Corriere 25.2.19
I negoziati con la Cina
La via della Seta è più vicina: l’invito all’Italia di Xi Jinping
di Federico Fubini
La
firma con cui l’Italia, prima fra le prime dieci economie del mondo,
aderisce alla cosiddetta Via della Seta, che dal 2013 è il grande
progetto Xi Jinping, potrebbe essere pronto per il 22 o 23 marzo.
L’
accordo per ora non c’è, ma non sembra affatto lontano e potrebbe
essere pronto per il 22 e 23 marzo. In quei due giorni, salvo cambi di
programma ormai improbabili, Xi Jinping sarà in visita ufficiale a Roma
per poi proseguire il suo viaggio europeo verso Parigi. Il presidente
cinese arriva per colloqui politici al massimo livello, per confermare
l’importanza degli investimenti già da quasi tredici miliardi di Pechino
in Italia ma in agenda potrebbe entrare anche un punto più specifico:
la firma del memorandum d’intesa con cui l’Italia, prima fra le prime
dieci economie del mondo, aderisce alla cosiddetta Via della Seta che
dal 2013 è il grande progetto di proiezione globale di Xi.
«La
discussione sul memorandum è a uno stadio molto avanzato» conferma
Michele Geraci, il sottosegretario allo Sviluppo economico che sta
portando avanti il negoziato e dal 2008 è vissuto per dieci anni in Cina
con ruoli principalmente da accademico. L’accordo, al quale guardano
con attenzione crescente l’amministrazione americana e vari governi
europei, per il momento non è ancora chiuso e non è del tutto certo che
lo sarà per l’arrivo di Xi a Roma. «Il memorandum non è stato definito e
non lo sarà fino all’annuncio. Stiamo formalizzando alcune parole, ma
non credo esistano dubbi sui contenuti», dice Geraci. «C’è la decisione
politica di portare avanti la trattativa e sono rimasti solo alcuni
punti aperti, penso facilmente risolvibili».
La Via della Seta
voluta da Xi, «One Belt One Road Initiative» (Bri) secondo il suo nome
internazionale, è un progetto di espansione dei canali commerciali e
d’investimento cinesi dall’Asia del Sud-Est, all’Asia centrale fino
all’Europa via terra e dai porti di Guangzhou (Canton) e Haikou
attraverso Malacca, Singapore, lo Sri Lanka, Gibuti e Suez fino
all’Adriatico settentrionale. Anche se formalmente non fa parte del
memorandum, le discussioni con i cinesi sono in corso anche per il
coinvolgimento di una o più aziende di Pechino nel porto di Trieste. «A
noi interessa che qualunque investimento porti a un aumento della
capacità dell’infrastruttura», osserva in proposito Geraci.
La Via
della Seta ha già coinvolto formalmente 71 Paesi — soprattutto in Asia e
in Oceania — e sotto il suo marchio la Cina ha già impegnato 210
miliardi di dollari in infrastrutture e altri interventi all’estero. Uno
degli aspetti del progetto di proiezione globale di Xi è che il governo
cinese prevede di creare due tribunali internazionali a Shenzhen e a
Xian per la risoluzione di eventuali dispute commerciali legate alla Via
della Seta, sulla carta un po’ sul modello delle corti commerciali di
Dubai e di Singapore. Una seconda caratteristica è che alcuni Paesi più
deboli coinvolti dalla Via della Seta — Pakistan, Mongolia e Montenegro
fra gli altri — si sono trovati indeboliti e politicamente condizionati
dai forti debiti accumulati nei confronti di Pechino. Queste peculiarità
non passano inosservate a Washington e fra i principali governi
europei. Preoccupa per esempio che molti dei porti coinvolti
dall’iniziativa cinese vedano ampliamenti che li rendono potenzialmente
adatti al doppio uso, civile e militare. Tempo fa i 28 ambasciatori a
Pechino dei Paesi dell’Unione europea avevano concordato una serie di
«linee guida» che, nei fatti, equivalevano a un invito a non firmare i
memorandum della Via della Seta. La stessa amministrazione americana da
prima dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca non ha mai nascosto
l’irritazione per l’iniziativa di Xi Jinping, anche se non ci sono
conferme che l’argomento sia stato sollevato venti giorni fa quando
l’ambasciatore Usa Lewis Eisenberg ha visto il premier Conte a Palazzo
Chigi.
Di certo Luigi Di Maio è già andato in Cina due volte nelle
vesti di vicepremier e ministro dello Sviluppo, a settembre e novembre
scorsi. Ma il suo vice Geraci non condivide le riserve degli alleati
occidentali dell’Italia. «Forse sì, può esserci un po’ di preoccupazione
da parte americana — riconosce —. Ma sarà dissipata quando si
comprenderà che i contenuti del memorandum d’intesa sono limitati.
L’Italia resta alleata degli Stati Uniti. Non c’è nessun cambio di
rotta, non vogliamo spostare l’asse geopolitico del Paese».
Il
sottosegretario sottolinea che l’accordo, se sarà firmato, non implica
obblighi o vincoli per il governo di Roma. «Non assumiamo impegni
finanziari — dice —. Il memorandum ha solo clausole di intenti che
mirano a facilitare per le nostre imprese l’accesso al mercato cinese,
agli investimenti in Cina e la loro cooperazione con imprese di Pechino
in Paesi terzi, per esempio nelle costruzioni, nell’energia e in
agricoltura. Cerchiamo solo di recuperare un ritardo». Oggi l’Italia è
appena il ventesimo maggiore esportatore in Cina con un fatturato annuo
di 18 miliardi di euro, cinque meno della Francia e soprattutto cinque
volte più piccolo rispetto alla Germania.
Per ora quattro governi
dell’Ue hanno sottoscritto la Via della Seta: l’Ungheria di Viktor Orban
e la Polonia, entrambi in rapporti tesi con Bruxelles per le accuse
sulla violazione dei principi democratici; il Portogallo dove imprese
statali di Pechino controllano i principali gruppi nell’elettricità,
nelle rinnovabili, nella rete elettrica, la prima banca del Paese, la
prima compagnia assicurativa e la più grande rete ospedaliera; e la
Grecia dove Cosco, il colosso di Pechino, controlla il porto del Pireo.
Nel 2018 Atene a sorpresa ha bloccato due risoluzioni europee di
condanna della Cina sui diritti umani. Ma l’eventuale adesione alla Via
della Seta dell’Italia, un’economia del G7, sarebbe evidentemente un
fenomeno diverso.