lunedì 4 febbraio 2019

L'Espresso nelle edicole
Un sondaggio riservato: sei elettori grillini su 10 pronti a passare alla Lega

Repubblica 4.2.19
Schmitt e Taubes pensieri e parole da fronti opposti
Da una parte il giurista che giustificò l’avvento di Hitler. Dall’altra un rabbino che rifletteva sul messianismo ebraico
Raccolte le lettere che i due intellettuali si scambiarino, dialogando su Heudegger e su Benjamin
di Antonio Gnoli


Da una parte il giurista che giustificò l’avvento di Hitler. Dall’altra un rabbino che rifletteva sul messianismo ebraico. Raccolte le lettere che i due intellettuali si scambiarono, dialogando su Heidegger e su Benjamin
Non è facile predisporsi serenamente davanti al linguaggio oscuro di un testo. Prevalgono irritazione o noia. Ma in certi casi l’incomprensibile ha molta più attinenza con il nostro sentire di quanta ne abbia la certezza di sapere che fuori piove o c’è il sole. Si sa che l’incomprensibile sfiora o avvolge certi libri. Fu negli anni Venti che si toccò uno dei punti più luminosi dell’oscurità linguistica: al complicato gergo heideggeriano di Essere e Tempo, si accompagnò quello di due testi che faticarono ad essere accettati: il Tractatus logico- philosophicus di Ludwig Wittgenstein (pubblicato nel 1921 e discusso come tesi di dottorato a Cambridge nel 1929) e Le origini del dramma barocco tedesco di Walter Benjamin (una nuova edizione è da poco uscita da Carocci) presentato nel 1925 per l’abilitazione all’università di Francoforte.
Sprezzantemente Wittgenstein suggerì alla commissione esaminatrice, che annoverava Russell e Moore, a lasciar perdere, perché non avrebbero capito nulla del Tractatus.
Mentre Benjamin sperava che la sua dissertazione fosse accettata. Le due storie si conclusero in modo opposto: Moore e lo stesso Russell diedero a Wittgenstein la patente di genio e lo accolsero a braccia aperte a Cambridge.
Benjamin fu invitato a ritirare la candidatura. Sembra che qualcuno della commissione dotato di indiscutibile ironia avesse commentato: «Non si può dare la libera docenza al puro spirito». È noto che quei due libri, così diversi e inavvicinabili, abbiano sorprendentemente tracciato più di una direzione nell’ambito del pensiero filosofico e letterario. Erano in anticipo sui tempi? Scritti per inimicarsi la contemporaneità?
Altezzosi come sovrani? Negli spazi assolati della verità quelle due esperienze desertificarono il presente. Parlarono in un modo che all’epoca dovette risultare eccessivamente enigmatico. Perfino minaccioso. Una volta sentii il vecchio Hans Georg Gadamer, equiparare la natura di certi libri oscuri all’imprevedibilità di alcuni uomini. Gente che malgrado le opposte visioni, scopriva di essere fatta della stessa stoffa.
Mi è tornato in mente quando ho pensato che è proprio l’incomprensibile ad avvicinare nature inconciliabili. Uomini che, malgrado il destino rigetti su sponde opposte, finiscono con l’attrarsi. Come i due personaggi che più diversi non potevano essere: Carl Schmitt e Jacob Taubes. Il profondo conoscitore dei meandri del diritto – macchiatosi della colpa di aver cercato una giustificazione dottrinaria e giuridica all’avvento di Hitler – e il rabbino tormentato dalle letture di Paolo e dai dettami messianici che l’ebraismo gli suggeriva. Due personaggi che avrebbero potuto (e forse dovuto) detestarsi e che invece trovano un punto di incontro.
Un enigma che li rese appunto incomprensibili in quel gesto che scuoteva le profondità segrete delle loro vite. Ora escono le lettere che si scambiarono: Ai lati opposti delle barricate, curate nelle edizioni Adelphi da Giovanni Gurisatti che vi ha apposto anche un saggio molto bello e puntuale.
A volte Taubes dava l’impressione di annoiarsi davanti a un pensiero ebraico senza più il detonatore del messianismo. A cosa erano serviti Rosenzweig, Buber, lo stesso Scholem, per non parlare di Benjamin, se poi occorreva continuare a stare inutilmente dritti e impazienti alla fermata dell’autobus aspettando che il messia arrivasse? Tanto valeva infilarsi in qualche cunicolo rivoluzionario (la contestazione degli anni ’70) o misurarsi con alcuni personaggi della destra culturale, in grado di eccitare la fantasia del gioco proibito.
Niente burattini del pensiero.
Solo gente capace di tirare i fili della storia giuridica e filosofica. Fu così che Taubes tra il 1978 e il 1980 incontrò Schmitt per tre volte a Plettenberg, la dimora dove il grande giurista si era confinato.
Schmitt era un vecchio leone con parecchie cicatrici e qualche ferita ancora aperta. Ma piuttosto che tornare a esibirsi in qualche circo di provincia preferì starsene nella propria gabbia. Taubes oltre che bello, al punto da creare tragici legami con le sue donne (la prima moglie, Susan Feldman, si suicidò gettandosi dal ponte di una nave), era un uomo anche curioso. Lo era a tal punto da spingersi a chiedere al vecchio giurista cosa pensava di quella lettera che nel 1930 Benjamin gli aveva inviato. Glielo chiese timidamente, con una punta di deferenza. Ma il punto della questione era chiaro e brutale: come mai nella testa del giovane Benjamin era balenata l’idea di consultarsi con il peggior nemico che la storia poteva in quel momento mettergli di fronte? Incomprensibile. Sì, d’accordo. Ma una spiegazione occorreva trovarla. Nella lettera Benjamin scriveva che le loro metodologie si somigliavano e che alla fine tanto Il dramma barocco quanto la Teologia politica avevano al loro centro il problema della sovranità.
Diciamo che quel confronto non era proprio un estemporaneo minuetto. Già nel 1921, in un saggio sul tema della violenza e del diritto, Benjamin, fresco della lettura del testo schmittiano La dittatura, interpellava il giurista che a sua volta rispose. Nessuno all’epoca capì molto bene cosa i due si dicessero. Parlavano per enigmi. Con il gergo esoterico della parola inaccessibile.
Se non si tiene conto di certe apparenti astrusità verbali, poco si capirebbe della posta in gioco tra i due: il senso da dare allo "stato d’eccezione". Gli anni del loro confronto teorico, sono quelli di Weimar, del fascismo che moltiplica le proprie istanze totalitarie. Una catastrofe, in grado di travolgere i fondamenti liberali, incombe sull’Europa.
Gli effetti sono terribili.
Benjamin, in fuga dal nazismo, si suicida nel 1940. Milioni di ebrei vengono sterminati nelle camere a gas. Macerie e sofferenze ovunque. E allora si chiede Taubes: come fu possibile che intelligenze così acute (il riferimento oltre che a Schmitt è ad Heidegger) ignorassero per miopia, viltà, opportunismo, fraintendimento ciò che era accaduto?
La "questione ebraica" perseguitò a lungo Schmitt. Pare che nel suo studio troneggiasse un ritratto di Benjamin Disraeali, ebreo sefardita, scrittore e primo ministro conservatore sotto la Regina Vittoria. Decisamente incomprensibile. A meno di non provare a leggere, come farà Schmitt, la storia universale nel contrasto irriducibile tra ebraismo e cristianesimo. Il cattolico e antisemita Schmitt ammirava come pochi la sovversiva intelligenza ebraica.
Ne temeva gli effetti, ma era attratto dalle argomentazioni.
Anche, e soprattutto, quelle svolte prima da Benjamin e poi da Taubes. Quest’ultimo, come un mangiatore di spade, era convinto di poter ingoiare la lama con cui Schmitt aveva tagliato di netto il nodo del diritto. Tanto Schmitt quanto Heidegger erano, ai suoi occhi, uomini del ressentiment che seppero con il genio appunto del risentito rileggere in modo nuovo le fonti della storia.
Leggevano, diversamente da tutti gli altri, quello che la modernità aveva apparecchiato con i propri cinici e disincantati divieti. E quando Taubes riferì dei tre incontri avuti con Schmitt si limitò a dire che qualcosa di sconvolgente e di irriferibile si era prodotto nel loro dialogo. Qualcosa di incomprensibile appunto. Che mi fa pensare a una frasetta zen segnalatami da una dotta amica: il discepolo chiede al maestro che cos’è la mente? E l’altro risponde: la mente. Maestro non capisco. Io neppure.

La Stampa 3.2.19
Guccini alla Normale di Pisa: "Ho una gran paura, sento aria di Weimar"

Così il cantautore Francesco Guccini, che ha incontrato il pubblico alla Scuola Normale di Pisa in occasione della presentazione del suo libro "Canzoni". "Adolfo (Hitler, ndr) fu eletto dal popolo e quando sento dire la frase 'sono stato eletto da 60 milioni di italiani' mi sembra un po' pericolosa", aggiunge Guccini che lancia anche un appello ai giovani: "Leggete, leggete, leggete". Video di Chiara Tarfano
https://www.lastampa.it/2019/02/03/spettacoli/ai-giovani-leggete-sT77ALPXpFH36x6T17sWuI/pagina.html

Il Fatto 4.2.19
Cattolici in politica: altro che partito, Francesco pensa a un Sinodo speciale
Sulla “Civiltà Cattolica”, la proposta del bergogliano padre Spadaro per fermare il clericalismo di Salvini
di Fabrizio d’Esposito


La notizia è clamorosa e di grande suggestione. Altro che partito, la Chiesa italiana per affrontare l’epoca cupa dei populismi potrebbe addirittura convocare un sinodo sulla società e sull’impegno in politica dei suoi fedeli. L’ipotesi conclude l’ultimo scritto del gesuita Antonio Spadaro (nella foto), l’intellettuale più vicino a papa Francesco e direttore della Civiltà Cattolica, la rivista tornata dopo due decenni al centro dell’attenzione in Vaticano, grazie al pontificato di Bergoglio.
Nel suo editoriale del quaderno d’inizio febbraio del periodico gesuita, e pubblicato giovedì scorso da Avvenire, padre Spadaro conclude infatti così il suo lungo articolo: “Che dunque stia maturando il tempo per un sinodo della Chiesa italiana?”. L’interrogativo è la sintesi di due punti che il direttore della Civiltà Cattolica va ripetendo da settimane, nel segno di papa Francesco, eletto peraltro nel 2013 per depurare la Curia di Bertone dall’intreccio con il mondo berlusconian-andreottiano.
Punto primo: no a un partito unico dei cattolici, ossia “l’usato garantito”. E ancora: “Non basta più neanche una sola tradizione politica a risolvere i problemi del Paese”. Punto secondo: fermare la salvinizzazione clericale della Chiesa, spiegata pure in una bella intervista a Giuseppe Genna sull’ultimo numero dell’Espresso: contrastare il “suprematismo religioso” dell’americano Bannon, che teorizza “la necessità teocratica di sottomettere lo Stato alla Bibbia”, non distante dalla logica del “fondamentalismo islamico”. Ergo, non resta che “la formazione” di nuovi cattolici in politica sulla linea di quanto già espresso dal cardinale Gualtiero Bassetti, il presidente dei vescovi italiani.
Formare, quindi, e soprattutto comprendere le ragioni dei “sentimenti di paura, diffidenza e persino odio che hanno preso forma tra la nostra gente”. E un processo del genere, di vastissima portata, non si può che ottenere con “l’esercizio della sinodalità”, ovvero il “coinvolgimento” e la “partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio”. Un progetto ambizioso, sembra. Non il solito partitino per riciclare i moderati rimasti senza poltrone.

Repubblica 4.2.19
Così è tornato il fantasma dell’identità
Da oggi con Repubblica "L’uomo bianco" di Ezio Mauro Inchiesta e analisi politica sulla metamorfosi culturale dell’Italia che cerca un riscatto attraverso la colpevolizzazione del migrante
di Simonetta Fiori


