Radici
La Stampa 7.2.10
Andrej Belyj
Il sottosuolo religioso della rivoluzione bolscevica
Il comunismo interpretato con l’occhio onirico del verbo simbolista
di Andrea Colombo
Passeggiando
per le vie polverose e caotiche della Mosca di inizi ‘900, il giovane
professore Andrej Belyj non passava inosservato. Capelli lunghi
nonostante la precoce calvizie, baffi folti, occhi allucinati, il poeta
russo adorava i vestiti eleganti, all’occidentale, ma nascondeva
un’anima profondamente slava. A 23 anni, nel 1903, scriveva: «La parte
di ‘folle in Cristo’, anarchico, decadente, pagliaccio, mi è stata
mandata dall’alto…». Una descrizione che ben si attaglia al personaggio.
Ora una nuova edizione di Il colombo d’argento di Andrej Belyj (Fazi,
pp. 378, €18) permette di addentrarci nel bizzarro mondo di questo
scrittore simbolista. Ormai riconosciuto tra i capolavori della
letteratura russa, pubblicato nel 1910, è un romanzo che narra le
atmosfere febbrili, animate da istanze messianiche, che
contraddistinguono gli anni che precedono la rivoluzione bolscevica.
Belyj
si forma da matematico, ma abbandona presto i numeri per le lettere.
Nel suo apocalittico (ma non privo di punte d’umorismo) «colombo
d’argento» è presente un po’ tutta la sua filosofia, condensata nel
protagonista, il giovane Pȅtr, scrittore nutrito di cultura occidentale
decadente, ma anche di Böhme, Swedenborg e Marx. Un cittadino
cosmopolita che entra in contatto con una setta eterodossa, simile ai
«chlysty» di Rasputin, che, tra richiami esoterici e riti orgiastici, lo
immerge nelle profondità mistiche della Russia profonda, quella rurale,
antica, in un’esperienza che lo illude di fondersi con le masse, di
scoprire il vero sentire del suo popolo. Un predicatore delirante
riassume così il credo del gruppo: «Ascoltate, gente ortodossa, il regno
della Bestia si avvicina, e soltanto con il fuoco dello Spirito potremo
incenerirla; fratelli, la morte rossa procederà in mezzo a noi, e la
sola salvezza è il fuoco dello Spirito che il regno di Colombo prepara
per noi…». Pȅtr finirà malamente, ucciso dagli stessi seguaci della
setta, oscuro presagio dell’esito tragico degli impeti
rivoluzionar-messianici russi.
Non è un caso se uno dei libri più
affascinanti di Belyj, Pietroburgo, sia ambientato durante i moti del
1905. Le rivoluzioni lo attraggono come una calamita, anche se lui le
interpreta con l’occhio onirico ed esoterico del verbo simbolista.
Intanto si macera tra amori impossibili e aneliti spiritualisti. Durante
la prima guerra mondiale soggiorna a Dornach, nella Svizzera tedesca,
per partecipare all’edificazione del tempio-teatro steineriano di
Goethenaum. E’ affascinato dal messaggio dell’antroposofia, una mistica
orientaleggiante adattata ai tempi moderni. Quando torna in Russia nel
1916 assiste con grande interesse a tutti gli eventi che porteranno ai
moti dell’Ottobre rosso, a cui dedica il romanzo in versi Cristo è
risorto!”(alludendo al saluto-invocazione in uso tra gli ortodossi).
Annuncia l’avvento di una «rivoluzione dello spirito», ma nessuna
resurrezione è in serbo per il popolo russo e Belyj verrà ben presto
sconfessato dalla dura realtà dei primi anni del regime sovietico, fatta
di conflitti civili, persecuzioni e povertà. Tuttavia s’impegna nelle
organizzazioni culturali dei bolscevichi e fonda la Libera Associazione
Filosofica. Nel 1921, abbandonato dalla moglie, in piena crisi
esistenziale si reca a Berlino dove frequenta assiduamente i bar
notturni esibendosi in improbabili foxtrot, che sembrano più una danza
macabra di un flagellante che un ballo alla moda. Tornato in una patria
ulteriormente incupita dal nuovo corso staliniano, marcato stretto dalla
censura, si dedica a riscrivere le sue opere secondo il nuovo stile del
«realismo socialista», ma con scarso successo.
I suoi libri,
principalmente di memorie, rimangono zeppi di richiami al simbolismo,
all’avanguardia letteraria, alla religiosità bizantina. Quando muore nel
1934 per un colpo di sole durante una vacanza in Crimea, risulta
iscritto al sindacato degli scrittori dell’Urss, ma in realtà è
completamente isolato. Verrà subito condannato all’oblio dai dirigenti
della politica culturale sovietica e sarà più letto in Occidente che in
patria. Amaro destino per lo scrittore che voleva essere il più russo
tra i russi.