Repubblica 4.2.19
Così è tornato il fantasma dell’identità
Da
oggi con Repubblica "L’uomo bianco" di Ezio Mauro Inchiesta e analisi
politica sulla metamorfosi culturale dell’Italia che cerca un riscatto
attraverso la colpevolizzazione del migrante
di Simonetta Fiori
Un
grande studioso, Fernand Braudel, sosteneva che gli storici hanno un
gran vantaggio, perché delle forze in campo sanno a chi appartiene il
futuro. Invece ai contemporanei i fatti si presentano tutti su uno
stesso piano di importanza, e gli avvenimenti che fissano il confine tra
il prima e il dopo di solito fanno così poco rumore che di rado se ne
percepisce la presenza («Nietzsche diceva che arrivano su zampe di
tortora», aggiungeva Braudel). Però il futuro può scorrere anche nello
sguardo di un giornalista capace di cogliere la storia nell’istante,
connettendo accadimenti tutt’altro che silenziosi ma che rischiano di
apparire tali presso un’opinione pubblica assuefatta. L’uomo bianco di
Ezio Mauro, il libro-inchiesta sulla mutazione culturale del nostro
paese, è un classico della "storiografia dell’istante", costruito sul
doppio binario della cronaca e dell’analisi. Il racconto è incentrato su
Luca Traini e la sua "caccia al negro" compiuta la mattina del 3
febbraio del 2018 nel cuore di Macerata — un tiro al bersaglio contro
nove immigrati africani, di cui sei rimasti feriti a terra: episodio
spartiacque della nuova storia italiana in cui esplodono furori razzisti
già apparsi otto anni prima nel ghetto dei lavoratori neri di Rosarno e
che presto si sarebbero riaccesi contro il sindacalista Soumayla Sacko
tra le lamiere di San Ferdinando, sempre in Calabria. E la riflessione
s’allarga allo slittamento delle linee di confine della nostra mappa
mentale, una geografia civile e morale costruita su svariati decenni di
democrazia, sui valori fondanti della cultura occidentale, sui pilastri
di una civiltà cristiana di cui ci illudiamo di essere figli senza
esserlo più.
Come è stato possibile? Com’è possibile che nel
nostro paese sia ricomparso «il fantasma dell’uomo bianco», che «mentre
diventa soggetto politico e sociale regredisce alla sua identità
biologica e primitiva, la pelle e il sangue, come nei peggiori incubi
della storia d’Europa»? E come riusciamo a spiegare che un gesto assurdo
ed efferato come quello commesso da Traini abbia potuto raccogliere
tanti consensi? Ezio Mauro ci guida dentro la storia del Lupo di
Macerata con la proverbiale bravura dello scrittore-cronista, senza mai
cedere all’indignazione, senza giudicare, al contrario con la curiosità
di chi vuole lumeggiare una vita minima cresciuta faticosamente ai bordi
della società. E se i media ci avevano consegnato il ritratto del
ventinovenne Traini fin troppo carico di simboli appesantiti dalla
storia — il Mein Kampf sul tavolo, il dente di lupo tatuato, il saluto
romano — il narratore lo spoglia dell’ideologia per restituirne il
vissuto deprivato, un padre assente, una madre malata incapace di far da
madre, un lavoro precario, fidanzate perse nella droga, un immaginario
fragile in cui si confondono rivalsa, rappresaglia, ansia di
purificazione, fino all’accecamento che identifica nei neri — in tutti i
neri — gli assassini di Pamela, la ragazza martoriata da uno
spacciatore nigeriano. E allora quegli odiosi simboli di un passato
nefasto assumono la luce d’una storia nuova che ancora deve essere
raccontata. La storia di un paese smarrito e impaurito che nella "caccia
al negro", nella colpevolizzazione del migrante, cerca follemente il
suo riscatto. Un dettaglio colpisce tra i tanti: al chiuso d’una cella,
dopo aver sparso sangue e dolore, Lupo riesce a dormire. Ricomincia a
russare dopo una lunga adolescenza di notti inquiete. In carcere ha
trovato l’ordine e la dignità che la vita gli aveva negato. È un
peccatore ignaro del suo peccato, perché per sua ammissione la sua
libertà comincia là dove inizia la sparatoria. C’è il delitto ma non il
castigo (il pentimento sarebbe arrivato più tardi, come ha raccontato
ieri nell’intervista).
Fin qui il Mauro narratore, che però
avverte la necessità di affiancare a questa storia piccola una più
grande: la storia della metamorfosi italiana che richiede strumenti di
indagine mutuati dalle scienze sociali e nutriti da una coscienza civile
in cui è evidente la radice azionista dell’autore. È un metodo di
lavoro che Ezio Mauro ha praticato nel suo mestiere di giornalista e nel
suo stile di direzione. Fedele al valore della responsabilità, chiama
in causa la sconfitta di una società civile — ossia tutti noi — incapace
di fermare questa regressione corporale che riduce la nostra identità a
essenza biologica di uomini banchi e le vittime a nuda materia il cui
destino ci interessa sempre meno.
La scena si tinge allora dei
colori abbacinanti del crepuscolo. Del tramonto a cui si condanna una
civiltà sempre più "murata", indifferente e "senza anima".