Un grande studioso, Fernand Braudel, sosteneva che gli storici hanno un gran vantaggio, perché delle forze in campo sanno a chi appartiene il futuro. Invece ai contemporanei i fatti si presentano tutti su uno stesso piano di importanza, e gli avvenimenti che fissano il confine tra il prima e il dopo di solito fanno così poco rumore che di rado se ne percepisce la presenza («Nietzsche diceva che arrivano su zampe di tortora», aggiungeva Braudel). Però il futuro può scorrere anche nello sguardo di un giornalista capace di cogliere la storia nell’istante, connettendo accadimenti tutt’altro che silenziosi ma che rischiano di apparire tali presso un’opinione pubblica assuefatta. L’uomo bianco di Ezio Mauro, il libro-inchiesta sulla mutazione culturale del nostro paese, è un classico della "storiografia dell’istante", costruito sul doppio binario della cronaca e dell’analisi. Il racconto è incentrato su Luca Traini e la sua "caccia al negro" compiuta la mattina del 3 febbraio del 2018 nel cuore di Macerata — un tiro al bersaglio contro nove immigrati africani, di cui sei rimasti feriti a terra: episodio spartiacque della nuova storia italiana in cui esplodono furori razzisti già apparsi otto anni prima nel ghetto dei lavoratori neri di Rosarno e che presto si sarebbero riaccesi contro il sindacalista Soumayla Sacko tra le lamiere di San Ferdinando, sempre in Calabria. E la riflessione s’allarga allo slittamento delle linee di confine della nostra mappa mentale, una geografia civile e morale costruita su svariati decenni di democrazia, sui valori fondanti della cultura occidentale, sui pilastri di una civiltà cristiana di cui ci illudiamo di essere figli senza esserlo più.
Come è stato possibile? Com’è possibile che nel nostro paese sia ricomparso «il fantasma dell’uomo bianco», che «mentre diventa soggetto politico e sociale regredisce alla sua identità biologica e primitiva, la pelle e il sangue, come nei peggiori incubi della storia d’Europa»? E come riusciamo a spiegare che un gesto assurdo ed efferato come quello commesso da Traini abbia potuto raccogliere tanti consensi? Ezio Mauro ci guida dentro la storia del Lupo di Macerata con la proverbiale bravura dello scrittore-cronista, senza mai cedere all’indignazione, senza giudicare, al contrario con la curiosità di chi vuole lumeggiare una vita minima cresciuta faticosamente ai bordi della società. E se i media ci avevano consegnato il ritratto del ventinovenne Traini fin troppo carico di simboli appesantiti dalla storia — il Mein Kampf sul tavolo, il dente di lupo tatuato, il saluto romano — il narratore lo spoglia dell’ideologia per restituirne il vissuto deprivato, un padre assente, una madre malata incapace di far da madre, un lavoro precario, fidanzate perse nella droga, un immaginario fragile in cui si confondono rivalsa, rappresaglia, ansia di purificazione, fino all’accecamento che identifica nei neri — in tutti i neri — gli assassini di Pamela, la ragazza martoriata da uno spacciatore nigeriano. E allora quegli odiosi simboli di un passato nefasto assumono la luce d’una storia nuova che ancora deve essere raccontata. La storia di un paese smarrito e impaurito che nella "caccia al negro", nella colpevolizzazione del migrante, cerca follemente il suo riscatto. Un dettaglio colpisce tra i tanti: al chiuso d’una cella, dopo aver sparso sangue e dolore, Lupo riesce a dormire. Ricomincia a russare dopo una lunga adolescenza di notti inquiete. In carcere ha trovato l’ordine e la dignità che la vita gli aveva negato. È un peccatore ignaro del suo peccato, perché per sua ammissione la sua libertà comincia là dove inizia la sparatoria. C’è il delitto ma non il castigo (il pentimento sarebbe arrivato più tardi, come ha raccontato ieri nell’intervista).
Fin qui il Mauro narratore, che però avverte la necessità di affiancare a questa storia piccola una più grande: la storia della metamorfosi italiana che richiede strumenti di indagine mutuati dalle scienze sociali e nutriti da una coscienza civile in cui è evidente la radice azionista dell’autore. È un metodo di lavoro che Ezio Mauro ha praticato nel suo mestiere di giornalista e nel suo stile di direzione. Fedele al valore della responsabilità, chiama in causa la sconfitta di una società civile — ossia tutti noi — incapace di fermare questa regressione corporale che riduce la nostra identità a essenza biologica di uomini banchi e le vittime a nuda materia il cui destino ci interessa sempre meno.
La scena si tinge allora dei colori abbacinanti del crepuscolo. Del tramonto a cui si condanna una civiltà sempre più "murata", indifferente e "senza anima".

La Stampa 4.2.19
Il duello fra Usa e Cina può declassare l’Europa
di Bill Emmott

  
Laguerra commerciale Usa-Cina rischia di inasprirsi, durando per anni e danneggiando entrambe le economie. I rappresentanti cinesi e Usa che si sono incontrati il 31 gennaio a Washington non sono riusciti a fare passi avanti. La recessione in Italia può essere ricondotta anche a un rallentamento della domanda cinese prodotta dalla guerra commerciale, che ha un impatto sulle importazioni.
Ma noi europei dobbiamo renderci conto di un rischio ancora maggiore: che gli Usa e la Cina riescano invece a raggiungere un accordo, ed emarginarci una volta per tutte.
Un indizio di questo possibile sviluppo si può leggere nella reazione del presidente Donald Trump ai mancati progressi nel negoziato del 31 gennaio: ha subito chiesto di convocare un vertice con il «suo amico» Xi Jinping, il leader cinese, dicendo che l’accordo si poteva conseguire solo in un colloquio personale di alto livello. Questa reazione è un segno del narcisismo di Trump, e della sua inclinazione ad avere a che fare con leader potenti e autoritari, ricordando gli anni di Berlusconi a Palazzo Chigi, quando nulla poteva farlo più contento che incontrare Vladimir Putin e il colonnello Gheddafi. Ma rispecchia anche un aspetto più profondo: l’imminente incombere di un mondo dominato da due superpotenze.
Ecco perché, dal punto di vista sia delle nazioni minori, sia di un grande blocco come l’Unione Europea, il rischio strategico cruciale derivante dallo scontro tra Usa e Cina non viene dal fallimento ma dal successo, non dal conflitto bensì dalla sua soluzione. In linea di principio, il complesso mondo di oggi dovrebbe essere gestito da una moltitudine di nazioni che insieme scelgono di condividere regole di commercio e sicurezza. In pratica però queste regole potrebbero un giorno venire imposte da sole due nazioni, che insieme rappresentano circa il 40% dell’economia mondiale, e una quota ancora maggiore di potere politico e militare.
Gli Stati minori dell’Ue hanno avuto per anni un sentimento controverso nei confronti della cooperazione tra Francia e Germania: senza di essa l’Ue non si evolve, in presenza di essa però qualunque progresso rischia di andare contro gli interessi di tutti gli altri Paesi membri. La stessa situazione potrebbe presto presentarsi con gli Usa e la Cina, se il mondo non venisse più guidato dal gruppo dei sette Paesi più ricchi all’interno del più numeroso G20, che ha accresciuto il suo ruolo dopo la crisi finanziaria del 2008, finendo invece nelle mani della Banda dei Due.
In questo momento un G2 può apparire come una prospettiva remota. L’America e la Cina hanno imposto pesanti dazi sulle merci dell’avversario e si stanno scambiando accuse sferzanti sull’arresto in Canada, su richiesta americana, della Cfo del gigante delle telecomunicazioni cinese Huawei, che per coincidenza è anche la figlia del suo fondatore. Usa e Cina hanno profonde divergenze anche sulle operazioni militari condotte da Pechino nel Mar Cinese del Sud, e un rapporto controverso riguardo all’impegno a costringere la Corea del Nord a rinunciare al suo arsenale nucleare. Eppure proprio l’intensità di queste contraddizioni parla a favore della necessità di gestirle su base bilaterale, che il presidente Trump vorrebbe personalizzare. L’impulso a un governo bilaterale ha ragioni di esistere, mettendo però in pericolo il resto del mondo, e il sistema multilaterale di presa di decisioni e imposizione di regole cui ci eravamo abituati.
La Cina è ormai da decenni un forte sostenitore di formati multilaterali come l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale e gli svariati organismi delle Nazioni Unite, che offrono una più che benvenuta legittimità, oltre alla tutela dal predominio americano. Ma ora che la Cina è diventata molto più potente, e viene vessata dall’amministrazione di Trump su base bilaterale, potrebbe anche cambiare atteggiamento, sentendosi ormai sufficientemente forte per difendersi da sola, e perfino prevalere.
La strategia di base dell’Ue e delle altre potenze che rischierebbero di perdere influenza in un mondo G2 – come il Giappone, il Canada, l’Australia e la Gran Bretagna del Brexit – dovrebbe essere quella di lavorare per persuadere la Cina a non abbandonare il multilateralismo. Questo obiettivo si potrebbe ottenere dimostrando che formule più accettabili per gestire problemi delicati come il furto di proprietà intellettuali e lo sviluppo tecnologico si possono ottenere grazie alla Wto, il Fmi e l’Onu, invece che in un negoziato Usa-Cina, e che società come Huawei saranno più protette dal diritto internazionale che dallo scontro tra le leggi dei due Paesi. Nel contempo i governi europei dovrebbero svolgere un lavoro di lobby con gli altri rami del governo americano, come il Congresso e i governatori degli Stati, per convincerli che gli interessi a lungo termine degli Usa sono garantiti da un’ampia partnership internazionale meglio che dalla diplomazia personale di Trump.
Tutti vogliono che gli Usa e la Cina raggiungano una tregua nella loro battaglia commerciale e tecnologica, e tutti vogliono evitare anche la più minima ombra di un confronto militare. Nello stesso tempo però non bisogna perdere di vista gli obiettivi di lungo termine, come quello di evitare danni collaterali al sistema decisionale multilaterale a cui tutti partecipiamo e in cui tutte le voci vengono ascoltate.

Corriere 4.2.19
La deriva non vista del Paese
di Ernesto Galli della Loggia


Non credo che ci siano altri Paesi in Europa dove un autorevole perché popolarissimo rappresentante del partito di maggioranza e di governo (sto parlando di Alessandro Di Battista) possa tranquillamente sostenere che «Trump in politica estera è il miglior presidente degli Usa incluso quel golpista di Obama», o che in Venezuela l’Italia non debba schierarsi con l’opposizione a un caudillo sciagurato il quale ha costretto all’esilio più di tre milioni di persone, ne ha arrestate migliaia, uccise a centinaia e sta portando la sua nazione alla rovina economica. Né c’è un altro posto, direi, dove mentre tutti gli indici volgono al negativo indicando un futuro da sviluppo zero le autorità di governo dichiarino che no, non è vero nulla, tutto va per il meglio, e anzi siamo alla vigilia di una notevole ripresa.
In Italia invece tutto ciò non solo è possibile ma sta diventando quasi la norma. Se ne fa di solito colpa alla politica, in specie ai 5 Stelle. E di fatto le sciocchezze di cui sopra sono uscite dalla loro bocca, sono loro i principali protagonisti di quella che si può definire l’irresponsabilità politica, della quale ha già detto tutto ieri su queste colonne Maurizio Ferrera.
I l guaio è che tale irresponsabilità politica è lo specchio di qualcosa di più vasto, di un’irresponsabilità diciamo così sociale (e vorrei aggiungere etica) che ormai nel nostro Paese sta conoscendo una diffusione a macchia d’olio. Certo, per una parte importante essa è ripresa e quindi rilanciata e amplificata dalla politica.
Ad esempio l’idea che esistano micidiali scie chimiche rilasciate dagli aerei, che i vaccini siano pericolosi e inutili, che i migranti portino in Italia malattie spaventose, che i musulmani presenti in Italia ammontino a non so quanti milioni, e altre falsità o idiozie simili sono state certamente e spregiudicatamente utilizzate dalla politica (di nuovo: più che altro dai grillini). Ma sono nate altrove. E sono condivise da moltissima gente, indipendentemente da Di Maio o Di Battista. I quali se ne sono fatti portavoce, io credo, non solo e non tanto per calcolo politico bensì per un’altra ragione: perché alla fine la cultura di entrambi è la stessa della gente che crede in quelle sciocchezze. O meglio, il più delle volte non sa neppure se ci crede realmente, non sa se è proprio vero, ma comunque si sente autorizzata a parlare lo stesso, a parlarne come se fosse vero. Tanto che importa?
Sicché in ultima analisi il dato veramente preoccupante è questo: in Italia è sempre più raro che qualcuno si senta responsabile di alcunché. Sempre più va prendendo piede un’irresponsabilità sociale di fondo che prende innanzi tutto una veste diciamo così intellettual-discorsiva. Si può parlare a vanvera di qualsiasi argomento, tutti si sentono autorizzati a dire la propria su qualunque cosa senza pensarci due volte, non ci sono più esperti di nulla (se non di cucina: solo i cuochi sono ormai considerati degli autentici Soloni). È questa vastissima area di irresponsabilità socio-culturale che è andata via crescendo il vero retroterra di quella che appare l’irresponsabile superficialità di tanti discorsi politici. Che differenza c’è alla fin fine, infatti, tra Di Battista che dà del golpista a Obama, il ministro che si dice certo che domani vedremo il Pil risalire alle stelle, e chi è sicuro che dal cancro si possa guarire perfettamente con una dieta adatta?
Il fenomeno di tale irresponsabilità è ancora più pervadente, in realtà. Da tempo, infatti, esso si manifesta oltre che nell’ambito delle parole e delle idee in quello dei comportamenti. Specie dei comportamenti giovanili, con lo scoppio sempre più frequente di una violenza gratuita e inconsapevole di se stessa. Un quattordicenne e un sedicenne che danno fuoco a un clochard, una banda di giovanissimi che a Como sconvolgono il centro della città con una serie di rapine e aggressioni feroci; e però i loro genitori, i «grandi», perlopiù sempre inclini a un’indulgenza assolutoria — «E via, che sarà mai, che avranno fatto poi di così grave?» — non essendo più neppure loro in grado di capire il significato e la portata delle cose. È lo specchio di una società che sta diventando nel suo complesso incapace di pesare le idee e le persone, di misurare le differenze: tra i fatti e le fantasie, tra chi ragiona e chi straparla, tra chi sa e chi non sa, alla fine tra il bene e il male. Una società che appena può ama sempre più spesso prendersi una vacanza dalla realtà per abbandonarsi all’esercizio di una irresponsabilità, resa stolidamente sicura di sé dall’impunità che le assicura la forza del numero.
Ma se oggi l’Italia è questa, non è per un caso. È perché negli anni non ci siamo accorti che stavamo diventando un Paese disarticolato e invertebrato, un organismo privo di qualunque centro d’ispirazione ideale come di qualunque istanza di controllo culturale. Le nostre sciagurate vicende interne, i nostri errori e le nostre insufficienze, hanno fatto sì che forse in nessun altro Paese d’Europa come da noi abbia messo radici un pregiudizio democraticistico ostile al principio d’autorità. Cioè un principio che, come si capisce, è essenziale non solo per l’esistenza del centro e dell’istanza di cui sopra, ma ancora di più perché esistano delle élite. Non possono esserci élite dove lo spirito pubblico non è pronto a riconoscere il peso di alcuna autorità.
Per più aspetti il problema dell’Italia di questo inizio secolo è anche, nella sua essenza, un problema di assenza di autorità. Di un’autorità socialmente riconosciuta e policentrica, come si conviene ad una società democratica, ma comunque di un’autorità. E invece non siamo disposti a riconoscere l’autorità più di niente e di nessuno. Non esiste più alcuna autorità a cui il Paese dia la sua fiducia, né esiste più — in un perverso quanto ovvio circolo vizioso — alcuna sede disposta a pensarsi fino in fondo come depositaria di una qualche autorità. Da noi non hanno ormai più nessuna vera autorità la famiglia, la scuola, la cultura, la stampa, la politica, la Chiesa, la Banca d’Italia, le istituzioni dello Stato a cominciare dalla magistratura (fanno ancora una parziale eccezione la Presidenza della Repubblica e l’Arma dei carabinieri, sempre che quest’ultima sappia fare al suo interno la pulizia che recenti vicende indicano come necessaria). Dove per autorità intendo quella che s’impone di per sé stessa, per la propria intrinseca autorevolezza, serietà, coerenza, caratteristiche capaci in quanto tali di generare consenso e dettare idee e comportamenti. Senza la quale autorità si diventa per l’appunto ciò che noi oggi siamo: un Paese senza guida in cui ognuno può dire e credere ciò che vuole, spesso anche farlo, nella massima irresponsabilità e illudendosi di non pagare mai pegno. E invece il pegno si paga sempre: e infatti noi lo stiamo già pagando.

