giovedì 7 febbraio 2019

Radici
La Stampa 7.2.10
Andrej Belyj
Il sottosuolo religioso della rivoluzione bolscevica
Il comunismo interpretato con l’occhio onirico del verbo simbolista
di Andrea Colombo


Passeggiando per le vie polverose e caotiche della Mosca di inizi ‘900, il giovane professore Andrej Belyj non passava inosservato. Capelli lunghi nonostante la precoce calvizie, baffi folti, occhi allucinati, il poeta russo adorava i vestiti eleganti, all’occidentale, ma nascondeva un’anima profondamente slava. A 23 anni, nel 1903, scriveva: «La parte di ‘folle in Cristo’, anarchico, decadente, pagliaccio, mi è stata mandata dall’alto…». Una descrizione che ben si attaglia al personaggio. Ora una nuova edizione di Il colombo d’argento di Andrej Belyj (Fazi, pp. 378, €18) permette di addentrarci nel bizzarro mondo di questo scrittore simbolista. Ormai riconosciuto tra i capolavori della letteratura russa, pubblicato nel 1910, è un romanzo che narra le atmosfere febbrili, animate da istanze messianiche, che contraddistinguono gli anni che precedono la rivoluzione bolscevica.
Belyj si forma da matematico, ma abbandona presto i numeri per le lettere. Nel suo apocalittico (ma non privo di punte d’umorismo) «colombo d’argento» è presente un po’ tutta la sua filosofia, condensata nel protagonista, il giovane Pȅtr, scrittore nutrito di cultura occidentale decadente, ma anche di Böhme, Swedenborg e Marx. Un cittadino cosmopolita che entra in contatto con una setta eterodossa, simile ai «chlysty» di Rasputin, che, tra richiami esoterici e riti orgiastici, lo immerge nelle profondità mistiche della Russia profonda, quella rurale, antica, in un’esperienza che lo illude di fondersi con le masse, di scoprire il vero sentire del suo popolo. Un predicatore delirante riassume così il credo del gruppo: «Ascoltate, gente ortodossa, il regno della Bestia si avvicina, e soltanto con il fuoco dello Spirito potremo incenerirla; fratelli, la morte rossa procederà in mezzo a noi, e la sola salvezza è il fuoco dello Spirito che il regno di Colombo prepara per noi…». Pȅtr finirà malamente, ucciso dagli stessi seguaci della setta, oscuro presagio dell’esito tragico degli impeti rivoluzionar-messianici russi.
Non è un caso se uno dei libri più affascinanti di Belyj, Pietroburgo, sia ambientato durante i moti del 1905. Le rivoluzioni lo attraggono come una calamita, anche se lui le interpreta con l’occhio onirico ed esoterico del verbo simbolista. Intanto si macera tra amori impossibili e aneliti spiritualisti. Durante la prima guerra mondiale soggiorna a Dornach, nella Svizzera tedesca, per partecipare all’edificazione del tempio-teatro steineriano di Goethenaum. E’ affascinato dal messaggio dell’antroposofia, una mistica orientaleggiante adattata ai tempi moderni. Quando torna in Russia nel 1916 assiste con grande interesse a tutti gli eventi che porteranno ai moti dell’Ottobre rosso, a cui dedica il romanzo in versi Cristo è risorto!”(alludendo al saluto-invocazione in uso tra gli ortodossi). Annuncia l’avvento di una «rivoluzione dello spirito», ma nessuna resurrezione è in serbo per il popolo russo e Belyj verrà ben presto sconfessato dalla dura realtà dei primi anni del regime sovietico, fatta di conflitti civili, persecuzioni e povertà. Tuttavia s’impegna nelle organizzazioni culturali dei bolscevichi e fonda la Libera Associazione Filosofica. Nel 1921, abbandonato dalla moglie, in piena crisi esistenziale si reca a Berlino dove frequenta assiduamente i bar notturni esibendosi in improbabili foxtrot, che sembrano più una danza macabra di un flagellante che un ballo alla moda. Tornato in una patria ulteriormente incupita dal nuovo corso staliniano, marcato stretto dalla censura, si dedica a riscrivere le sue opere secondo il nuovo stile del «realismo socialista», ma con scarso successo.
I suoi libri, principalmente di memorie, rimangono zeppi di richiami al simbolismo, all’avanguardia letteraria, alla religiosità bizantina. Quando muore nel 1934 per un colpo di sole durante una vacanza in Crimea, risulta iscritto al sindacato degli scrittori dell’Urss, ma in realtà è completamente isolato. Verrà subito condannato all’oblio dai dirigenti della politica culturale sovietica e sarà più letto in Occidente che in patria. Amaro destino per lo scrittore che voleva essere il più russo tra i russi.