Repubblica 4.2.19
Ma questo Romolo sembra il re dei vichinghi
di Maurizio Bettini
Ho visto Il primo re, il film che Matteo Rovere ha dedicato a Romolo e Remo. E ho pensato al mito.
Cioè
a quel tipo di storia che non viene raccontata una volta per sempre, ma
muta e si rinnova da una versione all’altra. Però, a ogni variante il
mito viene rielaborato secondo le categorie e i gusti della cultura che
lo accoglie: la Medea di Euripide non è certo quella di Pasolini. Che ne
è dunque dei gemelli nell’ultima versione del loro mito? A quali
categorie si conformano? Prima di tutto, direi, alla fascinazione
nordica cui la nostra cultura va soggetta quando immagina il primitivo.
Nelle
loro peregrinazioni Romolo e Remo attraversano un Lazio irlandese, o
finnico, dove non smette mai di piovere e dove una palude segue l’altra.
Si
aggiungano gli scoppi di urla selvagge, le maschere d’orso (quelle che
indossavano i famigerati berserkr del settentrione), l’ambientazione
boschiva, le interminabili lotte nel fango. Primitivo uguale nordico, è
lo spirito dei tempi.
Mi veniva in mente la teoria (talora
accreditata anche in tv) secondo cui l’Odissea sarebbe stata
originariamente ambientata nel Baltico. Anche il personaggio della
Vestale — col suo volto fuligginoso, il suo gusto per il sangue di cui
si cosparge — somiglia più a una strega del Macbeth che non a una
"vergine pura" di romana memoria. Anzi, assomiglia a una profetessa
vichinga, così come i proto-Romani di Rovere rassomigliano agli ispidi e
selvaggi guerrieri della serie televisiva Vikings. Al di là dei corpi
mutilati e smembrati, della violenza parossistica cara a Hollywood, il
film ha anche molti meriti, specificamente cinematografici, lo si è
detto, ed è fuor di dubbio originale. Basta pensare che i dialoghi non
solo sono in latino, ma qualche linguista li ha perfino dotati di
desinenze arcaiche e forme indoeuropee. A dispetto di tanta cura erudita
per il Lazio delle origini, però, di autentici costumi romani in questo
Romolo e Remo non c’è traccia.
Come quando il compianto funebre
per i guerrieri morti viene accompagnato da una danza quasi Sioux e da
un flebile coro di bambini. Cosa si sarebbe potuto fare con la
lamentazione antica! Bastava aver letto Ernesto de Martino.
Se per
rendere "altri" Romolo e Remo, come meritatamente voleva, un regista
come Rovere avesse attinto non alle fantasie nordiche, ma alla vera
"alterità" della cultura romana arcaica (e giuro che ce n’è a bizzeffe)
l’effetto sarebbe stato straordinario. La cosa che più mi ha colpito,
comunque, è un’altra: alla fin fine questa Roma di Rovere nasce cattiva.
Non
è la Roma dell’asylum, aperta ad accogliere ogni disperato, come recita
il mito romano, ma è una Roma ostile, chiusa. Altro segno dei tempi?