La Stampa 4.2.19
Le mani su Siena
Così il petrolio russo si compra la città
Questa è la storia di due tesori. Un tesoro d’arte e di bellezza che sta cercando forza e risorse per risollevarsi da una lunga crisi. E di un altro tesoro, questa volta fatto di dollari e petrolio, usato per comprare, pezzo dopo pezzo, il primo tesoro.
di Gianluca Paolucci


Questa è la storia di due tesori. Un tesoro d’arte e di bellezza che sta cercando forza e risorse per risollevarsi da una lunga crisi. E di un altro tesoro, questa volta fatto di dollari e petrolio, usato per comprare, pezzo dopo pezzo, il primo tesoro.
Il tesoro d’arte e di bellezza è Siena ma prima di arrivarci c’è da compiere un tortuoso giro per una mezza dozzina di Paesi tra l’ex Unione Sovietica, l’Europa e i Caraibi per raccontare chi e come sta comprando la città.
Tutto alle Isole Vergini
Si parte in Estonia nel 2011. In quell’anno, il principale esportatore dell’Estonia è stata una società di trading di prodotti petroliferi, la Baltic International Trading (Bit). Nel 2011 ha esportato gasolio e altri derivati del petrolio per 1,34 miliardi di dollari. Di questi, 1,294 miliardi - più del 98% del totale - li ha venduti in un unico Paese: le Isole Vergini Britanniche. L’anno prima la stessa Bit era solo secondo, sempre con le Isole Vergini come primo cliente, ma in un anno ha raddoppiato i volumi.
Da qui si arriva fino a una delle piazze più belle del mondo, piazza del Campo, dove troviamo un’altra società che si chiama Sielna spa. La Sielna è la società che sta comprando uno dopo l’altro i locali che si affacciano sulla piazza del Palio. Su 15 locali - bar, ristoranti e gelaterie - che si affacciano sulla piazza almeno 10 sono diventati, nell’arco di due anni, in proprietà o in gestione, della Sielna. Una campagna acquisti che continua anche in questi giorni. Nel novembre scorso ha comprato anche uno storico negozio di fotografia e uno di scarpe, uno accanto all’altro, che dovrebbero diventare un ennesimo ristorante, questa volta di nuova concezione, con annesso mulino e pastificio ad uso e consumo dei milioni di turisti che ogni anno arrivano a Siena. Non c’è solo piazza del Campo. Al gruppo fanno capo anche una mezza dozzina di bar in città e un albergo alle porte di Siena. Nei suoi piani prevede inoltre l’apertura di un hotel a Firenze e di un agriturismo a Monteriggioni. Nei giorni scorsi si è parlato anche di un interesse del gruppo senese per la Pernigotti.
Le mani sul commercio
Per tornare nella città toscana, da qualche mese fa parte del gruppo anche la Nannini, storico marchio della pasticceria senese della famiglia di Gianna e del pilota Alessandro. Il piano di rilancio della Nannini, annunciato nel novembre scorso, prevede investimenti per 40 milioni, l’apertura di una serie di locali del marchio in Italia e due stabilimenti per la produzione dei dolci tipici del marchio, con l’assunzione di 200 persone. Tanto davvero, per una città che sta cercando faticosamente di risollevarsi dalla devastante crisi del Monte dei Paschi. L’uomo dietro tutto questo si chiama Igor Bidilo. È un cittadino kazako ma grazie agli investimenti fatti a Tallin ha un visto estone che gli consente di muoversi liberamente in tutta l’Unione europea (vedi altro pezzo nella pagina). È anche il principale azionista della Sielna, con l’80% delle quote. Il suo nome compare negli Offshore Leaks - il database di documenti relativi a società basate in una serie di paradisi fiscali - come azionista di una società con sede a Mosca, Somitekno Ltd. Cosa fa la Somitekno? Trading di prodotti petroliferi.
I giacimenti in Baschiria
All’inizio del decennio, la piccola e poco conosciuta Somitekno sfida la concorrenza di colossi del settore come Glencore, prende una serie di contratti miliardari con Bashneft, la società petrolifera statale della Baschiria, una delle repubbliche che fanno parte della Federazione russa. Situata a Nord del Kazakistan, tra il Volga e gli Urali, nel suo territorio si trovano importanti giacimenti sfruttati da Bashneftgaz, che controlla anche gli impianti di raffinazione. Nel marzo del 2012, ad esempio, Bashneft conclude un contratto da 1,7 miliardi con Somitekno per la consegna di prodotti petroliferi. Nell’agosto ne conclude altri due, entrambi di un anno, per 5,5 miliardi di dollari in totale. Uno da 1,9 miliardi e l’altro, da 4,4 miliardi, per il solo export di carburante diesel.
Al momento dell’annuncio, gli analisti stimano che l’ammontare del contratto era tale da coprire l’intero export annuo di diesel di Bashneft. A sua volta, Somitekno vendeva, almeno in parte, alla Baltic International di Tallin. Controllata da una società cipriota, Cind Holding, anche questa riferibile a Bidilo e altri soci. Prima di Somitekno c’era la Atek, riferibile a Bidilo e al fratello Evgeni, che fino al 2009 aveva un contratto per processare 200 mila tonnellate al mese di petrolio negli impianti di raffinazione della Baschiria, di proprietà statale. Un articolo del 2012 di una testata russa specializzata nell’oil & gas, (Oilru.com) riferisce della vicinanza dei fratelli Bidilo a Ural Rakhimov, figlio di Murtaza Rakhimov, ex presidente dal 1993 al 2010 della Baschiria. Rakhimov entra poi nel board di Sistema, la holding dell’oligarca Vladimir Yevtushenko, che nel frattempo ha acquisito Bashneft. Nel 2014 gli asset di Bashneft vengono sequestrati dal governo russo. E nel 2015 Baltic International finisce in liquidazione.
Per dire cos’è Bashneft - finita adesso nell’orbita del colosso Rosneft di Igor Sechin - e quanto strategica sia non solo economicamente, basterà aggiungere che, nel novembre del 2016, la lotta per il controllo della società ha portato fino all’arresto del ministro dell’Economia russo allora in carica, Alexey Ulyukaev, accusato di aver preso una tangente da 2 milioni di dollari in quello che i media internazionali hanno descritto come uno scontro ai massimi livelli del potere russo.
Prima delle elezioni
Cind Holding, la società cipriota che controllava Baltic International, è invece ancora operativa. Tramite una srl italiana, Ufficio Bocchetto, è proprietaria di 250 metri quadri per negozi nel cuore di Milano, a pochi passi da piazza Affari e da Cordusio, del valore di svariati milioni di euro. Amministratore della Ufficio Bocchetto è Maxim Constatin Catalin, che fino a qualche anno fa lavorava per una struttura di accoglienza per anziani. Adesso ha il 20% della Sielna, è amministratore unico della società e prima dell’ultimo aumento di capitale, qualche mese fa, aveva il 50%. Poi il 23 ottobre scorso Bidilo ha staccato un assegno da 2,9 milioni ed è salito dal 50% all’80%.
Il nome di Bidilo compare per la prima volta nelle cronache italiane alla fine del febbraio scorso. Salvatore Caiata, imprenditore del settore della ristorazione basato a Siena, presidente del Potenza Calcio, candidato «eccellente» dei Cinquestelle alle elezioni politiche risulta indagato per riciclaggio dalla procura di Siena. Caiata è stato eletto lo stesso, ha lasciato i Cinquestelle e siede tra i banchi del gruppo Misto.
L’inchiesta a suo carico è stata archiviata in estate e nulla risulta a carico di Bidilo. Ma, spiega una fonte investigativa, proprio le indagini su Caiata hanno appurato che Bidilo era «il principale, praticamente l’unico» finanziatore delle attività di Caiata. Ovvero, una parte di bar e ristoranti che adesso sono parte del gruppo Sielna.

La Stampa 4.2.19
“Visti d’oro” in Estonia e passaporti in vendita
di Lorenzo Bagnoli


Suur Patarei, Tallinn, capitale dell’Estonia. È qui, lungo la dorsale cittadina che si affaccia sul mar Baltico, che abita Igor Bidilo, kazako di passaporto, europeo di portafoglio. L’uomo che partire dal 1995 ha investito in almeno quattro Paesi dello spazio Schengen, più altrettanti al di fuori.
Tutto comincia con l’acquito della residenza in Estonia, attraverso uno dei due programmi del Paese per le Residency-by-Investments, la residenza permanente in cambio di cash. Rientrano nell’insieme Golden Visa: programmi attraverso cui ricchi investitori possono acquistare la cittadinanza (come, ad esempio, nei casi di Malta e Cipro) oppure la residenza (come, tra gli altri, in Estonia o in Italia, dal dicembre 2017). Tutti nell’Unione europea le offrono. Secondo un report del 2018 di Tranparency International e Global Witness, l’industria dell cittadinanza in dieci anni ha prodotto circa 25 miliardi di euro di investimenti esteri, più i proventi date alle 550 agenzie internazionali che hanno fatto da consulenza. Un mercato ricco.
La Commissione europea, però, il 23 gennaio, gli ha dichiarato guerra aperta. Tra i fattori che hanno contribuito a questo scontro, figura il fallimento delle norme antiriciclaggio sugli investimenti stranieri che hanno permesso lo scandalo Danske Bank. La succursale che funzionava da lavatrice per il denaro sporco era, per altro, proprio in Estonia. Qualcosa non ha funzionato nei controlli sugli investitori facoltosi. Scrive la Commissione nel suo report, che con il passaporto si conferiscono «automaticamente i diritti», tra cui «il diritto al voto e alla partecipazione come candidato alle elezioni europee». Anche chi di fatto non ha un vero legame con il Paese. E poi c’è l’equità fiscale: in Italia, ad esempio, per chi compra la residenza è prevista una «tassa sostitutiva» di 100 mila euro sul reddito estero, qualunque esso sia; in Bulgaria, Estonia e Lettonia l’investitore estero accede a un regime di tassazione agevolata; a Cipro, Malta oppure in Irlanda e Portogallo il sistema offre una tassazione parallela che non tiene conto delle fonti estere di guadagno. Ingiusto, sostiene la Commissione. I Paesi membri, Malta in testa, si sono sempre difesi assicurando un sistema di due diligence avanzatissimo su ogni richiesta. Eppure già nel 2017 il Parlamento europeo definisce «discutibili» per completezza e adeguatezza. «Gli incentivi fiscali – prosegue il rapporto – costituiscono un vero fattore trainante della domanda». Creando di fatto competizione all’interno dello stesso “mercato” della cittadinanza europea. Bidilo, per diventare residente in Estonia, ha dovuto investire nel Paese un milione di euro e aprire almeno una società. Nulla di più facile, per il presidente del Cda di Baltic International Holding. In cambio ha ottenuto il diritto a restare per almeno cinque anni, la libera circolazione nell’area Schengen e una tassa del 20% solo sui ricavi dell’attività in Estonia. Visti i ricavi del suo Atek Group nel 2016, 10 miliardi di dollari, il presidente uscente del Montenegro Milo Djukanovic – vecchia conoscenza della giustizia italiana, visto che tra 2003 e 2009 è stato imputato e poi archiviato per reati di mafia e contrabbando dai tribunali di Napoli e Bari – ha scritto a Bidilo per concedergli la cittadinanza onoraria. «È il fondatore di CG Investment Doo a Tivat (Montenegro) – si legge nella lettera di Djukanovic -. Nel periodo 2014- 2016 ha investito complessivamente 13 milioni di euro», tra terreni, appartamenti e hotel. Tutte attività, riporta Mans, organizzazione che si occupa di corruzione e criminalità organizzata in Montenegro, che hanno sempre operato in perdita. Non solo, scrivono: di nuovi posti di lavoro Bidilo ne ha creato solo uno. Il suo.

