelles per le accuse sulla violazione dei principi democratici; il Portogallo dove imprese statali di Pechino controllano i principali gruppi nell’elettricità, nelle rinnovabili, nella rete elettrica, la prima banca del Paese, la prima compagnia assicurativa e la più grande rete ospedaliera; e la Grecia dove Cosco, il colosso di Pechino, controlla il porto del Pireo. Nel 2018 Atene a sorpresa ha bloccato due risoluzioni europee di condanna della Cina sui diritti umani. Ma l’eventuale adesione alla Via della Seta dell’Italia, un’economia del G7, sarebbe evidentemente un fenomeno diverso.