Repubblica 4.2.19
Schmitt e Taubes pensieri e parole da fronti opposti
Da una parte il giurista che giustificò l’avvento di Hitler. Dall’altra un rabbino che rifletteva sul messianismo ebraico
Raccolte le lettere che i due intellettuali si scambiarino, dialogando su Heudegger e su Benjamin
di Antonio Gnoli
Da
una parte il giurista che giustificò l’avvento di Hitler. Dall’altra un
rabbino che rifletteva sul messianismo ebraico. Raccolte le lettere che
i due intellettuali si scambiarono, dialogando su Heidegger e su
Benjamin
Non è facile predisporsi serenamente davanti al
linguaggio oscuro di un testo. Prevalgono irritazione o noia. Ma in
certi casi l’incomprensibile ha molta più attinenza con il nostro
sentire di quanta ne abbia la certezza di sapere che fuori piove o c’è
il sole. Si sa che l’incomprensibile sfiora o avvolge certi libri. Fu
negli anni Venti che si toccò uno dei punti più luminosi dell’oscurità
linguistica: al complicato gergo heideggeriano di Essere e Tempo, si
accompagnò quello di due testi che faticarono ad essere accettati: il
Tractatus logico- philosophicus di Ludwig Wittgenstein (pubblicato nel
1921 e discusso come tesi di dottorato a Cambridge nel 1929) e Le
origini del dramma barocco tedesco di Walter Benjamin (una nuova
edizione è da poco uscita da Carocci) presentato nel 1925 per
l’abilitazione all’università di Francoforte.
Sprezzantemente
Wittgenstein suggerì alla commissione esaminatrice, che annoverava
Russell e Moore, a lasciar perdere, perché non avrebbero capito nulla
del Tractatus.
Mentre Benjamin sperava che la sua dissertazione
fosse accettata. Le due storie si conclusero in modo opposto: Moore e lo
stesso Russell diedero a Wittgenstein la patente di genio e lo
accolsero a braccia aperte a Cambridge.
Benjamin fu invitato a
ritirare la candidatura. Sembra che qualcuno della commissione dotato di
indiscutibile ironia avesse commentato: «Non si può dare la libera
docenza al puro spirito». È noto che quei due libri, così diversi e
inavvicinabili, abbiano sorprendentemente tracciato più di una direzione
nell’ambito del pensiero filosofico e letterario. Erano in anticipo sui
tempi? Scritti per inimicarsi la contemporaneità?
Altezzosi come
sovrani? Negli spazi assolati della verità quelle due esperienze
desertificarono il presente. Parlarono in un modo che all’epoca dovette
risultare eccessivamente enigmatico. Perfino minaccioso. Una volta
sentii il vecchio Hans Georg Gadamer, equiparare la natura di certi
libri oscuri all’imprevedibilità di alcuni uomini. Gente che malgrado le
opposte visioni, scopriva di essere fatta della stessa stoffa.
Mi
è tornato in mente quando ho pensato che è proprio l’incomprensibile ad
avvicinare nature inconciliabili. Uomini che, malgrado il destino
rigetti su sponde opposte, finiscono con l’attrarsi. Come i due
personaggi che più diversi non potevano essere: Carl Schmitt e Jacob
Taubes. Il profondo conoscitore dei meandri del diritto – macchiatosi
della colpa di aver cercato una giustificazione dottrinaria e giuridica
all’avvento di Hitler – e il rabbino tormentato dalle letture di Paolo e
dai dettami messianici che l’ebraismo gli suggeriva. Due personaggi che
avrebbero potuto (e forse dovuto) detestarsi e che invece trovano un
punto di incontro.
Un enigma che li rese appunto incomprensibili
in quel gesto che scuoteva le profondità segrete delle loro vite. Ora
escono le lettere che si scambiarono: Ai lati opposti delle barricate,
curate nelle edizioni Adelphi da Giovanni Gurisatti che vi ha apposto
anche un saggio molto bello e puntuale.
A volte Taubes dava
l’impressione di annoiarsi davanti a un pensiero ebraico senza più il
detonatore del messianismo. A cosa erano serviti Rosenzweig, Buber, lo
stesso Scholem, per non parlare di Benjamin, se poi occorreva continuare
a stare inutilmente dritti e impazienti alla fermata dell’autobus
aspettando che il messia arrivasse? Tanto valeva infilarsi in qualche
cunicolo rivoluzionario (la contestazione degli anni ’70) o misurarsi
con alcuni personaggi della destra culturale, in grado di eccitare la
fantasia del gioco proibito.