Il Fatto 4.2.19
Pd e Forza Italia uniti contro la riforma anti-voltaggabana
La modifica del regolamento blocca i cambi di casacca
di Ilaria Proietti


Tira una brutta aria a Montecitorio per la riforma del regolamento che Roberto Fico vorrebbe portare a casa al più presto. E che servirà ad avvicinare le regole di funzionamento della Camera a quelle già in vigore dalla fine del 2017 al Senato, magari anche per quel che riguarda lo stop ai cambi di casacca: a Palazzo Madama gli eletti che intendono lasciare il gruppo di appartenenza non possono mettersi in proprio, né godere di finanziamenti, neppure in caso di esodi di massa: la sola opportunità è confluire nel Gruppo misto.
Alla Camera invece il vincolo di appartenenza al gruppo con cui si è stati eletti non c’è ancora. In caso di scissioni interne o di fuoriuscite niente impedirebbe formazioni nuove di pacca, sotto insegne sconosciute agli elettori e che, naturalmente, parteciperebbero alla ripartizione del bottino da 30,9 milioni stanziati da Montecitorio ogni anno a titolo di contributi ai gruppi. Una discreta rete di protezione di questi tempi incerti: sono in molti a profetizzare che l’esito delle Europee potrebbero determinare crisi se non collassi interni ai partiti. C’è chi sta attraversando – è il caso del Pd – una travagliata stagione congressuale che lascia già intravedere la minaccia di strappi. E chi cerca – è il caso di Forza Italia – un rinnovamento di leadership atteso inutilmente da anni.
Insomma, per molti la possibilità di cambiare insegne senza finire nel limbo del Gruppo misto è una scialuppa da preservare a tutti i costi. E forse non è un caso che proprio Pd e Forza Italia abbiano minacciato barricate sulla riforma del regolamento.
Per dem e forzisti se ne potrà parlare solo dopo che verranno approvate le riforme costituzionali, ossia tra molti mesi. C’è chi dice addirittura un paio d’anni o più. Sempre che nel frattempo la maggioranza tenga nella composizione attuale e che la legislatura non finisca anzitempo.
Lo si è capito l’altro giorno alla prima riunione della Giunta del regolamento della nuova legislatura, in cui Fico ha proposto di allargare i lavori ai gruppi attualmente non rappresentati nell’organismo, ossia Fratelli d’Italia, LeU e il Gruppo misto. Il presidente della Camera l’ha spuntata, ma ha dovuto faticare per rassicurare che aumentando i componenti da 10 a 15 non si produrrà una eccessiva distorsione della corretta rappresentanza proporzionale dei Gruppi. Numeri a parte – comunque non una questione trascurabile quando si tratta di cambiare le regole – il nodo resta la “netta contrarietà e indisponibilità” a discutere della riforma del regolamento già manifestata da Pd e FI e dem. L’azzurro Roberto Occhiuto è stato chiarissimo: non se ne fa nulla prima che si sia concluso l’iter delle modifiche costituzionali che imporranno di rimettere mano anche al regolamento, quindi tanto vale attendere. Simone Baldelli, sempre di FI, ha avvertito Fico sul rischio che anche le regole della Camera possano offrire ulteriori occasioni di divisioni in un clima già teso tra maggioranza e opposizioni, paventando lo spettro di una riforma di parte “con inevitabile coinvolgimento della posizione del presidente”. Tesi sposata appieno dal dem Emanuele Fiano. Fico è avvertito.

Il Fatto 4.2.19
“Guardiamo ai movimenti, saremo noi l’alternativa ai giallo-verdi”
Il sindaco di Napoli è pronto a scendere in campo alle europee alla guida dei partitini di estrema sinistra
di Enrico Fierro


“Di fronte alle scelte disumane di questo governo bisogna agire e offrire una alternativa agli italiani”. Luigi de Magistris è netto: correrà con una sua lista alle prossime elezioni europee.
La lista de Magistris?
No, non sarà il solito partitino personale. È una coalizione, se sarò considerato il leader o il capo, chiamiamolo come ci pare, mi assumerò la responsabilità di guidare questo processo. Ci metto la faccia, e insieme sceglieremo se candidarmi già alle europee o meno. Ho una sola perplessità: voglio portare a termine il mio mandato di sindaco e poi candidarmi alla guida della Campania, per portare anche lì il cambiamento che abbiamo realizzato a Napoli.
Obiettivo?
Offrire una terza via. Non vogliamo l’Europa dell’austerità e dei neoliberismi selvaggi alla Renzi, Macron e Merkel, né quella dei muri alla Orban, Salvini e Di Maio. L’Unione va ricostruita dal basso, con le città, il territorio, l’accoglienza, la solidarietà e la giustizia sociale. Il messaggio che lancio è che l’alternativa a Salvini-Di Maio non può essere chi ha provocato la malattia politica di un governo che è il più a destra della storia repubblicana del Paese.
Porte chiuse al Pd?
Sbarrate. Il Pd non è più credibile agli occhi di chi vuole il cambiamento. Non è più spendibile a sinistra.
Quindi a quale campo politico guardate?
All’opposizione reale che sta crescendo nel Paese, movimenti, gruppi sociali e individualità”.
È una ulteriore frammentazione, o il tentativo di riunificare i pezzi della sinistra?
Non riproporremo vecchie operazioni di ricomposizione del puzzle della sinistra radicale. Noi vogliamo mettere insieme le esperienze che in questi anni hanno resistito. A Napoli abbiamo dimostrato che si può coniugare rivoluzione, intesa come capacità di rottura del sistema, e governo competente delle istituzioni. Ceti popolari, borghesia illuminata, sindaci, movimenti, reti sociali: questi sono i miei riferimenti. Ci saremo alle europee, ma l’obiettivo è la guida del Paese.
Sindaco, i più benevoli le diranno che lei è un illuso.
Analisti, politologi, editorialisti, si ostinano a non vedere che nel Paese sta crescendo una opposizione reale. La gente è stanca della politica dell’urlo, del rancore, del nemico a tutti i costi, della paura. Vuole un’alternativa. Un fenomeno già visto a Napoli quando venni eletto per la prima volta sindaco. Proponemmo la rottura di un sistema potentissimo e la gente scelse noi, non la destra berlusconiana o un centrosinistra che governava da anni.
I sondaggi valutano la lista Calenda al 20-24%, mentre il vostro raggruppamento non viene testato, perché?
Noi puntiamo alle elezioni, non ai sondaggi. Detto questo, Calenda mette insieme personaggi e pezzi di potere che sono la causa vera dell’esplosione di Salvini. Se l’opposizione a questo governo è fatta dai Calenda e da Renzi, insomma, dagli sconfitti, i giallo-verde possono stare tranquilli.
Sull’immigrazione l’Italia si lacera e Salvini miete consensi…
Nel governo c’è un misto terribile di disumanità e incompetenza: il ministro Toninelli continua a parlare di porti chiusi, mentre sono aperti. Di Maio che dice blocchiamo la nave Sea Wacht, ignorando che in Italia c’è ancora la separazione dei poteri e un sequestro non lo dispone il governo, ma l’autorità giudiziaria. Se non ci fosse stata la mobilitazione dei sindaci sul tema del decreto sicurezza e la battaglia sulla Sea Wacht, avremmo avuto ancora la nave in mare con le persone costrette a soffrire. Attaccano le Ong perché non vogliono testimoni in mare, occhi in grado di vedere. Ora che le condotte criminali che hanno messo in campo stanno venendo a galla, sta emergendo la verità: le scelte disumane sull’immigrazione sono dell’intero governo. L’unità M5S-Lega è granitica anche nella difesa di Salvini. Altro che onestà e trasparenza.
Qualcuno parla di mutazione genetica dei Cinquestelle, qual è il suo giudizio?
Non li ho mai votati, ma ho sempre riconosciuto che nel loro humus c’era una volontà di cambiamento. Lo slogan onestà-onestà era giusto, nel Sud ha attirato voti, ma dopo un anno di governo la mia valutazione è negativa. Dall’incompetenza evidente di esponenti che sono al vertice del governo e delle istituzioni, al capolavoro politico.
Quale?
Quello di aver preso una marea di voti al Sud e di far diventare dominus del governo uno come Salvini che ha governato con Berlusconi e che è il politico più antimeridionale che si conosca. Sono dei geni, passeranno alla storia. Sulla questione morale devo dire che, al di là delle vicende che hanno riguardato le famiglie di Di Maio e Di Battista, mi chiedo come si possa governare con un partito come la Lega condannato per aver truffato 49 milioni allo Stato? Ma vedono le alleanze che Salvini sta facendo al Sud? Stanno costruendo un Paese disumano, che rischia di essere odiato nel mondo. Un Paese che con l’approvazione dell’autonomia delle regioni ricche del Nord sarà più ingiusto e diviso.
I Cinquestelle puntano al reddito di cittadinanza. Qual è il suo giudizio?
L’intera manovra del governo è elettoralistica. Sul Reddito va detto che è una misura che abbiamo sempre chiesto, ma analizzata a fondo appare come un obiettivo che guarda alle elezioni europee. Di Maio ha accelerato i tempi e vuole staccare l’assegno il 27 aprile a poche settimane dal voto. È una norma temporanea, dura pochi mesi e non è legata al lavoro, finito il budget, sette miliardi e mezzo, i disoccupati non avranno prospettive e ce li ritroveremo sotto i Comuni a chiedere un lavoro. L’alternativa è quell’insieme di scelte che nella manovra non ci sono, soprattutto quella di coniugare misure per gli investimenti, per lo sviluppo e il lavoro e assistenza alle fragilità sociali.

Repubblica 2.4.19
Macerata
Pamela, il " Lupo" e la città che in un anno ha sconfitto lo spaccio
di Carlo Bonini


Di che cosa stiamo parlando
La mattina del 3 febbraio del 2018 Luca Traini, 28 anni, di Tolentino, fascista dichiarato ed ex candidato locale della Lega, sale in auto con la sua Glock e spara contro i migranti nelle strade di Macerata. Ai carabinieri che lo arrestano dice di aver voluto vendicare Pamela Mastropietro, la diciottenne romana uccisa in modo atroce pochi giorni prima e per la cui morte è accusato un ragazzo nigeriano, Innocent Oseghale. Per il raid razzista, Traini è stato condannato il 3 ottobre scorso a dodici anni di carcere

MACERATA Un anno dopo lo scempio di Pamela Mastropietro e la mattanza del "Lupo" Luca Traini, Macerata resta un paradigma. Un cantiere, se si vuole. Ma dall’inerzia capovolta. Dove gli impresari della Paura si scoprono ora costretti a coltivare ossessivamente il culto di morti che non conviene seppellire.
Perché, cessata la materia del contendere, riportata la città a una quiete da borgo svizzero, si rivela improvvisamente l’abisso tra il reale e il narrato e una intera comunità comincia a misurare l’ipocrisia di un sillogismo — neri=droga — che avrebbe dovuto o vorrebbe assolvere la cattiva coscienza dei "bianchi", che quella droga consumano e quel mercato ingrassano.
Per raccontarlo conviene muovere ancora una volta dal "Lupo", che ieri, su questo giornale, si è raccontato a Ezio Mauro.
Condannato a 12 anni di reclusione per i colpi esplosi contro nove "neri" il 3 febbraio del 2018 e rinchiuso nel penitenziario di Ancona Montacuto, tre settimane fa, il 10 gennaio, prende carta e penna. E scrive. Una lettera di una pagina e mezzo indirizzata ad Antonio Pignataro, il questore di Macerata chiamato al capezzale della città dopo che i colpi della sua Glock 17 calibro 9x21 avevano colpito al cuore anche l’afasia dello Stato. Già, Pignataro. Il "Piña", come ha preso a chiamarlo qui chi non lo ama giocando lessicalmente con diminutivi da regimi sudamericani, lo sbirro cresciuto nella mobile palermitana di Cassarà, che ha tirato dritto come un fuso riuscendo a dimostrare che il principio di legalità non conosce il colore della pelle. E dunque può diventare una grana anche e soprattutto per i "bianchi", una volta tolti dal marciapiede "i neri che spacciano".
La lettera del "Lupo" ha una grafia ordinata, in stampatello maiuscolo, e non mostra incertezze nel tratto. Si legge: «Pregiatissimo, dottor Antonio Pignataro, questore di Macerata, mi permetto di scriverle per elogiare la sua opera di lotta al degrado cittadino e alla criminalità organizzata. Il suo lavoro, la sua battaglia contro lo spaccio di droga le ha attirato molte "antipatie" che ultimamente sfociano in scritte ingiuriose contro la sua persona.
Per quanto mi riguarda, lei, così come tutte le forze dell’ordine, state facendo un ottimo lavoro, che oltre ad appagarvi professionalmente, onora il vostro essere uomini nel tutelare la vita e il futuro dei cittadini, soprattutto dei più giovani».
Nel suo narcisismo, il "Lupo" parla evidentemente innanzitutto a sé stesso, ricorda il posto che si è dato nel mondo — di Giustiziere per conto della comunità — ma, in qualche modo, e come farà nella sua intervista a Repubblica, finisce con il privare di argomenti gli impresari della Paura che lo hanno prima ingrassato nelle sue ossessioni e, ora, vorrebbero espungerlo dalla memoria di questa storia, perché non più utile, al contrario di Pamela.
Prosegue Traini: «Con il vostro lavoro dimostrate che la speranza nella legge non è solo un’utopia da privato cittadino, anche se in stato di detenzione (per scontare la giusta pena delle mie azioni). La vorrei spronare a "fregarsene" delle minacce di pochi delinquenti che, evidentemente, in lei non vedono l’uomo di legge tutto di un pezzo che vedo io.
Concludo, augurando a lei e a tutti i rappresentanti della legge un buon lavoro e un 2019 ricco di successi sul "fronte giustizia" Con grandissima stima, le porgo i miei più cordiali saluti».
Già, non sanno più che farsene di Traini e del suo fantasma che rende le armi e si pente, gli sciacalli che, mercoledì sera, si sono ritrovati nei giardini di via Spalato, di fronte al civico 124, dove Pamela venne uccisa e smembrata. Non sanno che farsene dei numeri che indicano oggi Macerata diciannovesima su 110 città italiane per qualità della vita (10 posizioni più in alto dell’anno precedente). Dei giardini Diaz e del Parco di Fontescodella, fino a un anno fa piazza di spaccio a cielo aperto e oggi restituiti alla città, ai passeggini, al jogging e, ieri sotto il diluvio, al sit-in antirazzista degli studenti di "Officina Universitaria". Né di una giovanissima capo della squadra mobile, la napoletana Maria Raffaella Abbate, arrivata con Pignataro e che ha rivoltato la città come un calzino portando in un anno i cosiddetti indici di criminalità predatoria prossimi allo zero (14 rapine, nessuno scippo, nessun omicidio, 108 arrestati, oltre ventrirè chili di stupefacenti, cocaina, hashish, eroina, sequestrati al momento dello spaccio). O della circostanza che mai, forse, come in questo microcosmo, di fronte alla giustizia penale tutti si sono dimostrati uguali. Il bianco, Traini. E i neri, oggi sotto il tetto dello stesso carcere di Montacuto dove sconta la sua pena il "Lupo": Innocent Oseghale, nigeriano di 29 anni che tra una decina di giorni andrà a processo imputato come l’assassino di Pamela, e Gideon Azeke, 28 anni, nigeriano, ferito da Traini la mattina del 3 febbraio 2018 e arrestato due volte (a metà settembre e definitivamente a metà ottobre dello scorso anno) per spaccio di stupefacenti dalla stessa squadra mobile che lo aveva soccorso.
Casa Pound, Forza Nuova, Fratelli d’Italia, volevano una «messa solenne» che non hanno avuto per Pamela, ritenendo la preghiera officiata mercoledì sera dal parroco di santa Croce, don Alberto Forconi, una deminutio della memoria. E la voleva Deborah Pantana, consigliera comunale di Forza Italia, sconfitta nel ballottaggio del 2015 dal sindaco Pd Romano Carancini.
Con un cinismo degli argomenti e dei toni che ha finito per far saltare i nervi anche al vescovo di Macerata, Nazzareno Marconi, convinto che il silenzio della Chiesa, stavolta, non sarebbe stato sufficiente e dunque spinto a una nota ufficiale in cui si stigmatizza che «reiterare polemiche che già si erano dimostrate pretestuose lo scorso anno, rivela scarsità di argomenti e orizzonti politici meschini».
Del resto, nell’agenda politica locale della Paura, le date continuano ad essere due: le elezioni europee in primavera e, il prossimo anno, il voto per Comune e la Regione. E questo impone di continuare a cingere d’assedio emotivamente e politicamente la città. Come racconta anche solo il linguaggio del corpo del sindaco Pd Romano Carancini, orfano di un partito evaporato con le elezioni del 4 marzo, e i cui iscritti, per dirne una, hanno votato in 90 su 195 alle ultime primarie per i candidati alla segreteria. «Se mi si passa l’immagine, è come dopo un terremoto — dice— Le scosse di assestamento continuano. Ma almeno, ora, il quadro credo sia chiaro a tutti. Per Salvini e la destra che ha cavalcato la sua morte dal primo istante, Pamela deve restare viva fino al 2020. E quindi anche le polemiche di queste ore, l’accusa al sottoscritto di non aver voluto commemorare la ragazza, servono solo a creare un’equazione oscena secondo cui il Pd e il sottoscritto porterebbero il peso politico di quello che è successo. Vogliono tenere in catene la città, perché nessuno veda la strada che è stata fatta in questo anno. Non vogliono, come succederà, che la morte di Pamela e quel che è accaduto da lì in avanti vengano ricordati, come sarà, il prossimo 18 febbraio nell’unico luogo laico deputato a farlo: il nostro consiglio comunale. Non vogliono parlare di ciò che è successo dal 3 febbraio 2018 in poi». Dunque, di dodici mesi di cura da cavallo, come si diceva.
Documentata dalla media di 20 patenti a sera ritirate nei week-end ai positivi al narcotest o dalle ordinanze che hanno vietato la vendita di cannabis light in tutta la città e limitato le licenze per il gioco alle slot vietandolo dalle 7 alle 10 di mattina e dalle 3 del pomeriggio alle 8 di sera. In una guerra dichiarata al traffico, spaccio e consumo di stupefacenti che ha portato comune e forze di polizia nelle scuole medie, e convinto a difendere il progetto Sprar di accoglienza dei migranti che il decreto sicurezza Salvini ha destinato a futura estinzione.
Quello Sprar che ha consentito a due delle sei vittime del "Lupo" di trovare un lavoro nel comune di Servigliano. Ma questo, appunto, meglio non dirlo. Non fa paura.

Repubblica 4.2.19
Lo scenario
Come cambia la politica Usa
L’ora delle donne contro Trump. Ma basterà per vincere nel 2020?
di Anna Lombardi


Di che cosa stiamo parlando
Domani sera Trump arringherà l’America con quel discorso sullo Stato dell’Unione che fa il punto sull’anno trascorso e annuncia le politiche a venire. E che si tiene con una settimana di ritardo per lo shutdown. Ha già annunciato che chiederà «unione e convergenza per tirar fuori il Paese dallo stallo». Ma allo stesso tempo attaccherà i democratici su clandestini e aborto. Alle sue spalle ci sarà Nancy Pelosi, che non cede sul muro al confine col Messico. E sugli scranni le quattro donne che sperano di sfidarlo alle presidenziali 2020.

NEW YORK Per la prima volta nella storia della politica americana essere donna è un assett e non uno svantaggio. Almeno nel partito democratico». Il politologo americano Bruce Mirrof sintetizza benissimo la situazione in cui Donald Trump si troverà domani quando salirà sul podio del Congresso per pronunciare il suo discorso sullo Stato dell’Unione. Altro che beato fra le donne. A ricordare a tutti chi ha vinto il braccio di ferro dello shutdown costringendo il presidente a riaprire il governo federale ci sarà, alle sue spalle, quella Nancy Pelosi, speaker della Camera, che non ha ceduto sul muro al confine col Messico. In prima fila la giudice costituzionale Ruth Bader Ginsburg, nuova icona femminista al punto che il documentario RBG a lei dedicato è approdato perfino agli Oscar. E sugli scranni le quattro donne già in gara per sfidarlo nel 2020: Elizabeth Warren, Kamala Harris, Tulsi Gabbard, Kirsten Gillibrand. Di più. A rispondere al discorso ci sarà per la prima volta una donna afroamericana. Stacey Abrams, l’avvocatessa che perse la gara a governatore della Georgia a causa di una legge razzista che ha tenuto lontano dalle urne migliaia di neri. Ma che già si distingue come nuova ideologa del partito firmando su Foreign Affairs un articolo dove si oppone alla visione di Francis Fukuyama: il filosofo della politica secondo cui la sinistra è concentrata troppo «su battaglie identitarie a favore di minoranze e donne: dimenticando la sua natura di paladina della classe operaia». E invece proprio quella politica identitaria, obietta Abrams, ha permesso nel 2018 ai democratici di riconquistare la Camera: portando al Congresso il più alto numero di donne».
È vero, l’America dal presidente più misogino della Storia a midterm ha eletto 117 deputate e 12 senatrici. Un record. Eppure proprio Abrams, con la sua sconfitta, rappresenta l’eccezione. Nel 2018 dodici donne hanno corso per scranni di governatore, e soltanto 3 hanno vinto portando a 9 su 50 il numero delle governatrici.
Affidarsi al nuovo delle donne, che per quanto asset è comunque un asset divisorio, davvero è la strada che nell’America già divisa può portare alla sconfitta di Trump?
«La conquista di un ruolo di leadership resta difficile. Ma d’altro canto i democratici dipendono sempre più dall’attivismo femminile e da quello di altre minoranze oltraggiate da Trump» insiste il professor Miroff che insegna a Suny, esperto di campagne presidenziali a autore del saggio Presidents on political ground.
«La politica americana non è fatta di strateghi che si chiudono in una stanza per decidere chi deve prevalere. Ma di convergenze. Ciascuno corre per sé, poi ci si mette d’accordo.
Alle primarie democratiche una donna può farcela. Alle presidenziali è da vedere» obietta il commentatore politico conservatore Michael Barone del Washington Examiner: curatore di quell’Almanac of American Politics che è il "chi è chi" della politica. «Per un anno i candidati dem si butteranno sempre più a sinistra e i repubblicani più a destra: pronti a schierarsi al centro quando inizierà la campagna elettorale vera. Chi è abile lo farà senza dovere cambiare messaggio. Ma spesso è il contrario: col rischio è di essere patetici e imbarazzanti scontentando gli elettori.
Kamala Harris ed Elizabeth Warren ora sono forti perché spingono a sinistra dove gli elettori dem, donne al 60 per cento, sostengono proprio per battaglie identitarie. Se funzionerà nel 2020 è presto per dirlo».
I numeri dicono che a midterm c’è stato il più grande divario di genere della storia politica moderna: «I democratici hanno ottenuto il 59% del voto femminile. I repubblicani solo il 40. Gli uomini al contrario si sono divisi alla pari» ti spiega Helmut Norpoth, prof essore di Scienza del Comportamento Politico a Stony Brook che nel 2016 col suo Primary Model statitstico fu il primo a predire la vittoria di Donald Trump.
«Questo indica chiaramente dove bisogna andare a pescare.
Tante donne in gara non si erano mai viste: il 2020 sarà un passaggio storico per la politica americana».
A distinguere le nuove candidate da Hillary Clinton che pure ha fatto da battipista c’è d’altronde proprio la rivendicazione dell’esperienza femminile lì dove Hillary preferiva ripetere: «Non corro in quanto donna. Sono la più qualificata».
«Va riconosciuto alla Clinton di avere dimostrato che un grande partito era pronto a rompere "il tetto di cristallo" dandole la nomination» riflette Ellen Fitzpatrick, storica e autrice di The Highest Glass Ceiling dove racconta tre casi di donne che ben prima di Hillary tentarono la sfida. «Un sondaggio dice che il 90 per cento degli americani non avrà problemi a votare una donna presidente: se sarà la donna giusta. Ma che cosa deve avere di magico questa donna per essere accettata? Finora le candidate si sono scontrate con ostacoli simili. Troppo ambigue, troppo aggressive, troppo qualcosa».
Un invito al pragmatismo arriva da Alec Ross, l’autore de Il nostro futuro, che nel 2008 aiutò Barack Obama a sviluppare l’aspetto tecnologico della sua campagna e fu consigliere per l’Innovazione della Clinton al Dipartimento di Stato: «L’attivismo femminile è un fenomeno della costa: nel cuore bianco dell’America il 55 per cento delle donne preferì Trump. Bisogna partire da lì.
Consapevoli che forse una donna non vincerà il voto dei maschi bianchi arrabbiati, quella working class che ritiene di aver perso i suoi privilegi a favore di altre comunità. Ma neanche Obama vinse col loro voto. Il problema semmai è che Hillary perse soprattutto il voto delle donne. E non puoi perdere tutti i voti dei bianchi. Nel partito ci sono figure che insieme possono però prendere tutto. Penso a un ticket Joe Biden-Kamala Harris o qualcosa di simile. Sì, nel ticket ci sarà una donna, non so in che ruolo ma ne sono certo. Di più: non mi sorprenderebbe se Trump mollasse Mike Pence per correre con Nikki Halley come vice, che forse proprio per questo mollò a sorpresa il ruolo di ambasciatrice all’Onu. E allora, che sfida».

La Stampa 4.2.19
La ferita del mio amico Amos Oz
Yehoshua ricorda lo scrittore scomparso e il dramma da cui fu segnato. Il suicidio della madre come fonte creativa tra allusioni, compassione e rabbia
«Aveva 12 anni quando lei si uccise. Ma quella tragedia non ebbe fretta di rivelarsi nei suoi libri»
di Abraham B. Yehoshua


Non ricordo esattamente quando Amos Oz definì «ferita» la sorgente creativa da cui lui e altri scrittori traggono ispirazione. Ricordo però benissimo che io mi affrettai a dissociarmi da questa affermazione un po’ generica, dicendo che non ravvisavo in me alcuna ferita che mi spingesse a scrivere, malgrado capissi perfettamente la forza che la sua biografia esercitava su di lui.
Ho l’impressione che questo scambio di opinioni tra noi avesse a che fare con una discussione più ampia, alla quale lui fece riferimento nel suo ultimo libro What is in an apple [in corso di traduzione per Feltrinelli, ndr], nel quale respinge esplicitamente la mia pretesa che la letteratura ponga in primo piano anche conflitti morali. Per lui, dare vita a figure umane in un’opera letteraria è di per sé un atto morale, mentre il dibattito su temi etici va condotto con una «seconda penna», come definiva i suoi interventi giornalistici. E in effetti, nei suoi testi ideologici e politici, Amos esprimeva posizioni etiche forti, coraggiose e scevre da eccessive semplificazioni
Saggezza letteraria
La «ferita», tuttavia, non ebbe fretta di rivelarsi nei suoi libri e, in retrospettiva, Oz agì con saggezza letteraria. Il suicidio di un genitore non è soltanto la rivelazione di un’effettiva debolezza di una famiglia che getta un’ombra scura sui membri rimasti, ma sminuisce anche il valore di un figlio o di una figlia, come se questi non valessero abbastanza perché i genitori si mantengano in vita per loro. Una «ferita» di questo genere viene quindi anche recepita come un grave difetto, al punto che persino durante le nostre conversazioni intime, quando l’amicizia tra noi si fece più stretta, Amos evitava di parlarne.«Aveva 12 anni quando lei si uccise. Ma quella tragedia non ebbe fretta di rivelarsi nei suoi libri»
Ma la morte della madre, il suo suicidio, emergeva con lampi poco chiari e allusivi dalle profondità della sua produzione letteraria e dal groviglio delle situazioni immaginarie. Quasi fosse impossibile toccare quella ferita senza approfondirne maggiormente le origini, la natura e tutto ciò che l’avvolgeva. Ricordo che quando lessi dell’incidente di Ivria, la moglie del protagonista morta fulminata all’inizio di Conoscere una donna, mi dissi «ecco un primo segnale di avvicinamento alla ferita».
«Aspetta, ci sta arrivando»
Ma era un avvicinamento ancora titubante, superficiale e privo di effetto. E il fatto che in Fima il protagonista è orfano di madre non mi parve sufficiente per ritenere che Oz fosse arrivato a toccare a fondo quella ferita.
Avrebbe osato discendere ancor più in profondità e sondare il trauma che, a suo dire, rappresentava la fonte principale della sua scrittura? Ricordo che mia moglie Ika, sia benedetta la sua memoria, che leggeva i romanzi di Oz in maniera più corretta e precisa di me, mi disse: «Aspetta, ci sta arrivando, non deve correre. Per esprimere compassione, ma anche rabbia, deve prima superare la vergogna».
Ed è strano che il cammino verso il suicidio della madre in Una storia di amore e di tenebra dovesse passare attraverso il lirismo di Lo stesso mare, il libro che Oz amava più degli altri. Ed era incredibile anche per lui, autore di prosa per eccellenza, riuscire a dedicarsi a un’età avanzata ai toni lirici che avvolgevano la morte silenziosa di Nadia Danon. Un lirismo che diluì un poco la rabbia che si portava ancora dentro per la dipartita della madre. Ma in effetti Lo stesso mare - un libro strano, ibrido e variegato, sul cui frontespizio Amos scrisse nella dedica a me e a Ika: «Eccomi qui, di fronte a voi, il più vicino possibile a quel posto tutto mio» - fu il testo che spianò la strada alla grandiosa mimesi che ricostruì la storia della sua famiglia, della sua infanzia e dell’ambiente in cui era cresciuto, comprese le origini lituane della famiglia della madre grazie alle meravigliose conversazioni che Amos ebbe con sua zia Sonia, un’autentica miniera d’oro per lui.
Audace franchezza
Ritengo tuttavia che anche la pubblicazione di Lacci d’amore, lo stupendo libro autobiografico di Haim Be’er che precedette Una storia d’amore e di tenebra, diede a Oz il coraggio di discendere negli abissi dell’infanzia per girare intorno, con pignoleria e fedeltà (ma anche con umoristica gaiezza), alla madre, al padre, e a tutta l’atmosfera della Gerusalemme della guerra di indipendenza nel quartiere Kerem Avraham, e ricostruire minuziosamente non solo i dettagli privati ma anche il clima storico e sociale in cui la sua «ferita» si formò e si aprì. E di giungere con audace franchezza alle pagine finali in cui la compassione, ma anche la rabbia, si intrecciano, alimentandosi a vicenda nel modo più intenso e fedele possibile: le ultime tre pagine, nelle quali è descritto con minuzia il suicidio della madre e che ho letto il 1° febbraio durante la cerimonia di commemorazione in suo ricordo al Teatro Cameri.—
Traduzione di Alessandra Shomroni