Niente burattini del pensiero.
Solo
gente capace di tirare i fili della storia giuridica e filosofica. Fu
così che Taubes tra il 1978 e il 1980 incontrò Schmitt per tre volte a
Plettenberg, la dimora dove il grande giurista si era confinato.
Schmitt
era un vecchio leone con parecchie cicatrici e qualche ferita ancora
aperta. Ma piuttosto che tornare a esibirsi in qualche circo di
provincia preferì starsene nella propria gabbia. Taubes oltre che bello,
al punto da creare tragici legami con le sue donne (la prima moglie,
Susan Feldman, si suicidò gettandosi dal ponte di una nave), era un uomo
anche curioso. Lo era a tal punto da spingersi a chiedere al vecchio
giurista cosa pensava di quella lettera che nel 1930 Benjamin gli aveva
inviato. Glielo chiese timidamente, con una punta di deferenza. Ma il
punto della questione era chiaro e brutale: come mai nella testa del
giovane Benjamin era balenata l’idea di consultarsi con il peggior
nemico che la storia poteva in quel momento mettergli di fronte?
Incomprensibile. Sì, d’accordo. Ma una spiegazione occorreva trovarla.
Nella lettera Benjamin scriveva che le loro metodologie si somigliavano e
che alla fine tanto Il dramma barocco quanto la Teologia politica
avevano al loro centro il problema della sovranità.
Diciamo che
quel confronto non era proprio un estemporaneo minuetto. Già nel 1921,
in un saggio sul tema della violenza e del diritto, Benjamin, fresco
della lettura del testo schmittiano La dittatura, interpellava il
giurista che a sua volta rispose. Nessuno all’epoca capì molto bene cosa
i due si dicessero. Parlavano per enigmi. Con il gergo esoterico della
parola inaccessibile.
Se non si tiene conto di certe apparenti
astrusità verbali, poco si capirebbe della posta in gioco tra i due: il
senso da dare allo "stato d’eccezione". Gli anni del loro confronto
teorico, sono quelli di Weimar, del fascismo che moltiplica le proprie
istanze totalitarie. Una catastrofe, in grado di travolgere i fondamenti
liberali, incombe sull’Europa.
Gli effetti sono terribili.
Benjamin,
in fuga dal nazismo, si suicida nel 1940. Milioni di ebrei vengono
sterminati nelle camere a gas. Macerie e sofferenze ovunque. E allora si
chiede Taubes: come fu possibile che intelligenze così acute (il
riferimento oltre che a Schmitt è ad Heidegger) ignorassero per miopia,
viltà, opportunismo, fraintendimento ciò che era accaduto?
La
"questione ebraica" perseguitò a lungo Schmitt. Pare che nel suo studio
troneggiasse un ritratto di Benjamin Disraeali, ebreo sefardita,
scrittore e primo ministro conservatore sotto la Regina Vittoria.
Decisamente incomprensibile. A meno di non provare a leggere, come farà
Schmitt, la storia universale nel contrasto irriducibile tra ebraismo e
cristianesimo. Il cattolico e antisemita Schmitt ammirava come pochi la
sovversiva intelligenza ebraica.
Ne temeva gli effetti, ma era attratto dalle argomentazioni.
Anche,
e soprattutto, quelle svolte prima da Benjamin e poi da Taubes.
Quest’ultimo, come un mangiatore di spade, era convinto di poter
ingoiare la lama con cui Schmitt aveva tagliato di netto il nodo del
diritto. Tanto Schmitt quanto Heidegger erano, ai suoi occhi, uomini del
ressentiment che seppero con il genio appunto del risentito rileggere
in modo nuovo le fonti della storia.
Leggevano, diversamente da
tutti gli altri, quello che la modernità aveva apparecchiato con i
propri cinici e disincantati divieti. E quando Taubes riferì dei tre
incontri avuti con Schmitt si limitò a dire che qualcosa di sconvolgente
e di irriferibile si era prodotto nel loro dialogo. Qualcosa di
incomprensibile appunto. Che mi fa pensare a una frasetta zen
segnalatami da una dotta amica: il discepolo chiede al maestro che cos’è
la mente? E l’altro risponde: la mente. Maestro non capisco. Io
neppure.