La Stampa 4.2.19

Anno Accademico 1938-1939
“Espulsi solo perché ebrei”
Riabilitazione per 10 medici
di Alessandro Mondo


Vennero liquidati con un breve ringraziamento: preludio ad una decisione odiosa, forse appena temperata dall’imbarazzo di chi la pronunciava. Senza citarne i nomi, il professor Luigi Bobbio, presidente dell’Accademia di Medicina di Torino, indirizzò loro il proprio «particolare saluto e il ringraziamento vivissimo per la loro attiva collaborazione di tanti anni ai nostri lavori, ritenendo con questo di essere interprete sicuro e sincero al riguardo di tutta l’Accademia».
La censura
Loro erano 10 Soci, tutti autorevoli e taluni molto anziani, espulsi durante l’inaugurazione dell’Anno Accademico 1938-1939: non per qualche pecca scoperta nei loro curricula, per errori medici o per atteggiamenti sconvenienti ma a seguito della promulgazione delle leggi razziali , il cui contenuto fu annunciato a Trieste il 18 settembre 1938. Una settimana dopo, come molti altri, persero il lavoro: il lavoro, la dignità, la considerazione, il rispetto della maggioranza dei concittadini. E questo, nonostante avessero onorato la cultura medica con onestà e trasparenza. Purtroppo contava altro, nel buio dell’Italia dell’epoca.
Ecco perchè la decisione dell’Accademia di Medicina, che in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico ha voluto riammettere ex-post e riabilitare quei 10 soci, colpevoli solo di essere ebrei, ha un valore che va al di là dell’atto in sè e per sè: il valore della memoria, il riscatto - benchè tardivo - di una vergogna che in quegli anni terribili coinvolse il mondo scientifico alla parti degli apparati statali. E che brucia ancora sulla pelle di questo Paese. «Abbiamo ritenuto necessario compiere un gesto, sebbene postumo, di riconoscimento di un grave torto che l’Accademia di allora rese a danno di illustri e coltissimi colleghi - spiega il professor Gian Carlo Isaia, presidente dell’ente, citandoli per nome durante il suo intervento -. Giusto ricordarne le figure, in questa stessa aula, e, citandoli, sentirli ancora presenti fra noi in questa antica istituzione». Un modo per sottolineare «la vergogna di una legge che, a parte la sua intrinseca iniquità, costituì la premessa per ulteriori tragedie nazionali ed internazionali».
Il riscatto
Eccoli, i dieci luminari considerati dei reietti e condannati dall’emanazione della leggi «per la difesa della razza». Leggi in base alle quali, spiegavano i giornali, «l’ebreo non può prestare servizio militare, dirigere grandi aziende, possedere terre con estimo superiore a 5 mila lire, avere persone di servizio ariane, avere impieghi statali o parastatali», e via di questo passo.
Niente da fare per Amedeo Herlitzka, professore di Fisiologia, suo fratello, Livio Herlitzka, libero docente in Ostetricia e Ginecologia, Giuseppe Levi, professore di Anatomia Umana Normale,Benedetto Morpurgo, professore di Patologia Generale, Nino Valobra, libero docente in Patologia Speciale Medica e Patologia Nervosa, Mario Donati, professore di Clinica Chirurgica, Carlo Foà, professore di Fisiologia Umana, Cesare Sacerdoti, professore ad interim di Patologia Generale,Arturo Castiglioni, professore di Storia della Medicina,Tullio Terni, professore di Anatomia Umana Normale all’Università. La gran parte di loro insegnavano all’Ateneo torinese. Soci ordinari, onorari o corrispondenti dell’Accademia: cacciati perchè ebrei, come tali indegni. Finalmente la Storia, e l’Accademia, si sono ricordate anche di loro.

Corriere 4.2.19
Hilde Schramm, figlia di Albert Speer
«Papà era l’architetto di Hitler
Aiutare gli ebrei è la mia missione»
di Michele Farina


Hilde Schramm, figlia di Albert Speer, premiata per la sua Fondazione
Una Fondazione ebraica ha premiato la figlia dell’architetto di Hitler per la sua missione in favore degli ebrei. In una foto che ha fatto storia, Hilde Schramm ha un vestito rosa, le treccine bionde e la mano del Führer sulla spalla: sono passati i decenni, e questa donna dalla voce gentile ha fatto tanto per prendere le distanze dal nazismo che la vide bambina, dalla sua storia familiare, dalla figura ingombrante e controversa (è il meno che si possa dire) del padre Albert Speer, che a 29 anni divenne il «designer» scelto da Hitler per costruire la nuova Germania e più tardi suo ministro per gli armamenti. L’ultimo passo di questo lungo distacco è il riconoscimento che, a 82 anni, la veterana dei Verdi tedeschi ha appena ricevuto dalla Obermayer Foundation, l’organizzazione creata da un filantropo americano per insignire coloro che mantengono viva l’eredità ebraica in Germania.
Lei, figlia di un alto gerarca che al processo di Norimberga sfuggì al patibolo solo perché chiese scusa, spergiurando di non sapere nulla dell’Olocausto, per poi essere definitivamente smentito da un lettera spuntata nel 2007. Se la storia ha tolto la maschera del «nazista buono» all’architetto di Hitler, che come responsabile degli Armamenti era a capo di un ministero che costruì i Lager e gestì il lavoro di milioni di schiavi prigionieri, la cronaca getta ora una luce tutta diversa sulla figlia che da piccola, quando la famiglia andava al «Nido dell’Aquila» a trovare Hitler nel suo ritiro alpino, guardava i film di Mickey Mouse in compagnia di Eva Braun, la donna del capo. Hilde ha cercato che la storia del padre «non fosse sempre messa al centro» della sua vita. E in qualche modo è riuscita nel suo intento. Accettando di parlarne, ma facendo qualcosa di concreto per scalfire quel senso di colpa che non ritiene «personale ma collettivo».
È stata premiata per Zurückgeben, che in tedesco vuole dire «restituire». È il nome dell’organizzazione che Hilde ha fatto nascere 25 anni fa «su consiglio — ha raccontato a Christine Amanpour della Cnn — di alcune amiche donne». Nei primi anni Novanta scompare la madre. Il padre, dopo vent’anni di prigione, era morto nel 1981, in Gran Bretagna, da uomo libero che scriveva libri e si faceva intervistare dai giornali americani. Senza i genitori, Hilde Schramm si trova a gestire l’eredità di tre quadri, che il padre aveva comperato prima del 1945, e che la figlia non vuole tenere: «Allora non sapevo se si trattasse di arte rubata ai legittimi proprietari ebrei, cosa che poi è stata esclusa. Ma quei quadri erano il frutto di denaro sporco che non volevo».
Morale: li vendette. E con il ricavato — «settantamila euro, certo non una grande cifra» — nel 1994 diede vita alla Fondazione Zurückgeben. «In quegli anni nessuno in Germania sembrava interessarsi a quanto era stato sottratto agli ebrei» ha raccontato Hilde ai media internazionali. Una delle mission della Fondazione è raccogliere donazioni da parte di chi crede di aver ottenuto guadagni ingiusti dal «grande furto» che la Germania nazista architettò ai danni dei cittadini di religione ebraica. Il denaro raccolto serve a finanziare borse di studio per donne ebree in Germania, nel campo dell’arte e della creatività.
Subito dopo la guerra, il fratello di Hilde, Albert junior, futuro architetto, credeva che il «nuovo lavoro» del padre fosse quello di «criminale di guerra». Lei aveva meno di 10 anni quando sua madre seguiva il processo di Norimberga alla radio. Solo più tardi cominciò a sapere. «Mia madre con noi non ha mai giustificato quanto era avvenuto, ci ha lasciate libere», ha detto Hilde alla Cnn. Ha raccontato delle visite al padre nella prigione di Spandau, delle lettere che si sono scambiati. Oggi ritiene che «lui sapesse dell’Olocausto, e che si sia trovato come altri in un sistema di negazione della realtà». E che, dopo, «si sia pentito».
La vergogna collettiva per questa signora di 82 anni dalla voce gentile è un sentimento ineludibile, «che forse le mie nipoti e i loro figli non si sentiranno più addosso». Ma «non è l’unico sentimento: dopo la guerra abbiamo avuto la possibilità di costruire una società più giusta, democratica, e ci siamo riusciti». L’avanzata dell’estrema destra, non solo in Germania, la preoccupa, «ma la storia non si ripete». E l’antisemitismo?, le ha chiesto un giornalista del Daily Telegraph. «Il partito Alleanza per la Germania non si professa anti-semita, ma oggi non si tratta soltanto di anti-semitismo: cercano di dire che non sono anti-semiti, ma intanto sono apertamente anti-musulmani».

Corriere 4.2.19
Roma libera un po’ ingrata

La mancata insurrezione della capitale non va certo addebitata a Pio XII o ai generali Clark e Alexander, ma alla debolezza dei partigiani
Scarsa riconoscenza verso gli Alleati che cacciarono i nazisti nel giugno 1944
Un saggio di Gabriele Ranzato (Laterza) sul rapporto tra gli angloamericani e la Resistenza
di Paolo Mieli


Scarsa riconoscenza verso gli alleati
che cacciarono i nazisti nel giugno 1944
A ricordare l’ingresso delle truppe alleate a Roma nel giugno del 1944, nella capitale c’è soltanto una piccola targa bilingue collocata nel 1994 in un giardinetto della piccola piazza San Marco, a fianco di Palazzo Venezia, in cui è scritto: «A cinquant’anni dalla liberazione di Roma in memoria di tutti i caduti della campagna d’Italia». Ad essa — nota Gabriele Ranzato in La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza (8 settembre 1943 - 4 giugno 1944), in uscita giovedì 7 febbraio per i tipi di Laterza — è stato accostato nel 2006 un non grandissimo bassorilievo in cui si mostra una scena di fraternizzazione tra il popolo e alcuni armati che — «senza elmetti in capo né uniformi evidenti» — non sono assolutamente individuabili come soldati angloamericani. Sul fianco compare questa iscrizione: «4 giugno 1944. Liberazione di Roma dall’occupazione nazifascista grazie al sacrificio e all’eroismo delle forze alleate, dei partigiani italiani e dei cittadini di Roma». Questo è tutto per quel che riguarda la gratitudine nei confronti dei soldati che vennero da Oltreoceano a liberarci da nazisti e fascisti. Non un granché.
Una spiegazione di questa assenza di gratitudine può essere ricondotta al fatto che già all’epoca sul rapporto tra angloamericani e antifascisti italiani impegnati nella Resistenza — come già ebbe a notare Rick Atkinson in Il giorno della battaglia. Gli Alleati in Italia 1943-1944 (Mondadori) — pesò una «reciproca mancanza di conoscenza». I primi «non avevano consistenti indizi dell’esistenza — non solo a Roma, ma per qualche tempo anche nel resto d’Italia — di un corposo movimento resistenziale al quale potessero attribuire un pur minimo ruolo strategico nella loro guerra; i loro tentativi di mettersi in contatto con le forze che combattevano il fascismo in questa o quella città per valersi del loro aiuto furono «limitati, improvvisati e alquanto poveri di risultati». Gli uomini della Resistenza romana per altro verso «potevano sapere molto poco circa la conduzione della campagna d’Italia da parte alleata, condizionata dalle contrastanti visioni politico-strategiche di Stati Uniti e Gran Bretagna». Inoltre la Resistenza romana, dopo lo sbarco di Anzio (22 gennaio 1944), visse «con frustrazione, e anche risentimento, il mancato arrivo dell’esercito angloamericano alle porte della città». Arrivo che ci si aspettava imminente «secondo un’illusione effettivamente alimentata soprattutto dalla componente britannica degli stessi comandi alleati».
Certo, gravava su quei mesi tra l’autunno del 1943 e la tarda primavera del 1944 la gestione delle trattative armistiziali con l’appendice «tragica e perfino grottesca» della «finta disponibilità dell’Italia badogliana a dare un immediato contributo bellico agli Alleati», a cui si era aggiunto il «disonorevole» abbandono ai tedeschi della capitale. Cose che avevano reso più che evidente come l’iniziativa dell’armistizio non fosse dovuta a una «trasformazione antifascista» della classe dirigente italiana, la quale, peraltro, con il fascismo si era largamente compromessa, né ad una volontà di redimersi con un consistente impegno militare, come avrebbe imposto un vero cambiamento di fronte. Era solo, quello italiano, un modo di «sfilarsi dalla guerra, da qualsiasi guerra lasciando che il Paese fosse solo il teatro di vicende belliche in cui il compito di sconfiggere la Germania nazista fosse riservato esclusivamente o quasi agli eserciti alleati».
Ci sono poi varie indicazioni del fatto che, pur aspirando i romani ad essere liberati dall’esercito alleato, essi non lo sentivano affatto come «un esercito che stava combattendo la loro guerra». Nonostante ciò, al momento della liberazione gli abitanti della capitale mostrarono nei confronti degli angloamericani un sentimento di riconoscenza destinato a durare. Anche se questo apprezzamento «non va disgiunto da osservazioni critiche circa la loro condotta militare», soprattutto quella dei loro servizi segreti a Roma sotto l’occupazione nazista. Si può forse ritenere, sostiene Ranzato, che alle vicende di quei servizi in alcuni casi eroiche — come documentato dai ricordi dell’ufficiale americano Peter Tompkins Una spia a Roma (il Saggiatore) — «ma per lo più scombinate e talora tragicomiche» venga dato in genere uno spazio eccessivo. Ma poiché la causa della loro «inefficienza» appare essere stata l’inadeguatezza, oltre che degli agenti sul campo, soprattutto della loro centrale presso la Quinta Armata del generale Clark (e forse andrebbe ricercata «ancora più in alto»), «sarebbe stato reticente e parziale non mostrarla con tutti i dettagli offerti dalla documentazione» in cui l’autore si è via via imbattuto.
E dal momento che siamo in tema di ciò che non andò per il verso giusto, aggiungiamo che nella Roma nazista «gli antifascisti erano in pochi», che Chiesa e combattenti fedeli a Badoglio scoraggiavano eventuali attentati nel tentativo, sostenevano, di «attenuare la spietatezza dell’occupante». Con ampio riferimento al libro di Andrea Riccardi L’inverno più lungo. 1943-44 Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma (Laterza), Ranzato assolve Pio XII dall’accusa di aver imposto un freno «a un popolo incline all’insurrezione». Il «freno» fu «invece» posto dal «desiderio popolare largamente diffuso di sfuggire alla guerra e di trovare avallo, espressione e riparo nel Pontefice». Oltretutto tantissimi romani, «avevano sostenuto per accettazione patriottica o anche con entusiasmo la guerra predatrice dell’Italia fascista, pronti certamente ad accogliere con tripudio l’esercito italiano qualora avesse ottenuto la vittoria e imposto ai popoli sconfitti il suo dominio». Sicché «era difficile che quel popolo vedesse la necessità di riparare ad una colpa collettiva».
Nonostante ciò, soprattutto tra il dicembre del 1943 e il marzo del 1944 tedeschi e fascisti repubblicani subirono «un numero consistente di attacchi anche mortali». Compiuti «quasi esclusivamente» dai Gap comunisti, gruppi il cui nucleo «centrale» era costituito per la maggior parte «da giovani di classi medio-alte, per lo più studenti». Destinati a diventare l’asse portante del gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra. Anche se «il fatto incontrovertibile che la loro meta fosse allora un sistema politico sociale di tipo sovietico» comporta, scrive Ranzato, che «fosse più che lecito opporsi all’affermazione in Italia del loro partito».
Il contributo alla lotta armata del Partito d’Azione e dei socialisti fu, quantunque l’avessero scelta, «piuttosto limitato». Quasi del tutto «prive di riscontri» risultano essere «le imprese vantate dal movimento Bandiera Rossa», comunisti dissidenti ai quali Ranzato dedica pagine molto interessanti. L’assenza di riscontri, chiarisce lo storico, non comporta che quel movimento, «come le altre formazioni della Resistenza, e forse anche di più» non abbia avuto un alto numero di caduti; «ma non si può stabilire affatto una proporzionalità diretta tra le vittime della repressione tedesca e le azioni compiute». In ogni caso la presenza di questi partigiani nella lotta per la liberazione della capitale è da anni al centro di un interessante dibattito già documentato da Enzo Piscitelli in Storia della Resistenza romana (Laterza), Silverio Corvisieri in Bandiera Rossa nella Resistenza romana, ma anche Il re, Togliatti e il Gobbo (Odradek) e Roberto Gremmo in I partigiani di Bandiera Rossa (Edizioni Elf). Dibattito nato dalla circostanza che i combattenti di Bandiera Rossa — osteggiati dal Partito comunista italiano — avrebbero voluto privilegiare la lotta rivoluzionaria anticapitalistica rispetto alla liberazione perseguita in alleanza con forze borghesi; e, di conseguenza, presero le distanze dall’azione militare di via Rasella («L’atto terroristico non appartiene alla strategia marxista», scrisse «Direttive Rivoluzionarie», un organo del movimento); anche se poi un nutrito gruppo di loro militanti ne pagò le conseguenze trovando la morte, per mano nazista, alle Fosse Ardeatine. La discussione si incentrò soprattutto sulla loro rivendicazione a proprio merito (ma senza riscontri) di importanti episodi di lotta armata.
Il caso più eclatante si ebbe in margine alla concessione — con decreto luogotenenziale e sulla base di una lunga relazione sottoscritta addirittura dal generale badogliano Roberto Bencivenga — di una medaglia d’oro per meriti resistenziali a Vincenzo Guarniera. Il quale Guarniera fu oggetto di molte polemiche (e subì anche traversie giudiziarie) che portarono nel 1950 alla revoca della medaglia suddetta. Nelle pieghe di questo caso e di altri consimili vennero fuori margini di ambiguità sull’effettiva consistenza e portata delle azioni del Movimento comunista d’Italia, a cui si rifaceva Bandiera Rossa.
Ma se, scrive l’autore, può destare «più di una perplessità l’effettiva portata delle azioni rivendicate dal Mcd’I, non c’è dubbio che invece molti dei suoi militanti furono oggetto di una spietata repressione tedesca in seguito a numerose catture attuate grazie all’opera di provocatori e spie». Perché questo accanimento nazista contro Bandiera Rossa? È probabile, risponde lo storico, che «più che per la sua pericolosità, Bandiera Rossa sia stata scelta dai tedeschi per fare da capro espiatorio e da disincentivo all’attività resistenziale, soprattutto per la sua notevole permeabilità alle infiltrazioni e alle delazioni di cui fu facile bersaglio, in assenza di strette regole cospirative e anche di semplici misure sufficientemente cautelative».
Importanti pagine sono altresì dedicate da Ranzato al tema dell’«insurrezione mancata». Che non trova giustificazione nel fatto che le truppe alleate, sbarcate ad Anzio in gennaio, non avanzarono o non riuscirono ad avanzare immediatamente verso Roma. Tant’è che anche nei giorni conclusivi dell’occupazione tedesca, «sebbene allora quella travolgente avanzata ci fu», dai romani non venne dato «alcun contributo» alla cacciata dei nazisti da parte di una «Resistenza insorgente». Neppure la sinistra del Cln, «che nel suo insieme costituiva l’unico schieramento disponibile ad un’azione insurrezionale», aveva veramente una forza sufficiente «per scontrarsi efficacemente» con il nemico. Neanche con un nemico in ritirata come quello tedesco. La Resistenza — sostiene Ranzato — si fermò a «considerare» che i lutti e le distruzioni che quell’azione insurrezionale avrebbe potuto provocare «sarebbero stati in definitiva controproducenti per la stessa causa della Resistenza». Però poi, nel dopoguerra, ci si raccontò che la colpa degli ultimi giorni di inazione e di alcuni fallimenti resistenziali («o presunti tali») erano riconducibili a responsabilità degli Alleati. Ma non era questa la verità.
Tutto ciò fa parte di un problema più generale. Sono numerosi — scrive Ranzato — gli esempi, raccolti in diversi scritti di guerra e dopoguerra, di manifestazioni di «scontento della Resistenza italiana nei confronti degli Alleati accusati di non averla abbastanza appoggiata e rifornita», a causa di una certa ostilità verso i partigiani per via della preponderante influenza comunista all’interno del movimento resistenziale. In realtà, mette a punto Ranzato, ci sono diverse considerazioni che dovrebbero indurci a un «ridimensionamento della concretezza di quei fatti» e delle loro eventuali motivazioni. È un fatto che gli Alleati aiutarono e rifornirono generosamente la Resistenza del comunista Tito, il che rende evidente che non era la maggiore o minore presenza dei comunisti nei movimenti che si battevano contro nazisti e fascisti a far pendere un piatto o l’altro della bilancia angloamericana. Erano piuttosto le chance di successo che venivano attribuite a questo o quel gruppo resistenziale. E agli italiani — a differenza di francesi o jugoslavi — ne venivano riconosciute assai poche.
Un ultimo dettaglio: la stele di cui si è detto all’inizio, qualche tempo fa è stata rimossa per un intervento di ristrutturazione urbana e non è mai ricomparsa, nonostante quei lavori siano stati da tempo ultimati. A giudizio di Ranzato è, questa, l’ulteriore riprova di una «mancanza di riconoscenza» nei confronti degli Alleati, che ha come unica attenuante quella di non riguardare solo Roma e i romani, bensì «tutto un popolo che, per ricostruire un suo orgoglio di appartenenza nazionale dopo il disastro della guerra, ha preferito considerarsi come vinto\vincitore piuttosto che liberato». Ammesso che questa possa essere considerata un’attenuante.

Repubblica 4.2.19
Ma questo Romolo sembra il re dei vichinghi
di Maurizio Bettini


Ho visto Il primo re, il film che Matteo Rovere ha dedicato a Romolo e Remo. E ho pensato al mito.
Cioè a quel tipo di storia che non viene raccontata una volta per sempre, ma muta e si rinnova da una versione all’altra. Però, a ogni variante il mito viene rielaborato secondo le categorie e i gusti della cultura che lo accoglie: la Medea di Euripide non è certo quella di Pasolini. Che ne è dunque dei gemelli nell’ultima versione del loro mito? A quali categorie si conformano? Prima di tutto, direi, alla fascinazione nordica cui la nostra cultura va soggetta quando immagina il primitivo.
Nelle loro peregrinazioni Romolo e Remo attraversano un Lazio irlandese, o finnico, dove non smette mai di piovere e dove una palude segue l’altra.
Si aggiungano gli scoppi di urla selvagge, le maschere d’orso (quelle che indossavano i famigerati berserkr del settentrione), l’ambientazione boschiva, le interminabili lotte nel fango. Primitivo uguale nordico, è lo spirito dei tempi.
Mi veniva in mente la teoria (talora accreditata anche in tv) secondo cui l’Odissea sarebbe stata originariamente ambientata nel Baltico. Anche il personaggio della Vestale — col suo volto fuligginoso, il suo gusto per il sangue di cui si cosparge — somiglia più a una strega del Macbeth che non a una "vergine pura" di romana memoria. Anzi, assomiglia a una profetessa vichinga, così come i proto-Romani di Rovere rassomigliano agli ispidi e selvaggi guerrieri della serie televisiva Vikings. Al di là dei corpi mutilati e smembrati, della violenza parossistica cara a Hollywood, il film ha anche molti meriti, specificamente cinematografici, lo si è detto, ed è fuor di dubbio originale. Basta pensare che i dialoghi non solo sono in latino, ma qualche linguista li ha perfino dotati di desinenze arcaiche e forme indoeuropee. A dispetto di tanta cura erudita per il Lazio delle origini, però, di autentici costumi romani in questo Romolo e Remo non c’è traccia.
Come quando il compianto funebre per i guerrieri morti viene accompagnato da una danza quasi Sioux e da un flebile coro di bambini. Cosa si sarebbe potuto fare con la lamentazione antica! Bastava aver letto Ernesto de Martino.
Se per rendere "altri" Romolo e Remo, come meritatamente voleva, un regista come Rovere avesse attinto non alle fantasie nordiche, ma alla vera "alterità" della cultura romana arcaica (e giuro che ce n’è a bizzeffe) l’effetto sarebbe stato straordinario. La cosa che più mi ha colpito, comunque, è un’altra: alla fin fine questa Roma di Rovere nasce cattiva.
Non è la Roma dell’asylum, aperta ad accogliere ogni disperato, come recita il mito romano, ma è una Roma ostile, chiusa. Altro segno dei tempi?

L’Espresso 3 febbraio 2019
Dieci anni dopo
La grande beffa del testamento biologico negato
di Elena Testi


Fare testamento biologico in Italia, a più di un anno dall'approvazione della legge sul fine vita, vuol dire trovarsi in un caos di risposte vaghe, in un viaggio pieno di ostacoli grotteschi. Da Roma fino ad Avellino, ogni Comune dispiega una diversa procedura, tanto che esprimere le proprie volontà, in assenza di una banca dati nazionale, può risultare inutile. Eppure per istituirla basterebbe un semplice decreto del governo. L'unico passaggio chiaro dell'iter è come compilare le "Disposizioni Anticipate di Trattamento". Due fogli in tutto, scaricabile in prestampato dalla rete, dove è obbligatorio apporre una serie di crocette alla voce "disposizioni generali in caso di una malattia giudicata irreversibile associata a grave disturbo cognitivo". Un rosario di intenzioni che vanno da «in caso di arresto cardio-respiratorio si pratichi la rianimazione cardiopolmonare» fino al «si ricorra alla sedazione profonda».
In teoria depositare le Disposizioni Anticipate di Trattamento dovrebbe essere semplice. Bisogna recarsi nel Comune di residenza o andare direttamente da un notaio, ma «senza un registro nazionale», spiega la dipendente di un Municipio romano, «se le succede qualcosa a Milano, il medico potrebbe non saperlo». Ed è questo il grande problema: senza una banca dati le disposizioni rischiano di rimanere in un cassetto chiuso.
È il 14 dicembre 2017 quando il Senato approva la norma sul testamento biologico. Durante la seduta, le telecamere inquadrano i volti di Mina Welby, Monica Coscioni e Beppino Englaro che si abbracciano composti, dopo anni di battaglie: il biotestamento è legge. Ma non sanno che la norma rimarrà zoppa, tanto che un anno dopo si vedranno costretti a scendere nuovamente in campo con una lunga lettera, questa volta indirizzata alla ministra Giulia Grillo, per chiedere la piena attuazione della norma. Una legge attesa, voluta e combattuta ma che ancora non trova la sua esecuzione completa, nonostante la legge sul fine vita sia stata salutata come una rivoluzione civile.
Tutto gira intorno a un decreto applicativo atteso da mesi, ma che il governo sembra non avere la volontà di emanare, malgrado le dichiarazioni roboanti. Decreto che dovrebbe dar vita al tanto atteso registro che raccoglie le Dat e renderle così consultabili ai medici degli ospedali italiani. Nella manovra economica 2017 sono stati messi a bilancio 2 miliardi di euro per la sua realizzazione, altri 400 mila euro sono stati invece previsti per la manutenzione di un qualcosa che non esiste. Impossibile avere una data certa della sua creazione, al Ministero della Salute la bozza del decreto, che dovrebbe dar vita al registro e finalmente rendere pienamente attuative le «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento», è in mano a degli esperti di settore, ma dalla ministra Giulia Grillo nulla trapela. Eppure nel settembre 2016 fu proprio lei a scrivere un post sul quale chiedeva velocità e immediatezza: «Lo Stato non può più sottrarsi alle proprie responsabilità e deve colmare un vuoto rispetto al quale la nostra società da tempo chiede e attende un atto di indirizzo».
Di velocità e immediatezza sembra che si siano perse le tracce. La legge n. 219 per essere efficace necessitava, entro e non oltre 5 mesi (data stabilita
il 30 giugno 2018) la creazione di un'apposita banca dati per le Disposizioni anticipate di trattamento. È il 22 giugno quando Giulia Grillo, a una manciata di giorni dalla scadenza prevista, chiede al Consiglio di Stato di chiarire alcuni punti, perché «di difficile interpretazione». In poco più di un mese palazzo Spada emette il verdetto. Il 31 luglio di quest'anno chiarisce che
«la banca dati nazionale su richiesta dell'interessato deve contenere copia delle Dat, compresa l'indicazione del fiduciario, salvo che il dichiarante non intenda indicare soltanto dove esse sono reperibili». Non solo, per il Consiglio di Stato «il registro nazionale è aperto anche a tutti coloro che non sono iscritti al Servizio sanitario nazionale».
E ancora: «L'interessato deve poter scegliere di limitarle solo ad una particolare malattia, di estenderle a tutte le future malattie, di nominare
il fiduciario o di non nominarlo, ecc. Spetterà al Ministero della Salute mettere a disposizione un modulo-tipo per facilitare il cittadino a renderele Dat». Grillo appare soddisfatta: «I chiarimenti del massimo organo della Giustizia amministrativa ci consentono di ultimare la predisposizione di un provvedimento molto atteso dai cittadini, ma purtroppo per lungo tempo dimenticato nei cassetti». Tutto sembra essere pronto, a mancare sono solo i decreti del ministero. Ma passano le settimana, i mesi, e Mina Welby, Beppino Englaro e Monica Coscioni, sono costretti a iniziare una nuova lotta, questa volta contro la pigrizia burocratica: «Le scriviamo per chiederLe di porre fine alla violazione dei termini per l'attuazione della legge sul Biotestamento, una legge ottenuta grazie a persone che hanno pagato un prezzo personale di sofferenza e che non vogliamo sia oggi in parte vanificata».
Eppure il biotestamento interessa già migliaia di italiani. In meno di due anni,
i moduli scaricati dal portale dell'Associazione Coscioni, uno dei pochi siti web dove è possibile avere il modulo con pochi clic, sono stati 30 mila. Stando ai dati il 34 percento dei Dat viene dalle regioni del Nord-Ovest, mentre 26,3 dal Centro, le restanti da Sud e Isole. La Lombardia è la regione con la maggior percentuale di Dat espresse (21,6 per cento), seguita dal Lazio (13,9 per cento), dall'Emilia Romagna (9,3 per cento) e dalla Toscana (8,5 per cento).
Non sono però solo le tempistiche ad essere incerte, in bilico è anche la conoscenza approfondita della norma da parte delle Amministrazioni. Dopo un rimpallo di telefonate, una persona risponde dall'altro capo del telefono: «Senza fiduciario non può presentarsi», dice una dipendente del Comune di Avellino. «Non possiamo registrarle le sue Dat se non in presenza di una persona da lei scelta». Inutile dilungarsi sulla norma: «Qui funziona così». A Perugia, invece, si possono avere chiarimenti solo un'ora al giorno dal lunedì al venerdì. La prova di civiltà, tanta esortata dalla ministra Giulia Grillo, si infrange definitivamente, quando chiediamo se le Dat possano essere espresse da un paziente anche con una videoregistrazione, qualora le condizioni fisiche della persona non permettano un altro modo. La risposta è sempre un "no" senza possibilità di replica.
Negli ospedali il caos rimane, perché senza un registro nessuno può essere a conoscenza delle intenzioni del paziente, unico punto certo è che la legge non prevede l'obiezione di coscienza del medico. Le Dat possono essere disattese in tutto o in parte, ma solo con l'accordo del fiduciario. Insomma ogni punto è stato chiarito e persino il Garante della Privacy ha espresso il suo parere favorevole. Ma il decreto continua a mancare.

L’Espresso 3 febbraio 2019
La crisi della democrazia.  Psicosi 2.0 e altri deliri
"La politica nel vuoto. Democrazia senza partiti?"
Rabbia. Rancore. Paura. E silenzio della politica. Così il populismo si è fatto strada. E va all'attacco della verità
Esce il 5 febbraio il saggio "La politica senza politica" di Marco Revelli
di Pierluigi Longo


NON PUÒ SFUGGIRE IL NESSO quantomeno d'implicazione, se non di causalità diretta, tra la dissolvenza, anzi questo vero e proprio vuoto - «buco» direbbe Lacan - apertosi nello spazio politico e sociale, e il disordine emerso nel discorso pubblico e conseguentemente nello stato mentale di quanto si muove nella sfera del «Politico». Stato mentale - come si constata ogni giorno - con tutta evidenza disturbato. Attraversato da onde emozionali irrazionali, da paure solo in parte giustificate ma perlopiù enfatizzate, da rapidi e spesso inspiegabili mutamenti d'umore; dall'incomunicabilità crescente e da costruzioni fantasmatiche, in qualche caso allucinatorie, infine da vere e proprie patologie di tipo psicotico: complessi di persecuzione, ossessioni vittimarie, dietrologie paranoidi, incredulità verso ciò che fino a ieri era considerato dato di realtà condiviso. Insomma tutti gli ingredienti di quel mood che connota appunto la sindrome populista. A testimonianza del fatto che è venuto meno un significante condiviso; un nominatore autorevole che àncori le rappresentazioni individuali dell'esperienza a un qualche principio unitario di senso.
Le ricadute di questo scollamento dell'immaginario degli individui e dei gruppi da un piano discorsivo normato e normativo, sono molteplici. Le più evidenti - e sgangherate - sono le ormai sempre più diffuse dietrologie paranoidi incarnate dalle varie teorie del complotto. La prima delle quali, se non cronologicamente quantomeno a livello di audience - tanto che potremmo chiamarla «la madre di tutte le teorie del complotto» - è la George Soros Conspiracy Theory. La narrazione, assai simile a quella diffusa all'inizio del secolo scorso dai cosiddetti (e falsi) protocolli dei Savi di Sion, che ha per oggetto il miliardario di origine ungherese George Soros, definito di volta in volta Lord of chaos, Rothschild Agent, Violent Marxist Revolution Organizer, Zionist conspirator. Una narrazione costruita prevalentemente intorno al suo Open Society Institute, la cui azione pubblica e occulta avrebbe tramato ai danni dei popoli dell'Occidente, addirittura al fine di mutarne la struttura antropologica e razziale, o comunque per destabilizzarne i governi nazionali in nome di un mondialismo dominato dal denaro (e dunque da lui). Si tratta di una narrazione particolarmente efficace nel generare sciami di haters su scala globale («È un burattino miliardario della famiglia Rothschild che destabilizza intere nazioni finanziando programmi destinati alla giustizia sociale e corrompendo politici», «È un tizio che vuole distruggere tutto ciò che c'è di bello nel mondo...», «Se non vado errato è il cugino del diavolo. Finanzia ogni causa spregevole a cui puoi pensare e lo fa in nome del denaro e dell'influenza globale», sono alcuni dei post pubblicati nella sezione «Conspiracy» del frequentatissimo sito Reddit). I teorici del complotto lo scorgono dietro le primavere arabe, le «rivoluzioni colorate» - la White Revolution contro la Russia e la Purple Revolution contro Trump -, il caos in Ucraina, i racial riots a Ferguson, Baltimora, Charlotte; dietro Occupy Wall Street e dietro l'acquisto di 800 mila voti di migranti illegali a favore di Hillary Clinton. Soprattutto lo accusano - è questo il principale capo d'imputazione - di muovere attraverso la rete delle Ong nel Mediterraneo i giganteschi flussi di migranti (a cui pagherebbe anche il viaggio) che «invadono l'Europa» e in particolare l'Italia secondo un «piano» - degno di un romanzo di fantascienza distopica o, anche, di un delirio paranoide - volto a «sostituire la popolazione italiana con immigrati da utilizzare come operai a basso costo». Un delirio giunto a contaminare gli stessi circuiti ufficiali della politica, se è vero che l'attuale vice primo ministro Matteo Salvini ha dichiarato alla stampa (dal CARA di Mineo): «Sono sempre più convinto che sia in corso un chiaro tentativo di sostituzione etnica di popoli con altri popoli: è semplicemente un'operazione economica e commerciale finanziata da gente come Soros. Per quanto mi riguarda metterei fuorilegge tutte le istituzioni finanziate anche con un solo euro da gente come Soros».
Non si possono in quest'ottica trascurare altri deliri allucinatori di prima grandezza ad ampia circolazione mediatica, come il celebre Pizzagate e lo strano caso di QAnon3. Il primo innescato dalla sottrazione di migliaia di mail dall'account del capo della campagna di Hillary Clinton e pubblicate da WikiLeaks, su cui si è innestata una costruzione allucinatoria la cui trama portava a una pizzeria di Washington, la Comet Ping Pong, dove - speculando sul fatto che l'espressione Cheese Pizza è usata in codice dai pedofili per dire Child prostitution e che i collaboratori della candidata democratica si scambiavano messaggi con appuntamenti a cena - si è giunti a fantasticare di festini a luci rosse con minori, di messe sataniche e di cannibalismo in vere e proprie kill rooms nel retro del locale con protagonisti personaggi di primo piano dell'entourage clintoniano. Una fantasia pulp, appunto, che tuttavia è stata enfatizzata e diffusa massicciamente, da complottisti di mestiere come Alex Jones, sui canali radiofonici e web, in particolare nelle sezioni hot di "4Chan". Jones è un produttore di fakes seriale, diffusore a ampio spettro di teorie del complotto - dall'allunaggio, agli attentati dell'11 settembre, fino ai vaccini - ma certo non parla solo a se stesso. Il suo programma radiofonico The Alex Jones Show raccoglieva nel 2010 una media di 2 milioni di ascoltatori alla settimana, e il suo sito Infowars può contare su circa 10 milioni di visite al mese. Soprattutto - questo è il fatto significativo - i suoi messaggi dietrologici non rimangono nel circuito a sé dell'esoterismo tradizionale ma intersecano massicciamente i canali, un tempo presidiati da un certo grado di razionalità, della politica (il suo contributo alla vittoria di Donald Trump non è stato irrilevante). Come significativa, nella produzione del clima che sta caratterizzando la politica americana, è stata la comparsa in scena di QAnon e della sua narrazione che va sotto il nome di The Storm.
QAnon è il nickname di un utente anonimo (forse più di uno) di "4Chan", che il 28 ottobre del 2017 ha incominciato a postare enigmatici messaggi nella sezione dedicata alla politica, notizie del tutto infondate - l'imminente arresto di Hillary Clinton, il rapimento di centinaia di bambini da parte dei democratici, l'acquisizione delle prove della connivenza di Barack Obama con la Russia, ecc. - apparentemente folli ma accreditate dall'uso di un'espressione in codice (Q clearence) che sembrava alludere alla facoltà di accesso a livelli alti di segretezza. Si tratta di fake news connesse tra loro da un denominatore comune, costituito dal ruolo salvifico di Donald Trump, l'eroico difensore dei valori e della democrazia americana contro il deep state, la Washington collusa con le forze del male e con i nemici dell'America. Forse il primo caso di trolls che fabbricano teorie complottiste non contro ma a favore di chi sta al potere.
Questi sono i più recenti e clamorosi esempi di grave psicosi collettiva. Ma l'elenco delle distonie tra la dimensione reale dei fenomeni e quella percepita e dei disturbi mentali collettivi che ne conseguono potrebbe continuare a lungo. Ne è affetto anche quel 75 per cento di italiani che crede che gli immigrati extracomunitari nel nostro Paese siano il 25 per cento della popolazione quando in realtà non raggiungono il 7 per cento (una sovrastima di quasi quattro volte); così come quelli convinti che i musulmani in Italia superino il 20 per cento mentre non arrivano al 5 per cento; oppure quella parte di elettorato sempre più preoccupata per la criminalità nonostante il numero di omicidi e di rapine sia diminuito sensibilmente («non c'erano mai stati così pochi omicidi dall'unità d'Italia, cioè da quando abbiamo statistiche valide per tutto il Paese»), e determinata perciò a sostenere anche le peggiori politiche securitarie. A tutta questa massa di persone vanno aggiunte le nicchie - più estreme e irrazionali - degli ostili alle vaccinazioni, dei creduloni convinti che gli aerei disseminino scie chimiche, e persino dei terrapiattisti, tenacemente convinti che il pianeta sia piatto e che le immagini sferiche siano prodotte dagli effetti speciali di Hollywood. Ciascuno di questi è determinato a spendere le proprie ferree credenze nel circuito di un'opinione pubblica (per usare un eufemismo) segmentata e disseminata di «bolle», e a giocarsi i propri gruzzoli di verità privata sul mercato politico.



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